Simona Morini-La società del rischio
Docente di “Teoria delle decisioni” e di “Filosofia” allo IUAV di Venezia.

Bisogna abituarsi, come società, alle situazioni straordinarie, come la pandemia e i molti altri rischi ambientali che si profilano all’orizzonte e questo richiede cambiamenti decisivi nelle istituzioni e nei processi decisionali. C’è bisogno di persone disposte a rischiare e di istituzioni che le incoraggino e supportino. L’innovazione richiede coraggio. La popolazione è stata sconvolta da una pandemia che ha minato la pretesa di immortalità cui pensava di avere diritto, in parte per ragioni psicologiche, in parte per ragioni culturali. L’avversione all’incertezza è insita nella psicologia umana e può essere superata solo con la conoscenza, con la capacità di valutare l’informazione e con lo spirito critico, che al momento non sono al centro del nostro sistema educativo, sempre più centrato su una malintesa “professionalizzazione”. Più siamo ignoranti (e il tasso di analfabetismo funzionale continua a crescere) e più abbiamo bisogno di certezze. E d’altra parte Internet, eliminando le forme di intermediazione culturale tradizionali e mettendoci di fronte a una enorme quantità di notizie e di opinioni contrastanti, aumenta il livello di incertezza, genera confusione e, alla fine, porta a una sfiducia generalizzata nelle istituzioni e nella cultura stessa.

Il welfare state ci ha consentito di raggiungere, in Occidente almeno, livelli di benessere e di tranquillità impensabili in passato. Il che ovviamente è positivo e auspicabile, ma ha i suoi effetti indesiderati. La tendenza ad assicurarsi contro ogni possibile avversità, compresi gli errori che possono verificarsi nella vita professionale, ha prodotto una cultura del “rischio zero” che si scontra con la realtà, in cui l’errore e il rischio sono ineliminabili. Ma ha anche tolto il “gusto” del rischio, che è un elemento fondamentale dell’innovazione scientifica e della capacità imprenditoriale. La ricerca ossessiva della sicurezza – parola chiave del nostro tempo – è una operazione politica di normalizzazione della società che, in un mondo complesso, caotico e incerto come quello prodotto dalla globalizzazione, ci trova del tutto impreparati agli inevitabili cambiamenti (e pericoli) che la globalizzazione comporta e di cui l’attuale pandemia non è che un primo esempio.

Le istituzioni, pensate e costruite per gestire situazioni ordinarie, si sono trovate in difficoltà nel gestire situazioni straordinarie. Se poi aggiungiamo le scelte che sono state fatte nella sanità e dalle industrie farmaceutiche – principalmente dettate da interessi economici e non dall’interesse per un bene pubblico importante qual è la salute – non vedo come si sarebbe potuto fare meglio. Nessuno sembra rendersi conto che stiamo entrando in un’epoca in cui le situazioni straordinarie saranno all’ordine del giorno: Ulrich Beck ha parlato di “società del rischio”, per cui servono cambiamenti decisivi nelle istituzioni e nei meccanismi decisionali, che dovrebbero dialogare tra loro ed essere più flessibili, interconnessi, e meno gerarchici. Questo desiderio onnipresente di “ritorno alla normalità”, senza analizzare le cause che ci hanno portati alla “cacofonia istituzionale” a cui abbiamo assistito nella gestione della pandemia e senza introdurre i necessari cambiamenti (che non possono essere che “sperimentali” e incerti, dato che si tratta di una condizione a cui non siamo abituati), mi sembra molto più pericoloso e molto meno giustificabile delle strategie a volte contraddittorie dei governi di fronte alla pandemia. Non imparare dagli errori mi sembra molto più grave che commetterli.

La tutela dei diritti, della sicurezza e del benessere è molto difficile nelle situazioni di emergenza che, per molti aspetti, ricordano la guerra. Qualsiasi violazione dei diritti resa necessaria da una emergenza deve essere giustificata e temporanea. Il contact tracing adottato nei paesi asiatici, ad esempio, è probabilmente l’unico strumento che ci consente di superare il dilemma etico che contrappone la difesa della salute alla difesa dell’economia. Ma un sistema di contact tracing può essere progettato in modo più o meno rispettoso del diritto alla privacy e dovrebbe fornire garanzie di essere una misura temporanea. E questo non può essere fatto senza affrontare una volta per tutte il problema della proprietà dei dati e del rispetto della privacy, che va ben oltre le misure temporanee che potrebbero essere richieste per tenere la pandemia sotto controllo.

Sentiamo spesso la frase “decideremo secondo i dati” che non vuol dire niente se non sono assolutamente trasparenti le regole e i criteri con cui i dati sono stati raccolti. Basta per esempio definire in modo diverso i “decessi per Covid” per alterare completamente la percezione della situazione. Per non parlare dei tanti altri modi in cui, con i dati, si può “mentire dicendo la verità”. Ricorrere ai dati, che la maggioranza ritiene “oggettivi” anche se di fatto è facile che non lo siano, tranquillizza tutti.

Servono “avventurieri”, nel senso positivo di “persone che amano rischiare e percorrere strade nuove”. È un momento di passaggio dove non possiamo fare previsioni, dove dobbiamo continuamente confrontarci con situazioni incerte. C’è bisogno di coraggiosi, non di conservatori che rimpiangono il passato. Certezze non ce ne sono. Ma ci sono opportunità. Temo però che non ci sia ancora una cultura politica, economica e istituzionale che li sostenga e li incoraggi ad andare avanti. Al contrario, nella maggior parte delle istituzioni – università compresa – è premiata la normalità e il conformismo. L’innovazione che è oggi necessaria e che è ovunque invocata – richiede il coraggio delle persone, ma anche il coraggio delle istituzioni.

 

Docente di “Teoria delle decisioni” e di “Filosofia” allo IUAV di Venezia.

Ha pubblicato recentemente “Il rischio. Da Pascal a Fukushima”, Bollati Boringhieri, Torino

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