I conflitti in corso in medio oriente e in Ucraina hanno riacutizzato tensioni internazionali sopite nel tempo e hanno riconfermato, se mai ce ne fosse stato bisogno, l’esistenza di superpotenze internazionali pronte ad intervenire politicamente e militarmente per mantenere (il precario) ordine mondiale. Del resto, il caos non è mai visto di buon occhio per chi vuole mantenere un primato economico internazionale. Ce lo insegna la storia antica e anche quella moderna: nel primo dopoguerra, le due super potenze di allora si spartirono immediatamente le aree di influenza e per un bel po’ riuscirono anche a prosperare economicamente. Sappiamo bene cosa sia poi successo al fronte ex URSS e come, di colpo, l’America si sia trovata ad essere “giudice finalmente, arbitro in terra del bene del male…” (cit.) Gli ultimi avvenimenti geopolitici di inizio secolo hanno poi mostrato una sorta di appannamento della politica internazionale americana, mentre la sua economia manteneva la leadership a livello mondiale, seppur con un distacco sempre più marginale rispetto all’economia cinese. La domanda che ora molte società di ricerca si stanno ponendo è capire quanto la posizione di dominanza politica americana possa sopravvivere alla (eventuale) perdita del suo primato economico internazionale. Negli ultimi mesi, infatti, sono stati pubblicati alcuni studi che ribadiscono che l’equilibrio del potere economico globale cambierà radicalmente nei prossimi anni e l’Asia continentale (escluso il Giappone quindi) diventerà nei prossimi 25 anni il maggior contribuente al PIL mondiale. Qualcuno sostiene (Goldman Sachs) che questa porzione di Asia, composta da Cina, India e Indonesia rappresenterà il 40% del PIL mondiale nel 2050, superando il fronte occidentale, in contrazione al 35% (era il 77% nel 2000), che potrebbe così trovarsi soppiantato da un pericoloso antagonista, non fosse solo perché più ricco.
Altri studi (PWC) sostengono che l’economia mondiale arriverà a raddoppiarsi nel 2050, grazie a una migliore produttività guidata dallo sviluppo tecnologico e la Cina contenderà lo scettro di superpotenza internazionale all’India, mentre il Bangladesh, le Filippine, il Messico e la Nigeria rappresenteranno le economie a maggior propulsione mondiale.
Le economie emergenti potrebbero infatti crescere mediamente più del doppio delle economie avanzate consolidate, grazie agli elevati tassi di crescita della popolazione e all’età media relativamente bassa, che si traduce in una forza lavoro più ampia. Gli USA perderebbero il loro primato mondiale economico piazzandosi solo al terzo posto nella classifica globale del PIL, dietro a Cina e India, mentre bisognerebbe scalare fino alla decima posizione per trovare il primo paese europeo (Germania).
Se infatti nel corso degli ultimi anni abbiamo scoperto il significato dell’acronimo BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) per identificare le nazioni più importanti tra le economie emergenti, converrà ora imparare anche il termine MINT (Messico, Indonesia, Nigeria, Turchia) per definire i paesi ricchi di risorse e con una popolazione dinamica, che sono maggiormente candidati per iscriversi al club delle nuove super potenze economiche. Queste economie avranno però bisogno di migliorare significativamente il loro aspetto istituzionale e delle infrastrutture se vorranno pienamente realizzare il loro potenziale.
Sono tuttavia economie che beneficeranno di almeno due fattori cruciali: una popolazione in crescita e una forte dotazione di materie prime di trasformazione. Significativo l’esempio dell’Africa, un continente destinato ad espandere la propria influenza nello scacchiere economico globale (anche e suo malgrado attraverso le migrazioni): la popolazione africana quasi raddoppierà, raggiungendo i 2,5 miliardi dagli 1,4 miliardi di individui di oggi.
L’Italia invece diventerà (probabilmente) sempre più un posto ideale per le vacanze, il buon cibo e la buona vita, ma non per fare business. A livello economico la sua discesa appare inarrestabile: era la sesta potenza economica mondiale nel 1980, passata poi al settimo posto nel 2000 e caduta al decimo posto nel 2022.
La causa della inarrestabile caduta italiana è stata già ampiamente dibattuta su questo blog in diverse occasioni ed è principalmente una: la nostra fragile demografia. Siamo 59 milioni e saremo, in previsione, 51 milioni. Per la cronaca, un siffatto calo della popolazione italiana potrebbe infatti generare una perdita economica fino a un terzo del PIL, anche perchè l’invecchiamento della nostra popolazione peserà sempre di più sulla spesa pensionistica e sulla spesa sanitaria.
Ma tornando all’incipit iniziale, a fronte di una economia in salute, ma non più esplosiva, quanto gli USA perderanno della loro supremazia a livello internazionale? A mio avviso poco, quasi nulla. È più facile che gli equilibri possano rimanere abbastanza immutati nonostante l’exploit, come visto, delle nuove economie. Gli Usa avranno infatti due grossi vantaggi: la crescita della India determinerà presto o tardi una collisione con la repubblica popolare cinese su chi sarà il maggior polo aggregante continentale. L’India in questo caso non diventerà mai una alleata di Washington, ma fiaccherà e non poco, le energie del maggiore competitore statunitense. Ma la grande fortuna americana sarà però probabilmente e ancora l’Europa: il costante invecchiamento della popolazione indebolirà l’economia continentale e una politica comunitaria probabilmente ancora disancorata da una visione strategica di lungo periodo le impedirà di diventare un credibile leader internazionale per tutti quei Paesi, geograficamente vicini, ma che per ragioni ideologiche non riconoscono l’America come guida e non hanno vincoli storici con il subcontinente cinese o quello indiano. Rimarremo “vassalli fedeli e di pregio” e un ricco mercato di sbocco per i loro prodotti, ma in fondo, forse è meglio così, del resto, potevamo mica essere proprio noi motivo di caos…