La seconda generazione non ha la fame, la scorza e le cicatrici della prima.
È un refrain che ha accompagnato tutta la crescita di una intera classe di imprenditoria italiana che si ostina a considerarsi ancora giovane, ma che in realtà ha già abbondantemente superato la soglia degli “anta”.
Quando la seconda generazione deve convivere con la prima, la gestione (già articolata di per sé) è fatta di compromessi e di competizione.
Per noi primi reduci di una Italia che ha smesso di crescere e quindi di sognare, lo è ancora di più.
Chi arriva dopo non solca mai la strada ma la segue, e per essere bravo può solo correre. È vero. E infatti fare l’imprenditore, oggi, in questo Paese, è come correre una maratona: avrai mille momenti di cedimento durante il percorso, avrai mille cavilli burocratici a consigliarti un decoroso ritiro e ancora di più ti sentirai troppe volte solo, schiacciato tra l’ambizione di un traguardo e la sofferenza di una strada che si mostra solo, o spesso, in salita.
Correre questa maratona come generazione subentrante può essere estremamente motivante, di certo è assolutamente faticoso: oltre al carico emotivo di voler (o dover) dimostrare di avere gli stessi “attributi”, è il percorso a essersi fatto molto più competitivo e accidentato.
E allora i racconti di un Paese ancora in forma spumeggiante, dove si poteva sprintare liberamente e credere alla favola di una crescita inarrestabile da parte di chi quello stesso cammino lo ha già fatto prima di te, suonano affascinanti, ma anche un po’ beffardi.
La ricchezza del nostro Paese si fonda su un sistema di competenze tramandate di padre in figlio, quelle piccole medie imprese che sono il cuore pulsante della nostra economia.
E una gestione familiare gode del privilegio della fiducia (fino a prova contraria) su asset e una storia consolidata, che, nel mondo del business agevola rispetto ad imprese più grandi, strutturalmente più definite, con smisurate strutture di management e complessi sistemi di governance.
Ma allo stesso tempo, queste imprese padronali peccano della debolezza del legame di sangue e della poca distanza dovuta dall’eccessiva confidenza o dallo scarso adeguamento ad un sistema competitivo completamente mutato nel tempo. Non è solo un problema di tecnologie adottate, quanto di visione del business nel suo insieme, capacità di anticipare trend da un lato e necessità di diversificare sull’altro lato.
La difficoltà è far comprendere che l’evoluzione del contesto ha determinato nuove modalità e nuovi attori con cui fare business, la necessità è di rischiare nuove strade, senza intaccare il livello di risultati e di efficienza raggiunti in epoche completamente diverse.
Questo mix di lavoro e affetto, una doppia lama di un coltello affilato, due piante rampicanti che crescono avvinghiate, una condizione di privilegio con molte sfaccettature, tanti pro e molti contro. La famiglia e l’azienda, un tutt’uno nello spazio e nel tempo.
Molte volte sentiamo quanto i cambi generazionali siano delicati e a volte deleteri per le aziende, proprio perché la “corsia veloce” è stata occupata per troppo tempo dalla prima generazione.
Ma se non ci fosse stata la prima generazione, quel percorso, o quella maratona, per rimanere in metafora, non sarebbe mai stata corsa dalla seconda.
Dura la vita del maratoneta, ma viva le maratone.
Il bello della maratona è vivere la fase della preparazione che ti porta alla corsa e la durezza emotiva della prestazione: all’arrivo, quando il percorso è ormai terminato, è impossibile non crogiolarsi nell’immensa sequenza di sensazioni vissute durante il percorso.
Ovviamente, anche tagliare il traguardo è una sensazione bellissima. Persino da secondi.
Nato nel 1977, nella città di Cremona, dove continua a vivere ed operare.
Ha studiato Ingegneria Informatica e Automazione.
E’ socio e Direttore vendite in EMG, impresa operante nella automazione e meccanica.
Ha la passione della corsa e ha corso numerose gare podistiche di media e lunga distanza.
In nessuna è arrivato primo, ma non è questo un buon motivo per smettere di correre.