Covid-19 sta provocando uno degli shock socio-economici più intensi dell’era industriale. C’è persino stato, in una fase per fortuna breve, una sorta di maxi riconversione del tessuto produttivo: chiunque potesse, cercava di convertire la propria attività manifatturiera per improvvisarsi nella produzione di mascherine, gel igienizzanti e simili. Inevitabile una caduta del PIL a livello globale e l’attesa per le imprese di bilanci 2020 caratterizzati da forti perdite di fatturato e da risultati economici in fortissimo peggioramento.
In un contesto così problematico molti imprenditori italiani si ritrovano in un difficile dilemma: cercare di unire le forze con altre imprese tramite aggregazioni per reggere l’urto della crisi, ma anche riuscire a definire una corretta valutazione di un’azienda.
Lo Stato italiano pare muoversi in ordine sparso: da un lato ha fornito un (unico) segnale positivo prorogando la possibilità di procedere alla rivalutazione delle quote di norma possibile fino al 30 giugno, (estesa poi fino al 15 novembre). Dall’altro ha frenato l’attività di aggregazione con una dannosa evoluzione della normativa sulla c.d. Golden Power che sta creando incertezza ed inutile burocrazia anche su operazioni di dimensioni più limitate e non strategiche per il Paese. Ma che impatto ha la pandemia sul valore di un’azienda? O meglio, quanto ha senso penalizzare la valorizzazione di un’azienda per effetto di un fatto esogeno e in parte temporaneo come la pandemia? Purtroppo il primo fenomeno degno di nota è che molti player rinviano sine die le loro scelte strategiche, perdendo ottime opportunità di mercato e a volte addirittura compromettendo la loro possibilità di sopravvivere.
Chi ha deciso comunque di affrontare operazioni straordinarie in questi mesi, sta di norma invece adottando un approccio molto pragmatico e ragionevole che si può così sintetizzare su 3 punti : 1)chi vende non è disposto ad essere valutato sulla base delle performance di un anno anomalo come il 2020; 2)chi compra vuole prima di tutto verificare che la società da acquisire non sia stata impattata in maniera tale da mettere a rischio la continuità aziendale. Di qui la richiesta di una due diligence particolarmente approfondita; 3)l’acquirente necessita di stimare in quale misura i danni della crisi siano momentanei e in quale misura saranno invece strutturali.
Tale stima può però essere oggetto di negoziazioni infinite: la soluzione più pragmatica è di legare una parte sostanziale del prezzo alle performance future della società acquisita, decidendo di rischiare assieme e di attendere i risultati consuntivi degli anni dal 2021 in poi.
Il risultato sono accordi che esaltano la necessità di chi vende di collaborare con chi compra per gestire al meglio l’uscita della propria società da questo periodo anomalo, mantenendo così una forte motivazione, poiché la determinazione del prezzo dipenderà dalle performance future. Se questo approccio stimolerà un’evoluzione culturale del nostro ceto imprenditoriale che spinga a collaborare e non solo a competere con gli altri imprenditori, potremo dire che non tutto il male è venuto per nuocere.
Laurea cum laude in Economia. Iscritto all’albo dei Dottori Commercialisti e Revisori contabili di Torino dal 2004, dopo aver lavorato a Londra e Milano come tax consultant e auditor, ha maturato dieci anni di esperienza in attività di M&A come project manager presso M&A International (oggi Oaklins). Vasta esperienza nella generazione e nell’esecuzione di oltre 50 processi sia nazionali sia internazionali e nella gestione di diversi progetti di ristrutturazione del debito ex art. 67 L.F. e di redazione di piani concordatari. È fondatore e amministratore delegato di Nash Advisory.