Nell’ultima Biennale Arte di Venezia, la curatrice Alemanni ha annunciato che “solo l’arte racconta l’attualità in modo innovativo”, parlando poi dei tre temi cardine della presente edizione: la rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi; la relazione tra gli individui e le tecnologie; i legami che si intrecciano tra i corpi e la terra che abitiamo. Se prendiamo in esame il secondo di questi temi, è evidente come l’innovazione stia non solo nel modo di raccontare dell’arte, ma anche nel processo produttivo che la riguarda. Quello che spesso si dimentica è che il vero ambito nel quale si fa ricerca e innovazione, con un impatto anche sul lato economico non solo del sistema arte, è quello della produzione artistica. E che soprattutto ci aiuta ad avere una idea di futuro. La società contemporanea ha difficoltà nel definire una idea di futuro, ma ne conserva un imprescindibile bisogno. La crisi in epoca di pandemia non è solo economica, ma ha a che fare con l’identità e la visione. I concetti di progresso e di innovazione sono da sempre il motore che fa evolvere la società e scrive la storia dell’uomo. Per creare una idea di futuro, però, è necessaria la narrazione, dobbiamo essere in grado di raccontarcelo e immaginarcelo, ed è qui che le arti entrano in gioco. L’arte non può avere solo un ruolo consolatorio – come è avvenuto spesso nella fase di lockdown dell’epoca pandemica – o di ricerca di investimento o di status symbol con il mercato. Tutto ciò è ben presente nel progetto Futurelab di Ars Electronica di Linz, che da anni focalizza la sua ricerca sull’interazione dell’uomo con la tecnologia, utilizzando l’arte per rendere visibili e tangibili le implicazioni per la società. È un luogo dove scienziati, tecnici, manager d’azienda e artisti costituiscono gruppi di lavoro creando una sintesi di linguaggio, lavorando su temi e in tempi concreti e definiti. Futurelab si avvale sia di contributi pubblici e sia di grandi aziende, che sanno che la vera innovazione risiede nella creatività e nella collaborazione di più tipologie di menti. Succede così che BMW e Mercedes finanzino progetti sulla mobilità senza autista, che Intel lo faccia per il volo senza pilota, che SAP indaghi nuove formule di distribuzione del cibo, che gli ospedali collaborino con aziende, scienziati e artisti per formulare nuove idee di protesi più umanamente accettabili. Deve essere, tuttavia, ricerca che abbia un impatto per lo sviluppo della società nel suo complesso. Questo fa parte anche di una filosofia – di apprendimento prima e di lavoro poi – che si chiama STEAM, dove la A di Arts si è aggiunta a Science, Technology, Engineering and Mathematics. All’inizio del XXI secolo si è cominciato a parlare di STEAM, perchè si è scoperto che anche le professioni più apparentemente tecniche, come quelle dei programmatori, venivano svolte con più efficacia, ingegno e produttività se associate ad un approccio più umanistico e creativo. D’altronde lo stesso Einstein, oltre ad essere un leggendario matematico, era anche un appassionato violinista. Ed Alan Kay, uno dei padri della programmazione moderna e uno degli inventori del computer portatile e delle interfacce grafiche, ha lauree in matematica e biologia molecolare, ma è stato anche pittore e chitarrista jazz professionista. Per non parlare del rapporto tra arte e big data. La Data Art – l’arte prodotta elaborando o utilizzando i “big data” – sfida il mito dell’artista romantico, offrendo nel contempo un approccio artistico fondamentale nell’era digitale in cui viviamo. Molti artisti usano come materiale i dati grezzi che sono un prodotto delle nostre società (in primis, tramite i nostri telefoni e i social media) per “rendere visibile l’invisibile”, creando un ponte diretto tra macroeconomia ed individuo. Uno dei primi dipartimenti di Data Art è stato creato da Google e dato in mano ad Aaron Koblin, un artista. Nel 1995 Negroponte previde che la multimedialità avrebbe colmato la dicotomia tra tecnologia e arte. Citava l’esempio, già allora in atto, dell’industria dei videogiochi, con apparecchi più potenti di quelli usati per compiti professionali, sostenendo addirittura che l’industria dei videogiochi era più avanti della NASA: la qualità dell’hardware per giocare è sempre superiore a quella dei PC utilizzati per altre attività. Le sue previsioni si sono confermate esatte, ed oggi la gamification è forse il settore più evoluto che interfaccia arte ed economia. L’arte oggi può avere una sua funzione pratica nella società, senza negare quella di tensione verso la perfezione e il bello, o di creazione di pensiero. Questo ruolo eventuale dell’arte è cresciuto con il crescere dello sviluppo scientifico e tecnologico, ed oggi diventa uno dei punti cruciali del nostro sviluppo di esseri umani. Chi scrive, in un recente libro, l’ha chiamata “ars factiva”, riferendosi ad essa come ad arte efficace, produttiva, ma ars factiva significa anche, letteralmente, produzione artistica. È arte che dialoga con il mondo delle imprese, della tecnologia, dell’educazione, della società nel suo complesso, ma che sa produrre se stessa in maniera creativa e innovativa. Che non si basta. Che cerca dialoghi. E che viene cercata. Molti artisti lavorano in un ambito di sperimentazione e le aziende sono sempre più interessate a collaborazioni. Il processo di produzione dell’arte è cambiato, ed è sempre più sostenuto sia da istituzioni che da fondi privati, interessati a lavorare con artisti e designer che utilizzano le tecnologie o fenomeni scientifici che essi stessi utilizzano in chiave creativa e critica. Già negli anni ’60 la Bell (telecomunicazioni) forniva mezzi e ricerche per la sperimentazione ad artisti come Rauschenberg e John Cage, ed è stato uno dei primi esempi di un modello che negli anni, seppur lentamente, si è sviluppato. Ma nell’ultimo decennio, complice una espansione decisa dell’arte digitale, ha avuto un incremento netto. I finanziatori mettono a disposizione i mezzi per la ricerca, la tecnologia e anche i professionisti, ma allo stesso tempo possono interferire sulla libertà del processo artistico, e scongiurare tutto ciò è oggi uno dei compiti dei curatori coinvolti, il cui profilo sta cambiando parallelamente. Quello che è certo è che siamo già dentro ad una nuova era nella quale economia, tecnologia, scienza e arte, ognuno con i propri obiettivi, collaborano in vista di un progresso che ha nuovi parametri ed eccitanti opportunità.
Padovano, classe 1970, è stato responsabile relazioni corporate per il Guggenheim di Venezia, Communication Manager per FMR Art’è Usa da New York, direttore di Affordable Art Fair Italia (dopo aver importato il progetto internazionale) e Direttore di Christie’s Italia. Oggi è art advisor e direttore della Fondazione Alberto Peruzzo, oltre che socio fondatore di One Stop Art (servizi di consulenza nel mondo dell’arte). Nel 2021 ha pubblicato con Scheiwiller-24 Ore Cultura il libro “Ars Factiva. La bellezza utile dell’arte”, sul rapporto tra arte contemporanea e società, e tra arte e tecnologia.