Stefano De Nicolai-Immuni serve, non serve o… non servirà più?
Docente universitario e membro commissione ministeriale COVID19

Apple e Google hanno da poco annunciato che nei loro nuovi sistemi operativi introdurranno una variazione al loro protocollo di ‘exposure notification’, permettendo così di ricevere notifiche di rischio contagio anche senza scaricare un’App. Ghiotta occasione per i suoi detrattori: “Ora Immuni diventa inutile!”. Clamoroso al Cibali! (cit.): tutto falso. Il nuovo aggiornamento dei due colossi digitali significa altro. Ma ci aiuta a dare qualche chiarimento sulla App italiana. Andiamo con ordine. Immuni è una App di ‘contact tracing’: traccia con riservatezza i contatti con altre persone, e ci avverte – in modo automatico e anonimo – in caso di contagio da Sars-Cov2 (purché chi abbiamo incontrato abbia a sua volta scaricato la App…). Il tutto funziona grazie ad un protocollo sviluppato da Google ed Apple insieme. Ora stanno aggiornando il sistema e introdurranno una funzionalità che invia la notifica anche a chi non ha installato l’App. Quindi, c’è poco da fare: se si vuole il contact tracing in Italia, Immuni serve (ancora).

Altra questione è: ma è davvero utile? In quanti devono scaricarla affinché funzioni bene? La App Immuni non è diversa da altre ‘digital platformcome, ad esempio, AirB&B o Uber. Ci interessa poco come funzionano: la loro utilità è proporzionale al loro livello di diffusione. La stessa questione circa il rispetto della privacy è un falso problema, ma di cui abbiamo una percezione distorta. Gli italiani vogliono percepirne l’utilità, sapere in quanti fra amici e colleghi la stanno usando. Tant’è che con l’aumentare dei contagi, sta aumentando il numero di persone che “magicamente” si convince dell’utilità di Immuni. In altre parole, vogliamo essere spaventati per convincerci della utilità della app. La gente ha poche informazioni su cosa succede attorno, non sa – a differenza di quel che avviene, per esempio, su Facebook – quante persone attorno l’hanno scaricata. Cerca allora un ancoraggio emozionale e lo trova solo nella curva dei contagi, quale proxy inconscia (e un po’ distorta) del livello di utilità dell’App. Il punto è che Immuni ha accettato la sfida del “data minimization”. Da anni subiamo il lavaggio del cervello sull’importanza dei dati: più ne hai e meglio è, ci hanno raccontato. Nuove regole GDPR e pandemia ci portano progressivamente in un mondo dove questo paradigma sarà rivisto. Anziché lottare per avere più dati possibili, verranno sempre più premiati quei modelli di business in grado di raccogliere e creare valore solo da pochi dati essenziali. Per darvi un’idea, Facebook raccoglie per ogni suo utente in media 135 GIGAbyte di dati all’anno. Un’enormità. Il ribaltamento del paradigma e la minimizzazione dei dati sarà la direzione per tantissimi altri business digitali, anche nel mondo ‘for profit’. Immuni può essere di grande ispirazione per tutti quei progetti basati sulla ‘data minimization’. Immuni sta vincendo questa sfida? Ad oggi è stata scaricata da 5.6 milioni di italiani, ossia il 15% degli smartphone attivi in Italia. E’ tanto? E’ poco? In Europa solo l’analoga App tedesca ha fatto di meglio. Detto questo, bisogna puntare a livelli ben più alti. Rimandando ad altre lettura la discussione sul livello minimo da raggiungere per avere effetti rilevanti a livello epidemiologico (trovate molto sul web, anche di firmato dal sottoscritto), qui mi limito a ricordare per il singolo individuo conta di più la percentuale di diffusione nei contesti che si frequenta. Il dato nazionale dice poco. Come Università di Pavia stimiamo che la distribuzione della app è al 20% in alcune regioni (Trentino, Emilia Romagna, Marche e Liguria) e ci si avvicina al 50%-60% in alcuni comuni o aziende. Il dato nazionale è percepito come lontano ed astratto. Servono dati ufficiali a livello “locale” per fare il salto di qualità: le persone avvertirebbero qualcosa di più “vicino” e più impattante. In sintesi: chi osserva Immuni come un mero affare istituzionale perde una grande occasione per dare una sbirciatina al futuro delle piattaforme digitali in genere. E questo è davvero un peccato…

 

Dopo aver fallito la carriera come cuoco e come cestista, è oggi professore di Innovation Management e Direttore del MIBE e dell’Executive MBA presso Università di Pavia. E’ stato visiting presso Harvard Business School. Coordina il laboratorio di ricerca Digita4good ed è membro della TaskForce Covid19 del Ministero dell’Innovazione / Presidenza del Consiglio. Nonostante questi sviluppi di carriera, le sue costine cucinate ‘sous-vide’ a bassa temperatura sono considerate straordinarie dai più.

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