Paolo Raffetto-La nuova normalità, tra città intelligenti e lavoro agile
Architetto, libero professionista

La pandemia da Covid-19, nonostante tutti i problemi che ha causato, ha funzionato da propulsore innovativo per quanto riguarda alcuni aspetti delle nostre vite quotidiane. Tra queste innovazioni, lo smart-working sembra avere costituito in poco tempo una modalità di lavoro ritenuta imprescindibile nella “nuova normalità” post pandemia: è destinato ad entrare nelle nostre vite sempre più in maniera radicata, il che potrebbe essere una delle migliori conseguenze della pandemia. Un balzo evolutivo verso la modernizzazione del nostro Paese anche se in ritardo rispetto ad altri Paesi e questo ci consente di includere nel termine smart-working anche modalità lavorative quali il telelavoro, il lavoro a distanza e l’home-working, che insieme hanno comportato cambiamenti epocali sul pensare e progettare le nuove città. L’adozione massiva dello smart-working ha infatti comportato la riduzione degli spostamenti dei lavoratori dalla propria residenza al luogo di lavoro, con conseguente minore impatto degli smart-workers sulle reti di trasporto pubbliche e sull’utilizzo dei mezzi privati, oltre che sull’inquinamento dell’aria. Questa conseguenza, insieme all’elettrificazione dei mezzi di trasporto e all’adozione di una mobilità energeticamente sostenibile, potrebbe non solo costituire una risposta contro il cambiamento climatico, ma anche modificare già da sola l’utilizzo delle città. Tra le caratteristiche distintive dello smart working vi sono anche la ridefinizione del luogo e dell’orario di lavoro fino alla ridefinizione in chiave agile e fluida della propria vita. Ne discende un’altra conseguenza, collegata alle precedenti: la possibilità di una diversa gestione del proprio tempo e quindi delle scelte insediative in un’ottica di miglioramento della propria vita. Nel bilanciamento di aspettative e di possibilità (la c.d. worklife balance) la scelta – attuale o futura – del luogo di residenza/lavoro sta premiando le località inserite in contesti ad alta qualità di vita: centri storici di città medio piccole, siti con una importante valenza naturalistica (mare, campagna, montagna quelle che una volta si sarebbero rubricate come località di villeggiatura). Lo scenario italiano che potrebbe presentarsi quindi, è quello che Stefano Boeri definisce come “la città arcipelago“: la ricerca di equilibrio tra “isole” metropolitane e un fitto territorio costellato di città e villaggi più piccoli, in nome della sostenibilità ambientale e di un equo, e quindi equilibrato, sviluppo economico e sociale. Lo smart-working potrebbe inoltre consentire alle persone una maggior radicamento e appartenenza al quartiere dove si vive, fungendo da catalizzatore nei confronti di azioni di riqualificazione urbana che consentiranno la possibilità di dialogo tra il centro e la periferia delle nostre città. Nella nostra esperienza quotidiana, il luogo per eccellenza dove abbiamo facilmente rilevato gli effetti concreti della pandemia è stata la casa. In generale gli ostacoli che le case hanno incontrato nel farsi “sede” di smart-working riguardano innanzi tutto l’ergonomia e la funzionalità della postazione di lavoro vera e propria, quindi è emersa anche l’esigenza di separazione fisica in cerca di privacy e concentrazione all’interno degli alloggi. Gli addetti ai lavori la chiamano la ricerca della “quinta stanza“, ovvero l’interesse delle persone per gli spazi pertinenziali che possano consentire uno sfogo all’aperto. Possibilmente, per chi se lo può permettere, questi spazi sono più ricercati in contesti ambientalmente qualificati e ben connessi ai centri urbani maggiori. Contemporaneamente a questo rinnovamento delle città è possibile osservare un cambiamento anche per gli uffici che porta a una maggiore attenzione sia sul benessere psico fisico della persona, sia sugli spazi lavorativi, con postazioni di lavoro non più fisse, ma libere o legate al team work di competenza per una data attività. Quali conclusioni allora possiamo trarre? Nella nuova normalità sono inscritte le possibilità di cambiamento che la pandemia ha contribuito a mostrare, spetterà a noi tutti disegnare, con questi nuovi strumenti in mano, le città e soprattutto i cittadini di domani. Questo cambiamento, che passa dalle case e arriva alle nostre città, va guidato con la consapevolezza che ogni città è diversa. É necessario imparare a declinare questo modello (che ha driver molto globali quali la digitalizzazione, la transizione energetica, la sostenibilità ambientale) a livello locale, rispettando e integrando le forme urbane, il patrimonio culturale, storico e artistico già presenti. Le città italiane si candidano ad essere un ottimo banco di prova rispetto al bilanciamento di queste innovazioni. A noi il compito di essere attori e non spettatori di questa trasformazione.

 

Genovese, architetto libero professionista, è partner co-fondatore di Go-Up Architects insieme all’arch. Nicola Canessa. Durante la sua esperienza professionale ha sviluppato e realizzato progetti urbanistici, architettonici e di interior design, in ambito locale, nazionale ed internazionale sia per committenti pubblici che privati con particolare dedizione nei confronti dei beni culturali. E’ stato inoltre consulente della Regione Liguria e di GGR Genova in materia di infrastrutture e logistica, ed è CTU presso il Tribunale di Genova e presso il TAR Liguria. E’ stato fondatore dell’Associazione PdA Giovani Architetti, per la quale è stato delegato nazionale GIARCH. Dal 2007 ha fatto parte del Consiglio dell’Ordine degli Architetti P.P.C. della Provincia di Genova, di cui è stato presidente del Consiglio da aprile 2016 al 2021. Ha fatto parte di numerose commissioni di lavoro presso il Consiglio Nazionale di categoria. Sposato con Milly, ha due bimbe, Cecilia e Margherita

Print Friendly, PDF & Email

CONDIVIDI

WhatsApp
Facebook
Twitter
LinkedIn
Email

LEGGI GLI ALTRI
articOLI