Se all’ufficio anagrafe mi sentirò finalmente Yolo
Pino Deodato, Isolato, 2020. Courtesy: Dep Art Gallery, Milano

Si è scritto la scorsa settimana degli effetti del Covid sul mercato del lavoro, individuando nella generazione “Yolo” un gruppo di persone sempre più numeroso, fuoriuscite dal mondo dell’impiego, e proiettate alla ricerca di una migliore qualità di vita. Ma la rivoluzione pandemica continua a determinare cambiamenti epocali anche per chi, nel mondo del lavoro, ci è rimasto. Lo smart working generalizzato è già entrato nella sua fase discendente (recrudescenza del virus permettendo): si sente il bisogno di riappropriarsi della dimensione umana che solo il lavoro in presenza permette, anche se un margine di elasticità in tal senso, verrà sempre garantito e anzi favorito dal datore di lavoro, sia esso privato o una amministrazione pubblica. E se il mondo dei privati ha modificato tutto sommato alla svelta l’organizzazione delle imprese, riconfermando dove possibile una gestione “smart” del carico di lavoro e generando un win-win che fa felice tutti (aumento del benessere collettivo, risparmio sui trasporti, minore traffico, minore inquinamento, minor stress, maggior risparmio sui consumi etc etc…) è sulla famigerata riforma della pubblica amministrazione che ci giochiamo, almeno in Italia,  il nostro futuro e benessere collettivo. La digitalizzazione è una parola che già esprime di suo una metrica melodiosa e l’annuncio della anagrafe digitale con i primi 14 certificati online che i cittadini possono avere in maniera autonoma e gratuita può comportare legittime scene di commozione al ricordo delle tante ore passate in coda allo sportello, scandite dal saltuario bisillabo “dica”. Immaginare, a tendere, di poter dialogare con la pubblica amministrazione su ergonomiche sedie d’ufficio (se impresa), o più comodamente sprofondati sul sofà del salotto (se privato) ci consentirà di ripensare non solo a come impiegare in maniera opportuna il tanto tempo risparmiato, (magari dedicandoci finalmente ad attività salubri e all’aria aperta), ma anche a una nuova lirica nelle favole da raccontare ai nostri bambini. Salveremo il “c’era una volta” che crea sempre pathos e curiosità, ma anziché mortificare necessariamente il povero lupo, avremo la possibilità di ricordare angusti, disadorni e chiassosi corridoi di edifici pubblici, dove la gente entrava e non sapeva mai come, quando e come ne usciva.

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