Maggio 2024

Pierluigi Portalupi- I riflessi della guerra nelle assicurazioni marittime: sfide e strategie

Le compagnie di assicurazioni marittime si trovano di fronte a una sfida sempre più complessa nel gestire i rischi legati alla guerra, alle insurrezioni, alle ribellioni e ai conflitti civili, nelle rotte commerciali instabili e pericolose.

Da novembre 2023 ad oggi, la regione meridionale del Mar Rosso, del Golfo di Aden e del Mar Arabico sono state teatro di una serie di eventi destabilizzanti che hanno scosso l’industria marittima globale. Con l’attacco alla Galaxy Leader (seguito da altri 42 incidenti nella zona) e il tragico episodio sulla True Confidence lo scorso marzo che ha causato la perdita di vite umane, la sicurezza delle rotte commerciali è diventata oggetto di crescente preoccupazione per armatori, operatori e assicuratori.

La risposta alla crescente minaccia è stata l’aumento della presenza militare nel Mar Rosso, con operazioni di intercettazione e attacchi contro gruppi come gli Houthi. Se da un lato questo ha portato a un certo grado di contenimento delle minacce, dall’altro ha innescato un effetto domino che ha influenzato pesantemente i flussi di traffico marittimo.

La diminuzione del 53% dei transiti in tale area nel primo trimestre del 2024 rispetto all’anno precedente è emblema di una situazione in evoluzione, in cui le sfide e le incognite sono all’ordine del giorno.

Le compagnie di assicurazioni marittime devono ora affrontare il compito di valutare e mitigare i rischi legati alla guerra, che possono avere impatti devastanti sulle navi, sugli equipaggi e sulle merci trasportate.

A tale scopo sono state istituite polizze assicurative contro i rischi guerra, che sono stipulate per proteggere gli armatori e gli operatori marittimi da danni e/o perdite causate da una serie di fattori, quali (cito i principali): guerre civili, insurrezioni, ribellioni, conflitti civili, sequestri e arresti degli equipaggi (e relative conseguenze di tentativi in tal senso), effetti di mine, bombe o altri ordigni bellici abbandonati e infine scioperanti, sommosse e/o tumulti civili, atti di terrorismo, espropri, vandalismi, sabotaggi, e attività di pirateria.

Tali coperture vengono prestate assoggettandole a “Listed Areas” (lista dei paesi esclusi dalla copertura), “Institute Notice of Cancellation, Automatic Termination of Cover and War and Nuclear Exclusion Clause” (con un preavviso di 7 giorni per disdire la copertura), “London Blocking and Trapping Addendum” (nel caso di impossibilità della nave assicurata di lasciare il porto per un periodo continuativo di 12 mesi a seguito della chiusura dello stesso o di un suo canale di collegamento.

Tuttavia, la copertura assicurativa contro i rischi guerra comporta spesso delle limitazioni e delle esclusioni che gli armatori devono tenere in considerazione.

Come, ad esempio, le esclusioni di danni e/o perdite derivanti da qualsiasi detonazione da arma di guerra che impieghi la fissione/fusione atomica o nucleare o altre reazioni simili o materia radioattiva. A dir la verità ci sono anche altre clausole, che seppur, molto improbabili, devono essere considerate. Tra queste, cito quelle più significative che si applicano nel caso di scoppio della guerra tra UK, USA, Francia, Russia, Cina, ma anche clausole che si applicano per la requisizione, cattura, sequestro, arresto, detenzione, confisca o espropriazione da parte o per ordine del governo, o qualsiasi Autorità, in cui la nave è registrata.

Ve ne sono altre che si applicano invece per arresto, confisca, sequestro, detenzione o espropriazione in base a norme di quarantena o a causa di violazione di norme doganali, come pure l’esercizio di un’azione giudiziaria, la mancata prestazione di una garanzia o il mancato pagamento di una multa o qualsiasi altra causa finanziaria.

È pertanto essenziale che gli armatori e gli operatori marittimi comprendano appieno i dettagli e le clausole delle loro polizze per garantire una copertura adeguata in caso di eventi bellici.

La valutazione dei rischi guerra è diventata un elemento cruciale nella gestione complessiva dei rischi nell’industria marittima. Le compagnie di assicurazioni marittime devono adottare una strategia preventiva e proattiva nella valutazione e quotazione di tali rischi, lavorando a stretto contatto con gli armatori per individuare i potenziali pericoli e adottare le misure di sicurezza adeguate.

In conclusione, la gestione di tali rischi rappresenta una sfida sempre più pressante in un contesto di crescente instabilità geopolitica.

 

 

Head of Marine & Transport per Generali Global Corporate & Commercial Italia. Nel business “Marine” dal 1998. Ha cominciato a Parigi presso AGF Mat/Allianz, poi dal 2000 a Genova ed in Far East per lavorare come Insurance Marine manager.

Il fattore “Knockback” nel mercato dell’arte 2023 e altre amenità (2 di 2)

Breve sintesi dalla puntata precedente: si è scritto e ribadito che il 2023 è stato per il mercato dell’arte un anno difficile.

Fatturati in calo in tutti i maggiori segmenti, crollo dei prezzi medi dei lotti, tassi di unsold in crescita e (di conseguenza) anche la classifica dei primi 5 top dell’anno ha palesato una significativa contrazione sul 2022.

Si sono analizzate le cause di questo ridimensionamento e nella presentazione tenuta nella Greenhouse di Deloitte, si è anche cercato di capire le correlazioni tra mercato dell’arte, mercato finanziario e situazione geopolitica in essere. E così si è compreso che questo raffreddamento degli entusiasmi nella domanda globale di collectibles deriva da un ritardo intrinseco del mercato dell’arte, che comunque rimane (e sempre rimarrà) meno reattivo a cambiamenti esogeni repentini, che invece vengono subito recepiti negli altri mercati regolamentati.

Una delle due parole utilizzate per descrivere l’anno è stata “Knockback” (rinculo, contraccolpo), proprio per rimarcare il confronto con il pirotecnico 2022: –18% di contrazione del fatturato sull’anno precedente, con un -26,2% dell’arte figurativa e un –5,4% degli altri passion assets. Una forte contrazione, ovviamente, ma la situazione non è così drammatica come i numeri indicherebbero.

Perché non vanno dimenticati alcuni elementi non ricorrenti che avevano favorito la performance eccezionale del 2022, tra cui, su tutti, le sensazionali vendite delle diverse “single owner collection”. Se togliessimo questi risultati (straordinari in tutti i sensi), il fatturato complessivo sarebbe sostanzialmente stabile (-3,0%).

Ma ci sono state altre notizie a mitigare la crudeltà dei numeri: in primis è proseguita la ricerca di opere di qualità, come pure la scelta di inserire artisti nuovi ed emergenti nelle grandi collezioni (anche museali) rispetto agli artisti più storicizzati; e da qui la scelta del termine “ricerca” per identificare la seconda parola chiave dell’anno.

E’ proseguito anche l’interesse mostrato dalle nuove generazioni: le major internazionali hanno registrato tra il 30% e il 50% di nuovi acquirenti, di cui un terzo appartenenti alle generazioni dei Millennial e dei Gen Z.

La pandemia ha lasciato tra i tanti effetti anche una nuova classe di super ricchi divenuti tali con lo sviluppo dell’economia digitale e che oggi rappresenta per il mercato dell’arte un nuovo potenziale target da attrarre, fidelizzare e coccolare. Questi soggetti hanno però un gusto estetico diverso rispetto al collezionismo maggiormente spendente degli ultimi decenni (orientato soprattutto all’arte moderna e contemporanea), e questo spiega la sempre più diffusa attenzione per i Passion Assets (borse, sneaker, orologi, vini…), meno impegnativi da un punto di vista economico e più funzionali in tema di rappresentatività sociale.

E così le case d’asta si trovano ad ampliare l’offerta di collectibles ed affinare nuove modalità di vendita, consolidando la presenza internazionale per incentivare nuovi acquirenti ed incuriosire i più giovani.

Austin, Aspen e Palm Beach si sono aggiunti agli hub storici del collezionismo internazionale, mentre le sedi di Hong Kong e Milano sono state rafforzate nel 2023 da alcune delle 3 maggiori case d’asta internazionali.

E parlando in termini geografici, va ribadita la posizione dominante di New York nel mercato dell’arte internazionale, essendo la piazza in cui le major hanno presentato i cataloghi più prestigiosi, seppur moltissime aggiudicazioni sono state battute, nell’anno, vicino alle stime basse.

La piazza di Hong Kong ha risentito anche della crisi immobiliare cinese e delle nuove limitazioni sull’utilizzo dei capitali da parte del governo Popolare, mentre in Asia continua la crescita della piazza indiana, fortemente favorita da una classe dirigente giovane, internazionale e da una economia locale molto dinamica.  Guardando alla nostra vecchia Europa, Londra continua a perdere mercato a favore di Parigi ( ahi ahi la Brexit…) , mentre l’Italia cerca di sopravvivere, studiando come copiare qualche iniziativa di successo già adottata oltralpe (In Francia l’IVA su opere d’arte è già al 5,5%).  Cosa aspettarsi per il futuro?

Il contesto internazionale rimane estremamente complesso e nonostante i miglioramenti a livello macro-economico che hanno fatto rimbalzare i mercati finanziari nel 2023, sul mercato dell’arte mantengo un giudizio di forte cautela.

Le mie maggiori perplessità riguardano l’impatto che la prosecuzione della guerra in Medioriente potrebbe avere sia sul mondo del collezionismo ebreo e sia (toccando tutto il ferro a disposizione) su eventuali conseguenze terroristiche: nel 2001 gli attentati alle Torri impattarono pesantemente l’industria del lusso, (di cui l’arte può essere in qualche modo assimilata) per le conseguenze sulla mobilità internazionale. Bisogna augurarsi che questo conflitto finisca al più presto o, alla peggio, che rimanga circoscritto a livello regionale e non travalichi in aspetti ideologici.

Inoltre, rimane limitata la visibilità sulla reale situazione economica cinese che ha già fortemente impattato la ricca classe di top spenders locali, che si sono trovati di colpo regole più stringenti sulle esportazioni di capitali.

Ma Il vero rischio del 2024 può tuttavia essere di carattere politico: assisteremo (in parte è già avvenuto) al rinnovo dei governi in ben 76 Paesi, di cui 8 sono tra i 10 Paesi più popolosi al mondo e sono dunque legittime le preoccupazioni per un anno che potrebbe stravolgere ancora di più i già fragili equilibri geopolitici internazionali. Dall’esito delle urne potrebbero venire fuori nuovi scenari ad oggi inattesi.

E questa situazione di incertezza potrebbe estendersi anche al mercato dell’arte, con una eventuale reticenza a vendere da parte dei collezionisti in possesso delle opere più pregiate, che magari aspetteranno momenti di maggior visibilità, ritardando così il punto di rimbalzo del mercato e costringendolo, se va bene, ad un più prudente movimento laterale.

Nel mondo della finanza una situazione del genere viene definita “wait and see”.

Che ci piaccia o no, anche per il mercato dell’arte ci tocca aspettare un po’ di mesi per constatare se ci avevamo visto giusto…

 

Roberta Ghilardi-Tra sostenibilità, arte e cultura

La parola sostenibilità è ormai sulla bocca di tutti e l’acronimo “ESG”, Environmental, Social e Governance, permea ormai tutti i settori dell’economia, sulla scia delle numerose norme emanate dalla Commissione Europea in materia di sostenibilità nel corso degli ultimi anni.

Nel mio doppio ruolo di Sustainability Manager e Art&Finance Manager in Deloitte osservo con estremo interesse l’evoluzione del mondo dell’arte e della cultura che, seppur con tempi decisamente più “morbidi” rispetto ad altri settori dell’economia, sta muovendo qualche passo nel percorso verso la sostenibilità.

Un percorso che è iniziato in sordina qualche anno fa, limitandosi a poche azioni non strategicamente connesse, che riguardavano più o meno tutti gli operatori di settore. Tra queste, la dematerializzazione dei cataloghi d’asta, qualche tavolo di lavoro sulla sostenibilità nei network museali, sporadici esempi di report annuali e analisi d’impatto di organizzazioni culturali e creative, come anche iniziative per la promozione della salvaguardia dell’ambiente e delle diversità attraverso l’arte.

Il tutto a fronte, tuttavia, di una graduale presa di coscienza delle istituzioni internazionali del legame imprescindibile tra cultura e sostenibilità, con particolare riferimento alla consapevolezza del contributo della cultura allo sviluppo sostenibile.

La cultura attualmente non costituisce il focus specifico ed esclusivo di uno o più tra gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile definiti dall’ONU nell’Agenda2030 (in inglese Sustainable Development Goals” o “SDGs”), ma si è diffusa la consapevolezza della capacità delle organizzazioni che operano nel settore culturale e creativo di favorire la generazione di impatti economici ed occupazionali di tipo diretto, indiretto e indotto, promuovendo contestualmente la diversità, e contribuendo alla coesione e all’inclusione sociale. Anche per questo l’UNESCO ha pubblicato nel 2019 i “Culture 2030 Indicators”, un framework di indicatori tematici definiti con l’obiettivo di misurare e monitorare il contributo della cultura agli SDGs, che declinano di fatto i fattori ESG, considerando la cultura sia come settore di attività a sé stante, sia come elemento trasversale agli stessi Obiettivi.

La pandemia da COVID-19 ha contribuito ad accelerare la transizione verso lo sviluppo sostenibile anche a livello di operatori delle industrie culturali e creative, come è avvenuto per molti altri settori. A causa delle restrizioni agli spostamenti e alle interazioni sociali poste in essere per arginare la diffusione della pandemia, infatti, il mondo delle industrie culturali e creative, spesso basato sugli eventi e sull’interazione “di persona” è stato messo in stand-by, costretto a riflettere su come poter innovare e migliorare, e trovando il tempo per attivare nuove modalità per affrontare le sfide che il mondo odierno ci pone.

Proprio in questo periodo sono nate infatti nuove e promettenti iniziative sul fronte ambientale, come la Gallery Climate Coalition (GCC), organizzazione che riunisce un crescente numero di attori del mercato dell’arte per diffondere metodologie sviluppate specificamente per il settore al fine di ridurre l’impatto di questi attori sul clima; o ancora iniziative connesse alla promozione della diversità, della lotta alla violenza di genere e dell’inclusione sociale.

Quella che manca, tuttavia, è una “cultura della misurazione e della rendicontazione” degli impatti generati dall’arte e dalla cultura in termini ambientali, sociali e di governance (ESG), che potrebbe contribuire ad accrescere la consapevolezza del loro impatto sullo sviluppo sostenibile, generando anche effetti positivi nelle relazioni con gli stakeholder.

L’analisi degli impatti attuali e potenziali può, infatti, contribuire ad indirizzare le risorse verso le attività che portano maggior beneficio al contesto di riferimento, ma anche attrarre finanziamenti. Per queste analisi, le organizzazioni culturali e creative possono seguire le Linee guida per la redazione del Bilancio Sociale degli Enti del Terzo Settore, oppure trarre spunto dal settore profit, adottando gli indicatori tipici del reporting di sostenibilità; o ancora, adottare metodologie specifiche, quali le valutazioni econometriche derivanti da metodi utilizzati per la valutazione degli asset a fini contabili, la metodologia SROI – Social Return on Investment (SROI), o il già citato framework “Culture|2030 Indicators” dell’UNESCO.

La quantificazione degli impatti generati dalle imprese culturali e creative, profit e noprofit, può contribuire ad accrescere la disponibilità di informazioni relative alle sfere “Social” e “Governance” dei fattori ESG, che possono confluire non soltanto nei report delle stesse imprese culturali e creative, ma anche in quelle delle aziende che si troveranno nei prossimi anni a dovere affrontare le sfide poste dalla nuova Direttiva in materia di Reporting di Sostenibilità, la “CSRD” (Corporate Sustainability Reporting Directive).

Nuovi dati che, in termini strategici, possono così migliorare le performance complessive di sostenibilità delle imprese culturali e creative come anche delle aziende che le supportano, fungendo auspicabilmente da incentivo per l’investimento di ulteriori risorse in arte e cultura da parte del settore privato.

Un circuito virtuoso che potrebbe soltanto rafforzare la capacità della cultura di coadiuvare lo sviluppo sostenibile.

 

Manager nel team Sustainability di Deloitte in Italia, di cui fa parte dal 2017.

Lavora inoltre nel team Art&Finance, curando le pubblicazioni nazionali ed internazionali relative al mercato dell’arte, nonché lavorando su servizi che connettono sostenibilità, arte e cultura per clienti nazionali ed internazionali.

Dal 2023 è anche responsabile delle attività di marketing e comunicazione del Business Audit&Assurance di Deloitte.

Fa parte del gruppo di lavoro dedicato alla Sostenibilità e all’Agenda 2030 di ICOM Italia.

Lecturer in diverse università italiane.

Il fattore “Knockback” nel mercato dell’arte 2023 e altre amenità (1 di 2)

Questa volta non scriverò di economia e neppure di finanza. O meglio, lo farò di riflesso, raccontando come è andato il mercato dell’arte e dei beni da collezione nel 2023 alla luce del contesto socioeconomico che ha caratterizzato l’anno.

Per chi mi conosce, sa che è una ricerca a cui tengo molto, di cui ho portato avanti una serie di studi e un discreto numero di pubblicazioni e che condivido da ormai sette anni con gli amici di Deloitte Private. (In realtà questa ricerca la porto avanti da molto più tempo, ma ho già raggiunto una età in cui, se posso, preferisco togliermi gli anni che aggiungermeli).

Arriverò subito al sodo: il 2023 è stato un anno difficile per il mercato dell’arte e dei beni da collezione. Fatturati complessivi in calo, contestuale riduzione dei prezzi medi dei lotti, tassi di unsold in crescita: ha prevalso un atteggiamento di maggior prudenza nella eletta categoria dei top spenders internazionali. E i numeri parlano chiaro: contrazione annua del segmento della Pittura (per intenderci, il segmento che contribuisce a poco più del 70% del fatturato complessivo delle aste) del -26,8%, mentre l’altro segmento (quello dei Passion Assets, ovvero tutte le altre forme di collezione) ha “limitato i danni” con una contrazione del -5,4% sul 2022.

E questi sono i numeri. Vediamo le ragioni e quanto ha inciso la situazione economica e geopolitica a livello internazionale.

E qui mi tocca aprire prima una parentesi. Ammetto che amo disorientare (e lo faccio anche con un certo grado di soddisfazione) gli studenti di alcuni insegnamenti in cui sono coinvolto, in cui racconto di non credere alla vulgata che vorrebbe “l’arte come bene rifugio”. Non mi dilungo con spiegazioni di carattere economico sulla scarsa rappresentatività del bene artistico come investimento che mantiene inalterato nel tempo il suo valore intrinseco, ma mi limito a sostenere che il sistema dell’arte, soprattutto nel suo segmento più importante in termini di fatturato (ovvero quello dell’arte contemporanea) è molto volatile (nel bene e nel male) e dunque speculativo.

È vero invece (e qui a mio avviso nasce la confusione) che potremmo trovarci casi abbastanza limite in cui il contesto macro-economico peggiora di colpo e il sistema arte continua a performare in maniera eccezionale.

È successo ad esempio nel 2022, ma anche nel 2008, per citare i casi più eclatanti: sistema finanziario e mercati dell’economia reale in crash con investitori disperati e mercato dell’arte sui massimi storici.  Il 15 settembre 2008 falliva Lehman Brothers e nello stesso giorno assistevamo al nuovo record per artista vivente (Damien Hirst); nel 2022 con lo scoppio della guerra ucraina, l’inflazione cominciava a galoppare e abbiamo vissuto il peggior anno finanziario di sempre per numerosità delle classi investibili negative, ma il mercato dell’arte ha segnato, invece, il suo punto di massimo splendore.

Ma allora l’arte è un bene rifugio, come qualcuno mi vorrebbe far credere?

Niente affatto, semplicemente il mercato dell’arte è poco reattivo ai repentini cambiamenti esogeni che impattano immediatamente tutti gli altri mercati. E c’è una spiegazione semplice. Qui non abbiamo un sistema telematico che determina il prezzo in maniera efficiente, ma soprattutto, nel lato dell’offerta, i lotti proposti nelle aste più importanti sono frutto della raccolta realizzata l’anno precedente e nel lato della domanda, questi lotti possono essere stati soggetti a proposte vincolanti (tecnicamente si chiamano “garanzie”), pervenute ben prima del giorno dell’asta.

Insomma, il prezzo comincia a formarsi in scenari che potrebbero essere molto diversi da quelli che uno scoppio di una guerra o di una repentina crisi finanziaria potrebbe poi determinare.

E questo spiega perché nel 2023 il mercato dell’arte è stato un anno di “knockback (contraccolpo) per richiamare la parola utilizzata nel report Deloitte. E il bello è che lo avevamo anche (pre)detto presentando il report un anno fa, usando le due parole chiave “Fireworks” e “Opacity” per descrivere il 2022 e quello che ci aspettavamo per l’anno successivo.  Anche qui mi piace allora usare una similitudine: tanto eclatante è stato il risultato del 2022 che possiamo immaginarlo come un colpo di cannone.  Ma tanto più forte è lo sparo del cannone e tanto maggiore sarà il contraccolpo appena dopo. Che poi Knockback letteralmente andrebbe tradotto con “rinculo”, (per l’appunto), ma ci sembrava poco appropriato come titolo di un comunicato stampa.

Insomma, se ne volete sapere di più di quello che è successo nel 2023 nel mercato dell’arte e scoprire l’altra parola che ha caratterizzato l’anno, potete sempre venire a scoprirlo partecipando alla presentazione che si terrà giovedì prossimo 9 maggio a Milanocloud.marcom.deloitte.it/ArtFinance09

Oppure basterà seguire la prossima puntata di Nuvole e Mercati. In cui cercherò di dare molti più dettagli qualitativi su quel che è successo e su quel che potrà essere. Sperando di azzeccare ancora le previsioni. Del resto, è tutta una questione di rinculo (o qualcosa che ci fa rima).

 

Alessandro Genovesi- L’imperativo della sostenibilità

La sostenibilità aziendale, declinata con l’acronimo di ESG è ormai un concetto centrale nel dibattito economico e sociale contemporaneo. Spesso si ritiene che la diffusione delle logiche ESG sarà possibile principalmente grazie ad un proliferare di leggi e regolamenti, ai quali le aziende nella loro intera filiera dovranno attenersi. Pertanto “quando sarà obbligatorio, ce ne occuperemo…”, viene da pensare.

Sembra quasi che ai tavoli degli esperti, presso l’Unione Europea e in tutte le sedi in cui si producono norme sugli ESG, il tema centrale sia quello di annoverare all’interno del quadro normativo il maggior numero possibile di metriche legate alla sostenibilità (tassonomie, matrici, indicatori), con lo sforzo improbo di disciplinare e soprattutto rendere confrontabili degli aspetti che spesso per loro natura sono già di per sé difficili anche solo da misurare.

La realtà all’interno delle aziende è diversa: la sostenibilità rappresenta un approccio strategico che permea tutti i livelli dell’attività aziendale, integrando considerazioni ambientali, sociali ed economiche capaci di creare valore a lungo termine per tutte le parti coinvolte (i cosiddetti Stakeholders). Gli ESG sono una nuova modalità di intendere il “fare impresa”, forse già noto ad alcuni nostri lungimiranti imprenditori italiani del secolo scorso che costruivano asili, alloggi, campi sportivi, villaggi vacanze per i dipendenti e le loro famiglie, ad esempio. Di loro, non a caso, rimangono ritratti, monumenti, luoghi e fondazioni benefiche ad essi intitolati.

Perché la sostenibilità è ormai un imperativo per le aziende e non solo un’ottemperanza di regole?

In primo luogo, perché la sostenibilità aziendale implica un’attenzione particolare alla gestione responsabile delle risorse naturali, alla riduzione degli sprechi ed all’impatto ambientale delle operazioni aziendali. Questo si traduce in politiche volte al risparmio energetico, alla gestione efficiente delle risorse e alla promozione di pratiche di produzione ed economia circolare.

Parallelamente, le metriche ESG si estendono anche alla dimensione sociale, creando un valore condiviso per le comunità in cui le imprese stesse operano. Ciò implica promozione di valori sempre più rari, quali diversità, inclusione ed equità sociale. C’è in gioco il benessere e lo sviluppo di ciascun individuo, sia esso a qualsivoglia titolo “dipendente, fornitore o cliente”, che passa attraverso una fitta rete di relazioni positive.

Inoltre, la sostenibilità aziendale si caratterizza per un governo (governance) trasparente, etico e responsabile. Condurre le aziende garantendo la partecipazione delle donne, prevenendo i conflitti di interesse, la corruzione, è la strada per arrivare ad una conduzione dove non sempre il fine giustifica i mezzi.

Quindi tanto impegno e pochi vantaggi? Affatto. La sostenibilità è un driver per l’innovazione, in grado di stimolare la ricerca e lo sviluppo di nuove tecnologie, prodotti e servizi che rispondano a logiche di efficienza, progresso ed alle esigenze emergenti dei mercati mondiali. I vantaggi sono inoltre la crescita della reputazione e della fiducia di consumatori ed investitori che sono indotti a preferire quelle aziende che operano secondo pratiche responsabili e non solo in ragione della massimizzazione del profitto. Relativamente agli investitori, l’aumento della resilienza e della capacità di adattamento conduce l’azienda ad una inevitabile riduzione dei rischi operativi e finanziari; le ricadute positive sono in primis la riduzione del costo del denaro ed un mercato che tende a premiare gli investimenti sostenibili.

Ulteriori benefici dati dalla sostenibilità sono il miglioramento della reputazione e della brand equity dell’azienda, che aumentano la fiducia dei consumatori, degli investitori e delle altre parti interessate.

La sfida ESG è un’opportunità epocale, se compresa nel suo significato più profondo: elevare il genere umano a delle condizioni di vita migliori, per tutti, per anni. Non è il Pianeta che dobbiamo salvare (se la cava bene da 4,5 miliardi di anni), bensì noi stessi e le generazioni a venire.

 

 

Dottore Commercialista, Professore universitario di Finanza strategica e di Funding per l’Arte e la cultura a Ca’ Foscari, da oltre vent’anni si occupa di finanza d’impresa nell’ambito di fusioni, acquisizioni e valutazioni aziendali. Dopo un’esperienza decennale in KPMG ed in PWC, nell’ambito delle Financial Due Diligences si è specializzato come consulente professionista nel controllo di gestione e nelle operazioni straordinarie.

Dal 2020 segue i temi legati alla sostenibilità aziendale (ESG) e nel 2023 si è certificato come ESG Auditor Aicq-Sicev. Attualmente affianca le aziende come Sustainability Manager per gli aspetti legati alla rendicontazione non finanziaria.

Oltre all’attività di docenza e consulenza, è relatore in convegni e seminari sia in ambito ESG che per gli aspetti inerenti al corporate finance.