Italia una Repubblica fondata sul debito pubblico
Ministero della Meteorologia, Bob Rontani, 2023. Cortesia dell'autore

Ricordo fin dai tempi dell’Università l’espressione tra il serioso e lo smarrito di un mio stimato professore di scienze delle finanze che ci spiegava il rapporto tra debito pubblico e pil.

Già allora il debito era nettamente superiore al PIL e ricordo la sua fronte corrugata nell’illustrarci le modalità con cui il nostro Paese sarebbe dovuto rientrare nei limiti richiesti dalla Unione Europea. Nulla di quanto allora spiegato (o sperato) è mai accaduto.

La faccio più semplice: alla fine della 2° guerra mondiale, la spesa pubblica italiana era equivalente agli odierni 20 miliardi di euro. Oggi è di circa mille miliardi di euro. Non ci vuole un corso universitario per comprendere che è cresciuta di 50 volte in 77 anni. Alla stessa stregua, il nostro PIL era equivalente a circa 150 miliardi di euro nel 1945 ed oggi vale circa 1.900 miliardi di euro. Il rapporto di crescita è questa volta di 12,5 volte. E già qui qualcosa dovrebbe seriamente spaventare.

Qualcuno potrebbe obiettare che siamo in buona compagnia. Certo. Secondo l’ultima comunicazione Eurostat (gennaio 2023), il rapporto tra debito pubblico su Pil nell’area UE si è attestato al 93% alla fine del terzo trimestre 2022, rispetto al 94,2% del secondo trimestre.  La diminuzione è dovuta al maggior aumento del PIL rispetto alla crescita del debito. In Italia il debito ora è al 147,3%, (in miglioramento dal 150,4% del secondo trimestre). Tra gli altri Paesi, i rapporti più alti sono: Grecia (178,2%), Portogallo (120,1%), Spagna (115,6%), Francia (113,4%) e Belgio (106,3%).

Lo dico in altri termini: l’Italia ha un debito che è una volta e mezza superiore ai suoi ricavi.

Tuttavia, nel caso dell’Italia bisogna ricordarsi che questa crescita del debito pubblico non è mai stata graduale e costante; anzi, abbiamo avuto momenti di splendore (il boom economico degli anni ’50- ’60) e momenti di rigore (i primi anni ’90). Ma una cosa non siamo mai riusciti a fare: un bilancio in pareggio. In poche parole, non abbiamo mai smesso di indebitarci.

Oggi si discute dei fondi del PNRR, dove, è opportuno ricordarlo, abbiamo preso sia i trasferimenti (grants), che gli impieghi (loans) dall’Europa. I primi sono a titolo di solidarietà, i secondi sono da ripagare, con gli interessi.  Nel frattempo, l’inflazione, scatenata da questa assurda guerra è diventata sempre più pugnace, con l’inevitabile ricorso da parte della BCE a una politica sempre più restrittiva e continui aumenti dei tassi d’interesse. Più salgono i tassi e più aumenta il costo per rifinanziare il nostro debito.

E in questo contesto così minato, suonano beffarde le parole di Moody’s che avrebbe invitato a sostituire i Btp italiani con i Bonos spagnoli. Una concatenazione di effetti che potrebbe tramortire qualunque Paese. Ripartiamo da qui allora. Mi piace essere positivo e ricordare come tutte le crisi finanziarie abbiano poi sempre giovato all’Italia e all’Europa. Così è stato nel ’92 con la crisi dello SME che accelerò l’unificazione monetaria e poi ancora nel 2008 con i mutui subprime e nel 2011 crisi dei debiti sovrani che portarono a nuovi meccanismi di solidarietà e garanzia tra Stati e una riforma del sistema bancario internazionale, così come la pandemia del 2020 ha introdotto in Europa per la prima volta il debito comune.

Far cadere l’Italia è una strategia piuttosto miope, ma invitare l’Italia a una spesa pubblica più oculata è sacrosanto e legittimo. La politica dovrà allora ragionare per priorità e individuare quali sono i programmi da finanziare e quanto poter (o dover) coinvolgere il privato nella loro attuazione.

Ricorrere indistintamente al decifit pubblico è una leva che va utilizzata con dovuta proprietà, il rischio di perdere credibilità con chi sottoscrive il nostro debito inviterebbe per lo meno a una maggior prudenza e responsabilità.

Siamo davvero disposti a rischiare così tanto?

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