C’era una volta il modello di efficienza teutonica: l’industria tedesca era trainante per tutta l’Europa, le loro macchine erano sinonimo di eccellenza e una giovane donna guidava un continente, mostrando invidiabili doti di leadership e rappresentando un fulgido esempio di parità di genere al mondo intero.
Oggi, dopo un decennio di grande successo (dal 2010 al 2020) contraddistinto da forte crescita, aumento dell’occupazione e forti avanzi della bilancia commerciale, la “locomotiva” si è di colpo grippata. L’export è in preoccupante calo, gli investimenti nell’immobiliare (nuove abitazioni) sono crollati, la persistente inflazione (ancora al 6,4%) deprime il consumo dei privati, l’indice PMI è stabilmente negativo, confermando la sfiducia sul futuro, da parte degli imprenditori tedeschi.
Il Fondo Monetario Internazionale ha già sentenziato una crescita di Berlino nei prossimi cinque anni ben più lenta rispetto agli altri Paesi industrializzati e lo stesso Cancelliere Scholz, per ironia della sorte con una vistosa benda sull’occhio per un incidente domestico, ha ammesso nell’ultimo G20, non senza qualche imbarazzo, che “l’economia tedesca può fare di più”.
Tecnicamente la Germania è già in recessione economica dallo scorso inverno e non sembrano esserci alcuni segnali di ripresa.
Ma come ci si è arrivati?
Ci sono, a mio avviso, almeno 3 ragioni e sono tutte di natura strutturale, più che congiunturale. Quindi è anche peggio.
In primis, l’errore strategico di legarsi “mani e piedi” all’energia russa (lato import) e al mercato cinese (lato export), in secundis (e in parte è una diretta conseguenza), il ritardo nell’adozione di tecnologie verdi, e da ultimo, un persistente arretramento infrastrutturale (sia fisico che digitale).
Cominciamo dal primo punto: la guerra ucraina ha mandato in frantumi l’intero modello economico basato su una industria che, per anni, ha goduto del ‘doping’ dell’energia russa a basso costo. Il Paese si è trovato in una paradossale situazione: meglio salvare l’economia nazionale o la faccia e il prestigio (almeno a livello politico) internazionale?
La Germania è infatti un paese estremamente energivoro: venendo meno l’approvvigionamento di gas russo, non avendo energia nucleare e ancora una bassa produzione di idrogeno è necessario ripensare l’intero modello industriale, con intere filiere che devono essere ridotte, o peggio riconvertite e/o delocalizzate.
Cosa che sta già succedendo: per rimanere competitivi, i colossi tedeschi stanno spostando intere filiere dove i fattori produttivi costano di meno, oppure abbondano i sussidi. Si aprono così fabbriche negli USA (per beneficiare dei sussidi dell’Inflation Reduction Act), ma anche in Marocco (per il basso costo del lavoro), o persino in Cina (la Basf ha appena annunciato un investimento di 10 miliardi di euro).
La prestigiosa industria automobilistica (secondo punto) è la grande zavorra dell’economia tedesca: rappresentando una lobby molto influente ha rallentato per anni l’adozione di nuove tecnologie verdi, godendo del petrolio a prezzo stracciato. Ora però è in clamoroso ritardo sull’auto elettrica. E ha scommesso troppo sulla Cina: Volkswagen lì fa il 40% dei profitti, Mercedes e Bmw il 30%. Peccato però che la Cina, nel frattempo, abbia sviluppato modelli elettrici più performanti ed economici e sia contestualmente leader mondiale del mercato delle batterie elettriche.
Infine,(terzo punto) l’eccessiva austerità tedesca (ovvero un livello di investimenti pubblici spesso minore rispetto al fabbisogno) ha determinato un marcato ritardo nella digitalizzazione. A ciò si aggiunga un set infrastrutturale di autostrade e ferrovie piuttosto datato: l’obsolescenza del sistema ferroviario sta mortificando anche gli investimenti nell’alta velocità. Sfatiamo qui anche qualche mito: la Germania ha uno dei peggior ranking continentali in termini di puntualità dei treni, tanto da ricevere questa estate un reclamo formale da parte della Svizzera, per i continui ritardi nelle linee tra i due paesi.
Non aiutano neppure altri due fattori, quali: 1) la burocrazia che rallenta l’avvio di nuovi business (120 giorni è in stima l’iter autorizzativo, il doppio della media europea) e 2) la piaga demografica, con circa due milioni di pensionati previsti nei prossimi cinque anni.
La Commissione Europea ha appena rivisto (al ribasso) le previsioni economiche dei paesi leader, assegnando alla Germania la maglia nera per il 2023 e 2024.
Nonostante le evidenti criticità, già confermate anche dalla BDI (l’omologa della nostra Confindustria) nessun politico in Germania si azzarda a parlare di “grande malato d’Europa”, anzi, il governo è molto sicuro che il pacchetto di sgravi da 7 miliardi di € all’anno per le PMI sarà la panacea del malessere economico.
Non ci resta che attendere, ma non cadiamo nella retorica del sorrisetto di “umano contrappasso”: se Berlino piange, l’Europa non ride.