Homeland economy e il costo della de-globalizzazione
Ivan De Menis, Compressione, 2020. Cortesia dell'autore

L’anno scorso, all’alba dello scoppio del conflitto ucraino avevo scritto un commento su come la pandemia prima e l’instabilità geopolitica poi, stessero probabilmente decretando una interruzione dell’era della globalizzazione.

Il mondo ideale che avevamo apprezzato per anni, basato su produzioni just in time che limitavano le scorte industriali, sul progresso tecnologico che garantiva prezzi sempre efficienti e sull’equilibrio geopolitico che favoriva lo scambio internazionale, appariva seriamente compromesso.

A distanza di un anno e mezzo circa, anche il Fondo Monetario ha approfondito le possibili conseguenze di questo scenario nel suo ultimo World Economic Outlook (vabbè, se avessero letto il mio commento, mi sarei accontentato per lo meno di una citazione…Sic transit gloria mundi).

A quale conclusione il report allora perviene? Una che semplifico: chi possiede le materie prime vince. Le materie prime sono infatti diventate l’anello più fragile nella catena del valore. Le tensioni e le divisioni a livello internazionale che sono esplose negli ultimi anni hanno determinato “[…]restrizioni al commercio di materie prime nel solo 2022 sei volte superiori rispetto alla media 2016-2019”. Il caos logistico da post Covid aveva già frammentato i mercati di approvvigionamento, la guerra ucraina ha invece ulteriormente ampliato le distanze tra occidente e oriente, con un corollario di sanzioni applicate senza precedenti.

Anche la contesa tra Usa e Cina era già scoppiata da tempo, con Trump e il suo celebre “America first; e la “povera” Unione Europea s’era trovata a seguire l’alleato USA, prendendo le distanze da Pechino, con un crescendo di azioni anti-dumping su auto elettriche, turbine eoliche e produzione d’acciaio.

Questo inizio di de-globalizzazione potrebbe esplodere in futuro, allargandosi ad altri settori, non tanto al petrolio e al gas (come si è solito considerare), quanto molto di più su alcuni metalli specifici, con il rischio di rincari fino a venti volte superiori ai prezzi attuali.

Magnesio, alluminio, platino, litio, cobalto: nello scenario più stressato dal FMI, con la comparsa di due blocchi contrapposti (Usa-Ue e Russia-Cina), sarà soprattutto su questi elementi e su altre materie prime agricole che si potrebbe scatenerare un nuovo contesto da guerra fredda.

Certo, questo scenario di “fanta-economia” va “preso con le pinze”, anche perché alcuni Paesi come il Brasile ad esempio (primo esportatore mondiale di soia), non sarebbe facilmente collocabile in nessuno dei due schieramenti: fa parte dei paesi Brics, ma ha una bilancia commerciale sbilanciata sul fronte USA-UE. E come il Brasile, sono molti altri i Paesi esportatori di materie prime a cui non gioverebbe affatto una così netta regionalizzazione dei commerci internazionali.

Eppure, sta sempre più crescendo una dottrina economica sostenitrice del sovranismo economico, che rifiuta la globalizzazione e il libero scambio e che spinge invece al protezionismo, al ricorso ai sussidi statali e al forte accentramento dello Stato. L’idea di base di questa “homeland economy” è di de-globalizzare il più possibile, rendendo così “resiliente” la propria economia da qualsiasi shock esogeno, che sia di matrice geopolitica, sanitaria, tecnologica o ambientale.

I sostenitori della Homeland economy sostengono dunque il reshoring, in tutte le sue declinazioni (backshoring, nearshoring, friendshoring), ovvero quel processo che vuole far rientrare le aziende che avevano portato la produzione fuori dai confini nazionali, nello stato di origine o in stati vicini per confini, o similari per orientamenti geopolitici ed economici.

Rimane però un problema di fondo: la dinamica dei costi globali tende ad esplodere nel momento in cui gli scambi internazionali seguono logiche di de-globalizzazione.

Non solo, soprattutto per lo schieramento occidentale, la mancata disponibilità di molte materie prime, una manodopera ancora molto costosa e il costo di riallocazione dei sistemi produttivi comportano sacrifici economici incalcolabili e inaccettabili in un contesto già gravato dall’esplosione del debito pubblico.

Il costo della homeland economy appare così inconciliabile e difficilmente giustificabile in termini economici: la posizione (soprattutto) europea appare molto simile a quel “vaso di coccio tra vasi di ferro” di manzoniana memoria.

Usa e Cina appaiono troppo distanti dal continente europeo, con i primi a far man bassa dei sussidi esteri globali e i secondi avvantaggiati dalla ricchezza di materie prime disponibili internamente o nel continente africano, dove sono stati fatti massicci investimenti.

La storia si ripete sempre, ma il prezzo sale ogni volta (William Durant).  Come dopo un periodo di progresso scientifico a livello internazionale, tra le due guerre mondiali si scatenò una fase di diffidenza internazionale e politiche economiche autarchiche come reazione, oggi, nel 2023, un nuovo contesto bellico si sta scatenando economicamente. Con una differenza sostanziale però: oggi il mondo è molto più interconnesso di allora e sarà molto più arduo emanciparsi di colpo dai Paesi utilizzati per una massiva produzione fino a ieri, e l’anello delle materie prime va maneggiato con cura, perché se si dovesse spezzare, l’intera catena internazionale dei rifornimenti ne uscirebbe sconvolta.

E al continente europeo, questo scenario potrebbe fare davvero molto male.

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