Ottobre 2023

De-Dollarizzazione: chimera o realtà? (2 di 2)

Breve riassunto della puntata precedente: sempre più Paesi emergenti stanno cercando di trovare una alternativa all’egemonia del dollaro come valuta internazionale di riferimento, sia per motivi geopolitici che commerciali.

Per ora il risultato è ancora piuttosto modesto, ma sappiamo che una valanga può innestarsi anche da una palla di neve: nel settore del petrolio la Cina ha già avviato contratti internazionali in renmimbi e l’ultimo summit allargato in Sudafrica dei Paesi emergenti ha testimoniato una certa volontà di smarcarsi dal pesante fardello del biglietto verde. Si era anche detto che la fine del dollaro non dipenderà da una sostituzione con una nuova valuta dominante, ma piuttosto per uno sgretolamento dell’attuale sistema dei pagamenti internazionali.

Fine del prologo.

Perché il ruolo del dollaro allora, solo nel tempo, dovrebbe sbiadirsi? Perché stiamo assistendo a una caduta del dollaro fra le valute di riserva (sceso al 47% nel 2022 rispetto al 70% di quindici anni fa). La Cina, (come confermato dalla vendita shock di qualche giorno fa) sta diminuendo sensibilmente il suo stock di titoli USA in valuta (nel 2023 è sceso del 35% rispetto al valore di 10 anni fa) ed è il Paese che ne accelera maggiormente il processo.

Ma il dollaro soffre anche la grande performance dell’oro, che sta tornando al suo ruolo di commodity regina, favorita dal susseguirsi degli ultimi sviluppi geopolitici. Sempre la Cina lo sta comprando in grandi quantità, raggiungendo il quinto posto a livello mondiale. (Per nostra curiosità, l’Italia è in quarta posizione per riserve auree). Sono prevalentemente le banche centrali artefici di questa crescita e il trend sembra destinato a continuare anche per il futuro.

Una altra ragione è che la bilancia commerciale USA è da tempo in rosso: secondo un vecchio insegnamento imparato sui banchi dell’università, quando un’economia ha più da vendere che da comprare, la sua moneta allora sarà desiderata in quanto chiave d’accesso per ottenere le sue merci, ma vale anche il viceversa. E a differenza degli Usa, i Brics hanno invece una bilancia commerciale in surplus: se fossero in grado di organizzarsi in maniera efficace, potrebbero davvero costituire un problema per il dollaro.

La loro debolezza tuttavia sta, almeno ad oggi, nella necessità di dover coinvolgere Paesi dalla pessima reputazione finanziaria per poter fare massa critica: quale investitore terzo si sentirebbe tutelato nell’affidare i propri scambi o i propri risparmi ad una valuta rappresentativa dell’Argentina o dell’Egitto, dell’Etiopia o dell’Iran?

Faccio un esempio al riguardo. Se io ho un credito in dollari che per qualche ragione mi viene contestato, a proteggere i miei diritti ci sarà la giustizia americana, quindi uno Stato di diritto. Se io ho un credito in renminbi cinese e io dovessi incontrare qualche problema dovrò affidarmi ai tribunali cinesi. Auguri… Se lo avessi in pesos argentini, oltre alla giustizia locale a cui affidarmi, dovrei sperare che l’inflazione nel frattempo non mi abbia del tutto mangiato il valore del denaro da incassare (per la cronaca nel 2023 l’inflazione argentina è cresciuta del 113% circa a/a). Doppiamente auguri…

C’è anche un altro esempio che racconta bene la fragilità di questo club anti-americano in formazione: l’India sta comprando petrolio e gas russo a prezzi scontatissimi e pagandoli in rupie indiane. Ora, l’India è uno Stato di diritto, ma la rupia indiana ha scarsa utilità globale. Quando i russi incassano quelle rupie, moltissimi paesi le rifiutano, così i russi dopo aver svenduto la loro merce (energia in questo caso) all’India sono anche costretti a comprarsi prodotti indiani, di cui magari non hanno stretta necessità, per ri-utilizzare la valuta ricevuta. Se avessero ottenuto dei dollari anziché delle rupie, li avrebbero potuti utilizzare come volevano.

Insomma, che piaccia o meno, questa dittatura del dollaro è destinata a durare ancora per un po’, perché è molto conveniente per tutti.

Ma come tutte le dittature (illuminate o meno) si fondano su processi di controllo accentrati ed assolutistici.

Essere esclusi dal circuito del dollaro equivale, ancora ad oggi, ad una forte menomazione economica perché condanna all’emarginazione. Le sanzioni decise dagli USA hanno infatti il dono della “extra-territorialità”, cioè il loro impatto va ben oltre il continente americano (come ad esempio l’espulsione dal circuito Swift) e devono essere applicate e replicate da tutti i Paesi aderenti a quel sistema (anche se magari non ne condividono le ragioni).

E se questo fa davvero arrabbiare i Paesi del club anti U.S.A., fa arricciare il naso anche a tutti quei Paesi fondati su solidi sistemi democratici, necessariamente allergici a qualsiasi forma di tirannia. Anche quella monetaria…

Marco Conzadori-Una storia italiana

La seconda generazione non ha la fame, la scorza e le cicatrici della prima.

È un refrain che ha accompagnato tutta la crescita di una intera classe di imprenditoria italiana che si ostina a considerarsi ancora giovane, ma che in realtà ha già abbondantemente superato la soglia degli “anta”.

Quando la seconda generazione deve convivere con la prima, la gestione (già articolata di per sé) è fatta di compromessi e di competizione.

Per noi primi reduci di una Italia che ha smesso di crescere e quindi di sognare, lo è ancora di più.

Chi arriva dopo non solca mai la strada ma la segue, e per essere bravo può solo correre. È vero. E infatti fare l’imprenditore, oggi, in questo Paese, è come correre una maratona: avrai mille momenti di cedimento durante il percorso, avrai mille cavilli burocratici a consigliarti un decoroso ritiro e ancora di più ti sentirai troppe volte solo, schiacciato tra l’ambizione di un traguardo e la sofferenza di una strada che si mostra solo, o spesso, in salita.

Correre questa maratona come generazione subentrante può essere estremamente motivante, di certo è assolutamente faticoso: oltre al carico emotivo di voler (o dover) dimostrare di avere gli stessi “attributi”, è il percorso a essersi fatto molto più competitivo e accidentato.

E allora i racconti di un Paese ancora in forma spumeggiante, dove si poteva sprintare liberamente e credere alla favola di una crescita inarrestabile da parte di chi quello stesso cammino lo ha già fatto prima di te, suonano affascinanti, ma anche un po’ beffardi.

La ricchezza del nostro Paese si fonda su un sistema di competenze tramandate di padre in figlio, quelle piccole medie imprese che sono il cuore pulsante della nostra economia.

E una gestione familiare gode del privilegio della fiducia (fino a prova contraria) su asset e una storia consolidata, che, nel mondo del business agevola rispetto ad imprese più grandi, strutturalmente più definite, con smisurate strutture di management e complessi sistemi di governance.

Ma allo stesso tempo, queste imprese padronali peccano della debolezza del legame di sangue e della poca distanza dovuta dall’eccessiva confidenza o dallo scarso adeguamento ad un sistema competitivo completamente mutato nel tempo. Non è solo un problema di tecnologie adottate, quanto di visione del business nel suo insieme, capacità di anticipare trend da un lato e necessità di diversificare sull’altro lato.

La difficoltà è far comprendere che l’evoluzione del contesto ha determinato nuove modalità e nuovi attori con cui fare business, la necessità è di rischiare nuove strade, senza intaccare il livello di risultati e di efficienza raggiunti in epoche completamente diverse.

Questo mix di lavoro e affetto, una doppia lama di un coltello affilato, due piante rampicanti che crescono avvinghiate, una condizione di privilegio con molte sfaccettature, tanti pro e molti contro. La famiglia e l’azienda, un tutt’uno nello spazio e nel tempo.

Molte volte sentiamo quanto i cambi generazionali siano delicati e a volte deleteri per le aziende, proprio perché la “corsia veloce” è stata occupata per troppo tempo dalla prima generazione.

Ma se non ci fosse stata la prima generazione, quel percorso, o quella maratona, per rimanere in metafora, non sarebbe mai stata corsa dalla seconda.

Dura la vita del maratoneta, ma viva le maratone.

Il bello della maratona è vivere la fase della preparazione che ti porta alla corsa e la durezza emotiva della prestazione: all’arrivo, quando il percorso è ormai terminato, è impossibile non crogiolarsi nell’immensa sequenza di sensazioni vissute durante il percorso.

Ovviamente, anche tagliare il traguardo è una sensazione bellissima. Persino da secondi.

 

 

Nato nel 1977, nella città di Cremona, dove continua a vivere ed operare.

Ha studiato Ingegneria Informatica e Automazione.

E’ socio e Direttore vendite in EMG, impresa operante nella automazione e meccanica.

Ha la passione della corsa e ha corso numerose gare podistiche di media e lunga distanza.

In nessuna è arrivato primo, ma non è questo un buon motivo per smettere di correre. 

De-Dollarizzazione: chimera o realtà? (1 di 2)

Si sente sempre più spesso parlare di de-dollarizzazione, ossia quel processo sostenuto da alcuni Paesi che vorrebbero ridurre e/o sostituire il dollaro come valuta internazionale di riferimento. Dallo scoppio del conflitto ucraino il tema si è infiammato. Ma siamo davvero vicini al crepuscolo del “biglietto verde” come valuta egemone a livello mondiale?

Lo dubito fortemente. Ma non per una imperitura supremazia della economia americana rispetto alle altre, ma per altre ragioni che qui provo a motivare.

Breve tuffo nel passato: già negli anni ’60, il generale francese De Gaulle cercò di contrastare l’egemonia del dollaro, come pure, anche la nascita dell’Euro avrebbe voluto se non soppiantare, almeno ri-equilibrare il peso tra le due valute a livello internazionale.

Sappiamo già come è andata a finire. Ora il coraggioso ardire è soprattutto affidato a un gruppo di Paesi, originariamente identificati nell’acronimo BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), ai quali si sono aggiunti, di recente, altri 6 Paesi emergenti (Argentina, Iran, Arabia su tutti).

C’è una grossa ragione geopolitica dietro a questo intento: spodestare il primato del dollaro contrasterebbe anche il primato internazionale economico e finanziario degli USA.

Tuttavia, il dollaro, a mio parere, rimarrà ancora egemone per un po’ di anni a livello mondiale almeno per quattro ragioni: 1) è la moneta con maggiore stabilità al mondo; 2) l’economia statunitense rimane ancora la più importante in ambito internazionale; 3) gli USA sono una superpotenza militare ed economica che tutto il mondo occidentale riconosce e 4) una eventuale valuta alternativa risentirebbe ancora troppo della debolezza dei suoi stati sostenitori.

Andiamo con ordine.

Il dollaro è stabile. Rappresenta tra il 60% e il 70% delle riserve monetarie mondiali, il 40% delle transazioni bancarie avviene in dollari; l’88% delle operazioni commerciali è in moneta USA. Se è vero che il dollaro non è più ancorato all’oro (fine del sistema aureo indiretto), la sua quotazione è definita tuttavia in dollari, come pure il prezzo dell’altra commodity di riferimento: il petrolio.

Certo, la Cina è il Paese che sta cercando maggiormente di indebolire questa leadership. Ad esempio, essendo uno dei maggiori importatori al mondo di petrolio (e questo spiega molto dell’appoggio alla Russia nel conflitto ucraino) ha avviato il sistema “Petroyuan, finalizzato ad aumentare il valore dell’utilizzo del Renminbi cinese nei mercati internazionali. E ha trovato subito nell’Arabia un valido alleato.

Anche la Russia, (ça va sans dire), è direttamente coinvolta nel processo di de-dollarizzazione più per necessità che per volontà: è stata obbligata ad uscire dal sistema di pagamento internazionale SWIFT e ha visto il congelamento delle riserve di dollari detenute dalla sua Banca centrale.

In aggiunta a questi 3 colossi, anche altri Paesi minori hanno iniziato a sottoscrivere nuovi trattati commerciali utilizzando monete sostitutive. E questo non può essere ignorato.

Però, per dirlo con le parole del premio Nobel Krugman, “il dominio del biglietto verde non durerà per sempre, perché nulla è eterno, ma il clamore sulla de- dollarizzazione è molto rumore per quasi nulla: il dollaro domina perché non ci sono ancora alternative valide”. Margaret Thatcher, più pragmaticamente avrebbe sintetizzato il tutto con l’espressione “TINA” (there is no alternative).

L’egemonia del biglietto verde nel tempo potrebbe allora scemare, non tanto per l’emergere di una nuova super potenza mondiale, (come molti sostengono indicando la Cina), ma più per una normale frammentazione dei sistemi di pagamenti, dove, a seconda dei settori, una valuta potrebbe essere più idonea di un’altra.

Ma questo lo vediamo meglio la prossima volta. Devo andare velocemente a fare la spesa e spendere i pochi euro rimasti prima che definitivamente perdano valore schiacciati da valute che diverranno, nel tempo, molto più importanti…