È un annoso problema, cavalcato negli anni dalla politica, che l’ha sempre trasformato in spauracchio da temere o da risorsa da valorizzare, a seconda dei punti di vista.
Non è ovviamente un tema solo italico, anche se da noi ha sempre rappresentato, almeno negli ultimi anni, terreno di scontri epici tra le opposte fazioni politiche.
A dir la verità i primi cenni di questo dibattito internazionale risalgono alla rivoluzione industriale americana, quando la commissione sull’immigrazione nel 1911 (erano i famigerati tempi di Ellis Island) sentenziò che l’immigrazione estera avesse riflessi negativi sul mercato del lavoro e sull’economia in generale.
Nel corso degli anni più economisti hanno cercato di raffinare la ricerca, individuando una correlazione tra immigrazione e reddito reale per abitante. Nel 1944 Steinmann arrivò a una conclusione che ancora oggi molti sostengono: l’immigrazione porterebbe vantaggi sul reddito reale dei nativi nel lungo periodo, ma i costi di integrazione, almeno nel breve periodo, sono superiori dei benefici attesi. Da allora si sono sviluppate, nel corso del tempo, due teorie diametralmente opposte sui benefici dell’immigrazione.
La prima teoria sostiene il “replacement hypothesis”, ovvero, gli stranieri tenderebbero a ridurre il livello salariale degli autoctoni sottraendo posti di lavoro, la seconda teoria sostiene invece la “segmentation hypotesis”, ovvero, alcuni stranieri coprirebbero quelle posizioni lavorative che per ragioni sociali, di formazione o di status, pochi autoctoni vorrebbero ancora svolgere, influendo quindi positivamente sul tasso di occupazione di quella nazione.
Oltre a queste due teorie ci sono diverse posizioni di mezzo che invece sostengono che dopo un iniziale periodo di tempo (che cambia da studio a studio) l’afflusso di migranti porterebbe benefici sui tassi di disoccupazione e sulla salute economica in generale, poiché gli immigrati sono adulti giovani e di mezza età che mantengono il sistema di welfare adottato dal Paese ospitante.
Di certo, le due teorie prevalenti incendiano il clima politico di qualunque economia matura.
La Banca Mondiale nel 2023 ha dichiarato che già il 2,5% della popolazione mondiale vive al di fuori della sua zona di origine e tale numero tenderà ad aumentare sensibilmente nei prossimi anni, per cui il tema della immigrazione diverrà sempre più un’esigenza da affrontare per i Paesi più ricchi, che dovranno capire se le caratteristiche dei migranti in arrivo corrispondano ai bisogni del Paese ospitante e perché alcuni Paesi siano preferiti rispetto agli altri (ragioni linguistiche, culturali, religiose…).
Idealmente, i Paesi ospitanti dovrebbero favorire quella parte di migrazione “consona” al loro bisogno di sviluppo, riducendo i costi delle rimesse, attuando programmi di formazione per facilitare l’acquisizione delle competenze richieste e favorire il processo di integrazione e inclusione.
Ma questo è il mondo ideale: teoria e realtà sono quasi sempre ben diverse. E guardando anche ai nostri confini è evidente che i precetti della Banca Mondiale non siano di facile attuazione. Negli ultimi anni assistiamo a flussi sempre più massicci e disordinati di migranti ( in America, in Australia, in Canada, in Europa…) e l’impatto dell’immigrazione sta andando ben oltre un effetto aritmetico sul PIL, determinando inflazione, spesa sociale e abbassamento della qualità della vita in generale. Questo è dovuto al fatto che gli ultimi flussi migratori si caratterizzano per competenze professionali pressoché nulle rispetto ai bisogni dei Paesi ospitanti. Basti pensare ai settori dell’agricoltura o della ristorazione che utilizzano questi migranti a costo bassissimi, distruggendo il livello salariale per gli altri lavoratori già assunti. La migrazione poco qualificata ridurrebbe dunque i salari e scoraggia persino le aziende a innovare: è il caso dei “car wash”, dove conviene sottopagare l’inserviente che comprare il macchinario automatizzato.
Per concludere e per dirla come illustre economista (Milton): “l’immigrazione non comporta di per sé un rischio, ma la mancata integrazione sì, ma dare il benvenuto ai nuovi migranti significa dare molto di più che lasciarli semplicemente entrare”.