Gira un messaggio su whatsapp attribuito alla Presidente messicana Sheinbaum, (ma è un fake) in cui si esorta a boicottare i prodotti americani, come risposta ai dazi imposti da Trump al resto del mondo. Il messaggio esorta a desistere dall’acquisto di un prodotto iconico come l’Iphone, fortemente rappresentativo della capacità americana di produrre e vendere sogni. Oggi l’iphone rappresenta anche una perfetta sintesi del mondo globalizzato e di quanto questo si sia assuefatto a stili, mode e regole di consumo comuni, spesso indirizzate proprio dall’America. Questa consapevolezza di poter guidare il mondo sia da un punto di vista di tendenze, sia economico e sia politico ha per anni fatto pensare che il pianeta avesse un solo padrone e tanti vassalli più o meno fedeli. Ma la storia ama scompaginare gli assetti più consolidati e così è stato anche per gli USA, che volenti o nolenti, hanno scelto un Presidente la cui politica economica “Trumponomics” spaventa per la vastità di conseguenze che può determinare a livello mondiale. Facciamo però un passo indietro. La Cina tra il 2001 e il 2019 è stata la causa della perdita di circa il 60% di tutti i posti di lavoro nel settore manufatturiero USA: in letteratura si parla infatti di “China shock” per descrivere l’impatto di questo fenomeno. Tutti gli ultimi Presidenti Americani (Clinton, Bush, Obama, Biden) avevano promesso ai propri elettori che si sarebbero occupati prima di tutto dei problemi economici dell’America, salvo poi essere risucchiati in crisi estere, spesso dall’epilogo disastroso. Non può e non deve sorprendere quindi che Trump, forte di un malcontento dilagante a livello economico e intuendo che il popolo americano era stanco di spendere soldi in continenti, situazioni e guerre troppo distanti da una logica imperiale ormai desueta, abbia avviato una politica di “America first”, particolarmente efficace e vincente. E così, le politiche trumpiane hanno sempre dato molta enfasi al cercare di ristabilire il peso commerciale del Paese sul palcoscenico internazionale e la politica dei dazi si è subito manifestata come uno dei chiodi fissi delle strategie del neoeletto presidente. Posto che i dazi servono, ovviamente, a invogliare il consumo di risorse interne piuttosto che esterne, il grande rivale da arginare ed isolare rimane quella Cina che aveva già messo in ginocchio l’America anni prima.
Le recenti esternazioni presidenziali hanno tuttavia lasciato intendere che nessun Paese può ritenersi esente dalla Trumponomics: la guerra commerciale coinvolgerà tutti, riguardando barriere commerciali del 25% su acciaio e alluminio importato dall’estero, Europa compresa. Peraltro, i dazi su acciaio e alluminio sono frutto di un ordine esecutivo preparato in poche ore. I Paesi colpiti sarebbero anzitutto Canada, Messico e Brasile e in futuro si estenderà a Corea del Sud, Vietnam, Giappone, Australia, Gran Bretagna e Unione Europea (con forte impatto su una Germania già in crisi per l’automotive).
Peccato che la WTO (Organizzazione mondiale del commercio) abbia da sempre considerato illegittimi i dazi su acciaio e alluminio, in quanto misure potenzialmente destabilizzanti per il commercio globale e applicabili solo come soluzioni emergenziali (guerre, epidemie, terrorismo…).
Trump almeno al momento non sembra curarsene, anche se ciò dovesse impattare sul PIL americano almeno un punto percentuale e comportare un repentino rialzo dell’inflazione (gli analisti stimano una forbice 0,75%/+1% in più), con evidenti riflessi sulla normalizzazione della curva dei tassi da parte della FED.
Trump è dunque un pazzo o segue un piano ben preciso? Personalmente non penso che sia così sprovveduto e si stia piuttosto comportando come un abile giocatore di poker, che sa di avere delle buone carte in mano. A mio modesto avviso, l’aggressività finora mostrata dal leader americano fa parte della sua strategia di “bastone e carota”, tanto sgradita ai mercati finanziari, ma efficace. Basti vedere il ripensamento immediato di Zelensky sulle terre rare. Trump usa le tariffe come strumento negoziale per portare a casa obiettivi parziali ma preziosi. Può tuttavia farlo, perché nel caso di una guerra commerciale, in questo momento storico, l’America ha le carte buone per vincerla. Un esempio può aiutare: l’export americano verso Canada e Messico pesa circa il 3% del PIL USA, mentre l’export canadese e messicano verso gli Stati Uniti pesa rispettivamente al 20% e al 30% dei relativi PIL: chi ha più da perdere in caso di guerra commerciale? Da europei e al di là delle simpatie ideologiche, tendiamo spesso a giudicare le sue azioni come grottesche e ci rifugiamo nel pensiero forse un po’ autoreferenziale, che certe situazioni da noi non potrebbero mai accadere. Siamo indignati da come ha tradito l’Ucraina e disgustati da come strizzi l’occhio a Putin e ci affidiamo a un nostro concetto di democrazia. Eppure, che piaccia o no, gli USA rimangono l’unica Repubblica capace di conservare la democrazia da due secoli e mezzo, rimane la nazione più dinamica e ricca a livello mondiale e persino quella più innovativa di tutte, che attrae i più talentuosi cervelli dal mondo intero. E questo dà forza alla sua Amministrazione, che si trova come competitor una Cina scossa da una domanda interna molto debole, una Europa frazionata in tanti Paesi dalla grande tradizione storica, ma dalla scarsa leadership economica e un Giappone che da anni vive nel suo splendido isolamento. Anche i Paesi emergenti o quelli che hanno arditamente cercato di contrapporsi allo strapotere americano, i cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), ai quali si erano aggiunti altri 6 Paesi (Argentina, Iran, Arabia su tutti) soffrono tremendamente la crisi dei 2 loro Paesi leader. E chi sperava in una de-dollarizzazione (tema già affrontato più volte in questa rubrica) si è dovuto fortemente ricredere. Ora, come dicono i giocatori di poker è probabilmente il momento del “All-in” per Trump. È perfettamente consapevole che nessuno potrà andare a vedere se bluffa oppure no. Tutti tranne uno spettatore attento: Wall Street. Se le quotazioni del mercato prendessero una direzionalità ribassista tale da alimentare pessimismo e senso di sfiducia nell’attuale amministrazione, sarà camaleontico ad adottare un mix di dazi e fiscalità che non risulti eccessivamente gravoso per i conti pubblici. LA Trumponomics sta tuttavia portando incertezza e qualche dubbio sulla strategia adottata. Un recente articolo del NYT ha evidenziato che, negli 11 giorni in cui furono annunciati dazi tra il 2018 e il 2019 da America e Cina, l’indice azionario americano (S&P500) registrò una perdita complessiva cumulata pari al 12% e il movimento ribassista delle ultime settimane sembrerebbe confermarlo. Verosimilmente anche questa volta la bussola di Wall Street sarà un imprescindibile fattore di stabilizzazione per qualsivoglia capo di governo che abbia a cuore il favore dei sondaggi: e Trump, ça va san dire, lo sa fin troppo bene.