Panem et circenses in salsa araba: lo sportwashing (2 di 2)
Alì Hassoun, Il popolo vuole 2013. Cortesia dell'autore

Dove eravamo rimasti? Nel corso degli anni vari Stati hanno sempre più investito nella propria immagine, cercando di estendere la leadership al di fuori dei meri confini nazionali. Sia grandi potenze internazionali e sia piccoli Stati hanno iniziato ad aumentare il proprio potere (o in gergo tecnico “bargaining”), sfruttando alcuni settori tipici del soft power: la cultura, il turismo, il commercio, l’arte, il cinema, l’educazione e lo sport.

Gli USA per anni sono stati i maestri incontrastati di soft power: attraverso l’industria di Hollywood e non solo ci hanno inculcato il “mito dell’American dream”, ma nella classifica dei Paesi più attraenti, negli ultimi anni, stanno scalando pozioni importanti le nazioni del Golfo Persico.

Fine del prologo e ripartiamo da qui.

Ci sono i 3 maggiori Paesi del Golfo Persico (Qatar, Emirati Arabi e Arabia Saudita) a cui si aggiunge il Marocco, che tra i Paesi di matrice araba hanno trovato nell’organizzazione dei grandi eventi sportivi il modo più efficace per scalare le posizioni di influenza e gradimento internazionale. Seppur questi Paesi palesino ancora evidenti limiti democratici, offrano rifugio e sostegno a sacche di terrorismo internazionale e siano spesso in conflitto tra di loro, stanno tutte seguendo un comune percorso di consenso, almeno in Occidente.

Questi 4 Paesi hanno investito negli ultimi anni miliardi di dollari (anche se spesso la modalità utilizzata è sospetta), ospitando alcuni dei maggiori eventi sportivi mondiali, acquisendo importanti club calcistici europei e attraendo calciatori di fama internazionale nei propri campionati locali di (ancora) scarsa visibilità internazionale.

Non è oro tutto quello che luccica, ça va sans dire… Anzi, l’utilizzo dello sport al fine di apparire qualificati nello scenario internazionale permette spesso di distogliere l’attenzione da cronici problemi sociali e guai legati ai diritti umani sul fronte interno ed è definito con un termine ben preciso: sportwashing.

L’esempio più eclatante è stato certamente il Mondiale di Calcio 2022, svolto nel minuscolo Qatar. Prima di ospitare i mondiali di calcio, l’emirato aveva anche già organizzato altri eventi sportivi, (Giochi Olimpici asiatici nel 2006, il Qatar Masters Golf e il Qatar Open Tennis). Rimanendo in ambito calcistico, il Qatar, tramite il fondo sovrano Qatar Investment Authority (QIA) ha anche acquistato il Paris Saint Germain, un club molto discusso negli ultimi anni per le sue faraoniche campagne acquisti (Messi, Neymar, Mbappè tra i tanti), pur senza vincere nulla di rilevante a livello continentale (almeno per ora).

Il Paese qatariota ha anche lanciato il progetto “Aspire Academy” che punta a formare o acquisire campioni di diverse discipline sportive, tra cui il calcio. Grazie alle prime naturalizzazioni di calciatori nordafricani e sudamericani  il Qatar è riuscito a vincere la Coppa d’Asia nel 2019, dopo esser considerato per anni la “squadra materasso”. Il Qatar grazie a questi risultati e all’organizzazione di questi eventi ha sovvertito le vecchie regole di politica internazionale, dimostrando che anche un piccolo Paese, seppur sfavorito dalla collocazione geografica e dalla limitata popolazione, con un sapiente uso della soft power può diventare un attore imprescindibile a livello mondiale.

Rimangano però enormi le critiche internazionali sulle condizioni dei lavoratori immigrati impiegati nella costruzione degli stadi per il Mondiale, come pure, il Qatar si è reso protagonista dello scandalo legato alla corruzione di alcuni Europarlamentari, tra cui la vicepresidente Eva Kaili, che in un famoso discorso si era pronunciata a favore dell’apertura al mondo di questa monarchia e dei suoi passi avanti dal punto di vista dei diritti dei lavoratori. “Sic transit gloria mundi”…

Ma il Qatar, tramite lo sport è riuscito a catalizzare le attenzioni internazionali, divenendo al contempo una destinazione popolare per il turismo internazionale e per l’economia mondiale, garantendosi la sopravvivenza in vista dell’inevitabile esaurimento delle riserve di gas e petrolio.

Altro esempio di sportwashing lo offre l’Arabia Saudita che ha acquistato club europei dalla consolidata tradizione sportiva (vedasi il Newcastle), ospitato le finali della Supercoppa Italiana e spagnola, (giocate in desolanti stadi vuoti) e riammesso pure le donne allo stadio per l’occasione.  Ma il colpo di genio dell’Arabia saudita è stato l’acquisto di Cristiano Ronaldo, (oltre a varie altre stelle internazionali), famoso sia per l’ingaggio multimilionario e sia per l’attenzione mediatica globale che il calciatore riesce a garantire.

Peccato che anche l’Arabia Saudita palesi ancora grosse criticità principalmente in materia di libertà di espressione e associazione, ci sia ancora un uso indiscriminato della pena di morte (anche per i minorenni), la condizione della donna è parecchio arretrata e sia ancora irrisolto lo scandalo internazionale per l’omicidio del giornalista Khashoggi. Eppure qualche politico italiano aveva parlato di “rinascimento arabo”. Forse, con il senno di poi, è stato un po’ azzardato.

Gli Emirati Arabi sono il Paese più impegnato a presentarsi come il volto più moderno e tollerante del mondo arabo. Del resto, sono stati i primi ad ospitare un Papa nella penisola araba (nel 2019 Papa Francesco) ed è anche stato  i primi ad aprire le prime sedi arabe del Louvre e del Guggenheim (dietro ovviamente cospicui pagamenti). Niente sport allora? Niente affatto: la costruzione di un circuito di Formula Uno e gli investimenti per costruire il Ferrari World testimoniano solo l’interesse per uno sport diverso, anche se va riconosciuta l’opera di scouting che la leadership emiratina sta effettuando nei confronti di imprenditori, scienziati e tecnici per diventare un polo attrattivo a livello mondiale.

Infine, il Marocco che dopo aver organizzato la Coppa del Mondo per Club, si è finalmente aggiudicato il Mondiale di calcio 2030 con Spagna e Portogallo, dopo 4 candidature andate male.

Anche qui la situazione è preoccupante, sia in termini di limitata libertà di espressione e sia in termini di condizioni di lavoro disastrose, ma forse non è davvero affar nostro guardare cosa avviene fuori dal nostro Paese…

Molto meglio preoccuparci dell’ultima campagna acquisti della nostra squadra del cuore, o di come rendere più spettacolare il nostro sport preferito.

“Panem et circenses”!

Almeno e fino a quando, chi investe nelle moderne arene, ci lascerà la libertà di seguirle…

 

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