Novembre 2020

Il Made in Italy (forse) da non imitare

Con un annuncio sobrio ma efficace, nel telegiornale nazionale del 23 novembre, la Cina ha annunciato di aver sconfitto la povertà. Per carità, niente di paragonabile rispetto a quanto siano riusciti a fare i nostri amministratori, niente balconi e pugni roteanti in aria, ma apprezziamo lo sforzo cinese di copiare le nostre gesta.

La Cina aveva promesso nel 2012 di sradicare la miseria entro la fine del 2020. Nel 2019, 52 contee del Paese figuravano ancora nella lista delle aree indigenti, oggi, un mese prima della scadenza anche la ultima provincia del Guizhou è uscita dalla lista nera, con un tasso di soddisfazione tra i residenti locali superiore al 99% e un reddito medio pro capite medio di 1700 dollari circa.Ma questa è propaganda, sui cui è legittimo avere qualche dubbio. Vediamo qualche dato più realistico. Esistono tante Cine, che vanno dalle sterminate e poverissime zone rurali, fino a quelle hi-tech ed abbaglianti delle metropoli della “fascia costiera”: è ovvio che esistano due economie che marciano a velocità e con risultati totalmente in contrasto l’una rispetto all’altra.

È però vero che ci sia una riduzione sostanziale, anno per anno, del numero di persone che vivono in miseria, inoltre, la situazione dell’economia cinese, in generale, è decisamente positiva. Anche in questo anno drammatico, le previsioni di PIL cinese sono date da tutte le organizzazioni mondiali (e da tutte le banche d’affari internazionali) positive (in media +2% circa sul 2019) e in controtendenza assoluta con il baratro nel quale sono fiondate le principali economie del mondo occidentale.

Rimangono tuttavia dei fattori di base, soprattutto sulla disponibilità di materie prime, che, personalmente, mi fanno sorgere il dubbio che il miracolo economico cinese e il loro modello sociale delle “3 rappresentanze” non possano rimanere eterni. Infatti, la Cina ha solo il 6% delle risorse idriche mondiali e il 9% delle terre coltivabili, ma deve alimentare il 21% della popolazione mondiale, come pure non ha petrolio e gas naturale per sostenere la produzione delle sue industrie e li deve importare (soprattutto dall’Africa). E la lunga guerra commerciale del 2019 con gli USA ha determinato soluzioni autarchiche che hanno solo maggiormente affamato chi aveva già fame. Insomma, ho la sensazione che presto le reazioni di una quota di popolazione sempre più esasperata travalicheranno di colpo le severe maglie della censura governativa. Solo allora capiremo cosa riuscirà ad essere realmente il dragone cinese: il ruolo di leader internazionale che vorrebbe ricoprire, per essere duraturo, prevede il sostegno di economie meno sviluppate (o più rallentate), ma soprattutto l’ascolto prima e la dotazione poi, di valide soluzioni di welfare per la propria popolazione. Tutta. Chissà se (per allora) vorranno affidarsi ancora a slogan di italica memoria o decideranno che forse, per una volta, il Made in Italy non è da copiare..

Erica Nagel-Ageing Society: la longevità come motore della crescita economica

È indubbio: stiamo vivendo una nuova rivoluzione demografica, con un costante invecchiamento della popolazione dettato da una maggiore longevità e aumento dell’aspettativa di vita, un incremento delle persone anziane e in età pensionabile, un invecchiamento della popolazione lavorativa e livelli costantemente bassi di fecondità. All’interno del panorama europeo, l’Italia si conferma il Paese con il più alto tasso di over 65 e sappiamo che si tratta di un trend che nei prossimi anni non darà segnali d’arresto, bensì metterà ancora più sotto pressione il Sistema Sanitario Nazionale. Dall’ultimo rapporto “Stato di salute e prestazioni sanitarie nella popolazione italiana” del Ministero della Salute, la popolazione over 65 oggi determina il 37% dei ricoveri ospedalieri e il 49% delle giornate di degenza. Inoltre, sono molte le persone che dopo i 65 anni iniziano ad avere qualche limitazione o che iniziano ad affrontare l’insorgere di malattie croniche; il tutto aggravato molto spesso da risorse economiche che non sono sufficienti per le cure o le visite mediche necessarie. È sufficiente pensare alla media delle pensioni nelle varie zone italiane: € 1.018,00 al Nord, € 908,00 al Centro, e 709,00 al Sud. (Rapporto Annuale ISTAT 2019). Viviamo quindi un vero e proprio paradosso: invecchiamo ma siamo poco tutelati. Cosa fare, dunque, per invertire questo andamento? Ritengo che ci siano 3 possibili soluzioni. Prima di tutto dovremo investire sulla prevenzione. I dati dimostrano che le Regioni che realizzano attività di prevenzione in maniera incisiva riescono ad ottenere risultati evidenti: – 2,7% l’anno il tumore al polmone per gli uomini; – 4,1% l’anno il tumore alla cervice uterina; – 20% le morti per malattie croniche come diabete e problemi cardiovascolari (Osservatorio Nazionale della Salute nelle Regioni Italiane, 2018). Il primo passo è dunque sensibilizzare i target più giovani sull’importanza di avere uno stile di vita salutare e incentivare la diffusione di misure preventive che possano influire sulla salute complessiva della persona: fisica e mentale. In secondo luogo, dovremo pensare alla creazione di una rete di modelli sociali, organizzativi e finanziari che possano fornire tutela e assistenza agli over 65. “Gli over 65” sono ancora intraprendenti, in salute, con disponibilità di risorse economiche e di tempo libero. Ecco che allora il target delle persone senior influenza sempre più l’offerta di numerosi settori economici, andando così a generare quella che viene definita la Silver Economy. Nei prossimi anni questa tendenza sarà ancora più evidente e le imprese dovranno saper rispondere alle esigenze di questo specifico target, modificando il proprio mindset e ampliando la propria offerta commerciale. Il Silver Tsunami (il costante invecchiamento della popolazione mondiale) potrà creare nuove potenzialità e generare una nuova crescita economica. Da ultimo, anche il settore assicurativo sarà chiamato a svolgere sempre più un ruolo di complemento al Welfare State, con la creazione di modelli di garanzia modulari per coperture All Risk. Ciò vorrà dire che le nuove soluzioni assicurative dovranno essere in grado, con un solo contratto, di rispondere a tutte le esigenze della persona: forme di previdenza, polizze sanitarie, esigenze di risparmio. Ma, ancora di più, le Compagnie Assicurative dovranno dar vita a una vera e propria evoluzione del proprio “essere”, trasformandosi da strumento di gestione delle emergenze a strumento di pianificazione lungo l’intero ciclo di vita della persona: un’evoluzione che dovrà legarsi però anche a un’attività di sensibilizzazione e di educazione delle persone alla cultura assicurativa

 

Consolida la sua esperienza con progetti di start up communication per aziende nazionali e internazionali, con una core-knowledge specifica relativa alla comunicazione economico-finanziaria. Sviluppa progetti di Digital Marketing ed è esperta in Corporate Social Responsibility Strategy and Communication. Parallelamente all’attività professionale svolge anche quella accademica e partecipa attivamente all’Unità di Crisi di Aon Italia per la gestione della comunicazione durante le emergenze.

Francesco del Deo-La “231” e la privacy: impariamo a proteggerci per risparmiare

Spesso quando un imprenditore mi chiede informazioni sugli adeguamenti privacy o sui modelli 231 la prima domanda che mi pone è: quanto posso risparmiare o quanto posso guadagnare se mi adeguo a queste normative? Questo modo di ragionare di fronte a tali tematiche è errato quanto pensare che la nostra salute non sia importante per i nostri affari. Nessuno infatti si sognerebbe di girare in pieno inverno a torso nudo (a meno che non sia un vichingo uscito da qualche serie tv) perché sa che potrebbe ammalarsi e che, oltre la salute, anche il lavoro ne risentirebbe…ebbene lo stesso deve dirsi per i modelli di protezione dell’azienda, che deve essere “protetta” anche se non vediamo un guadagno o un risparmio immediato. “Fare impresa” comporta necessariamente l’assunzione, in capo all’imprenditore, di molteplici rischi, di diversa natura: esiste il cosiddetto rischio d’impresa, correlato alle scelte imprenditoriali nella gestione dell’azienda, ed esistono dei rischi che potrebbero essere definiti “collaterali”, derivanti da un coacervo di disposizioni legislative sempre più complesse ed articolate, a cui occorre adeguarsi e dalle quali, in caso di violazione, derivano spesso sanzioni ingenti. Le predette sanzioni, talvolta, sono anche ulteriori rispetto al versamento pecuniario – è il caso della disciplina della responsabilità amministrativa da reato degli Enti, disciplinata dal D.Lgs. 231/2001, che prevede anche sanzioni interdittive, confisca e pubblicazione della sentenza – e talvolta di valore economico notevolissimo – è il caso della disciplina della protezione dei dati personali a seguito dell’emanazione del G.D.P.R. europeo – in grado di incidere fortemente sul bilancio di un’azienda.

I due esempi menzionati rappresentano ambiti di compliance aziendale di grande interesse ed attualità, sempre in divenire e da aggiornare in relazione ai tempi, ad esempio il contagio da CoV – 2 viene ora considerato un infortunio sul lavoro se avvenuto “in occasione di lavoro” qualora non si siano rispettale le indicazioni dei protocolli sottoscritti da Governo e parti sociali e potrebbe in astratto comportare una responsabilità penale del datore di lavoro, nonché una responsabilità amministrativa. Quanto al profilo della privacy, è evidente che il ricorso sempre più ampio alla modalità di lavoro agile implichi alcune condizioni – tra cui l’utilizzo di dispositivi personali per l’attività professionale – sulle quali porre adeguata attenzione per evitare una illecita dispersione di dati. Il lavoratore ha spesso sui propri dispositivi personali (cellulare o computer) una marea di dati personali di clienti o colleghi e non sempre tali dispositivi sono protetti come quelli aziendali (firewall, psw, antivirus aggiornati ecc..). È fondamentale, dunque, che, tramite professionisti in grado di farlo, la azienda predisponga un efficiente modello che permetta all’impresa di porre in essere una tutela effettiva della propria attività. Tali modelli sono da calibrare per singola impresa e sono molto apprezzati dagli investitori esteri che richiedono spesso la loro presenza ai propri partner italiani, così come stanno diventando sempre più parte integrante dei bandi di concorso per ottenere importanti appalti pubblici. Proprio per questo è necessario un approfondito audit preventivo che prenda in considerazione ogni aspetto dell’attività di impresa e permetta di poter consigliare quali strumenti adottare per non incorrere in sanzioni e per tutelare la propria attività …. come diceva Baden Powell: “non esiste cattivo tempo, ma cattivo equipaggiamento”!

 

Avvocato cassazionista, laureato cum laude all’Università degli Studi di Genova in Giurisprudenza è titolare dell’omonimo studio legale.

Vorrebbe passare la vita a navigare, ma non potendolo (per ora) fare, si occupa esclusivamente di diritto penale, con particolare riferimento al penale d’impresa, è membro di Organismi di Vigilanza e collabora attivamente con collegi professionali e società per tenere corsi in materia di sicurezza sul lavoro e responsabilità penale delle imprese ai sensi del D.lgs 231/2001

Ci vorrebbe Qelo

C’è grossa crisi!” urlava sconsolato Qelo, un improbabile personaggio di fantasia, interpretato dal genio comico di Corrado Guzzanti molti anni fa. Ora, io non so quanto la attuale Unione Europea sia preparata sulle puntate del “Pippo Chennedy show”, ma di certo la attuale scenetta dell’approvazione del budget 2021-2027 e Recovery fund ha qualcosa di surreale, a tratti grottesco e potrebbe di certo ispirare nuovi personaggi di fantasia al comico romano. Facciamo un piccolo sunto. Dopo mesi di comuni dichiarazioni di intenti sulla necessità di distribuire al più presto i fondi, (distinti fra sussidi e prestiti), che finanzieranno gli interventi aggiuntivi rispetto al bilancio comunitario ai singoli Paesi membri della UE, Ungheria e Polonia (ora sostenute informalmente anche dalla Slovenia) si sono sfilate. Una spaccatura inattesa che impedisce, allo stato attuale delle cose, di distribuire i fondi del famoso Recovey Fund, resosi necessario per lo scoppio della pandemia: 1800 miliardi di euro chiusi in un cassetto e lasciati lì. La motivazione del veto dei 2 Paesi risiede nella contrarietà (per entrambi) alla accettazione dello stato di diritto imposto dalla Ue. Facciamola più semplice: i leader dei Paesi Ue chiedono che vengano rispettati i principi fondativi della Comunità, (quali l’indipendenza della magistratura o il rispetto dei diritti civili). Chi non si adegua, non ottiene i fondi erogati per fronteggiare questa crisi di eccezionale portata. Peccato però che i due Paesi in questione non vogliono affatto assecondare la Ue e vorrebbero continuare a governare i loro Paesi come pare e piace ai loro leader autocratici. C’è anche un problema a monte: la distribuzione di questi fondi straordinari passa(attualmente) per un accordo all’unanimità tra i vari Stati. E la cosa surreale e appunto grottesca di questa vicenda kafkiana è che la Polonia sarebbe persino il terzo Paese a beneficiare maggiormente di questi fondi (dietro a Italia e Spagna).

Insomma, la soluzione non è proprio dietro l’angolo: da una parte l’intransigente Francia ha già dichiarato di spingere per un bilancio ad hoc per i soli paesi dell’Eurozona: un club di 19 economie che escluderebbe Budapest e Varsavia de iure, qualcun altro invece vorrebbe un Recovery Fund a 25 (anziché i 27 Paesi della Unione) proprio per escludere i 2 paesi riottosi. Altri Paesi cercano invece un accordo politico di compromesso. Qualunque cosa succederà, (se succederà) si sarà comunque perso tempo preziosissimo e i ritardi accumulati peseranno come macigni per far ripartire le nostre economie. Di certo Qelo saprebbe trovare succosissimi spunti da questa vicenda, purtroppo però le sue interpretazioni rimarrebbero divertente commedia, la nostra vicenda è invece assurda realtà.

Cesare Soldi-Potenziamo l’agricoltura made in Italy: non si sa mais…

La garanzia degli approvvigionamenti delle produzioni agroalimentari è sempre più messa in discussione dall’attuale emergenza Covid 19 e dai sempre più estremi eventi atmosferici. Le nuove sfide ambientali, la corretta alimentazione, la tutela dell’ambiente, e il benessere individuale sono notizie spesso in prima pagina, quando sfogliamo un giornale, lo scorriamo on-line, o guardiamo in TV uno dei tanti programmi di “approfondimento”.   Il settore primario, quello dell’Agricoltura, è sempre più al centro di tanta attualità. Ma è proprio così come viene spesso descritto dai media generalisti?

Un settore, il nostro, ‘in tendenza’ se usassimo il linguaggio del web. Mais, frumento, soia, riso e tutto ciò che coltiviamo sulle nostre terre rappresenta la base della alimentazione e costituisce la fonte primaria del nostro cibo. Il mais ad esempio, per l’elevato valore nutritivo legato all’alto tenore in amido, è fonte di energia fondamentale per bovini, suini, avicunicoli, ovicaprini e bufalini. Per questo motivo il 77% del mais da granella, che spesso associamo solo a polenta o corn-flakes, è destinato all’alimentazione zootecnica e al settore mangimistico. Il mais finisce così principalmente sulle nostre tavole sotto forma di latte, yogurt, formaggio, salumi, carne e uova. Il 7% può essere consumato direttamente dall’uomo essenzialmente sotto forma di farine. Ecco perché sono così importanti i prodotti base della nostra terra come i cereali e in special modo del mais: essi rappresentano il punto di partenza della nostra alimentazione, salute e benessere e del nostro ‘made in Italy’, ma ahimè sempre più insidiati da crescenti importazioni di prodotto estero. Il consumatore deve sapere che in Italia e in Europa abbiamo abbandonato da decenni mezzi di produzione ancora utilizzati dai principali paesi da cui importiamo cereali e soia. Da noi atrazina e neonecotinoidi sono stati ad esempio messi al bando da anni nel settore maidicolo. Non solo. Gli standard di produzione nazionale ed europei sono i più alti al mondo in termini di salubrità alimentare e di sostenibilità ambientale. La prospettiva futura è quella di continuare ad accrescere tale primato. Non è cosa da poco se riguarda ciò che poniamo sulla nostra forchetta. Noi imprenditori agricoli ci stiamo chiedendo come continuare a valorizzare allora la nostra produzione. Non c’è che una risposta: orientarsi al mercato, per trasferire al consumatore il valore richiesto attraverso la filiera, elemento cardine di sicurezza alimentare. La ricerca è fondamentale e spazia dalla applicazione delle ultime innovazioni in ambito digitale per una tracciabilità integrale, fino al miglioramento genetico attraverso le nuove tecniche di evoluzione assistita, tutte soluzioni che possono giocare un ruolo importante a favore di qualità, ambiente e produttività (senza dimenticare la promozione di efficienti politiche agricole e commerciali, soprattutto coi paesi terzi). Solo salvaguardando ed accrescendo il potenziale produttivo dell’agricoltura italiana saremo in grado di portare in tavola un prodotto interamente ‘made in Italy’, con tutti i benefici per il nostro palato e per lo sviluppo della nostra terra.

 

Cremonese, coltiva cereali vernini, soia e mais in pianura padana. Laureato in Ingegneria Meccanica presso il Politecnico di Milano, Master in Business Administration presso lo SDA dell’Università Bocconi. Ha lavorato per General Electric in Italia e all’estero come Marketing leader. E’ presidente nazionale dell’Associazione Maiscoltori Italiani (AMI) e segretario generale della Confederazione Europea dei Produttori di Mais (CEPM). 

Se il Presidente perde la corona

I giornali e i media di tutto il mondo stanno celebrando la vittoria di Joe Biden, indicato come il Presidente più “adatto” per permettere agli USA di mantenere la leadership economica e politica mondiale.

Probabilmente non si fa i conti con il convitato di pietra, che per un beffardo volere del destino, non è più spregiudicato leader politico di qualche potenza in crescita o un sanguinario terrorista che vuol sovvertire l’ordine costituito. In quelle occasioni, gli USA avevano sempre trovato soluzioni efficaci. Questa volta il nemico è invisibile e diffuso (parrebbe) in quasi tutte le regioni del mondo: si tratta di un virus che ha determinato una pandemia mondiale. E se (come tutti ci auguriamo) un vaccino debellerà presto e per sempre la diffusione di questo maledetto virus, gli effetti che in un solo anno, a livello economico e sociale ha comportato, rimarranno per anni.

Partiamo allora dagli effetti economici più evidenti a livello globale: il virus ha ancora maggiormente ampliato le diseguaglianze tra ricchi e poveri di un singolo Paese, ma anche tra singoli Paesi. Questo virus non è affatto democratico. Come conseguenza, questo virus comporterà delle reazioni aggregate (o di sistema) ancora più marcate che nel passato. L’Europa e le sue reazioni di politica monetaria e fiscale “concertate” sono un buon esempio. Ma resistere (economicamente) per l’Europa sarà sempre più difficile. La revisione dell’attuale modello di globalizzazione determinerà produzioni sempre più locali, soprattutto in settori strategici, come quello della sanità, che si allargheranno presto ad altri settori ritenuti via via strategici. Sopravviverà dunque chi avrà mercati interni di consumo molto grandi o chi troverà alleanza efficaci. La “Perfida Albione” che orgogliosamente voleva far tutto da sola con Brexit, temo che sarà l’esempio più eclatante di una scelta politica davvero infausta. Oh damn! E sperare che il nuovo Presidente americano rilanci un Piano Marshall che riavvicini le due sponde dell’Atlantico è molto romantico, ma di difficile esecuzione.

C’è invece un forte rischio che per sanare la situazione sociale americana sempre più drammatica, il Presidente USA debba rafforzare le politiche protezionistiche già sperimentate dal suo predecessore, inasprendo così le tensioni con l’Europa, ma soprattutto con la Cina, questa ultima che, invece, continua a viaggiare come se nulla fosse ed è oggi è stabilmente il primo produttore manifatturiero e agricolo al mondo. Per usare una metafora: “il re è nudo” e senza più corona (con la c minuscola). E in mezzo a un Re (o Presidente) nudo senza corona e un Principe in ascesa che se la vorrebbe mettere in testa, ci siamo noi: Italia e/o Europa dir si voglia. Preparate i pop corn (pardon, gli involtini primavera): sarà un film inedito per tutti.

Annamaria Saiano-“Red and blue States, but a United States!”

Lo scenario di cui siamo stati testimoni la settimana scorsa e che ha portato sabato 7 novembre alla elezione del 46mo Presidente degli Stati Uniti d’America, era tra quelli previsti alla vigilia di un appuntamento elettorale sempre molto atteso e seguito: una elezione contesa, lunghe giornate e nottate elettorali, conteggi rallentati in Stati “too close to call”, richieste di riconteggio delle schede elettorali, perplessità sulla validità dei voti postali. Un Paese diviso, polarizzato tra due candidati molto diversi, ma una grandissima prova di democrazia attiva e partecipata come è nella tradizione degli Stati Uniti d’America. Nella stessa tornata elettorale venivano infatti rinnovati un terzo del Senato (35 senatori), la Camera dei Rappresentanti nella sua interezza (435),11 Governatori nonché un ampio numero di cariche a livello locale. La percentuale dei votanti è stata, dalle elezioni del 1900, la più alta di sempre, 66% sui circa 240 milioni di elettori aventi diritto. Dei 150 milioni di Americani che hanno votato, anche per via dell’emergenza coronavirus, più di 100 milioni hanno fatto ricorso al cosiddetto “early voting“, recandosi ai seggi di persona prima di martedì 3 novembre, o utilizzando il voto postale, una pratica consolidata che negli Stati Uniti data dalla guerra civile. Una “blue wave” che nonostante abbia portato alla Presidenza un candidato Democratico, riconquistando per esempio Wisconsin, Michigan e Pennsylvania (gli Stati della cosiddetta “rust belt” che nel 2016 per un totale di circa 80,000 voti avevano contribuito alla vittoria del Presidente Trump) ha scavalcato il “red wall” ma non lo ha indebolito. Perchè se 75 milioni di Americani hanno scelto Joe Biden, President-Elect, 70 milioni hanno votato il Presidente Trump. Un Paese quindi da unire e ricomporre, dove non ci siano “red and blue States, but a United States” per citare il Presidente Eletto Biden nel suo discorso di accettazione.

A oggi, con i conteggi delle schede elettorali ancora in corso, il Partito Democratico non ha la maggioranza alla Camera dei Rappresentanti (che aveva conquistato nel 2018) e al Senato la situazione è di 48 Senatori per schieramento, con l’elezione di un Senatore in Georgia rimandata a gennaio 2021. E sappiamo che nell’efficace ma delicatissimo equilibrio di pesi e contrappesi che è la cifra della grande democrazia americana e della solidità delle sue istituzioni, il Congresso, e in particolare il Senato (che per esempio ha voce in capitolo sui trattati internazionali), hanno una importanza fondamentale per l’attuazione del programma di lavoro e governo del Presidente. Mentre si attende la conferma dei risultati definitivi, già da questa settimana il Presidente Eletto Biden si occuperà del processo di transizione e di definire al meglio la sua agenda e il gabinetto dei suoi Consiglieri e Segretari. Prima di tutto, vorrà dare una risposta coordinata per mettere sotto controllo la pandemia da Covid che vede gli Stati Uniti al primo posto per casi positivi. Sul versante interno, ci sono i dossier più squisitamente economici, da quelli sulla politica fiscale e occupazionale che riguardano la competitività dell’industria statunitense, a quelli della sanità, del debito pubblico, delle politiche sull’immigrazione. E poi il commercio internazionale, una rivisitazione dell’Accordo di Parigi sul clima, un possibile ritorno al multilateralismo, i rapporti con l’Europa, la Cina e molto altro. Interessante sarà vedere quale sarà il ruolo e il portafoglio di Kamala Harris, Vice Presidente Eletto, che potrebbe occuparsi di giustizia e di educazione. Indubbiamente le settimane che ci attendono, da qui al 14 dicembre quando i Grandi Elettori si riuniranno per confermare il Presidente e il Vice Presidente, fino al 20 gennaio 2021 quando entrambi si insedieranno, saranno molto significative e avvincenti, per gli Stati Uniti e per il mondo intero.

 

Responsabile dell’Agenzia Consolare degli Stati Uniti d’America a Genova.

Laureata in Lingue e Letterature Straniere Moderne, Master in Letteratura Americana presso la University of Iowa a Iowa City dove ha insegnato, da sempre coltiva le relazioni tra Genova e gli Stati Uniti attraverso la sua attività in varie associazioni culturali. Presidente dell’American International Women’s Club – ONLUS. È “Ambasciatore di Genova nel Mondo”.

La “Blue wave” e altre storie di navigazione

Biden ha vinto. Il rivale non la sta prendendo proprio benissimo, o almeno non sembra ispirato al motto decoubertiniano e promette battaglie legali. Ma questa rubrica non si occupa di politica, ma di finanza. L’elezione del Presidente della maggiore economia mondiale determina tuttavia conseguenze a livello economico a livello internazionale. Ma facciamo un passo indietro. Già la settimana scorsa le borse avevano sprintato in maniera commovente visti gli ultimi andazzi (+6% il Dow Jones e +8,5% il Nasdaq) sull’ipotesi di una vittoria “zoppa” dei democratici: andava bene avere una “Blue Wave, purchè fosse una ondina e non un cavallone. Fuor di metafora: è cosa buona e giusta avere un partito vincente alla Casa Bianca e perdente in una delle due Camere. Perché? Perché il controllo del Congresso ha almeno la stessa importanza della Presidenza: è il Congresso che approva i provvedimenti di spesa e gettito fiscale e li manda all’approvazione del Presidente. In tal senso, la campagna elettorale di Biden si è incentrata su un ampio utilizzo della spesa pubblica, finanziata con un significativo aumento della tassazione su imprese e redditi molto elevati. Ahia.. Non proprio il miglior scenario auspicato dalle società hi tech e farmaceutiche che rappresentano il maggior peso sui listini americani.

E così la vittoria zoppa va bene a tutti. Va bene ai mercati, che probabilmente vedranno in parte inattuabile la politica di Biden basata su inasprimento fiscale sulle maggiori aziende e una nuova regolamentazione nel settore hi tech. Ma va bene anche alla politica, che avendo armi spuntate di politica fiscale, dovrà confidare in una reazione della Federal Reserve per aumentare gli stimoli monetari per compensare la mancanza di quelli fiscali. (In parole povere: meglio far fare il lavoro sporco ad altri). Scenario tutto sommato positivo, o per lo meno gradito ai mercati. Bisogna solo capire cosa farà il Presidente uscente Trump. Che potrebbe anche sparigliare le carte, impuntandosi sul verdetto e cercando di paralizzare la vita politica del Paese, almeno fino all’insediamento del nuovo Presidente (gennaio). E questo ai mercati non piacerebbe di certo. Oppure… potrebbe perdere anche il Senato. (I ballottaggi saranno anche qui a gennaio). E in tal caso “l’ondina blu” diventerebbe un cavallone. E si sa.. sui mercati, per una buona navigazione, è sempre meglio preferire il mare piatto al marinaio eccezionale.