Settembre 2023

Giuseppe Chisalè-La solitudine dell’imprenditore

Rappresento una famiglia che è nel ramo imprenditoriale da quattro generazioni: il capostipite fu il mio bisnonno e oggi tocca a me. Nella mia famiglia non è mai stato un problema di scelta se appartenere a questo mondo o meno, ma l’abbiamo sempre interpretata come una sorta di vocazione.

Sono cresciuto nei racconti di mio nonno sulla necessità di essere dei “bravi imprenditori” dove “il profitto” non è mai stato il metro di giudizio adottato per esserlo o meno, quanto piuttosto la necessità di esser tutti pienamente responsabilizzati sui nostri doveri sociali con chi ha creduto (e continua a credere) nel nostro progetto: i dipendenti in primis, poi i fornitori e i nostri clienti.

Ecco, forse, essere imprenditori in questo contesto storico ed economico così complicato espone spesso la categoria che rappresento a una forma di alienazione che mi piace chiamare “la solitudine dell’imprenditore”. Premetto che qualunque contesto storico ha sempre rappresentato per ogni imprenditore un banco di prova nell’interpretare velocemente le novità insite ai cambiamenti, ma volendo fare il focus sull’ultimo triennio, con una pandemia internazionale prima e una dinamica inflattiva davvero impazzita poi, fare impresa è davvero estenuante. Ma non per questo meno stimolante.

Parto sempre dal tema della responsabilità, sia personale che verso la collettività che mi sento di rappresentare e fatta dai miei dipendenti, fornitori e clienti. Noi imprenditori dobbiamo prendere decisioni spesso cruciali “al buio”, visto che non si era mai visto e immaginato, se non all’inizio del ventesimo secolo, un contesto così mutevole e fragile. E spesso queste decisioni vanno prese velocemente e senza una rete emotiva di sostegno: seppur circondati da un sistema di affetti, certe dinamiche spesso sono difficilmente comprensibili se non con chi si trova nella stessa condizione di necessità o sta vivendo (ha vissuto) esperienze imprenditoriali simili.

Quando si prende una decisione in un contesto economico così turbolento si va necessariamente a tentativi e seguendo il proprio istinto e talento, (grande o piccolo che sia), ma il dovere sociale di cui l’imprenditore si sente caricato, rischia di costringerlo in un circolo vizioso: più decisioni da prendere, più stress, meno possibilità di confrontarsi, maggiore isolamento emotivo, maggiore probabilità di fare degli errori non tanto nella intuizione, ma nell’esecuzione di una decisione.

Ecco perché ritengo molto importanti le opportunità di confronto che si possono generare a livello territoriale tra associazioni volontarie di imprese, o qualunque altra forma di dibattito pubblico o privato tra imprenditori!

Sono momenti necessari per ascoltarci reciprocamente, stimolarci, consigliarci, sostenerci e anche talvolta sfogarci su tematiche che ci accomunano e spesso che ci tormentano.

Ritengo che spesso si abbia una immagine un po’ edulcorata e naif del mondo imprenditoriale, spesso rappresentato come un’enclave borghese” che vorrebbe difendere presunti vantaggi sociali, cristallizzati nel tempo.

Non c’è nulla di più sbagliato!  L’imprenditore rischia non solo un suo capitale economico, ma anche un suo capitale umano, fatto di affetti, relazioni, reputazione ed è tendenza di ogni bravo imprenditore mettere il gruppo dei suoi stakeholders davanti a tutto e a tutti.

Mi dispiace invece constatare come gli imprenditori siano spesso lasciati al loro isolamento e non si riesca a riconoscere, prevenire ed intervenire per tempo alcuni malesseri e i frequenti “mal di pancia” che qualunque decisione aziendale comporta sullo sviluppo dell’impresa, e quindi di  territorio, e quindi di un contesto sociale.

Ne ho parlato tante volte in sede di associazionismo di imprese: uno stato di crisi di una impresa è una sconfitta per tutti, non solo per l’imprenditore che ne è a capo.

Rimango allora fortemente dell’idea che solo un clima di piena cooperazione tra imprenditore, dipendenti, stakeholder e amministrazione pubblica possano creare occasioni di reciproco stimolo e ricchezza per tutti.

Ecco perché credo molto nel confronto tra imprenditore e parti sociali: la solitudine di cui ho parlato prima limita la capacità di generare idee innovative e di sviluppare strategie di crescita. Senza un ambiente di supporto e collaborazione, l’imprenditore può trovarsi “impantanato” nelle proprie paure, non riscendo a cogliere più eventuali opportunità di crescita, ma soprattutto, venendo meno a quel “dovere socialea cui facevo riferimento in apertura e di cui mi sento, ancora e orgogliosamente, promotore.

 

Genovese, classe 1968, è dal gennaio 2004 presidente e amministratore esecutivo della Giuseppe Lang arti grafiche, azienda fondata a Genova nel 1887 con il nome Tipo-litografia Fratelli Waser e poi rilevata nel 1911 dal bisnonno Giuseppe Lang, che ne era socio.

La azienda è rimasta stabilmente nelle mani della famiglia da allora, affrontando le drammatiche parentesi delle guerre mondiali e innumerevoli crisi finanziarie ed economiche.

Oggi Giuseppe rappresenta la quarta generazione.

Dal 2010 al 2014 Giuseppe è stato Presidente di sezione in Confindustria Genova.

Achtung Deutschland!

C’era una volta il modello di efficienza teutonica: l’industria tedesca era trainante per tutta l’Europa, le loro macchine erano sinonimo di eccellenza e una giovane donna guidava un continente, mostrando invidiabili doti di leadership e rappresentando un fulgido esempio di parità di genere al mondo intero.

Oggi, dopo un decennio di grande successo (dal 2010 al 2020) contraddistinto da forte crescita, aumento dell’occupazione e forti avanzi della bilancia commerciale, la “locomotiva” si è di colpo grippata. L’export è in preoccupante calo, gli investimenti nell’immobiliare (nuove abitazioni) sono crollati, la persistente inflazione (ancora al 6,4%) deprime il consumo dei privati, l’indice PMI è stabilmente negativo, confermando la sfiducia sul futuro, da parte degli imprenditori tedeschi.

Il Fondo Monetario Internazionale ha già sentenziato una crescita di Berlino nei prossimi cinque anni ben più lenta rispetto agli altri Paesi industrializzati e lo stesso Cancelliere Scholz, per ironia della sorte con una vistosa benda sull’occhio per un incidente domestico, ha ammesso nell’ultimo G20, non senza qualche imbarazzo, che “l’economia tedesca può fare di più”.

Tecnicamente la Germania è già in recessione economica dallo scorso inverno e non sembrano esserci alcuni segnali di ripresa.

Ma come ci si è arrivati?

Ci sono, a mio avviso, almeno 3 ragioni e sono tutte di natura strutturale, più che congiunturale. Quindi è anche peggio.

In primis, l’errore strategico di legarsi “mani e piedi” all’energia russa (lato import) e al mercato cinese (lato export), in secundis (e in parte è una diretta conseguenza), il ritardo nell’adozione di tecnologie verdi, e da ultimo, un persistente arretramento infrastrutturale (sia fisico che digitale).

Cominciamo dal primo punto: la guerra ucraina ha mandato in frantumi l’intero modello economico basato su una industria che, per anni, ha goduto del ‘doping’ dell’energia russa a basso costo. Il Paese si è trovato in una paradossale situazione: meglio salvare l’economia nazionale o la faccia e il prestigio (almeno a livello politico) internazionale?

La Germania è infatti un paese estremamente energivoro: venendo meno l’approvvigionamento di gas russo, non avendo energia nucleare e ancora una bassa produzione di idrogeno è necessario ripensare l’intero modello industriale, con intere filiere che devono essere ridotte, o peggio riconvertite e/o delocalizzate.

Cosa che sta già succedendo: per rimanere competitivi, i colossi tedeschi stanno spostando intere filiere dove i fattori produttivi costano di meno, oppure abbondano i sussidi. Si aprono così fabbriche negli USA (per beneficiare dei sussidi dell’Inflation Reduction Act), ma anche in Marocco (per il basso costo del lavoro), o persino in Cina (la Basf ha appena annunciato un investimento di 10 miliardi di euro).

La prestigiosa industria automobilistica (secondo punto) è la grande zavorra dell’economia tedesca: rappresentando una lobby molto influente ha rallentato per anni l’adozione di nuove tecnologie verdi, godendo del petrolio a prezzo stracciato. Ora però è in clamoroso ritardo sull’auto elettrica. E ha scommesso troppo sulla Cina: Volkswagen lì fa il 40% dei profitti, Mercedes e Bmw il 30%. Peccato però che la Cina, nel frattempo, abbia sviluppato modelli elettrici più performanti ed economici e sia contestualmente leader mondiale del mercato delle batterie elettriche.

Infine,(terzo punto) l’eccessiva austerità tedesca (ovvero un livello di investimenti pubblici spesso minore rispetto al fabbisogno) ha determinato un marcato ritardo nella digitalizzazione. A ciò si aggiunga un set infrastrutturale di autostrade e ferrovie piuttosto datato: l’obsolescenza del sistema ferroviario sta mortificando anche gli investimenti nell’alta velocità. Sfatiamo qui anche qualche mito: la Germania ha uno dei peggior ranking continentali in termini di puntualità dei treni, tanto da ricevere questa estate un reclamo formale da parte della Svizzera, per i continui ritardi nelle linee tra i due paesi.

Non aiutano neppure altri due fattori, quali: 1) la burocrazia che rallenta l’avvio di nuovi business (120 giorni è in stima l’iter autorizzativo, il doppio della media europea) e 2) la piaga demografica, con circa due milioni di pensionati previsti nei prossimi cinque anni.

La Commissione Europea ha appena rivisto (al ribasso) le previsioni economiche dei paesi leader, assegnando alla Germania la maglia nera per il 2023 e 2024.

Nonostante le evidenti criticità, già confermate anche dalla BDI (l’omologa della nostra Confindustria) nessun politico in Germania si azzarda a parlare di “grande malato d’Europa”, anzi, il governo è molto sicuro che il pacchetto di sgravi da 7 miliardi di € all’anno per le PMI sarà la panacea del malessere economico.

Non ci resta che attendere, ma non cadiamo nella retorica del sorrisetto di “umano contrappasso”: se Berlino piange, l’Europa non ride.

Michela Cerruti-Emancipazione economica delle donne in Siria tra guerra civile e barriere sociali

L’emancipazione economica delle donne in Siria, come in altri paesi mediorientali, è da sempre influenzata da una serie di fattori sociali, religiosi ed etnici che l’hanno resa particolarmente difficoltosa. La guerra civile iniziata nel marzo 2011, le barriere sociali preesistenti e nuovi limiti culturali, hanno tendenzialmente danneggiato il percorso di emancipazione femminile intrapreso prima del conflitto. Nei primi anni 2000, movimenti femministi e organizzazioni della società civile, avevano creato dei progetti di inserimento delle donne nel mercato del lavoro, approfittando del numero consistente di giovani donne diplomate e laureate. La Siria, infatti, prima del devastante conflitto che l’ha colpita, aveva un tasso di alfabetizzazione femminile del 60% negli Anni ’70, cresciuto ulteriormente tra gli Anni ’90 e il 2010, scendendo a un attuale 30%.

Prima della guerra, la maggioranza dei progetti di emancipazione portati avanti da gruppi femministi e dal General Union of Syrian Women, l’associazione del partito Ba’ath e del governo di Assad per la tutela dei diritti delle donne, era concentrata sul convincere le donne e le loro famiglie a utilizzare nel mondo del lavoro i titoli acquisiti, invece di tenerli chiusi in un cassetto e occuparsi unicamente della sfera privata. Una mentalità patriarcale che vedeva gli uomini, già da giovanissimi, come coloro che dovevano mantenere la famiglia, trattava le donne come soggetti fragili, da proteggere tra le mura domestiche. Alcuni lavori venivano considerati inappropriati per ragazze onorevoli (l’onore è il valore alla base della società Siriana). Lavorare con colleghi maschi veniva anche considerato potenzialmente disonorevole. Tornare a casa dopo il tramonto veniva visto come un rischio inutile di incappare in episodi di violenza sessuale rispetto al guadagno. Il percorso tipico delle donne appartenenti al ceto medio era quindi di raggiungere la laurea (livello Bachelor), fare un internato in cui ricevevano una formazione pratica, lavorare fino al matrimonio e poi licenziarsi per vivere una vita domestica.  Con la guerra civile, la posizione della donna dentro e fuori casa cambia radicalmente.

Da marzo 2011, infatti una profonda crisi economica ha colpito il Paese fino a diventare drammatica a febbraio 2023 quando un terribile terremoto ha colpito il Nord della Siria. Secondo dati recenti, da gennaio 2023 più di 15 milioni di persone in Siria necessitano di aiuti umanitari, con un incremento di 700.000 individui rispetto al 2022. La crisi è peggiorata dalla mancanza di acqua e di beni alimentari.

In questo contesto di vulnerabilità economica e di emergenza umanitaria causata dalla convergenza di diversi fattori quali il conflitto armato, il COVID-19, il terremoto che ha colpito soprattutto il Nord della Siria e la guerra in Ucraina che ha ulteriormente deteriorato le condizioni macroeconomiche rendendo drammatico l’approvvigionamento dei cereali (alimento essenziale nell’alimentazione siriana), la situazione dei diritti delle donne è stata fortemente impattata. Nei dodici anni di guerra, le donne sono state esposte a violenze da parte di militari o famigliari, la loro vita è stata spesso sradicata a causa dalla perdita di mezzi di sostentamento, e sono state costrette a negoziare con il proprio corpo fondi per sostenere la famiglia. Allo stesso tempo però sono spesso diventate l’unico mezzo di sopravvivenza di nuclei famigliari in cui gli uomini sono stati uccisi o arrestati.

Se la percentuale di donne che entrano nel mondo del lavoro ha dunque subito un rapido incremento, dovuto alle necessità, a causa di barriere culturali, religiose e sociali l’emancipazione economica delle Siriane rimane ancora appannaggio di poche.

I lavori prescelti sono quelli tipici femminili. In particolare, si evidenzia l’egemonia femminile in campo medico ed infermieristico. Un ruolo importante è per esempio quello ostetriche che sono fondamentali nella cura delle donne incinte e di quelle che hanno appena partorito. Molte di loro fanno la spola quotidianamente tra le cliniche e le case delle pazienti poiché molte di loro non riescono a raggiungere gli ospedali a causa della costante distruzione di infrastrutture. Queste professioniste sono considerate eroine dalla comunità poiché nei loro viaggi rischiano costantemente la vita. Un altro lavoro tipicamente femminile è quello di medico. Dal 2011, i medici uomini infatti hanno lasciato il Paese o si sono arruolati sia tra le milizie ribelli sia nell’esercito di Bashar al Assad. Le dottoresse hanno quindi preso in mano ospedali e cliniche sacrificandosi con turni massacranti. Il problema della mancanza di personale si è palesato in tutta la sua gravità durante l’epidemia di COVID-19. In uno studio condotto recentemente nella zona di Al-Suweida (sud-ovest della Siria, sul confine con la Giordania), si sono evidenziate le barriere sociali e culturali che hanno fortemente pesato sul lavoro delle donne medico domiciliate nel governatorato. Per queste dottoresse, la mentalità patriarcale significa avere responsabilità sul lavoro e violenze a casa dovute spesso alla frustrazione per una crisi economica che va peggiorando. Nonostante siano spesso le uniche portatrici primarie di reddito, in una sorta di ossimoro sociale, sono ancora sottoposte a compiti casalinghi, quali supporto a bambini e anziani, pulizie di case o tende se sono sfollati in un’altra regione del paese rispetto a dove abitavano originalmente. Anche dal punto del salario, le donne medico sono remunerate meno dei loro colleghi uomini e con la mancanza di materiale di protezione negli ospedali, sono costrette a usare una grossa parte del loro salario per comprare guanti e mascherine di cui hanno bisogno per non ammalarsi e per proteggere i pazienti. Per capire, una dottoressa guadagnava nel 2022 un salario medio di 80.000 – 90.000 lire siriane (172 – 193 USD nel 2022 ora 6,10 USD) al mese. Una scatola di guanti in lattice costava costa 11.500 lire siriane (25 USD ora 0.87 USD) mentre una scatola di mascherine di minore qualità costava 9.000 lire siriane (20 USD ora 0.68 USD). Il governo siriano ha annunciato recentemente un aumento di salario dal momento che il cambio lira siriana – USD sta raggiungendo quota 13500. In realtà, l’impatto dell’aumento sarà comunque di poco conto vista il tasso d’inflazione inarrestabile.

Alcune dottoresse hanno preso la difficile decisione di lasciare il lavoro per cui hanno duramente studiato per andare a imparare un mestiere meno prestigioso ma più redditizio quale quello di sarta. Ad oggi, infatti, molte associazioni non governative locali e internazionali hanno deciso di portare avanti progetti umanitari volti a sostenere piccole imprenditrici (soprattutto sarte, artiste che ristrutturano piccole opere d’arte locali, artiste che creano mosaici etc.) devolvendo parecchi fondi per supportare queste imprenditrici e formare giovani e giovanissime donne a un mestiere. Un dottore che prendeva l’equivalente di 6 USD in un ospedale pubblico può arrivare a guadagnare anche 100USD al mese se pagata da ONG straniere.

Il fine di questi progetti umanitari è soprattutto quello di offrire alle donne, ragazze e bambine un lavoro che possa salvarle dalla piaga di un matrimonio prematuro (a 9 o 10 anni). Prima della guerra, infatti, le spose bambine erano meno del 10% mentre oggi il dato è salito esponenzialmente. I dati ufficiosi sul terreno parlano anche di 60% di spose bambine in certe aree non urbanizzate del Paese. La realtà è che se queste bambine si emancipano economicamente, la famiglia non ha motivo di “venderle” in nome di una dote che doni ai genitori un po’ di ossigeno economico. Con la scusa di una tradizione culturale e religiosa migliaia di bambine si ritrovano incastrate con mariti violenti che non permettono loro di terminare gli studi o di lavorare fuori casa. Con un inserimento, sebbene precoce, nel mondo del lavoro invece queste bambine diventano soggetti da tenere convenientemente in famiglia in modo da far fronte tutti insieme alle crisi che sono sempre dietro l’angolo.

L’emancipazione delle donne siriane, dunque, passa sia attraverso l’abbattimento di barriere sociali e il cambiamento di codici culturali che dovrebbero modificarsi grazie anche all’introduzione di una nuova Costituzione, più rispettosa dei diritti di genere e più severa nei confronti di violenze sulle donne, ma anche attraverso il sostegno all’imprenditoria femminile, al sostegno economico a ONG fidate che si occupino di donare una vita lavorativa a donne giovani e meno giovani in linea con le loro attitudini e alla richiesta del Paese e a quelle ONG che sostengono economicamente donne che hanno già un lavoro ma che con il loro lavoro non possono sopravvivere economicamente.

 

 

DEA in Sociologia all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales a Parigi e MAS in Strategia e Leadership Internazionale al Graduate Institute di Ginevra, è una consulente ed una manager di progetti di ricerca presso gruppi internazionali di consulenza su problematiche medio-orientali. Tra i numerosi contributi accademici figurano collaborazioni con la New York University Press nel libro Women Rising: In and Beyond Arab Spring e con Palgrave Mc Millan nel libro Handbook of Gender, Media and Communication in the Middle East and North Africa. È mamma di una promettente sciatrice di dieci anni e nel tempo libero ama coniugare la sua passione per la sociologia con l’amore per i viaggi che fa con suo marito e sua figlia.