«È finito il lockdown e noi siamo tornati arrabbiati, iracondi, grigi… come eravamo sempre stati». Così dice Alfredo, protagonista di uno sketch teatrale creato apposta per un convegno di Confindustria sull’umanesimo aziendale. Il tono è ironico, ma la realtà non è così lontana dalle parole (pungenti, disilluse) che l’attore ha deciso di portare in scena. Il mondo si sta “riprendendo” dopo aver vissuto un periodo di crisi, ma sembra ormai impossibile tornare alla vita così come la conoscevamo pre-pandemia. Pensare che la “normalità” di adesso possa tornare uguale a quella di prima è assurdo; e anche se oggi si sente parlare spesso di new normal, non si può ancora definire con certezza cosa sia – perché non si è ancora assestato, è in sviluppo costante. Quello che sappiamo con sicurezza è che non possiamo più (e non dobbiamo) tornare indietro.
Certo, dopo due anni di estreme difficoltà il bisogno di tornare alla routine a noi più familiare è comprensibile. Riprendere le vecchie abitudini non solo è comodo, ma rassicurante: come tutte le crisi, la pandemia ha mostrato le imperfezioni del modo in cui vedevamo il mondo, il lavoro, la nostra stessa vita.
Non siamo troppo negativi: è durante i momenti difficili che nascono nuove soluzioni. Senza un periodo di fermo come quello vissuto, non ci saremmo resi conto di essere “seduti” su una miniera d’oro composta da videochiamate istantanee, chat online, classi virtuali…
Il mondo del lavoro (e della scuola) è stato quello che più di tutti ha dovuto piegarsi e reinventarsi davanti all’enorme cambiamento imposto dal lockdown. Da un giorno all’altro un altissimo numero di lavoratori è stato costretto a spostare le proprie attività dall’ufficio a casa. Di smart-working all’estero si parlava già da qualche anno, ma in Italia è sempre sembrata una realtà abbastanza lontana: eppure, contro ogni previsione, quando siamo stati costretti a metterlo in atto il sistema di lavorare da casa ha funzionato.
La tecnologia ha fatto un salto incredibile in avanti, aprendo le porte a nuovi scenari mai pensati prima, anche se non tutti sono disposti ad esplorare appieno questo nuovo mondo. Immaginate di poter partecipare a una riunione, magari in un’altra città, senza mettere piede fuori casa. Immaginate di dover progettare la ricostruzione di un palazzo, dalle fondamenta all’ultimo piano, e di poter passeggiare per l’intero cantiere rimanendo fermi sulla poltrona del salotto.
Due anni fa l’idea era impossibile, ma ora con l’avvento del metaverso si parla di riunioni tramite ologramma. L’idea può far storcere il naso – e fa venire in mente scene simili a quelle viste in Star Wars – ma questa è una realtà più vicina di quanto possiamo immaginare: si pensi alla digital fashion, che ormai ha preso piede sia negli Stati Uniti che in Oriente per combattere lo spreco della fast fashion, in cui i vestiti si comprano ma possono essere indossati solo virtualmente. Se avere un intero armadio mediatico è possibile, perché l’idea di applicare questa innovazione al mondo del lavoro trova ancora delle resistenze?
Anche senza gli ologrammi, ci sono già i mezzi per lavorare in modo efficiente, e comodo. Meno stressante, meno “iracondo, arrabbiato e grigio”, come sottolinea una recente ricerca presentata alla Bologna Business School: il 37% degli intervistati si è detto più tranquillo quando in smart working, il 25% più concentrato e il 7% più creativo. In tutto il mondo esperimenti di questo tipo stanno dando risultati simili.
La pandemia non ha solo creato problemi: in qualche modo ci ha insegnato a guardare molti aspetti della nostra vita sotto una luce diversa. Lontani dalle quattro mura dei nostri uffici, costretti a rimanere soli con noi stessi, abbiamo imparato a conoscerci meglio. Mentre prima vivevamo nell’idea che nulla potesse scalfirci, ora ci siamo resi conto che molti aspetti della nostra “vecchia” vita non erano così perfetti come credevamo. La nostra routine, il nostro modo di lavorare, persino il concetto stesso del lavoro è stato stravolto: dal bisogno di doverci dimostrare sempre forti, siamo passati alla necessità di parlare anche del lato umano. La pandemia ha svelato una verità scomoda: non siamo indistruttibili… e va bene anche così.
Si è passati da una cultura che esaltava la figura del “lavoratore incallito” – che fa straordinari tutti i giorni, si sveglia alle cinque del mattino, beve mille caffè per rimanere attivo e non ha un attimo da dedicare alla sua vita sociale – a una nuova visione di come il lavoro dovrebbe essere. Non a caso, la flessibilità di orario è uno tra i benefit maggiormente richiesti; forse abbiamo imparato a goderci le piccole cose.
Sono in tanti ora a non voler tornare indietro, perché il benessere è una priorità anche nelle aziende. L’anno appena trascorso è stato caratterizzato dalla “Great Resignation” (grandi dimissioni con un aumento dei licenziamenti volontari dell’85%). Il fenomeno rappresenta il volto dei lavoratori dipendenti alla costante ricerca di un equilibrio tra vita privata e lavoro: chi ha sperimentato un modello più conveniente, ora non vuole piegarsi alla routine del pre-pandemia.
È necessario un salto culturale, “una scossa” per far capire quanto sia importante guardare al futuro, cercando una collaborazione, tra azienda e lavoratore, tra manager e operaio, tra persona e persona. Le aziende, per l’importante ruolo che ricoprono nella società contemporanea, devono assumere una responsabilità sociale verso i lavoratori e in generale verso la comunità e il territorio dove operano.
Nato a Genova nel 1971, laureato in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Genova; si occupa da vent’anni di editoria elettronica e di nuovi media per l’apprendimento e la comunicazione, ha ideato e coordinato decine di piattaforme e-learning, webtv e progetti multimediali integrati per web e social media; è stato relatore in numerosi convegni su didattica, aggiornamento professionale, e-Learning e ICT, con specifica competenza nell’area salute; ha svolto molteplici attività di docenza presso istituti pubblici e privati, enti di formazione e nell’ambito di master e corsi universitari. È stato professore a contratto dal 2004 al 2018 presso l’Università degli Studi di Genova – Scuola di Scienze Umanistiche, per i Corsi di laurea di Lingue e Letterature Straniere e di Informazione ed Editoria. Presidente del gruppo societario GGallery, che opera nel settore dell’editoria, dell’e-learning e della comunicazione web; è consigliere di amministrazione del Consorzio SI4Life, Polo Regionale Ricerca e Innovazione; dal 2018 al 2021 è Membro delle Commissioni esterne e indipendenti di valutatori dei Piani formativi presso Fondazione Fondirigenti “G. Taliercio”; nel 2021 è co-fondatore del progetto di influence marketing CFactor; nel 2022 ha fondato la Rete di Imprese BAM Communication di cui è Vice Presidente; dal 2022 è Presidente della Sezione Terziario di Confindustria Genova.