Aprile 2022

Andrea Danesini-Innovazione e servitizzazione: possibili sinergie per il progresso.

Complessità. Questa parola è la chiave descrittiva dell’epoca che stiamo vivendo, più o meno consapevoli degli impatti sulle nostre vite di una serie innumerevole di cambiamenti in atto. Le competenze necessarie per gestire tale complessità sono raramente in possesso delle aziende che, in un mondo sempre più interconnesso, necessitano di mantenere il focus sul core-business e razionalizzare opex e investimenti per rimanere competitive sul mercato globale. Tale razionalizzazione si scontra con la necessità di procedere, necessariamente, ad investimenti anche nelle aree non core per cercare di rimanere al passo con l’evoluzione dei propri competitor. In tale contesto si evince come cercare e seguire il progresso in costante ricerca di innovazioni, che esse siano progressive o disruptive, sia una scommessa da un lato necessaria, ma dall’altra foriera di costi. Se nell’area core tale ricerca può essere necessaria, nelle aree non core spesso le aziende si ritrovano a fare i conti con budget troppo ristretti per generare impatti di valore e di conseguenza tendono a procrastinare a data da definire gli investimenti. In risposta ad alcuni di questi temi, nell’ultimo decennio si sono sviluppate le soluzioni cosiddette “aaS”, “as a service”. Software as a service, spazio di stoccaggio dati, automazione, intelligenza artificiale, robotica… tutto sempre più as a service. Lo stesso noleggio delle auto, o delle stampanti, o delle soluzioni hardware è sempre più “full service”, raggruppando nelle offerte servizi che di fatto eliminano l’effettiva gestione dei beni da parte del Cliente. Da un lato questo permette di ricevere soluzioni senza infrastruttura, senza investimenti iniziali, senza precise competenze per la loro gestione o manutenzione; dall’altro garantisce la non obsolescenza del servizio, che rimane sempre aggiornato, innovato e costantemente manutenuto. Di contro, tale servizio ha un costo ovviamente superiore (apparentemente) sul lungo periodo.  Il gioco vale quindi la candela? Tendenzialmente sì, soprattutto per le PMI. Ritorniamo quindi al tema della Complessità. Ciascuno di questi software, apparecchiature, mezzi, richiede dapprima un investimento e, successivamente, competenze profonde e specifiche per l’utilizzo, la gestione e la manutenzione. Inoltre, stante la velocità con cui evolvono le tecnologie, il ciclo di vita del prodotto tende sistematicamente ad abbreviarsi. Questi due fattori rendono l’investimento oneroso in termini di gestione e rischioso in termini di obsolescenza. Poter accedere a soluzioni di servizio, pagate con un canone pluriennale, in cui la gestione è affidata a terzi (che avendo più “impianti” hanno strutture di supporto e gestione più efficienti) permette al Cliente di non allocare risorse non saturate da formare e retribuire su ciascun specifico asset. Il Cliente che lo acquista come servizio ne conoscerà preventivamente il costo di gestione annuale, senza sorprese legate a manutenzioni o rotture, e potrà quindi concentrare la sua capacità di investimento nelle aree del core-business. Negli ultimi tempi si stanno infine presentando soluzioni “pay for result” nelle quali il servizio viene pagato dal cliente in base alla performance ottenuta dal sistema/impianto fornito col servizio. Queste iniziative permettono di prevedere l’impatto dell’attività connessa al servizio sul costo unitario dell’output. Nella mia personale visione del futuro a brevissimo termine, questo approccio di servitizzazione aaS sarà il traino ai meccanismi che regolano l’innovazione per la grande maggioranza delle aziende. Prodotti nuovi, a volte complessi, spesso incomprensibili ai più nelle loro intime strutture tecnologiche, ma palesemente capaci di migliorare flussi di materiali e di dati nelle aziende, verranno forniti come servizio ai Clienti, fornendo ad essi il risultato richiesto invece che l’impianto, che rimarrà in carico al fornitore. Questo modello di business, a mio avviso, sarà per molte PMI la porta d’accesso a molteplici innovazioni importanti già presenti sul mercato o in divenire.

 

Laurea in ingegneria elettronica a Pavia. Dal 2003 coordina i lavori di costruzione e quindi dirige le operations di uno stabilimento alimentare altamente automatizzato in Sardegna. Dopo 7 anni, si trasferisce in Brianza, dove lavora come dirigente per diversi gruppi nell’ambito dei servizi  logistici e appalti, sviluppando e applicando vari concetti di ingegneria dei servizi, secondo logiche TPS e just in time, con un occhio sempre legato all’innovazione dei processi e dei prodotti.
Nel 2015 sviluppa l’idea e partecipa alla fondazione di Moveo Servizi e del sottostante progetto Movelog. Da quel momento riceve tre premi ai Le Fonti Awards ed è finalista al premio sull’innovazione dell’ Automation&Testing di Torino. Nel 2022, Moveo è tra i Campioni della Crescita dell’ITQF.

E quindi fu Deglobalizzazione

Stiamo probabilmente entrando in una nuova fase della storia: l’era della globalizzazione, basata su una standardizzazione di produzioni just in time, spesso effettuate sui mercati a più basso costo della manodopera, sembra ormai tramontata. Un condiviso sistema di scambi internazionali aveva ridotto nel passato il rischio di inefficienze nella gestione delle scorte e il progresso tecnologico garantiva prezzi di vendita sempre più bassi, quindi un livello di inflazione risibile per i consumatori e alta marginalità per l’industria. Un mondo ideale insomma, senza preoccupazioni geopolitiche particolari e la bilancia commerciale di un Paese, primo indicatore della sua vitalità. In un mondo così deregolamentato, liberalizzato e delocalizzato, (si produce dove costa di meno) gli scambi internazionali sono decollati: dai 3,5 trilioni di $ del 1990 si arriva ai 20 trilioni di $ nel 2018. Preistoria. Tra il 2020 e il 2022 due eventi straordinari, quanto inaspettati e nefasti (pandemia e guerra) hanno stravolto questo mondo, avviando l’era della deglobalizzazione. Ma cosa è?  È un mondo in cui la diffidenza vince sulla fiducia, dove i Paesi hanno scoperto per necessità (a causa della pandemia) o per opportunità (a causa della guerra) che alcune produzioni di beni primari (ad esempio dispositivi sanitari e produzione energetica) devo essere avvicinati a casa. È un mondo in cui la necessità di controllo e sicurezza prevale su quella di efficienza. E così i nuovi confini geopolitici restringono il concetto di globalizzazione ai soli Paesi di cui ci fidiamo, erigendo muri con tutti gli altri. La storia ama ripetersi e una involuzione di questo genere è già capitata nel secolo scorso: dopo un periodo di progresso scientifico a livello internazionale, tra le due guerre mondiali si scatena una fase di diffidenza internazionale e politiche economiche autarchiche come reazione. Con una differenza sostanziale però: oggi il mondo è molto più interconnesso di allora e sarà molto più arduo emanciparsi di colpo dai Paesi utilizzati per una massiva produzione fino a ieri. Le prime statistiche parlano chiaro: circa 300 mila aziende europee e americane sono già in difficoltà per avere basato in Ucraina e in Russia le loro forniture. Non solo. L’Europa sembra oggi l’area più esposta al rischio deglobalizzazione: il mix di errate politiche comunitarie del passato, (come ad esempio lasciare il settore dei microchip ai coreani o affidarsi ad un unico fornitore energetico) determina l’affannosa ricerca di alternative a prezzi maggiorati e, di conseguenza, un livello di inflazione più alta che strozza l’economia. Il “made in China” ci aveva aperto un mondo low cost in cui ci siamo abbuffati per anni. Ora dovremo rilocalizzare le produzioni, ma nel rispetto del nostro sistema di regole salariali, ambientali e di sicurezza.  Con tutte le conseguenze del caso. Potrebbe essere però un momento molto favorevole: le rilocalizzazioni potrebbero determinare milioni di posti di lavoro, se e solo se le imprese dovessero trovare un ambiente favorevole dove investire, privo di burocrazia e con un sistema fiscale meno oppressivo. Altrimenti rimarremo un territorio economico sempre più piccolo e insignificante. Più per demeriti nostri, che per meriti altrui.

 

Totò ai tempi della Shrinkflation

Sarà anche la necessità di sdrammatizzare un po’ questo momento storico così difficile, ma non fosse davvero una dinamica reale quello di cui parlerò, potrebbe sembrare la trama di “Totò d’Arabia”, film d’antan della comicità italiana. Quello, per intenderci, famoso per la frase “ccà nisciuno è fesso”. Mentre l’inflazione non sembra arrestarsi a livello mondiale, toccando livelli sconosciuti da almeno 30 anni (Usa al 7,9% e Eurozona al 7,5%), gli anglosassoni (maestri del humour raffinato) hanno coniato un neologismo per fotografare la situazione in essere: “shrinkflation”, ovvero la crasi di shrink (riduzione) e inflation (inflazione). Come funziona? Le aziende hanno capito come scaricare l’inflazione sul consumatore, senza però alzare i prezzi, ma rimpicciolendo la quantità di prodotto venduto: si paga lo stesso, ma per avere qualcosa in meno. Lapalissiano. Un caso di prestigirizzazione”(cit.). Alcuni esempi fanno davvero sorridere (non nominerò il nome delle aziende coinvolte): si va dal pacchetto di chips, rivisto con packaging accattivante, che contiene 10 patatine in meno, a due famose bevande analcoliche che hanno fatto bottiglie più aerodinamiche, più facili da afferrare (ma più piccole), fino ai grandi rotoli di carta igienica e/o scottex, ma con una trentina di fogli in meno. Ma la lista è lunga e coinvolge marchi di biscotti, formaggini, gelati, verdure surgelate: tutti quei prodotti dalle dimensioni ridotte, ma a veloce tasso di consumo e di cui diviene quindi più immediato abituarsi alle nuove dimensioni. Sorridiamo, ma l’escamotage riesce con successo poiché, come consumatori, siamo price conscious, (ovvero focalizzati sul prezzo) e non net-weight conscious, ovvero attenti alla quantità di prodotto. Così noi paghiamo di più, ma non ce ne accorgiamo: dovremmo guardare ogni volta il prezzo al kg/litro, esposto in piccolo sull’etichetta nel retro del prodotto, ma chi ci bada? Una distrazione però fatale e a vantaggio del produttore. Anzi, spesso siamo convinti dell’affare, proprio perché attratti da una comunicazione basata sul prezzo (in calo), ma inerente a una quantità di prodotto minore. La shrinkflation funziona sempre? No, poiché la creazione del nuovo packaging comporta solitamente costi di produzione e attività di comunicazione a supporto e possibili esposti da parte delle associazioni consumatori, ma in contesti di inflazione duratura (come quelli attuali) i risparmi ottenuti superano velocemente il surplus di costo. Nell’epoca (dell’abuso) del “politically correct”, molte aziende motivano persino queste scelte con l’adesione a politiche di sensibilizzazione contro lo spreco di cibo, l’ecologismo, la riduzione del materiale plastico. Una nota azienda americana di cioccolato è riuscita a motivarla con una presa di posizione nei confronti dell’obesità. Se Totò potesse tornare in vita, di certo aggrotterebbe il sopracciglio e con aria un po’stupita, ma voce stentorea, esclamerebbe “ma mi faccia il piacere”.

Paolo Marenco-Parliamo di giovani

Questa newsletter molto “cool”, come direbbero i miei amici in California, parla di capitali, finanza, mercati. Tutte cose presenti nella nostra vita, da conoscere e capire. Io vi parlo di giovani: il nostro futuro, come genitori, imprenditori o manager di aziende. Un futuro che in quest’ultima era, quella di internet è sempre più in mano a loro. Un mio vecchio amico, Vincenzo Tagliasco scienziato e professore a Ingegneria Genova, oltre 15 anni fa inaugurava l’anno accademico dell’Ateneo dicendo Cari colleghi viviamo in un era in cui i nostri studenti ne sanno più di noi”. In anni molto più recenti il Vice President Marketing di Vmware, il genovese Vittorio Viarengo super mentor di Silicon Valley dice: “Il lunedì mattina appena in ufficio, chiamo i giovani collaboratori, quelli appena arrivati, per farmi raccontare le ultime tendenze, le cose nuovissime della rete che non hanno ancora scalato ai nostri ruoli di comando”. Io vivo coi giovani professionalmente dal 1986, sempre ventenni o giù di lì. Con essi ho promosso startup, creato percorsi professionali internazionali e dopo un decennio circa- cioè quando di anni ne hanno trenta – li ho coinvolti nel diventare mentor dei più giovani. Ho capito che i giovani oggi non possono fare nelle aziende i percorsi che si sono sempre fatti: appredistato, lenti passaggi facendo lavori ripetitivi e poco stimolanti. I giovani devono, come succede in Silicon Valley, essere sul front end, mettere tutta la loro vivacità e stimoli al servizio delle prime linee illuminate delle aziende. Quelle per intenderci fatte di A People, come Viarengo. Sempre lui ci ricorda da anni che: A People hire A people, B people hire C people. Chiaro il significato. Se sei una persona- manager imprenditore- aperta a far crescere l’azienda, la tua squadra e te stesso, cercherai di assumere sempre i migliori,  quelli come te: A people, brillanti, creativi, out of the box (fuori dagli schemi) perché tanti di questi lasciati a briglia sciolta in azienda, togliendoli tu stesso gli ostacoli dal percorso, porteranno la tua azienda a emergere ed essere un passo avanti sempre. Se sei un timoroso, cauto, poco brillante – un B people– assumerai yes men / women – C people- che non facciano ombra alla tua figura, buoni da eseguire ordini senza se e ma. Poche aziende con queste guide emergeranno, oggi. Io ho vissuto casi di ragazzi e ragazze italiane che appena conosciuti a 18- 19 anni ho detto:  Questo farà strada. Oggi guidano unicorni- more than 1 billion value company– in Silicon Valley o sono manager in aziende internazionali…a 30-35 anni… non 50. Il mio messaggio è: il mercato delle risorse umane è il Mondo. I migliori ragazzi italiani non hanno la minima paura a cercare il meglio dove è, se non c’è in Italia. E senza i nostri migliori giovani di questi anni 2000 le nostre aziende, tutte in ogni settore, invecchieranno inevitabilmente. Perdendo quote di mercato e diventando, se va bene, terreno di conquista. E rimarremo un Bel Paese per mangiare e fare vacanze.  Almeno speriamo.

 

 

69 anni, ingegnere, ha diretto in trent’anni 4 Centri per l’Innovazione in Italia. Mentor di centinaia di studenti- italiani e di altri 32 Paesi- partecipanti a 44 Silicon Valley Study Tour dal 2005. Fondatore della www.siliconvalleystudytour.com  

 

La corsa del coniglio della economia internazionale

Come nella scena cult del film “Gioventù bruciata”, vinceva chi prima riusciva a gettarsi fuori dalla macchina, nella cosiddetta “corsa del coniglio”, così oggi nel braccio di ferro tra Russia e fronte occidentale, relativamente alla valuta da utilizzare per il pagamento delle materie prime russe, il primo che tentenna cadrà nel burrone.

Il diktat del pagamento in rubli è stato reiterato, ma in una forma ambigua: nei contratti di diritto internazionale, le condizioni non possono essere cambiate unilateralmente, a meno di non precisate cause di forza maggiore. La guerra può essere annoverata come tale? Nessuno ha (per ora) la risposta, ma nella fluidità degli eventi, l’utilizzo di una valuta rappresenta una formidabile arma geopolitica, da sempre difesa a spada stratta da USA e in subordine dai Paesi dell’Area Euro. Ma quanto i due contendenti potranno sopportare gli effetti della guerra economica scatenata? Difficile saperlo. Da una parte le economie europee continentali sono di certo le più esposte alle ricadute della guerra in Ucraina e il conflitto sta già pesando sulla crescita delle economie del G7 secondo tre direttrici: la bilancia commerciale con la Russia; l’aumento dei prezzi globali delle materie prime che alimentano l’inflazione globale e le interruzioni della catena di approvvigionamento, già provate da mesi di strozzature per la pandemia. L’Economist ha appena rettificato le previsioni di crescita nell’eurozona per il 2022: si passa dal 4,0% a circa il 3,3%. (Per curiosità, l’Italia passa dal 4,4% al 3,4%, la Germania dal 3,3% al 2,5%), ma non abbiamo ancor raggiunto il picco dei prezzi delle materie prime (idrocarburi, metalli e cereali), che determineranno livelli di inflazione ancora più alta. Una maggiore inflazione intaccherà il potere d’acquisto delle famiglie e potrebbe spingere le Banche centrali a inasprire le politiche monetarie in atto. Spoiler: questo livello di inflazione ha molti elementi transitori, ma ne ha anche alcuni strutturali: non torneremo di certo ai livelli di bassa inflazione del pre-pandemia. Qualcuno parla già di recessione imminente, probabilmente e come già anticipato un mese fa,( https://nuvolemercati.it/2022/02/14/stagflazione-o-una-diversa-comunicazione/) è più opportuno parlare di stagflazione: crescita rallentata con un’inflazione elevata. Se poi a questa crisi si accompagnasse anche una crisi alimentare di carattere mondiale, con prezzi degli alimenti impazziti (Russia e Ucraina sono tra i 5 maggiori produttori mondiali di grano), non è da escludere nemmeno una crisi migratoria dai Paesi più poveri verso l’Europa, che già arranca di suo con quella ucraina in corso.  Ma nel frattempo bisognerà capire anche la “resistenza economica” dell’altra parte. Perché se è vero che il rublo si sta riposizionando sui valori pre-guerra (sostenuta da massicci investimenti propri), il default della economia russa è stato solo rimandato, non scongiurato, come pure il Paese continua ad essere escluso dal maggiore sistema di pagamento internazionale e la protesta interna cresce di ora in ora per una popolazione sempre più schiacciata dalla iperinflazione e tassi di interessi più che raddoppiati. Chi vincerà? Chi si butterà giù per primo dalla macchina economica impazzita? Solo la storia ce lo dirà, ma di certo sarebbe stato meglio evitare di accendere i motori per questa folle e inutile corsa.

Roberto Albisetti- L’altra faccia del divario digitale

L’uso della tecnologia digitale fa ormai parte delle nostre abitudini quotidiane che quasi non ci facciamo piu’ caso. Nei nostri telefonini intelligenti le nuove app fioriscono come la mimosa in primavera. L’industria 4.0 genera giorno per giorno nuove start-up digitali. Il 90% di queste non sopravvivono al test di mercato o non superano il primo anno di vita. Una su mille prende la strada della Silicon Valley e diventa unicorno, il fregio del successo per chi si quota in borsa a Wall Street con valutazioni superiori al miliardo di dollari. Abbiamo imparato a utilizzare le applicazioni digitali di ecommerce, che ora chiamiamo marketplace, che ci portano a casa di tutto e da tutto il mondo, usiamo i software che ci fanno ricevere certificati sul pc, ci permettono di fare riunioni virtuali, di pagare utenze e fare bonifici bancari dal nostro cellulare e di vedere nuovi film e partite in diretta con lo streaming.  Il maggior impatto economico delle piattaforme digitali non è solo la disintermediazione nel mercato, con l’informatizzazione arrivano i vantaggi di ridurre i tempi, i costi di transazione e – a volte – di semplificare i processi.  Dico “a volte” a proposito, perche’ i processi digitalizzati complicano l’accesso ai servizi per milioni di persone. Basti pensare al pensionato che arriva allo sportello postale o di una banca e per risposta gli dicono di andare a casa a scaricare una app per prenotare un appuntamento in linea, per poi tornare nello stesso posto dove è appena andato. Distorsioni come questa evidenziano che molte applicazioni e software non sono facili da usare (in inglese si direbbe “non user friendly) e creano disagio, frustrazione, costi sociali ed esclusione generazionale.  La pandemia ha accelerato la frenesia di digitalizzare quasi tutto, ha favorito uno storico e rapido cambio di rotta alle politiche pubbliche per rompere con il passato. Le banche sono state la punta di lancia della digitalizzazione dei servizi; hanno investito molto e informatizzato quasi tutti i processi. Ricordiamoci pero’ che la tecnologia è uno strumento, non un fine.  Le societa’ di consulenza e di software sono occupatissime, si arricchiscono a digitalizzare imprese pubbliche e private perche’ questa è LA soluzione per ottenere maggiore produttivita’ e migliorare l’efficienza. I giovani avveduti dovrebbero studiare programmazione, calcolo e statistica per poter lavorare con l’intelligenza artificiale, se vogliono salire sul treno del successo. Ma non possiamo dimenticare quella fascia vulnerabile della societa’ che è rimasta indietro, sia per motivi economici, sia per non avere la capacita’ di imparare ad usare la tecnologia.  La definizione di divario digitale (digital divide in inglese) è la barriera alla possibilità di accedere a internet. L’accelerazione ai servizi digitali ha messo in difficolta’ chi non ha dimestichezza con la rete, principalmente molte persone anziane che devono chiedere aiuto ai figli, ai patronati o pagare per farsi aiutare ad usare le app. Queste persone aspettano giorni per eseguire operazioni semplici che avrebbero potuto risolvere subito, almeno sino a quando hanno funzionato gli sportelli. Tra chi è rimasto indietro ci sono persone piu’ giovani ma meno reattive al cambiamento o incapaci di imparare il linguaggio digitale necessario a modificare i comportamenti quotidiani. La tecnologia non serve a chi non ha imparato a usarla, vuoi per pigrizia, per obiettiva incapacita’ oppure semplicemente perche’ non ha i soldi per comprarsi uno smartphone. Questo fenomeno rappresenta l’altra faccia del digital divide. La soluzione include convincere le istituzioni a spendere qualche soldo in uffici di assistenza al cliente (diversi dai call center) per facilitare e istruire chi non è riuscito ad adeguarsi in fretta alla chiusura degli sportelli.  Pertanto, equita’ digitale è anche offrire alternative concrete ed eque a chi non ha accesso a internet e ridurre il disagio delle persone piu’ vulnerabili alle quali la tecnologia ha reso la vita piu’ difficile invece di semplificarla. La soluzione alle urgenze create dalla crisi sanitaria non è la scusa per aver creato una nuova burocrazia digitale, complessa e densa di errori di pianificazione. Aver accelerato la transizione dal sistema tradizionale al digitale senza gradualita’ e a tutti i costi ha evidenziato difetti nei sistemi per la scarsa preparazione dovuta alla fretta di passare dal vecchio modello al nuovo sistema di piattaforme digitali. Peccato che i piu’deboli siano rimasti esclusi.

 

 

Investment banker e consulente d’impresa. Ha studiato economia e commercio all’Università di Genova, finanza alla Stern School of Business della NYU e management alla SDA Bocconi di Milano. Ha lavorato per 20 anni con l’IFC Banca Mondiale, nel campo della origination e negoziazione di investimenti in diversi settori. Esperienze lavorative rivestendo ruoli dirigenziali in Ansaldo-Finmeccanica, Elsag-Bailey, IRI (nella sede di Washington), Banca Mondiale di Washington e SACE. Ha ricoperto incarichi in vari consigli di amministrazione di banche, fondi e imprese industriali di diversi paesi. Nel 2019 ha fondato la società di consulenza strategica AlbisettiConsulting per le PMI e per acquisizioni e ristrutturazioni. Dal 2010 collabora come mentore e membro di comitato per l’acceleratore Endeavour in America Latina e in Italia. Ha scritto tre libri di finanza e strategia: Finanza Strutturata, 2000 con Rizzoli CDS, Finanza Empresarial nel 2018 in Colombia con Javeriana e la seconda edizione di Finanza Empresarial nel 2021 in Messico con Folia UAG. Già professore a contratto in programmi  MBA in Italia, Moldova, Serbia, Messico e Colombia.