E quindi fu Deglobalizzazione
Massimo Fossa, Il gabbiano, 2019. Cortesia dell'autore

Stiamo probabilmente entrando in una nuova fase della storia: l’era della globalizzazione, basata su una standardizzazione di produzioni just in time, spesso effettuate sui mercati a più basso costo della manodopera, sembra ormai tramontata. Un condiviso sistema di scambi internazionali aveva ridotto nel passato il rischio di inefficienze nella gestione delle scorte e il progresso tecnologico garantiva prezzi di vendita sempre più bassi, quindi un livello di inflazione risibile per i consumatori e alta marginalità per l’industria. Un mondo ideale insomma, senza preoccupazioni geopolitiche particolari e la bilancia commerciale di un Paese, primo indicatore della sua vitalità. In un mondo così deregolamentato, liberalizzato e delocalizzato, (si produce dove costa di meno) gli scambi internazionali sono decollati: dai 3,5 trilioni di $ del 1990 si arriva ai 20 trilioni di $ nel 2018. Preistoria. Tra il 2020 e il 2022 due eventi straordinari, quanto inaspettati e nefasti (pandemia e guerra) hanno stravolto questo mondo, avviando l’era della deglobalizzazione. Ma cosa è?  È un mondo in cui la diffidenza vince sulla fiducia, dove i Paesi hanno scoperto per necessità (a causa della pandemia) o per opportunità (a causa della guerra) che alcune produzioni di beni primari (ad esempio dispositivi sanitari e produzione energetica) devo essere avvicinati a casa. È un mondo in cui la necessità di controllo e sicurezza prevale su quella di efficienza. E così i nuovi confini geopolitici restringono il concetto di globalizzazione ai soli Paesi di cui ci fidiamo, erigendo muri con tutti gli altri. La storia ama ripetersi e una involuzione di questo genere è già capitata nel secolo scorso: dopo un periodo di progresso scientifico a livello internazionale, tra le due guerre mondiali si scatena una fase di diffidenza internazionale e politiche economiche autarchiche come reazione. Con una differenza sostanziale però: oggi il mondo è molto più interconnesso di allora e sarà molto più arduo emanciparsi di colpo dai Paesi utilizzati per una massiva produzione fino a ieri. Le prime statistiche parlano chiaro: circa 300 mila aziende europee e americane sono già in difficoltà per avere basato in Ucraina e in Russia le loro forniture. Non solo. L’Europa sembra oggi l’area più esposta al rischio deglobalizzazione: il mix di errate politiche comunitarie del passato, (come ad esempio lasciare il settore dei microchip ai coreani o affidarsi ad un unico fornitore energetico) determina l’affannosa ricerca di alternative a prezzi maggiorati e, di conseguenza, un livello di inflazione più alta che strozza l’economia. Il “made in China” ci aveva aperto un mondo low cost in cui ci siamo abbuffati per anni. Ora dovremo rilocalizzare le produzioni, ma nel rispetto del nostro sistema di regole salariali, ambientali e di sicurezza.  Con tutte le conseguenze del caso. Potrebbe essere però un momento molto favorevole: le rilocalizzazioni potrebbero determinare milioni di posti di lavoro, se e solo se le imprese dovessero trovare un ambiente favorevole dove investire, privo di burocrazia e con un sistema fiscale meno oppressivo. Altrimenti rimarremo un territorio economico sempre più piccolo e insignificante. Più per demeriti nostri, che per meriti altrui.

 

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