Febbraio 2022

Giovanni Guicciardi- Il Porto di Genova e Trieste per lo sviluppo dei traffici marittimi del Paese

Genova e Trieste rappresentano dai tempi della unità del Paese i capisaldi del commercio portuale italiano. Le due città hanno un’impostazione di base simile: sia per dimensioni, sia per orografia, sia per la presenza di un mare “chiuso”. Vivono di porto e per il porto. Entrambe poi hanno visto ridursi con la pandemia i traffici e si stanno riorganizzando, con investimenti cospicui, per poter vantare presto posizioni di eccellenza, non solo in ambito domestico. E forse, potendo vantare un occhio critico privilegiato su entrambi i porti (non fosse per i quaranta anni di attività mercantile nelle due città), le analogie che riscontro finiscono qui e rimangono invece profonde differenze.

Trieste rimane leader nelle rinfuse liquide, (grazie al terminal della Siot): è il porto petrolifero numero uno del Mediterraneo e immette milioni di tonnellate di greggio l’anno nelle pipeline verso l’Austria, la Germania e la Repubblica Ceca, ovvero quella area chiamata ancora con orgoglio in città, “Mittleuropa”

Genova rimane il maggior scalo italiano per merce movimentata, (anche se Trieste le è appena dietro), grazie al primato nazionale come gate di movimentazione container, mentre sconta scelte non felicissime nel traffico passeggeri (per aver spostato gran parte del traffico crocieristico su altri porti vicini), acuite dallo scoppio della pandemia.

Ma è sul nodo infrastrutturale e dunque sulle future prospettive di crescita che le differenze rimangono evidenti e determinanti. Trieste si è mossa nel tempo prime e meglio di Genova, colmando un gap che sembrava irraggiungibile. Lo scalo giuliano è il normale collegamento tra il Mediterraneo e la Mitteleuropa.  I traffici con la Germania (Amburgo, Norimberga, Dusseldorf) e quelli con Svizzera a Danimarca hanno portato Trieste ad essere il primo scalo italiano per quantità di merce spostata su rotaia. Nella regione giuliana si è riuscito a fare quanto a Genova non si è (ancora) riuscito a realizzare: un efficiente interscambio con il trasporto su ferrovia, una autostrada del Mare (con la Turchia e i paesi dell’Oriente) e una alleanza strategica con un altro porto europeo (Amburgo) dimensionalmente leader in Europa con Rotterdam e Anversa. La scelta inoltre di dotarsi di una nuova zona industriale, con logistica e stoccaggio in loco e la presenza della ferrovia e del terminal intermodale rafforza i vantaggi di essere divenuti porto franco e facilmente determinerà una crescita nei traffici domestici e continentali. Come in Europa Amburgo è la porta del Nord, Trieste può giocarsi le sue carte per divenire quella del Sud.

Genova invece non riesce a creare alleanze, ma anzi perde terreno ogni anno con i vicini porti di Marsiglia e Barcellona. Attende però di completare alcune infrastrutture essenziali (su tutte il terzo Valico) per superare tutte quelle strozzature che hanno ridimensionato nel tempo il suo porto: progetti che miglioreranno non solo la logistica della Liguria, mala competitività dell’intero Paese.

Genova e Trieste potranno presto giocare un ruolo da protagonisti e non più da comprimari nei traffici del continente. Sarà, a livello governativo, il risultato di investimenti mirati e una programmazione più attenta e, a livello locale, la capacità di riprendersi il ruolo che la storia dei commerci internazionali gli ha sempre riservato.

 

Triestino di nascita, nella città dalmata completa il ciclo di studi.

Broker e Agente marittimo iscritto presso la camera di Commercio di Genova.

Già contitolare di Società Petrolifere Armatoriali.

Contitolare di alcune tra le più importanti Agenzie Marittime a Trieste, con un traffico complessivo di più di 300 navi all’anno.

E’ Console Generale Onorario della Turchia a Genova.

Vive a Genova e ha 2 figlie: Maria Laura e Giulia.

Passionarnost e le nostre sanzioni spuntate (per ora)

Siamo entrati e di colpo in un tunnel della storia che speravamo di aver relegato a ricordi lontanissimi. In questa era in cui le informazioni viaggiano velocissime e tutto è assolutamente amplificato, il conflitto ucraino ci spiazza con la sua ferocia e con il suo dolore. Questa rubrica vuole parlare solo di economia e possibilmente farlo in maniera leggera e semplificata. Mi asterrò dunque dal giudizio politico della guerra in atto per ragionare sulle conseguenze delle “sanzioni durissime” (cit.) che il mondo occidentale ha immediatamente promesso, ma che, al momento in cui scrivo, sembrano ancora piuttosto vaghe e parecchio rituali. Due pacchetti già varati e uno allo studio. L’obiettivo è uno solo: sfiancare o strozzare l’economia russa. E per farlo le soluzioni possono essere molteplici. Sono state congelate le ricchezze di Putin e dei suoi oligarchi in Europa. Per carità, rinunciare alle vacanze nella villa in Costa Azzurra o in Sardegna deve essere un duro colpo per questi signori, ma forse non è abbastanza. Le agenzie di rating hanno già tagliato i livelli: immagino l’espressione crucciata del nuovo dittatore. Escludere la Russia dalla tecnologia occidentale “dual use (sia civile che militare) ha invece più effetto (la Russia è fortemente dipendente), ma non ferma nell’immediato la (probabile) capitolazione di Kiev. Si è parlato di sospendere l’export verso la Russia, ma con dei distinguo sui “beni di lusso”: la Francia vorrebbe escludere dal divieto i suoi vini e l’Italia la sua moda.. (Così però diventa tutto più difficile). Escludere le maggiori banche russe dal mercato internazionale dei capitali o applicare il divieto di rifinanziare il debito sovrano o ancora di più, vietare i pagamenti in dollari dell’export russo sono sanzioni già più sensate se si vuol puntare all’effetto desiderato. Soprattutto se la “valuta di scorta” (il rublo) si è schiantata ai minimi storici da quando è scoppiato il conflitto. Ma questo potrebbe non essere abbastanza, visto che la Russia aveva già previsto la reazione e aveva già accumulato grosse scorte di valuta americana. Che essendo però “scorte” finiscono presto. C’è tuttavia una altra opzione in mano al fronte occidentale, che è tuttavia un’arma di distruzione economica globale: bandire il Cremlino dal principale sistema internazionale di pagamento Swift. Opzione tuttavia dolorosissima per tutti. La Russia economicamente si schianterebbe, il Pil tracollerebbe e assisteremmo a una massiccia fuga di capitali (svalutati per di più). Ma c’è un però. L’Europa ha prestato miliardi di dollari ai russi per la costruzione delle infrastrutture energetiche e tutto l’interscambio commerciale tra Ue e Russia verrebbe congelato. Anche le forniture di gas ad esempio, costringendo noi e la Germania, (le due nazioni più esposte al gas russo) ad una austerity energetica dolorosissima e a una inflazione duratura. Nella letteratura russa c’è un termine di difficile traduzione che è “passionarnost”, secondo cui ogni popolo possiede una energia di gruppo che gli permetterebbe di reggere qualunque sofferenza per conseguire un ideale più alto. Putin lo intende declinandolo sul suo folle nazionalismo, ma noi occidentali sapremmo declinarlo per la difesa dei nostri valori di pace e democrazia?

Stagflazione o una diversa comunicazione?

Ha un suono così sinistro, è la unione di due parole che già da sole mettono i brividi, figurarsi insieme. Si chiama “stagflazione” ed è data dall’unione di “stagnazione” e (alta) “inflazione”. Venendo da anni di “deflazione”, ossia costante riduzione dei prezzi per scarsa produzione, pensavamo di poterci dimenticare questa parola così fastidiosa e confinarla alle economie occidentali degli anni 70, quando la crisi petrolifera aveva determinato anche tensioni sulle retribuzioni e sul risparmio dei cittadini. E a giudicare dall’andamento dei mercati finanziari da inizio anno, con un repentino calo dei livelli di prezzi su tutti i comparti e settori, qualche dubbio potrebbe anche venire. Siamo dunque all’inizio di un periodo così preoccupante? Difficile rispondere in poche righe e fior fior di economisti potrebbero motivare meglio di me la fotografia attuale. Mi limiterò a segnalare le analogie e le profonde differenze esistenti tra la situazione attuale e l’economia di allora. Partiamo dalle cause: la stagflazione si determina in presenza di aumenti dei prezzi dell’energia, che rendono di conseguenza meno profittevoli alcune produzioni. Ma si determina anche come conseguenza di una massa eccessiva di liquidità disponibile (data da politiche monetarie e/o fiscali generose) che comportano una crescita dei prezzi. (Nel caso italiano pensiamo ad esempio alla politica dei super bonus e l’effetto avuto sui materiali impiegati nelle costruzioni). E in effetti questa è la situazione di ora, come di allora. Siamo spacciati, allora?

No, perché a differenza di allora la ripresa esiste e addirittura l’offerta non sta dietro alla domanda, come pure esiste un gap di occupazione ancora da recuperare: tutti elementi che confermerebbero l’esistenza di una inflazione provvisoria e non strutturale. E poi c’è il “trucco”, ovvero l’esistenza di un debito pubblico monstre per tutti i paesi più industrializzati, (scherzando potremmo dire che ci hanno preso a modello) per cui l’esistenza di una alta inflazione non può che fare molto comodo ai singoli Paesi.

È fuor di dubbio che ci sia un po’ di imbarazzo da parte delle banche centrali nell’adottare politiche monetarie troppo restrittive (forti rialzi dei tassi) per contrastare l’inflazione, ma che al contempo ostacolerebbero la piena ripresa economica degli stessi Stati (che ricordiamo essere fortemente indebitati e dovrebbero così pagare di più). Conviene allora “essere più realisti del re”, o rialzare i tassi con moderazione? Ai posteri…

Una cosa però è certa: questo continuo battibeccare tra “falchi” e “colombe” (come amano descriversi i vari tecnici favorevoli o meno al rialzo dei tassi), non sta aiutando di certo il mercato finanziario a capire come riposizionarsi e ripartire, ma alimenta solo la speculazione. Che a gennaio è stata feroce. Con buona pace della salute degli operatori che da anni frequentano il mercato finanziario, ma con grosso disagio anche per le arterie dei piccoli risparmiatori…

Riccardo Ciani-La nautica post-Covid: dalla crisi a nuove opportunità

L’andamento della nautica ha senz’altro risentito dell’avvento della pandemia, ma se da un lato la crisi pandemica ha dato una battuta d’arresto all’intera filiera, dall’altro lato, paradossalmente, è stata proprio la pandemia a portare ad un nuovo sviluppo della nautica. Possiamo analizzare questo lungo periodo di emergenza Covid dividendolo in due macro-fasi ben diverse tra loro. In una prima fase, si è registrato un calo sia per quanto riguarda il mercato dei charter che quello della vendita di imbarcazioni, chiudendo così il 2020 con un trend generalmente negativo. In una seconda fase invece, i dati registrati hanno mostrato una curva in forte crescita per entrambi i comparti già dagli inizi del 2021, confermando un trend positivo anche per nel nuovo anno. Nella prima ondata di Covid-19 gli effetti della pandemia si sono sentiti soprattutto sugli spostamenti internazionali a causa dei lunghi periodi di lockdown nei vari Paesi, delle chiusure delle frontiere e delle stringenti restrizioni di viaggio. L’assenza di clientela extra UE nel Mediterraneo per la stagione 2020 ha avuto una forte ripercussione per l’intero settore, con incidenza ancora più forte sul comparto del turismo nautico, ossia il mercato dei charter. A confermarlo è stato anche il rapporto di ICOMIA (International Council of Marine Industry Associations) e il rapporto dell’Ufficio Studi di Confindustria Nautica (in collaborazione con Fondazione Edison e Assilea). Sul totale del campione analizzato, circa il 57% delle attività relative a portualità e servizi, ha segnalato una riduzione di fatturato nell’anno 2020. La percentuale è risultata ancora più alta per il segmento del charter nautico, dove l’82% del campione intervistato ha affermato di aver subito una perdita di fatturato. Eppure, non è la prima volta che ci troviamo a vivere sulla nostra pelle gli effetti economici di una crisi mondiale. Eventi come la caduta delle Torri Gemelle nel 2001, la crisi finanziaria del 2008 con la bancarotta di Lehman Brothers, ed ora il diffondersi della pandemia Covid-19, hanno cambiato profondamente il tessuto economico-sociale ed il nostro modo di pensare. Denominatore comune di queste tre grandi catastrofi, è che a risentirne maggiormente è stato proprio il comparto del lusso. L’industria della vendita di yacht, in questo scenario, non è stata risparmiata. Infatti, appena la pandemia è scoppiata, il valore delle barche è sceso drasticamente. Questo calo improvviso è stata la naturale conseguenza dall’aumento del numero di imbarcazioni private usate messe in vendita. Le persone hanno avuto paura di trovarsi impreparati di fronte ad una nuova imminente crisi, e per questo hanno preferito vendere. Il dato interessante è che questo fenomeno si è registrato solo durante i primi mesi della pandemia, ma superata la fase critica, ci siamo trovati di fronti ad una vera e propria inversione di tendenza. Già i primi numeri ufficiali di confronto 2021 sul 2020 hanno mostrato un forte incremento nella vendita di yacht a livello globale. La domanda di imbarcazioni private è aumentata in maniera vertiginosa, al punto tale che in molti cantieri supera del doppio l’offerta. E a trainare la ripresa del settore è stata proprio l’Italia. In particolare, per il segmento dei superyacht, l’industria italiana ha registrato nel 2021 un totale di ordini di unità superiori ai 24 metri che rappresenta quasi la metà degli ordini mondiali, con 407 yacht su un totale di 821 a livello globale. Un dato incredibile considerando che si tratta del maggiore numero di ordini registrato nel Global Order Book dal 2009 in poi. Questa incredibile ripresa è stata possibile grazie a due fattori principali che, paradossalmente, è stata la pandemia stessa a dettare. Da un lato, il desiderio delle persone di andare in vacanza in totale sicurezza. Il concetto di yacht-casa in questo scenario costituisce un valore aggiunto, perché viene visto come un ambiente protetto che permette una vacanza con standard di lusso altissimi, assicurando privacy assoluta e distanziamento. Altro elemento determinante è che dopo la pandemia le persone si sono lasciate più andare. Il 2020 è stato un anno vissuto tra paura, incertezze e limiti alla nostra libertà. Dopo un anno del genere si è sentita l’esigenza di leggerezza e di maggiore svago, per cui la filosofia del Carpe Diem ha preso il sopravvento. Si vive una volta sola, e allora perché non realizzare i propri sogni piuttosto che risparmiare per un futuro incerto? La casa automobilistica Rolls-Royce ha comunicato che nel 2021 ha consegnato più auto che in qualsiasi momento nei 117 anni di storia. Il fattore sociologico post-Covid ha portato questo boom di vendite per la regina delle auto di lusso, ma la stessa cosa è avvenuta anche per gli yacht di lusso. Che sia allora di buon auspicio affinchè il settore nautico possa continuare a trainare la ripartenza del Paese.

 

 

Imprenditore Ligure, da sempre appassionato di mare, inizia giovanissimo la sua carriera nel mondo dello yachting. Nel 2006 fonda Med Yacht Services, agenzia marittima raccomandataria con sede a Sanremo. Oggi MYS è una società internazionale che vanta sedi in alcune delle location più esclusive d’Italia, Francia, Monaco, Spagna, USA e Bahamas.

Gianluigi Vignola- Non è mai troppo tardi per le Classic Car

Il collezionismo delle Classic Car è cambiato? Se si, come? E da quando?  Cosa ci riserva il futuro? Per rispondere, occorre fare un passo indietro, quando negli anni 50, in Europa e negli USA un manipolo di stravaganti appassionati, guardati con sospetto, recuperava dai demolitori dei ferri vecchi che nessuno voleva più e li faceva funzionare sulle strade, creando sconcerto negli altri automobilisti. In quel periodo interessarsi ad un veicolo “vecchio” significava entrare in un Club esclusivo del quale si poteva fare parte solo se animati da un pizzico di follia. In UK il VSCC Vintage Sportscar Club nasce nel 1934 e dal 1927 si corre la London to Brighton riservata a veicoli costruiti prima 1905. Nei decenni 70 – 80 il motorismo storico inizia a strutturarsi, in Italia nel 1966 nasce l’ASI Automotoclub Storico Italiano, e proliferano nel mondo eventi sportivi e fieristici dedicati. I nostalgici stravaganti  si trasformano in una invidiata elite sociale.   E per essere ammessi nel circus ora occorre tempo, denaro e conoscenze, a testimonianza del raggiunto status sociale del collezionista di auto classiche. Nel 1985, per la prima volta, una auto da collezione passa di mano per oltre 1 Milione di $ (Ferrari 250GTO – valore attuale 65M$), una transazione commerciale talmente inedita per allora, da insospettire le autorità doganali che nascondesse traffici illeciti. Il mondo prendeva coscienza di questa moda di rivivere la propria giovinezza per mezzo delle Classic Car, e la domanda cominciò a crescere esponenzialmente. Il mercato assume piena maturità globale grazie all’ingresso nel settore delle più grandi case d’asta dell’arte: Christie’s e Sotheby’s.  La corsa all’acquisto di alcuni modelli Ferrari diviene frenetica, è significativo che alcune auto spedite in America dall’Europa cambiavano più volte di proprietario mentre erano ancora sulla nave. Tuttavia, come in tutti mercati nei quali i prezzi crescono troppo rapidamente, dal 1989 al 1991 si fece strada la speculazione, e come prevedibile quando la domanda si satura, i prezzi ritornarono ai valori precedenti. Gli speculatori abbandonarono il campo, ma restarono i veri collezionisti che continuarono imperterriti a giocare con le loro auto. Nacque così negli anni 90 un ulteriore fenomeno di natura finanziaria, come la vendita del contratto di acquisto di Instant Classic, a prezzi superiori al listino prima della consegna della vettura, oppure l’acquisto per investimento puro di vetture a tiratura limitata da conservare senza percorrere nemmeno un chilometro (Ferrari F40, Bugatti EB110, McLaren F1 ). Ma quali sono i modelli ha hanno trainato il mercato nei diversi periodi? Per capirlo occorre considerare che il profilo del “consumatore” di Classic Car, cambia progressivamente col passare del tempo, si succedono le generazioni, influenzando la domanda dei vari modelli. Negli anni 80-90 i modelli più desiderati erano le anteguerra (Bugatti, Duesenberg, Isotta Fraschini), negli anni 90-2000 le classiche degli anni 50, negli anni 2000-20 quelle del 70-90. Il gusto e quindi la scelta di acquisto, si forma nella coscienza di quei ragazzi tra gli 8 ed i 12 anni, che a 40-50 diventeranno i consumatori di questo mercato. Oggi alla tradizione automobilistica si aggiungono condizioni al contorno come nuovi materiali e tecnologie, restrizioni alla circolazione, normative antinquinamento, ed automatismi di guida, condizioni che orientano la continuità di questo settore. Come cambierà il mercato? Le Instant Classic sono ormai fonte di marginalità importante per i grandi brand Ferrari, Porsche, Mercedes, Aston Martin etc; Ipercar multi-tecnologiche programmate in serie limitatissime da consegnare solo a selezionati collezionisti che le accenderanno unicamente in garage per mostrale agli amici. In America nell’ultimo decennio nasce il fenomeno delle Resto-Mod, vetture classiche degli anni 50 e 70 aggiornate con nuovi motori, sospensioni pneumatiche, pneumatici ribassati ed ogni sorta di infotainment. Una realtà tipicamente di gusto yankee, che conquista le generazioni più giovani e che sta arrivando anche in Europa e la cui variante elettrica sta incontrando grande successo: vetture classiche dalle quali viene rimosso il motore endotermico sostituendolo con uno o più motori elettrici e pacchi di batterie. I collezionisti tradizionali gridano allo scandalo per le modifiche, ma per le nuove generazioni potrebbe essere una strada obbligata, come lo è già nei paesi del Nord Europa. Una Jaguar E elettrica è una auto classica? Si, lo è ancora e lo sarà sempre, anche in una eventuale versione a idrogeno; siamo costretti ad adattarci, ma il mercato lo facciamo noi appassionati. Poiché i tempi per costruire le reti elettriche di distribuzione capillari per il rifornimento elettrico saranno comunque lunghi ed il petrolio non si esaurirà così in fretta, come per un momento avevamo pensato negli anni 70, queste reinterpretazioni, a volte bizzarre, convivranno con le Bugatti 37, con le Lamborghini Diablo e le sportive giapponesi degli anni 70,  i cui prezzi stanno andando alle stelle. Spesso mi chiedono consigli su quale modello puntare per fare anche un buon investimento. La risposta giusta è “quello che vi fa sognare”.

 

All’età di sette anni e alla fine di un tornante vicino a Siena, un convoglio di “Barchette” rosse ruggì davanti a lui sul finale di tappa delle “Mille Miglia”. L’episodio fu la scintilla per una passione per le auto storiche che dura da più di 50 anni e che ha saputo coltivare durante i suoi oltre 30 anni di esperienza nel mondo dell’IT e dell’ICT di start-up europee nel segmento M&A. L’evoluzione naturale è stata quella di collegare il mondo delle auto classiche con quello della tecnologia digitale, creando così la società di valutazioni ADEMY (Automotive Data Evaluation Market Yields). Collezionista di auto storiche, ha partecipato ai maggiori eventi di Classic Car, come la “Mille Miglia” e la “London-Brighton”. Collabora con diverse riviste specialistiche del settore sia italiane che estere. Attualmente è anche membro della giuria del concorso “Chantilly Arts & Elegance Richard Mille”, per non rischiare di annoiarsi.

Nudi al Meta

La notizia ha travalicato i confini dei mercati finanziari per arrivare sulle prime pagine dei giornali.

Il titolo Facebook (ora rinominato Meta, per l’interesse nei confronti della nuova dimensione della realtà virtuale), ha perso nella sola giornata di giovedì scorso un quarto della propria capitalizzazione e da inizio anno 270 miliardi di dollari circa.

Apriti cielo. Uno dei tonfi più clamorosi di sempre, almeno per le aziende di grandi dimensioni, sul mercato tecnologico americano.

Ma questa è la cronaca borsistica. Una analisi più sociologica metterebbe l’accento sul fatto che, probabilmente, l’era di Facebook, per come l’abbiamo conosciuta, è, o sta tramontando.

La necessità di cambiare il nome e il business di riferimento (la realtà virtuale) ne sarebbe una parziale ammissione.

Di esempi di aziende storiche nel proprio settore e poi scomparse nel corso della storia è pieno il mondo: Kodak, Blockbuster, BlackBerry, Lehman Brothers, Atari e per non andare lontani la nostra Alitalia sono esempi di marchi scomparsi o per crack finanziari, o per scelte sbagliate del management, oppure per non essersi adeguati al progresso tecnologico.

Non è forse (ancora) il caso di Facebook, anche se appare evidente che la piattaforma social sia rimasta un punto di riferimento per la “generazione di mezzo”: ovvero utenti adulti che possono collegarsi nei soli ritagli di tempo giornalieri e non certo assidui frequentatori, come ad esempio i teen-ager, che invece sembrano del tutto snobbare questa piattaforma e popolare in massa la rivale TikTok.

E poiché la attrattività di ogni mercato è rappresentata dalla numerosità dei suoi clienti, anche in questo caso, la forza di una piattaforma social si misura nella numerosità degli accessi giornalieri. E’ lì dove le aziende intendono investire. TikTok è cresciuto del 325% solo nel 2020, (seppur su una base più ristretta), Facebook perde invece utenti (dopo 18 anni di crescita continua).

Si prospettano insomma tempi duri per il Signor Zuckerberg, che nella classifica (real time di Forbes) sulle persone più ricche del pianeta, ha perso in un solo giorno circa 32 miliardi di dollari, uscendo dalla top ten.

Se continua così è un attimo trovarsi nudi alla meta, pardon.. al Meta.