Novembre 2023

Homeland economy e il costo della de-globalizzazione

L’anno scorso, all’alba dello scoppio del conflitto ucraino avevo scritto un commento su come la pandemia prima e l’instabilità geopolitica poi, stessero probabilmente decretando una interruzione dell’era della globalizzazione.

Il mondo ideale che avevamo apprezzato per anni, basato su produzioni just in time che limitavano le scorte industriali, sul progresso tecnologico che garantiva prezzi sempre efficienti e sull’equilibrio geopolitico che favoriva lo scambio internazionale, appariva seriamente compromesso.

A distanza di un anno e mezzo circa, anche il Fondo Monetario ha approfondito le possibili conseguenze di questo scenario nel suo ultimo World Economic Outlook (vabbè, se avessero letto il mio commento, mi sarei accontentato per lo meno di una citazione…Sic transit gloria mundi).

A quale conclusione il report allora perviene? Una che semplifico: chi possiede le materie prime vince. Le materie prime sono infatti diventate l’anello più fragile nella catena del valore. Le tensioni e le divisioni a livello internazionale che sono esplose negli ultimi anni hanno determinato “[…]restrizioni al commercio di materie prime nel solo 2022 sei volte superiori rispetto alla media 2016-2019”. Il caos logistico da post Covid aveva già frammentato i mercati di approvvigionamento, la guerra ucraina ha invece ulteriormente ampliato le distanze tra occidente e oriente, con un corollario di sanzioni applicate senza precedenti.

Anche la contesa tra Usa e Cina era già scoppiata da tempo, con Trump e il suo celebre “America first; e la “povera” Unione Europea s’era trovata a seguire l’alleato USA, prendendo le distanze da Pechino, con un crescendo di azioni anti-dumping su auto elettriche, turbine eoliche e produzione d’acciaio.

Questo inizio di de-globalizzazione potrebbe esplodere in futuro, allargandosi ad altri settori, non tanto al petrolio e al gas (come si è solito considerare), quanto molto di più su alcuni metalli specifici, con il rischio di rincari fino a venti volte superiori ai prezzi attuali.

Magnesio, alluminio, platino, litio, cobalto: nello scenario più stressato dal FMI, con la comparsa di due blocchi contrapposti (Usa-Ue e Russia-Cina), sarà soprattutto su questi elementi e su altre materie prime agricole che si potrebbe scatenerare un nuovo contesto da guerra fredda.

Certo, questo scenario di “fanta-economia” va “preso con le pinze”, anche perché alcuni Paesi come il Brasile ad esempio (primo esportatore mondiale di soia), non sarebbe facilmente collocabile in nessuno dei due schieramenti: fa parte dei paesi Brics, ma ha una bilancia commerciale sbilanciata sul fronte USA-UE. E come il Brasile, sono molti altri i Paesi esportatori di materie prime a cui non gioverebbe affatto una così netta regionalizzazione dei commerci internazionali.

Eppure, sta sempre più crescendo una dottrina economica sostenitrice del sovranismo economico, che rifiuta la globalizzazione e il libero scambio e che spinge invece al protezionismo, al ricorso ai sussidi statali e al forte accentramento dello Stato. L’idea di base di questa “homeland economy” è di de-globalizzare il più possibile, rendendo così “resiliente” la propria economia da qualsiasi shock esogeno, che sia di matrice geopolitica, sanitaria, tecnologica o ambientale.

I sostenitori della Homeland economy sostengono dunque il reshoring, in tutte le sue declinazioni (backshoring, nearshoring, friendshoring), ovvero quel processo che vuole far rientrare le aziende che avevano portato la produzione fuori dai confini nazionali, nello stato di origine o in stati vicini per confini, o similari per orientamenti geopolitici ed economici.

Rimane però un problema di fondo: la dinamica dei costi globali tende ad esplodere nel momento in cui gli scambi internazionali seguono logiche di de-globalizzazione.

Non solo, soprattutto per lo schieramento occidentale, la mancata disponibilità di molte materie prime, una manodopera ancora molto costosa e il costo di riallocazione dei sistemi produttivi comportano sacrifici economici incalcolabili e inaccettabili in un contesto già gravato dall’esplosione del debito pubblico.

Il costo della homeland economy appare così inconciliabile e difficilmente giustificabile in termini economici: la posizione (soprattutto) europea appare molto simile a quel “vaso di coccio tra vasi di ferro” di manzoniana memoria.

Usa e Cina appaiono troppo distanti dal continente europeo, con i primi a far man bassa dei sussidi esteri globali e i secondi avvantaggiati dalla ricchezza di materie prime disponibili internamente o nel continente africano, dove sono stati fatti massicci investimenti.

La storia si ripete sempre, ma il prezzo sale ogni volta (William Durant).  Come dopo un periodo di progresso scientifico a livello internazionale, tra le due guerre mondiali si scatenò una fase di diffidenza internazionale e politiche economiche autarchiche come reazione, oggi, nel 2023, un nuovo contesto bellico si sta scatenando economicamente. Con una differenza sostanziale però: oggi il mondo è molto più interconnesso di allora e sarà molto più arduo emanciparsi di colpo dai Paesi utilizzati per una massiva produzione fino a ieri, e l’anello delle materie prime va maneggiato con cura, perché se si dovesse spezzare, l’intera catena internazionale dei rifornimenti ne uscirebbe sconvolta.

E al continente europeo, questo scenario potrebbe fare davvero molto male.

Amedeo Lepore- Guerra e pace

La guerra nel Vicino Oriente, perseguita scientemente con l’attacco terroristico di Hamas, interroga l’Occidente sullo stato del mondo attuale, in bilico su un precipizio che sta mettendo in secondo piano le grandi opportunità di quest’epoca. Esistono potenzialità senza eguali per uno straordinario progresso scientifico, frontiere inedite dell’innovazione digitale e un nuovo umanesimo, non una pura e semplice difesa del nostro genere e del suo ecosistema, ma in diretta relazione con uno sviluppo culturale, tecnologico e produttivo di tipo moderno. Nonostante tutto ciò, si fa sempre più intensa la percezione di un dolore del mondo (“weltschmerz” è il termine esatto), che nasce dal confronto tra una vita ideale o possibile e l’inesorabile realtà dei fatti. Di fronte a una guerra implacabile e uno sterminio di innocenti, una spiegazione troppo elementare non aiuta a comprendere l’intreccio ingarbugliato delle questioni che si addensano come grumi sul futuro prossimo delle popolazioni di ormai estese aree geografiche. Nell’innesco della conflagrazione è innegabile la responsabilità di un gruppo efferato, sostenuto da potenze tenebrose, con mire di distruzione di Israele e di destabilizzazione globale. È l’altra faccia di un assetto del mondo in radicale trasformazione e della lotta per l’egemonia mondiale, che rischia, però, di essere combattuta da alcuni contendenti senza esclusione di armi. Oggi, si invoca giustamente, anche all’interno di un duro conflitto, senso dell’umanità e della misura, con azioni volte esclusivamente a debellare Hamas, garantendo ogni scampo e assistenza agli abitanti inermi, bloccando i bombardamenti di concentrazioni civili e scongiurando qualsiasi ampliamento del fronte bellico. Al tempo stesso, va posto un argine immediato alla diffusione di gravi manifestazioni di antisemitismo, che richiamano un lugubre passato. Il consesso delle nazioni democratiche, gli Stati Uniti e l’Europa devono compiere ogni sforzo per favorire il rispristino di senno, ragionevolezza e pace in un contesto tanto tormentato e complesso. La componente economica di questi eventi può contribuire a evidenziare l’insensatezza delle ostilità e a isolare i guerrafondai, guardando all’insieme dei problemi che comporta uno scontro di questo rilievo. Secondo il più recente rapporto della Banca Mondiale sui mercati delle materie prime, un ulteriore inasprimento del conflitto porterebbe a un duplice shock, dovuto all’impatto bellico delle vicende di Ucraina e Medio Oriente. Un’interruzione delle forniture di petrolio paragonabile all’embargo dei produttori arabi del 1973 provocherebbe un incremento dell’inflazione a catena, a cominciare da energia (con il greggio a oltre 150 dollari al barile) e alimentari. Per ora, tuttavia, la guerra ha influenzato più i prezzi del gas che quelli del petrolio, mentre, rispetto a mezzo secolo fa, le fonti di approvvigionamento si sono diversificate e i mercati dell’oro nero sono diventati meno importanti e vulnerabili. In un articolo su Bloomberg, a firma di Ziad Daoud, Galit Altstein e Bhargavi Sakthivel, si è confermato che lo scontro tra Israele e Hamas può sconvolgere l’economia internazionale, conducendola a una recessione, con una perdita produttiva pari a circa un trilione di dollari e il mantenimento di un’inflazione generale elevata (al 6,7% nel 2024) se venissero coinvolti altri Paesi. Il Financial Times ha rilevato che i timori di propagazione del conflitto gettano un’ombra sull’economia globale, minando la fiducia degli operatori e suscitando una nuova impennata dei prezzi, in una condizione preesistente, descritta dal Fondo Monetario Internazionale, di peggioramento delle tendenze di sviluppo a lungo termine e di aggravamento del debito pubblico. A sua volta, Gian Maria Milesi-Ferretti su Brookings ha affermato che le potenziali ricadute economiche di un allargamento dei combattimenti sarebbero rovinose, in particolare per le popolazioni della regione interessata. Egli ha avvertito che sbalzi nell’offerta di petrolio avrebbero conseguenze deleterie per l’attività economica nei Paesi importatori di energia e, più in generale, per l’economia mondiale. Lo studioso dell’Hutchins Center on Fiscal and Monetary Policy ha ricordato, altresì, che le tensioni geopolitiche incombono sulla propensione al rischio globale, accrescendo i divari finanziari ed esercitando nuove pressioni al rialzo sul dollaro: così, si possono determinare notevoli ripercussioni sulle economie più esposte ai fattori esterni. A tale proposito, Stephen Roach dell’Università di Yale – mentre alcuni ritengono che i tragici avvenimenti bellici avranno effetti devastanti, ma limitati alle economie regionali – ha sottolineato come, in questo quadro, il rischio di recessione si amplifichi: “La storia insegna che in ogni caso quel che accade in Medio Oriente, non solo per gli aspetti energetici, risuona pesantemente in tutto il mondo”. Infine, in una nota congiunturale di Competere.EU, si sono indicate alcune previsioni di larga massima per l’Italia, che potrebbe patire contraccolpi diretti e indiretti della situazione odierna: da un lato, un impatto significativo sul commercio tra il nostro Paese e Israele (del valore di 4,8 miliardi di euro, con un saldo positivo di 2,3 miliardi); dall’altro, l’aumento dei prezzi delle risorse energetiche e il rallentamento della ripresa, per la riduzione di scambi e investimenti. Insomma, oltre ai terribili disastri e alle immani perdite umane della guerra, i danni economici e il pregiudizio di interessi diffusi dovrebbero suggerire che bisogna difendersi dalle aggressioni, specialmente se un popolo le vive ripetutamente nella storia, e che al contempo, parafrasando Norman Angell, il modo migliore per vincere i conflitti è quello di ricondurli il più presto possibile alla rotta dell’aggressore e alla ragione dell’uomo.

 

 

Professore Ordinario di Storia Economica presso il Dipartimento di Economia dell’Università della Campania Luigi Vanvitelli. È docente presso il Dipartimento di Impresa e Management della LUISS Guido Carli di Roma. Ha svolto insegnamenti in diverse Università italiane e straniere. È componente del Consiglio di Amministrazione della SVIMEZ e del Consiglio Direttivo delle Fondazioni Merita-meridione Italia e Astrid.

È membro del Consiglio Direttivo del Cluster italiano della Bioeconomia Circolare “Spring”.

È socio dell’Accademia Pontaniana, nella Classe di Scienze Morali.

Fa parte di Comitati scientifici e di Redazione di varie riviste nazionali e internazionali.

Ha ricevuto riconoscimenti internazionali per la sua attività di studio e di ricerca.

Ha pubblicato volumi e saggi, in Italia e all’estero.

I suoi attuali ambiti di ricerca riguardano la storia dell’economia euro-atlantica, il processo di globalizzazione nei suoi vari aspetti, le dinamiche dell’innovazione e delle tecnologie, l’impatto sull’economia della pandemia di Covid-19, le dinamiche dell’economia circolare, l’evoluzione dell’impresa contemporanea, la storia del dualismo economico italiano.

Ha svolto anche ruoli istituzionali legati alle sue competenze economiche, da ultimo come Assessore alle attività produttive della Regione Campania

L’impatto economico della follia di Hamas

Il 7 ottobre sarà un nuovo triste “giorno della memoria” per il mondo intero.

Cercando di accantonare un attimo l’aspetto umano, provo a delineare gli impatti economici di questa nuova guerra in atto. Si è immediatamente parlato di crisi energetica e shock petrolifero, anche attingendo alla vasta letteratura riveniente dalle storiche guerre in cui fu coinvolto Israele: su tutte quella del Kippur di ottobre 1973.

Uno degli effetti collaterali legata a quella guerra fu una impennata del prezzo del petrolio, con una punta del +300% tra il 1973 e il 1974 e il rimando dei nostri genitori che ci raccontavano delle domeniche a piedi in una Italia deserta.

Anche con l’avvento al potere di Khomeyni nel 1979 (rivoluzione iraniana) il petrolio ebbe delle forti impennate, ma relativamente minori grazie alla pronta riorganizzazione delle politiche energetiche tra occidente e produttori mediorientali.

Abbiamo sperimentato anche una recentissima crisi energetica nel 2022, con lo scoppio del conflitto ucraino e le ripercussioni nefaste sui prezzi delle materie prime che hanno esacerbato il livello di inflazione e dunque innalzato il livello dei tassi, soprattutto in Europa.

Questo è la sintesi di fondo. Fermandoci all’analisi dell’area mediorientale ci sono però delle sostanziali differenze rispetto ai conflitti del passato. Premessa importante (e collegata al momento in cui scrivo), le implicazioni economiche dipenderanno dall’estensione del conflitto. Se la portata della guerra rimarrà regionale allora sarà improbabile che avremo impatti duraturi sui prezzi del petrolio e del gas, se invece altri paesi arabi si unissero al conflitto (su tutti l’Iran), allora gli effetti sarebbero su scala globale.

L’Iran è tra i maggiori produttori al mondo di petrolio, ma soprattutto controlla lo Stretto di Hormuz, da cui passano il 20% delle forniture internazionali giornaliere. Un suo coinvolgimento nel conflitto potrebbe far crescere il prezzo del petrolio, ma questo determinerebbe anche una recessione globale, che a sua volta ne soffocherebbe rapidamente la domanda. Non solo: rispetto alle crisi petrolifere passate, gli Stati Uniti sono diventati esportatori netti di petrolio e non importatori. Avere la maggior potenza industriale meno coinvolta dagli impatti economici, limita l’estensione del danno.

C’è un’altra ragione puramente economica che spingerebbe ad una efficace soluzione diplomatica. Ci sono due paesi arabi molto coinvolti dalla situazione, ovvero Arabia Saudita e Qatar. Della posizione ambigua del Qatar se ne parla un po’ ovunque, tuttavia, sono soprattutto i sauditi (almeno per ora) a trovarsi in un pericolosissimo impasse: da una parte potrebbero soppiantare la produzione di petrolio iraniana se questi dovessero attuare un embargo, dall’altra parte un prezzo del petrolio in clamorosa ascesa (ovvero ben sopra il limite psicologico dei 100 $ al barile) determinerebbe un effetto boomerang, poiché molte economie industrializzate cercherebbero fonti alternative al petrolio, determinando un dissesto per le finanze statali saudite.

Non solo. Ci sono almeno altri quattro elementi che alimentano il livello di incertezza in questo conflitto. Il primo si chiama Russia, che si guarda bene di inimicarsi il mondo arabo, ma contestualmente ospita una delle comunità ebraiche più numerose in patria. La Russia ha evidenti interessi che il conflitto israeliano si protragga il più a lungo possibile per costringere gli USA in dispendiose campagne belliche, ma soprattutto, per esporla al rischio di rivalsa del mondo arabo.

Il secondo siamo noi europei, ormai molto frastornati economicamente e politicamente da questi 2 conflitti negli ultimi 2 anni che non hanno fatto altro che indebolirci internamente e a livello internazionale. Per ora ci siamo limitati a sospendere gli avviati progetti di finanziamento per l’area di Gaza. La nostra debolezza è tuttavia palese.

C’è un terzo elemento prettamente economico che in parte giustifica il nostro tergiversare politico europeo: nel corso degli anni “l’oro nero” ha perso progressivamente peso nel mix energetico; oggi è la quotazione del gas che può avere forti ripercussioni economiche e quindi sociali. Nei primi giorni del conflitto, la chiusura delle piattaforme israeliane di Tamar e Ashkelon aveva determinato un incremento del +30% del prezzo del gas sul TTF (il mercato di riferimento per il gas in Europa). Probabilmente la situazione in atto consiglia la cautela, almeno e soprattutto per noi italiani, che per non farci mancare nulla, nel 2022 abbiamo prontamente sostituito il gas russo con quello algerino. Sì, proprio l’Algeria che ha prontamente condannato la reazione bellica di Israele e ha espresso “piena solidarietà al popolo palestinese”.

Ho scritto però che sono quattro gli elementi da considerare. L’ultimo non ha radici economiche, ma solo ideologiche ed è il più pericoloso. Abbiamo ancora negli occhi quelle tremende immagini del popolo israeliano trucidato e del popolo palestinese bombardato. Questa spettacolarizzazione della morte è probabilmente la strategia adottata da Hamas per spostare il conflitto su ragioni ideologiche e attivare cellule dormienti di fanatismo religioso. Siamo reduci da un decennio di terrorismo e sappiamo bene il prezzo pagato in termini di vite umane e libertà individuali. Stiamo probabilmente rientrando in una fase oscura della nostra esistenza, a prescindere dai vinti e dai vincitori. Vincere una guerra allora non basterà più. Sarà più importante organizzare e subito la pace.

Marco Q. Silvi-Fine tutela nei mercati dell’energia: cosa cambia?

Da diversi anni, almeno dal 2017, parlando di energia (elettrica e gas naturale) sentiamo ripetere che è prossima la fine delle tutele (sic!). Ora tale momento è ormai davvero molto vicino: nel settore del gas naturale la tutela finirà il 10 gennaio 2024, mentre nel settore elettrico il successivo 1° aprile.

Ma cosa vuol dire ‘fine tutela’? Cosa tutela la tutela? Perché date diverse? E perché riceviamo comunicazioni e messaggi differenti per i due settori? Cercherò di rispondere con poche parole, anche se inevitabilmente imprecise.

“Tutela” o “mercato tutelato” sono spesso contrapposte a “mercato libero”. “Mercato libero”, in realtà, è il mercato semplicemente, in cui un consumatore di energia può scegliere il fornitore che preferisce negoziando il prezzo (se ha adeguata capacità contrattuale), oppure (come normalmente avviene per i noi piccoli consumatori, c.d. domestici) aderendo all’offerta commerciale che ritiene migliore (un po’ come avviene nel settore delle telecomunicazioni). Il mercato è libero da tempo: per i clienti con maggiori consumi (e quindi con maggiore capacità e forza contrattuale), dal 1999 (elettricità) e dal 2000 (gas naturale), mentre per i consumatori contrattualmente più deboli (tra cui anche i domestici) dal 2003, per il gas, e dal 2007 per l’elettrico.

Tuttavia, è stato subito chiaro che il piccolo consumatore di energia e di gas non era così smart come è avvenuto per le telecomunicazioni. I mercati dell’energia, del resto, sono un mondo complesso, di cui il consumatore, soprattutto se piccolo, aveva (almeno all’inizio degli anni 2000) una percezione molto lontana, quasi ovattata. Si è trattato quindi di fornire una tutela in più a questa tipologia, una tutela che ha però assunto forme diverse per i due settori.

Non v’è tempo per chiare le ragioni di tale differenza, che comunque consiste in ciò. Nel settore elettrico la legge individua un soggetto competente (il distributore locale, che opera attraverso una apposita società di vendita – che prende il nome di “esercente la maggior tutela”) il quale è obbligato a fornire elettricità al cliente finale a un prezzo fissato (e aggiornato) dall’autorità amministrativa indipendente preposta a regolare il settore (Arera). Nel settore del gas, invece, tutti i venditori hanno l’obbligo (non di fornire gas a chi lo chieda, ma) di inserire nel loro menù di offerte commerciali rivolte ai consumatori finali, anche quella il cui prezzo è regolato da Arera. Pertanto: chi vuole elettricità al prezzo Arera, si deve presentare all’esercente la maggior tutela che è obbligato a fornirlo; chi invece vuole gas al prezzo Arera deve cercarlo nei vari menù di offerte di qualunque venditore, qualora quest’ultimo, ovviamente, voglia concludere il contratto col cliente.

La tutela, quindi, tutela il piccolo consumatore (ma, nel gas, anche i condomini uso domestico) sotto il profilo del prezzo pagato per la fornitura di energia (in gergo: la tutela di cui si parla è tutela di prezzo – che è cosa diversa calla c.d. tutela della continuità, di cui però qui non mi posso occupare): il prezzo Arera è un prezzo che riflette l’andamento dei costi di approvvigionamento del mercato ed è parametrato a standard propri di un operatore efficiente.

Ma una tale tutela di prezzo, dopo anni di annunci, ora finirà. Ciò significa che al consumatore che fino a oggi ne aveva diritto, resterà solo il libero mercato, in cui dovrà ricercare le offerte che ritiene migliori – in un contesto comunque regolato (ancorché non nel più prezzo) e sorvegliato da Arera.

Tuttavia, la tutela non finirà all’improvviso, e non per tutti. Non finirà per i c.d. clienti vulnerabili (ossia per i consumatori con disagio sociale, economico e fisico, ma anche per tutti gli ultrasettantacinquenni): per loro rimarranno in piedi le tutele già previste. Per gli altri consumatori, invece, il legislatore ha deciso di introdurre un percorso di gradualità (attuato da Arera) che dovrebbe accompagnare il consumatore al mondo del libero mercato – soprattutto il consumatore che è sempre rimasto inerte, appoggiato sul cuscino del prezzo Arera.

Le modalità di passaggio sono, anch’esse, differenziate tra i due settori, ed è ora facile capire perché. Nel settore del gas, in cui il cliente in tutela è un cliente che ha concluso un contratto con un operatore del libero mercato, pattuendo però il prezzo Arera, si prevede che alla data di fine tutela, qualora il cliente non abbia accettato altra offerta sul mercato libero, il contratto prosegua ma a nuove condizioni fissate interamente da Arera, a eccezione d’una componente del prezzo (in misura fissa) che è invece liberamente stabilita dal venditore. Tali nuove condizioni contrattuali avranno efficacia annuale, e alla scadenza, potranno essere modificate unilateralmente dal venditore secondo le modalità previste da Arera. La nuova componente di prezzo, unitamente alle altre condizioni di contratto, deve essere comunicata al cliente con anticipo adeguato, unitamente a una offerta sul mercato libero (che deve essere la migliore per quel cliente rispetto a quelle praticate dal venditore). Inoltre, Arera sta attuando un monitoraggio sulle condizioni applicate dagli operatori.

Il settore elettrico, invece, è più complesso, in quanto la fine tutela travolgerà la stessa validità dei contratti oggi in essere con l’esercente la maggior tutela, che non sarà più titolato a fornire consumatori non vulnerabili. Si è deciso pertanto che la gradualità dovrà essere garantita attraverso un nuovo venditore, da selezionare mediante gara, su aree geografiche predefinite, a cui saranno trasferiti i consumatori sino ad allora serviti in maggior tutela ubicati nell’area territoriale di riferimento. Tale nuovo venditore (denominato “esercente il servizio a tutele graduali”) sarà obbligato a fornire tali clienti (che saranno trasferiti in modo automatico e massivo) a condizioni contrattuali regolate da Arera, ma a condizioni economiche proposte dal venditore in sede di gara (si aggiudica la gara, ovviamente il venditore che offre il prezzo migliore). Ovviamente i consumatori che saranno trasferiti alle tutele graduali saranno sempre liberi di recedere dal servizio e concludere una nuova offerta sul mercato libero. L’esercente la tutela graduale assicura quindi solo una continuità della fornitura al consumatore elettrico che non accetta offerte nel mercato libero, ma non più tutela di prezzo.

I due meccanismi di accompagnamento dei consumatori finali, come è facile intuire, costituiscono certamente un’opportunità, per i venditori interessati, di acquisire e fidelizzare nuovi clienti, soprattutto se saranno in grado di stimolarli e renderli attivi sul mercato libero, con nuove offerte commerciali.

I clienti domestici coinvolti, d’altro canto, possono, in certa misura, confidare nel fatto che la transizione dalla tutela alla fine tutela sarà quanto meno sorvegliata dall’autorità di settore, la quale già da tempo ha messo a disposizione del cliente finale un’apposita piattaforma informatica che gli consente di confrontare le varie offerte sul mercato, anche in base alle proprie caratteristiche di consumo (il c.d. Portale Offerte). Altro strumento imprescindibile, sempre garantito da Arera, è il diritto di recesso, che il cliente insoddisfatto può sempre esercitare per cambiare venditore e aderire a nuova offerta: del resto, qualcuno diceva che il cliente migliore è quello infedele.

P.s. Le opinioni qui espresse sono del tutto personali e non impegnano in alcun modo l’ente di appartenenza.

 

Fanese, classe 1975, si è laureato in Giurisprudenza a Pavia (1999), dove ha studiato presso l’Almo Collegio Borromeo, (nella stanza di fianco a quella del Direttore di Nuvole e Mercati…).

Sotto la guida del prof. Amedeo G. Conte ha conseguito il Dottorato di ricerca in Filosofia analitica e teoria generale del diritto presso l’Università “Statale” di Milano (2003), e ha sempre continuato a coltivare gli studi giusfilosofici.

Dal 2001 ha iniziato il suo percorso lavorativo nel servizio legale dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas (ora Autorità di regolazione per energia, reti e ambiente “Arera”), in cui è responsabile dell’Ufficio Affari giuridici e consulenza.