Giugno 2021

Imposta di successione: “il rigore” desiderato

Alla luce dell’interesse suscitato dall’ultimo Nuvole e Mercati (“Niente tasse siamo Italiani”), proverò a dare un contributo sulla famigerata imposta di successione, così invisa da molti e denominata dai suoi detrattori “tassa sulla morte” (ogni gesto scaramantico nella lettura del presente articolo è accettato e anzi incoraggiato).

C’è probabilmente una diatriba a monte da risolvere, tra chi ritiene ingiusta l’applicazione di imposte su un patrimonio che, in vita, era stato già tassato durante la sua formazione e chi invece vorrebbe l’imposizione di aliquote ben più alte e/o abbassare le attuali franchigie per i beneficiari, per favorire così una ridistribuzione della ricchezza tra le classi sociali.

Ognuna delle due fazioni ha le sue legittime ragioni, ma forse partire da una fotografia può aiutare: in Italia l’imposta di successione varia da un 4% a un 8% (a seconda del grado di parentela con il de cuius, il defunto per intenderci), fatta salva una franchigia di 1 milione di euro per ciascuno dei parenti più stretti (coniuge e discendenti), che si abbassa a 100.000 € per i fratelli e le sorelle o non è neppure prevista per gli altri beneficiari. Si paga anche (su ogni singolo immobile ereditato) le imposte ipotecaria(2%) e catastale (1%), che non godono di alcuna franchigia. Per la quantificazione dell’attivo ereditario c’è poi un 10% in più (presuntivamente rappresentato da beni mobili quali gioielli e opere d’arte et similia) da considerare.

Tanto? Poco? La vivacità del dibattito in essere dipende proprio dalla grossa differenza ad oggi esistente nel confronto con gli altri Paesi, dove, per intenderci, i livelli di franchigie sono molto più bassi e le imposte molto più alte. Qualche numero di massima sul range di imposte minime-massime (anche se sono previste numerose deroghe), altrove: Francia (min 5%-max 45%), Germania (min 7%-max 30%), Belgio (min 8%- max 60%), Regno Unito (40% aliquota fissa), mentre in Spagna dipende molto dalle normative regionali.

Ma c’è chi fa meglio dell’Italia: il Portogallo, dove i coniugi, i discendenti e gli ascendenti sono totalmente esenti da imposta.

Insomma, nell’attesa di vedere come finiranno gli europei di calcio, “negli europei delle tasse di successione” siamo sicuramente tra i semifinalisti, se non già in finale.

Ma nel conteggio di questo “torneo delle successioni” non ho considerato i Paesi minori, che al pari delle loro nazionali di calcio, offrono sempre qualche sorpresa.

Mi auguro per lo meno che il “rigore” che l’Europa tanto ci impone sia in questo caso più verso una porta che verso un’imposta…

 

Nuvole e Mercati tornerà il 13 settembre. Grazie per i tanti suggerimenti, le numerose idee e i preziosi consigli ricevuti da molti lettori in questi mesi. Buone ferie.

Agostino Siccardi-Africa: un continente da capire

Troppo spesso quando si parla di continente Africano, la mente identifica questa terra con le immagini legate all’immigrazione; l’Africa non è solo questo, è una terra complessa, abitata da 1,5 miliardi di persone divise in 54 nazioni. Solo una profonda conoscenza degli usi e delle tradizioni di questi popoli possono aiutare a comprendere l’Africa.

Certamente il passato coloniale, dove le grandi nazioni europee per diversi anni hanno esteso il loro dominio, ha fortemente inciso sul futuro di questo giovane continente, dove più del 50% della popolazione ha meno di 30 anni; finito il dominio coloniale, governi corrotti ne hanno frenato lo sviluppo, con politiche basate su interessi personali, generando spesso anche tensioni tali da sfociare in sanguinose guerre civili; oggi è la Cina il maggiore partner strategico del continente africano, che ne ha alimentato lo sviluppo per alcune nazioni con incrementi del PIL spesso vicino al 10% annuo; una politica spesso ambigua, ha portato a definire il gigante asiatico, come il “nuovo colonizzatore”, colui che ha esteso la propria influenza a colpi di dollari prestati e non di colpi di fucile.

Oggi l’Africa può costituire anche una grossa opportunità per le nostre imprese, anche se la concorrenza è molto forte; non di certo da soli abbiamo la forza di competere con la Cina, ma basandoci sulle nostre innate capacità e sulla qualità dei nostri prodotti potremmo avere delle soddisfazioni. Occorre però, fermo restando che dietro di noi non ci sarà mai la forza economica della Cina o l’appoggio politico della Turchia, che gli imprenditori italiani ritrovino lo spirito pionieristico dei primi coloni che si sono recati in Africa a fine 800 e la visione connessa al rischio che li ha animati nell’immediato dopoguerra e che ha portato l’Italia ad essere una potenza industriale dopo 20 anni.

Dobbiamo ricordare, per quanto ancora oggi sia difficile parlarne per il periodo storico nel quale ciò avvenne, che anche l’Italia ha avuto il suo passato coloniale, risoltosi con la nostra sconfitta nella seconda guerra mondiale. Etiopia, Eritrea, Somalia, facenti parte del Corno d’Africa, e Libia sono state il nostro passato coloniale. Stiamo parlando oggi di un mercato di circa 150 milioni di persone; esiste una fattore che le accomuna tutte: il desiderio di avere relazioni con il nostro Paese.

Quali opportunità si possono allora cogliere? Certamente il comparto delle costruzioni, delle infrastrutture e dell’energia sono i settori con i maggiori investimenti da parte dei Governi, che per sostenerli hanno fortemente aumentato il proprio debito estero. Ma la grande opportunità è offerta dal mercato interno e dal nuovo trattato da poco sottoscritto di libera circolazioni delle merci: produrre un bene in Africa, significa (i singoli paesi stanno recependo la norma e si stanno scrivendo i regolamenti attuativi) poterlo esportare liberamente senza dazi all’interno di un mercato di 1,5 miliardi di persone; inoltre con un costo del lavoro molto basso (l’Etiopia è attualmente il paese con il più basso costo del lavoro al mondo), la produzione di beni in questi paesi diventa molto conveniente, se pur la specializzazione della manodopera è ancora molto bassa. Ma nel Corno d’Africa potrà essere l’agricoltura e i prodotti derivati il vero futuro; oggi l’agricoltura è ancora gestita in modo primordiale: non è raro vedere campi di grandi dimensioni lavorati con il bue e l’aratro; pertanto la profittabilità e l’efficienza dell’agricoltura è spesso a livelli di puro sostentamento; l’introduzione di una media meccanizzazione, lo sviluppo di una industria collegata ai prodotti agricoli, l’implementazione della catena del freddo possono costituire una grande opportunità per il nostro paese che vanta una grande tradizione nel settore, anche a livello di piccole medie imprese, essendo ormai quelle di maggiori dimensioni in mano a multinazionali straniere, con eccezione di Barilla e Ferrero.

In Libia l’approccio può essere più commerciale; l’Italia con l’Eni ha una forte presenza nel paese, presenza che non è mai venuta meno neanche in questi anni di guerra civile. Dobbiamo solo recuperare lo spazio lasciato libero e oggi in parte occupato dalle imprese turche.

Esiste comunque un fattor comune per raggiungere il successo su questi mercati: l’Imprenditore Italiano deve ripartire con la sua valigia ricca di proposte e prodotti, sfruttare le occasioni e cogliere al volo le opportunità.

 

 

 

Si laurea in Ingegneria Meccanica presso l’Università di Genova nel 1986

Per 30 anni svolge la propria attività di imprenditore nel settore delle costruzioni in acciaio.

Nel 2010 iniziano i suoi “viaggi di lavoro” in Africa, culminati con prima dell’esplosione della pandemia con una presenza pressoché mensile in loco.

La passione per il Continente lo porta a sviluppare la attuale propria attività di Consulente Tecnico-Commerciale per le Aziende Italiane interessate ad approcciare il corno d’Africa e solo recentemente la Libia, e di supporto alle Imprese Africane che aspirano a proporsi sui rispettivi mercati interni come pure sui mercati internazionali.

Guido Wannenes-Gli effetti della rivoluzione digitale sul mercato dell’arte

Si è chiuso un anno anomalo per il mercato dell’arte, l’emergenza epidemiologica ha costretto i clienti a prendere confidenza con una serie di strumenti tecnologici già disponibili da tempo, ma ancora solo limitatamente utilizzati. Abbiamo così visto un grosso incremento delle aggiudicazioni online, sia per le aste web-only, (gestite direttamente da software), sia per le aste tradizionali, in cui tuttavia la partecipazione si è maggiormente concentrata sul web, anche perché molte aste si sono tenute a porte chiuse, senza la presenza del pubblico in sala. 

Qualcuno ha parlato espressamente di mercato in crisi, ma non credo che il calo del settore sia un freno soltanto attribuibile al COVID.

Da sempre ci sono anni migliori e anni peggiori e ciò dipende quasi esclusivamente dalla proposta, che non è migliore o peggiore a seconda dell’abilità dei singoli operatori, ma perché ci sono anni in cui si rendono disponibili sul mercato collezioni o beni importanti e anni in cui questo non accade. Si tratta di una caratteristica imprescindibile del mercato, fisiologica. Una parte rilevante della contrazione è attribuibile al fatto che ci sono state dunque opere meno interessanti, in termini di caratteristiche proprie, di coerenza con le tendenze attuali e con le richieste del mercato; o perché, pur essendo in linea con il gusto del momento, l’opera è stata proposta ad un prezzo non interessante, magari troppo elevato.

Se c’è tuttavia un anno in cui si potrà analizzare meglio quanto il COVID abbia inciso sulla voglia di vendere di certi collezionisti è il 2021, non il 2020 in cui la tempesta era in corso.

La pandemia ha spinto alcuni potenziali venditori ad attendere tempi migliori, ma la contrazione non è figlia di un mercato che non vuole comprare, quanto invece una carenza di proposte tanto interessanti da invogliare il mercato a comprare.

L’effetto COVID ha tuttavia favorito lo sviluppo di nuovi segmenti di collezionisti e l’acquisto di beni di medio valore: molte risorse economiche non sono state disperse in altri segmenti (viaggi, vita quotidiana, varie attività che non si sono potute svolgere) e non potendo più “guardare fuori”, molte persone hanno iniziato a “guardare dentro”, nella propria casa, decidendo di fare investimenti, miglioramenti, abbellimenti estetici, tra cui anche  le opere d’arte o in generale i beni di lusso. Non va neppure sottovalutata la crescita della domanda estera che grazie allo sviluppo del digitale è stata più facilmente raggiungibile con una offerta più mirata su gusti e tendenze culturali.  I collezionisti sono ancora felici di comprare, in un contesto di mercato comunque più selettivo e meno onnivoro rispetto al passato.

Di sicuro però il mercato dell’arte avrà bisogno di tornare ad una dimensione anche fisica della visione delle opere e del rapporto tra cliente, collezionista, organizzazione e opera. Il “passaggio” tecnologico avvenuto nel 2020 non verrà meno, una volta superata l’emergenza epidemiologica. In un anno è successo quello che sarebbe successo in 4-6 anni e questo modo virtuale di partecipare al mercato sarà sempre più utilizzato. Forse il 30% circa della clientela tornerà alle modalità e ai canoni più tradizionali, ma il restante 70% continuerà ad utilizzare in maniera piena le piattaforme web, con eccezione delle “aste evento”. La rivoluzione digitale in atto sta comportando innegabili vantaggi anche per noi operatori, quali quello dell’immediatezza e quello della velocità nella predisposizione di un catalogo. La stampa ha infatti dei tempi tecnici che per quanto possano essere compressi, non sono paragonabili a quelli della pubblicazione di un catalogo su un sito, in un’applicazione o su una piattaforma tecnologica.

 È comunque evidente che, soprattutto per la visione delle opere, e questo vale soprattutto per le fiere ma anche per le esposizioni delle aste, la presenza dal vivo rimanga più emozionale, più rassicurante, o anche solo più divertente, perché comunque è collegata anche al viaggiare, al vedere l’opera, al gustarsela.

 

Discendente di una celebre famiglia di antiquari di origine fiamminga del XVII secolo, ha trasformato la azienda di famiglia in una casa d’aste internazionale.

Amministratore delegato della Wannenes Art Auctions con sedi a Genova,Roma, Milano e Montecarlo.

Dirige anche il dipartimento “Uniche Proprietà” dedicato alla gestione e vendita di collezioni private.

Niente tasse, siamo Italiani!

Niente tasse, siamo Italiani!

Ha destato clamore la proposta di un noto politico di qualche giorno fa, sulla revisione delle imposte di successione, per creare una dote a favore dei giovani. Rimandando ad altra occasione un approfondimento in materia, è stata quasi unanime la reazione, con una alzata di scudi (quasi) bi-partisan all’urlo: “basta tasse”!

E in effetti il carico fiscale rimane uno dei problemi più gravi del nostro sistema tributario, che scoraggia la partecipazione al lavoro, soprattutto femminile e giovanile. Certo, il fisco non è una scienza esatta e probabilmente una riforma sostanziale su tutto l’impianto è preferibile ad interventi su specifiche imposte, che danno più la sensazione di boutade politiche volte a creare solo mero consenso nel breve termine.

Ma “l’elefante va fatto a fette”, per cui da dove partire? Da una fotografia. L’Italia ha la tassazione più alta sul lavoro in Europa, (prevalentemente Irpef) preceduta solo da Slovacchia e Grecia. Una assurdità. Ma anche la tassazione sul capitale (imposte su utili societari e capital gain), ci vede (ahimè) in primissime posizioni (settimi). Sulle imposte sui consumi, (prevalentemente IVA) siamo invece piuttosto fortunati.

Quindi il famigerato “taglio del cuneo fiscale” (sul reddito da lavoro) dovrà determinare fette ancora più consistenti (per restare in metafora). Sono troppi coloro che preferiscono accedere a generose quanto discutibili politiche di welfare, rinunciando alla occupazione e innescando così un circolo vizioso: meno gente che lavora, più tasse su chi produce.

Di proposte di revisione delle imposte ne sono state già fatte tante, e altrettante ne verranno fatte ancora, alcune chiedono di rivedere anche il sistema a scaglioni, che con la introduzione dei regimi sostitutivi ha prodotto delle distorsioni devastanti sulla progressività, con un carico fiscale che risulta particolarmente urticante sui redditi medio e medio bassi (la classe media per intenderci, sempre più povera).

Il premier ha ricordato che «va studiata una revisione profonda dell’Irpef con il duplice obiettivo di semplificare e razionalizzare la struttura del prelievo, riducendo gradualmente il carico fiscale e preservando la progressività».

Winston Churchill diceva: “una nazione che tassa sé stessa per cercare di favorire il benessere è come un uomo in piedi in un secchio che tenta di sollevarsi per il manico”.

La riforma del fisco potrebbe davvero dare quel minimo di respiro necessario ad un Paese che si deve affrettare a correre, crescere e prosperare. Ma prima sarà più opportuno uscire coi piedi dal secchio…