Michele d’Apolito- Crisi e risanamento: si salvi chi può (essere salvato)
Managing partner Nexus S.t.p.

L’ottimismo della volontà è una grande virtù, e chi fa impresa ne è solitamente un portatore sano. Capita spesso, tuttavia, che il pessimismo della ragione sia un sentimento troppo sottovalutato dai nostri capitani d’impresa, che preferiscono “buttare la palla” in avanti di fronte a situazioni di difficoltà.

Eppure, l’esperienza insegna che ci sono segnali che vengono spesso drammaticamente ignorati, a volte per l’assenza di strumenti di monitoraggio, figli di un sottodimensionamento organizzativo tipico delle nostre PMI, a volte per l’eccessiva fiducia dell’imprenditore nel proprio istinto e nell’affezione cieca alla propria creatura, in assenza di una strategia di medio periodo.

Un dato di fatto è che tutte le crisi arrivano ad essere chiamate con il loro nome quando si è entrati ormai nella fase critica.

Una strada – quella dell’approccio ad un piano di ristrutturazione e risanamento – che viene spesso imboccata quando le casse sono già vuote a causa di una sopraggiunta tensione finanziaria, che può verificarsi anche con bilanci che chiudono in utile “apparente” e con un patrimonio positivo, ma che sotto la superficie nascondono pericolose magagne: clienti incagliati e non adeguatamente svalutati, magazzino a lenta rotazione, struttura dell’indebitamento non equilibrata rispetto alla natura degli investimenti fatti.

Spesso la “strozzatura” finanziaria diviene improvvisa ed ha effetti repentini sulla credibilità dell’impresa, cui fanno seguito atteggiamenti più o meno conflittuali ed ostruzionistici dei suoi stakeholders.

Ed allora, di fronte a difficoltà interne crescenti, si affacciano le prime frizioni con fornitori e banche, da cui normalmente si parte per la ricerca di un advisor che aiuti l’imprenditore a trovare una strategia di indirizzo del risanamento; un compito arduo, tanto più se si considera che il professionista dovrà affrontare quello che la dottrina microeconomica definisce il “moral hazard” dell’imprenditore, ovvero la ricerca – da parte di quest’ultimo – delle migliori soluzioni per sé, che gli consentano di mantenere il controllo, od ottenere la migliore alternativa possibile, non necessariamente coincidente con la soluzione ottimale per i suoi creditori.

Questo possibile conflitto tra interessi contrapposti può diventare forte al crescere delle difficoltà, spesso dirompenti con un intervento tardivo.

L’advisor – dal canto suo – dovrà comprendere rapidamente il contesto in cui si trova, verificare la fattibilità di un piano di risanamento e, laddove ritenga la crisi irreversibile, saper dire di no a prospettive fantasiose di recupero, che potranno comportare un’inerzia distruttiva ed anche una sua eventuale responsabilità diretta.

Come si possono allora anticipare certi segnali ed evitare le conseguenze spesso drammatiche di una disgregazione aziendale?

Da diversi anni il Legislatore promuove strumenti che dovrebbero favorire l’individuazione precoce dei primi indizi di difficoltà: si è andati progressivamente verso proposte che allontanavano i debitori dal Tribunale e “privatizzavano” sempre di più la gestione della crisi, incentivando a trovare accordi stragiudiziali, all’insegna di una spiccata autonomia di risoluzione tra l’impresa in crisi ed i suoi creditori.

E in questa direzione si è proseguito con l’introduzione del recente DL 118/2021 e dello strumento della composizione negoziata, che ha di fatto smontato l’impianto ideologico del nuovo Codice della crisi – basato sull’allerta attivata da soggetti terzi (collegio sindacale e creditori pubblici) – tornando ad attribuire al debitore un’autonomia decisionale nell’individuazione del momento di avvio del processo di risanamento.

Staremo a vedere se questi recenti correttivi sono adeguati ad affrontare il contesto competitivo attuale ed a salvaguardare la parte buona dell’economia.

Un sistema sano deve garantire la possibilità di salvataggio di un’entità aziendale che abbia concrete prospettive di recupero, ma anche saper isolare ed espellere dal mercato quegli operatori che sono dannosi per il contesto competitivo circostante, magari agevolandone la liquidazione e l’accesso a procedure giudiziali di recovery.

La disgregazione che fa seguito ad un’insolvenza è un fattore che non riguarda solo la singola realtà, ma impatta sui territori per la perdita di posti di lavoro, sulla finanza pubblica per la perdita di gettito, sul tessuto economico per le possibili contaminazioni che può lasciare nelle imprese che hanno interagito con l’entità in crisi.

Il punto di svolta per la prevenzione è certamente legato ad un salto culturale del mondo produttivo, che si sta in parte iniziando a verificare: implementazione di veri strumenti di monitoraggio del cash flow aziendale, apertura del capitale ai terzi per il potenziamento della struttura finanziaria, una generale propensione a considerare – certamente più che nel recente passato – forme aggregative per competere.

Ma non è sufficiente: il sistema legislativo deve rendere più conveniente per l’imprenditore chiudere un business che non funziona, piuttosto che lasciargli mille chances per tenere a galla il Titanic.

 

Laureato in economia e commercio, dottore commercialista, managing partner di Nexus S.t.p., società di consulenza in ambito societario, tributario, finanza straordinaria e restructuring. Ha ricoperto negli anni diversi incarichi di collegio sindacale di importanti società private ed enti pubblici. È specializzato nell’ambito della gestione della crisi d’impresa, collabora da diversi anni con Il Sole 24 Ore e partecipa in qualità di relatore a convegni specialistici sulla materia.

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