Gennaio 2023

Salvi per un PIL

Il bello di ogni società di consulenza, anche di quelle più accreditate a livello internazionale, è che negli ultimi anni c’è sempre stato un elemento “disruptive (distruttivo e imprevedibile) a stravolgere completamente lo scenario di partenza e dunque, le conclusioni delle loro previsioni economiche.

Covid, digitalizzazione, guerra in Ucraina, inflazione a doppia cifra: basterebbe fermarci all’ultimo triennio per averne piena conferma. E il mondo della intelligenza artificiale e del metaverso bussano già alla porta per avvertirci che siamo solo all’inizio. “Siate il cambiamento che vorreste vedere avvenire nel mondo”, proclamava Gandhi, ma temo che qui manchi completamente, almeno per gli ultimi avvenimenti, l’elemento della consapevolezza. Si subisce l’evento, non lo si determina.

E così in un mondo sempre più di difficile lettura, si fa fatica a credere a previsioni economiche che superino il prossimo biennio. Un anno fa, ad esempio, l’autorevole centro di ricerche Cebr era uscito con uno studio che aveva fatto molto discutere, in cui, per sommi capi, si sanciva il superamento dei 100 trilioni di dollari del Pil Mondiale nel 2022, il contestuale primato della economia cinese su quella americana nel 2030 e la forte tenuta della economia russa nelle prime 10 economie mondiali nel prossimo decennio.

Pochi giorni fa è uscito un aggiornamento alla ricerca, un bel po’ più pessimista sul futuro dell’economia mondiale, (prevista tecnicamente in recessione), e un bel po’ più preoccupato sulle dinamiche inflattive e sugli effetti dei repentini rialzi dei tassi in atto.

Colpevoli, manco a dirlo, delle loro errate previsioni di un anno prima, sarebbero le “banche centrali, molto lente nel rendersi conto della portata dei problemi inflazionistici di cui avevamo avvertito”. Per lo meno, (sembrerebbe) che ci avessero avvertito.

Nel nuovo scenario, la Cina dovrà aspettare ancora un bel po’, prima di superare in termini di PIL gli USA (2036), ma soprattutto la Russia comincerà ad avvertire il peso delle sanzioni occidentali nei prossimi anni, assistendo a un costante e irreversibile declino. Consola il giudizio sull’Italia, che soffrirà sia per gli effetti di politiche monetarie molto severe (che peseranno sul debito pubblico) e sia per la eccessiva inflazione da offerta (per le miopi politiche di approvvigionamento passate), seppur in un contesto di sostanziale salute della economia domestica.

Insomma, ci salveremo “per un PIL” anche questa volta.

Ma in tutte queste previsioni che si susseguono e naufragano in un batter d’occhio al primo elemento imprevisto, forse e dico forse, non ci siamo mai chiesti se abbia davvero senso voler continuare a ricondurre il nostro concetto di futuro benessere sociale con un solo numero di sintesi. Ma questo, se vorrete, lo vedremo la prossima volta…

Gastone Breccia- Una guerra semplice

La guerra è tornata in Europa dopo quasi ottant’anni. La guerra convenzionale, «simmetrica», tra due eserciti potenti, armati in maniera simile, capaci di condurre operazioni prolungate ad alta intensità sul campo di battaglia. Ci riguarda tutti, e ha una posta in gioco altissima; ma quella iniziata per volontà di Vladimir Putin e della Russia il 24 febbraio 2022 è anche una guerra semplice. Le motivazioni sono chiare, così come gli scopi, gli errori commessi e le ragioni degli sviluppi recenti sul campo di battaglia.

È semplice, per prima cosa, la motivazione fondamentale della Russia per attaccare l’Ucraina: Putin ha pensato di avere l’occasione di rovesciare il governo di Kiev, chiaramente orientato all’amicizia con l’Occidente, e ha deciso di coglierla usando la forza. Ma è semplice anche la ragione del fallimento della cosiddetta “Operazione Speciale”, la guerra-lampo che avrebbe dovuto consentire ai russi di insediare un governo amico a Kiev in una decina di giorni: Putin e i suoi generali erano stati male informati sulla solidità del “regime” ucraino, sulla volontà di resistenza della popolazione, e si erano convinti (da soli) che USA e NATO non fossero in grado di reagire in tempo. È semplice la ragione della tenacia mostrata dagli ucraini nell’opporsi all’invasione: “ogni popolo amante della libertà, alla fine sarà libero” (Simon Bolívar). Ovvero: quando un estraneo entra a casa tua con le armi in pugno, e vuole farla da padrone, tu combatti e combatti e combatti fino a cacciarlo, quali che siano i sacrifici necessari. È semplice, infine, la ragione per cui gli USA, passati i primi giorni in cui “tutto poteva accadere” (quando Biden offrì un passaggio in America a Zelensky, ottenendone una risposta passata alla storia), abbiano appoggiato l’Ucraina, ma non troppo: il massimo vantaggio, per loro, è vedere la Russia che si dissangua, perde uomini armamenti e prestigio, senza rischiare una guerra su vasta scala. Quindi sì agli HIMARS, no ad aerei carri armati e truppe. Sono persino semplici la ragioni per cui i russi non hanno sfondato le linee ucraine e non hanno ottenuto risultati decisivi sul campo: non hanno mai avuto una superiorità numerica sufficiente, non hanno saputo adattarsi rapidamente a una situazione diversa dalle loro aspettative, l’eccezionale sostegno dell’intelligence occidentale alle forze ucraine li ha messi costantemente in situazione di inferiorità sul campo di battaglia.

Queste sono le coordinate essenziali del conflitto. Il resto è propaganda. Non si può dar credito a Putin quando sostiene che la Russia fosse minacciata militarmente dall’Ucraina, e quindi giustifica l’aggressione come una “difesa preventiva”. Né quando parla della necessità di intervenire per fermare il “genocidio” in atto a danno dei russofoni del Donbass. Siamo di fronte a una guerra iniziata per motivi neo-imperiali, legati alla volontà di riaffermare il dominio russo su una parte dell’ex impero zarista-sovietico ritenuta troppo importante per essere “ceduta” all’Occidente, anche sotto forma di semplice alleanza economico-politica.

Dunque non possiamo avere dubbi: ha torto chi ha violato in armi i confini di un paese sovrano che non costituiva una minaccia alla sua sicurezza, chi ha creduto di poter spezzare la volontà di resistenza del suo popolo con il terrore, chi ha massacrato civili e devastato paesi e città. Ha ragione chi difende la propria terra, la propria casa, la propria vita. È una sorta di livello zero, ma imprescindibile, da cui partire per acquisire consapevolezza di ciò che sta accadendo da quasi un anno in Ucraina.

Il 2023 sarà un altro anno di guerra, probabilmente. Non ci sono, attualmente, le premesse per un accordo di pace: Putin ha “annesso” illegalmente quattro regioni ucraine, e non può abbandonarle senza dichiarare la propria sconfitta, cosa che farà solo se costretto con la forza militare. Forza che gli ucraini, al momento, non hanno.

Ma la via per la pace passa attraverso la giustizia, ovvero la fine dell’invasione, la punizione dei criminali di guerra e la libertà del popolo ucraino. Si illudono quelli che, magari in buona fede, auspicano una “resa” degli ucraini di fronte al fatto compiuto dell’occupazione russa di una parte del loro paese. Sarebbe nient’altro che una tregua instabile, avvelenata dal rancore, ben presto macchiata di violazioni di ogni tipo. Un passo verso il passaggio dal conflitto che abbiamo sotto gli occhi a una guerra civile feroce, che lascerebbe spazio alle forze peggiori delle due parti in lotta. Speriamo di non dover assistere a questo.

 

Livornese, classe 1962, laureato in lettere classiche a Pisa, ha conseguito il dottorato di ricerca in Scienze Storiche presso la Scuola Superiore di Studi Storici dell’Università di San Marino. Dal 2001 insegna Civiltà bizantina, Letteratura bizantina e Storia militare antica presso il Dipartimento di Musicologia, Lettere e Beni Culturali di Cremona (Università di Pavia). È membro del comitato scientifico della Società Italiana di Storia Militare. Da sempre appassionato di storia militare, ha pubblicato numerose monografie con varie case editrici, tra le quali si segnalano: L’arte della guerra. Da Sun Tzu a Clausewitz, Torino, Einaudi, 2009; I figli di Marte. L’arte della guerra a Roma antica, Milano, Mondadori, 2012; L’arte della guerriglia, Bologna, Il Mulino, 2013 (nuova edizione: 2022); 1915. L’Italia va in trincea, Bologna, Il Mulino, 2015; Lo scudo di Cristo. Le guerre dell’impero romano d’Oriente, Roma-Bari, Laterza, 2016; Scipione l’Africano. L’invincibile che rese grande Roma, Roma, Salerno, 2017; Corea. La guerra dimenticata, Bologna, Il Mulino, 2019; Missione fallita. La sconfitta dell’Occidente in Afghanistan, Bologna, Il Mulino, 2020; La grande storia della guerra, Roma, Newton Compton, 2020; Le guerre di Libia. Un secolo di guerre e rivoluzioni (con Stefano Marcuzzi), Bologna, Il Mulino, 2021; Il demone della battaglia. Alessandro a Isso, Bologna, Il Mulino, 2023 (in corso di stampa); Trafalgar, Torino, Einaudi, 2023 (in corso di stampa). Ha condotto ricerche sul campo in Afghanistan (2011) e in Kurdistan (Iraq e Siria, 2015), dopo le quali ha pubblicato saggi sulla missione ISAF (La tomba degli imperi, Milano, Mondadori, 2013), e sulla guerra contro lo Stato Islamico (Guerra all’ISIS. Diario dal fronte curdo, Bologna, Il Mulino, 2016).

Goodbye 2022: non ci mancherai

È arrivato (finalmente) il momento di salutare questo balordo 2022, che ricorderemo nei libri di storia molto complesso dal punto di vista sociale, politico ed economico.

Un anno che cominciava già traballante per l’onda lunga della pandemia, ed è stato da subito offeso dallo scoppio della guerra in Ucraina, con tutte le relative conseguenze sull’economia e sulle catene di approvvigionamento globali, che hanno determinato livelli di inflazione ormai dimenticati nei decenni e livelli dei tassi che hanno sfiorato i massimi storici.

Così i mercati finanziari sono andati a picco, e con essi pure l’emotività di ogni investitore (dai piccoli risparmiatori ai grandi veterani del mercato).

Le continue significative sorprese al rialzo della dinamica dei prezzi hanno portato a livelli di inflazione non toccati dagli anni ‘70-‘80. Le banche centrali sono tornate ad essere i veri protagonisti della scena internazionale, sfidandosi a singolar tenzone in una pericolosa, quanto tardiva sfida all’ultimo rialzo dei tassi. Ha vinto la Fed, ’di corto muso’ (cit.) sulla BCE.

E stato un anno in cui abbiamo imparato a nostre spese la differenza tra inflazione da domanda (come quella americana) che ha pagato tutti gli eccessi di stimoli fiscali del 2021, da quella da offerta (come quella europea), che si è scatenata per miopi scelte passate sull’approvvigionamento energetico e ha catapultato di colpo il vecchio continente alla “canna del gas”. Purtroppo non in senso metaforico.

Poco distante nel Regno Unito abbiamo visto gli effetti della Brexit che si fa sentire sulla stabilità del paese e in Cina quelli di un regime totalitario, dove l’intransigenza nella politica di ‘tolleranza zero’ verso il Covid ha impedito il raggiungimento degli obiettivi di crescita. Salvo poi fare un dietrofront clamoroso, ma tardivo, nel finale di anno.

Usciamo dunque tutti piuttosto contusi e confusi da questo folle e sventurato anno e la domanda che tutti ci poniamo è allora cosa aspettarsi dal 2023.

Le previsioni sono sempre difficili, soprattutto dopo un anno così catastrofico, tuttavia, penso che dovremo con serenità accettare un futuro di recessione economica, che potrebbe non essere per forza spaventosa come quella del 2008.

Il raffreddamento dei consumi, a seguito dell’incremento tassi è un effetto che sapremo accettare, soprattutto se non dovesse impattare troppo sui nostri stili di vita. L’obiettivo di riportare l’inflazione al 2% nei prossimi 2 o 3 anni è una valida motivazione per evitarci nel futuro altre e nuove montagne russe.

Già… la Russia. Dalle future scelte politiche di questo territorio, dipenderanno, principalmente, le possibilità di anticipare o posticipare il nostro recupero economico.

Andrea Bracchi-Trust: cambio di rotta dell’Agenzia delle entrate sulla fiscalità indiretta

Lo scorso 20 ottobre 2022 l’Agenzia delle entrate ha pubblicato la – tanto attesa – circolare in materia di trust, fornendo alcuni rilevanti chiarimenti in relazione alla disciplina fiscale applicabile ai trust ai fini delle imposte dirette e indirette.

Uno dei principali chiarimenti – che si commenterà di seguito – è certamente rappresentato dal cambio di impostazione dell’Agenzia delle entrate in merito all’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni ai trust.

Si ricorda, in via preliminare, che il trust si sostanzia in un rapporto giuridico fiduciario mediante il quale un soggetto (“disponente” o “settlor”) trasferisce beni e/o diritti ad un altro soggetto (“trustee”), affinché quest’ultimo li gestisca, coerentemente con quanto previsto dall’atto istitutivo del trust, nell’interesse di uno o più beneficiari, o anche per uno scopo prestabilito.

I trust possono essere istituiti per diverse ragioni: tra i più diffusi vi sono certamente i cd. “trust familiari”, ovvero i trust istituiti con finalità di passaggio generazionale (es. per proteggere patrimoni familiari impedendo il frazionamento della proprietà dell’azienda di famiglia tra più discendenti), oppure con finalità di assistenza (es. per tutelare un familiare che è troppo giovane oppure non è sufficientemente responsabile per poter gestire i propri affari).

Come anticipato, la circolare dell’Agenzia delle entrate contiene una rilevante novità in materia di imposta sulle successioni e donazioni: l’Agenzia delle entrate recepisce, infatti, in un documento di prassi a valenza generale l’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza della Corte di Cassazione in merito all’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni ai trust.

In particolare, si passa da un modello in cui l’apporto dei beni dal disponente al trust scontava immediatamente l’imposta sulle successioni e donazioni al momento della segregazione dei beni in trust, sulla base del valore dei beni apportati e delle aliquote e franchigie vigenti al momento dell’apporto; ad un modello in cui l’apporto dei beni in trust non sconta l’imposta sulle successioni e donazioni, rimandando l’imposizione al momento della successiva devoluzione dei beni dal trustee ai beneficiari, con tutto quello che ne consegue in termini di maggior valore dei beni spettanti ai beneficiari – rispetto al momento in cui è stato istituito il trust – e, soprattutto, in termini di aliquote e franchigie applicabili al momento della devoluzione.

Sono infatti frequenti, in questi ultimi anni, i rumour relativi ad un possibile inasprimento dell’imposta sulle successioni e donazioni (che potrebbe comportare un innalzamento delle aliquote, una riduzione delle franchigie o, ancora, una modifica alle modalità di determinazione della base imponibile). È chiaro che, qualora tale inasprimento si verificasse, la devoluzione del fondo in trust ai beneficiari ne sarà impattata (rispetto al quadro previgente in cui l’Agenzia delle entrate aveva chiarito che la tassazione “in entrata” – ovvero al momento dell’apporto dei beni in trust – esauriva qualsiasi ulteriore tassazione al momento della devoluzione dei beni dal trust ai beneficiari).

In conclusione, ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni si passa dal precedente modello impositivo del trust, che prevedeva una tassazione immediata e certa nel quantum; ad un nuovo modello impositivo del trust, che prevede una tassazione differita, ma incerta nel quantum.

 

 

Laurea in Economia presso l’Università degli Studi di Pavia, studente dell’Almo Collegio Borromeo, consegue l’abilitazione alla professione di dottore commercialista. Ha iniziato la propria carriera lavorativa presso un primario studio tributario italiano. Dal 2019 lavora presso il Dipartimento Fiscale di BonelliErede e si occupa, in particolare, di private clients, operazioni di M&A, fiscalità d’impresa, dei gruppi societari e dei fondi d’investimento. E’ autore di diverse pubblicazioni in materia tributaria.