Febbraio 2024

Gabriele La Monica-Comunicare bene non è un costo, ma sempre un’opportunità di guadagno

Cosa accomuna la tragedia del Ponte Morandi e la querelle dei pandori di Chiara Ferragni? Se si guarda alle due vicende dal punto di vista della comunicazione, si nota come siano entrambe caratterizzate da clamorosi errori. Dopo il crollo del Ponte nessun azionista o manager ha pensato di fare un qualsiasi cenno che testimoniasse una forma, anche minima, di vicinanza. Nel caso dei Pandori, Ferragni era perfettamente a conoscenza dell’indagine dell’Antitrust. Ma invece di cavalcare la notizia quando il procedimento era ancora in corso ha preferito aspettare. Con ogni probabilità i manager delle due società hanno ascoltato il settore legale scegliendo il silenzio. Una scelta che per Ferragni poteva essere plausibile (per Genova è stato solo un ulteriore affronto alle vittime), ma che in entrambi i casi ha portato a una tempesta perfetta di critiche che ha aggravato le conseguenze reputazionali dell’evento. Questo evidenzia come la comunicazione oggi sia un passaggio essenziale per ogni azienda. Nei manuali di economia aziendale è associata al costo puro. E già questo non contribuisce a renderla simpatica. Se poi si aggiunge che comunicare comporta far conoscere qualcosa di sé, almeno nella percezione più grossolana che si può avere del concetto, questo la rende invisa ai troppi imprenditori che ancora confondono la riservatezza con l’invisibilità. Oggi l’assunto del fondatore di Mediobanca, Enrico Cuccia, secondo cui “la rassegna stampa perfetta è quella vuota” è anacronistico e sbagliato. La comunicazione aziendale si divide in interna ed esterna. La prima è imprescindibile anche per i più ossessionati dalla segretezza. Per comunicazione interna si intende il complesso di attività finalizzate a creare una rete di flussi informativi e mirate a diffondere informazioni, saperi e conoscenze e a rendere chiari e condivisi gli obiettivi di un’organizzazione complessa ai suoi dipendenti. Siamo molto oltre le circolari interne o gli avvisi in bacheca. Una inesatta o incompleta comunicazione interna è molto spesso alla base di reati colposi commessi dal dipendente, reati che comportano per l’azienda l’imputabilità ex 231. Negli oltre 20 anni della legge la lista dei reati- presupposto, ovverosia quelli che possono innescare la fattispecie, si è allargata enormemente e ogni anno diviene più nutrita. Si è passati da un nucleo originario di reati, caratterizzati da essere commessi nell’ambito di imprese svolgenti un’attività lecita, a fattispecie di reato non attinenti alla criminalità d’impresa. Per evitare che i dipendenti in buona fede possano commettere reati, la formazione e l’informazione devono essere costanti ed essere inserite in un contesto, un flusso, che il dipendente deve percepire e recepire. Se si passa alla comunicazione esterna, la situazione è spesso più drammatica. In un’era caratterizzata da web e social network, non comunicare significa semplicemente non esistere. E non esistere non significa solo fare fatica a vendere il proprio prodotto, ma anche la propria storia. E questo spesso si traduce nell’incapacità di attrarre finanziamenti differenti dal credito bancario. Tanto basterebbe a giustificare non solo un uso costante della comunicazione esterna, ma anche la formazione di una classe di dirigenti che sappia comunicare efficacemente con la stampa e tutti gli stakeholder. Spesso l’assenza di comunicazione rende inefficaci alcuni investimenti, anche molto onerosi. A cosa serve partecipare a costose fiere internazionali se ci si arriva con un abito non all’altezza? Uno spot di alcuni anni fa recitava che “la forza è nulla senza controllo”. Si può dire che la produzione senza immagine è molto più debole.

 

 

Catanese di nascita e milanese di adozione, è giornalista da quasi trent’anni dopo una laurea in giurisprudenza. Dopo un inizio da freelance e un quinquennio a Rds Radio Dimensione Suono, da vent’anni è il responsabile della redazione milanese dell’agenzia di stampa Mf Newswires. Esperto del settore bancario ha seguito da vicino le ultime scalate e anche le crisi del settore. L’esperienza universitaria, come assistente nel corso di “Sociologia della comunicazione” lo ha portato a osservare e praticare il mondo della comunicazione aziendale, imparando a conoscere, apprezzare e divulgare i comportamenti virtuosi che un’azienda deve porre in essere per prevalere e massimizzare i profitti.

Conflitto ucraino due anni dopo: perché le sanzioni economiche sono state un flop

Il 24 febbraio 2022 la Russia invadeva l’Ucraina, puntando direttamente su Kiev, da sempre considerata la culla della civiltà russa. Negli stessi giorni Putin aveva già riconosciuto le repubbliche separatiste del Donbass (Donetsk e Lugansk) situate sul territorio ucraino e otto anni prima (2014) si era annesso la penisola di Crimea, nel silenzio (o peggio disinteresse) del mondo occidentale. A distanza di due anni da quel fatidico giorno, ci troviamo ancora disorientati da questa guerra che ancora non comprendiamo e ora anche distratti da un conflitto, come quello israeliano, che per ragioni storiche e culturali avvertiamo più insidioso.

Questa rubrica ha sempre cercato di tenersi al di fuori dai giudizi di merito, (e continuerà a farlo) ma ha sempre indagato le conseguenze economiche che prima il conflitto ucraino e poi quello israeliano hanno determinato a livello mondiale.

Il conflitto ucraino è stato infatti il detonatore per una spirale inflattiva mondiale da cui, solo oggi, riusciamo faticosamente ad imboccare la via d’uscita e il continente europeo è stato il più colpito, pagando il fio di essersi legato “mani e piedi” all’ex alleato russo.

Ma se le fonti energetiche sono state faticosamente e costosamente sostituite, a distanza di due anni appare chiaro il mezzo fallimento di tutte l’insieme di sanzioni economiche che sono state applicate e che, almeno negli intenti, avrebbero dovuto fiaccare prima e poi piegare l’economia della Russia e spingerla a una completa revisione nella politica militare.

Più volte ho parlato degli effetti delle sanzioni in questa rubrica (ricordo “Guerra e Pace” del 5 marzo 2022 e “Il folle costo della guerra” del 20 marzo 2022), ma riassumo anche oggi i principali: l’esclusione dal circuito Swift degli istituti di credito russi, il congelamento di beni e proprietà di alcuni oligarchi e delle riserve in valuta estera dello Stato e un massiccio ridimensionamento del traffico commerciale da e per verso la Russia.

A giudicare però dai dati appena pubblicati dal Fondo Monetario Internazionale, queste sanzioni non hanno funzionato: il PIL russo è atteso in crescita del 2,6% nel 2024 (una crescita tripla rispetto all’Europa al +0,9% e superiore agli USA al +2,1%). Il dato russo per il 2024 confermerebbe anche l’ottimo risultato già raggiunto nel 2023 (+ 3,0%).

Le ragioni di questo exploit potrebbero essere due: da una parte il forte intervento pubblico di stimolo in quella che è diventata, a tutti gli effetti, una economia di guerra, dall’altra parte la buona tenuta dell’export russo (soprattutto energia, metalli e fertilizzanti).

Ma se la spesa pubblica potrebbe non sostenere nel lungo termine l’economia russa, la tenuta dell’export è un effetto dell’insuccesso delle sanzioni applicate.

Sono infatti tre (a mio avviso) le ragioni di questo fallimento occidentale.

La prima, come detto, è legata appunto alla tenuta dell’export russo. Molti Paesi energivori hanno fiutato la opportunità di potersi sostituire alle potenze europee nell’accaparramento del gas, contrattando con la Russia un prezzo di “favore”. È il caso di India, Cina e Turchia, che hanno potuto così favorire le loro industrie e hanno salvato la bilancia commerciale russa.  Ma è anche il caso del Sudamerica per i fertilizzanti, o l’Africa per le armi. Non solo, molti Paesi occidentali hanno continuato a comprare risorse energetiche dal Cremlino, triangolando tali acquisti con Paesi terzi.

Anche il rublo inizialmente sotto pressione ha largamente recuperato terreno. L’inflazione dovrebbe scendere al 4,5%, dopo che la Banca centrale ha alzato i tassi d’interesse fino al picco del 15%.

La seconda ragione è di carattere politico: fin dalle prime votazioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite era palese che non tutti volessero tenere atteggiamenti di rigidità con la Russia, astenendosi nelle votazioni e rimanendo neutrali. Molti Paesi (soprattutto quelli più poveri e dipendenti dal gas russo) non volevano compromettere i rapporti con lo Zar e vedevano nel conflitto ucraino un mero problema europeo.

La terza ragione è riferibile alla peculiarità della società e dell’economia russa, da sempre piuttosto “chiusa”. L’enorme sforzo finanziario per sostenere la guerra è stato sostenuto a discapito delle pensioni, degli stipendi dei dipendenti pubblici, della manutenzione delle infrastrutture e dell’edilizia, ma il tasso di disoccupazione è rimasto basso (grazie alla leva obbligatoria e ai tanti dissidenti che hanno lasciato il Paese). In un Paese in cui non esiste né libertà di parola, né di stampa e vige una esasperata propaganda politica, tutte le possibili rivolte sono state soffocate sul nascere, cristallizzando il sistema di governo in essere. E qui si spiega il grande errore del “fronte occidentale”, che ha ciecamente creduto che l’applicazione di sanzioni economiche e qualche fornitura militare a Kiev, bastassero per sgretolare il fronte di consenso interno verso lo Zar.

Inoltre, il crollo del regime russo dato più volte per imminente non si è mai realizzato, indebolendo anche l’alleanza atlantica con gli USA, che nel caso di vittoria di Trump, avranno buon gioco a defilarsi da una guerra lontana, costosa e non di certo strategica come quella in Medio Oriente.

Insomma, sul piano militare la guerra è in stallo, le sanzioni economiche sono state un flop e l’alleanza atlantica si è indebolita e l’avvicinamento dei Paesi scandinavi alla NATO è solo un parziale successo. Converrà allora lavorare tutti per una pace veloce e giusta, anche se dovesse passare per privazioni territoriali importanti per l’Ucraina. Bisogna farlo prima che l’immagine della Unione Europea possa uscirne del tutto compromessa, risvegliando a livello nazionale pericolosi focolai populisti: la storia recente ci dovrebbe aver insegnato che è una strada pericolosa, quanto masochista.

Doomsday clock: meglio non chiedere l’ora

A che ora è la fine del mondo” fu una celebre hit del 1994 di un cantautore italiano, cover a sua volta di un’altra canzone di un ben più noto gruppo inglese, che la compose nel 1987.

Onestamente, non so quanto i musicisti in questione si siano ispirati nella composizione di queste canzoni da un preliminare approfondimento sul “Doomsday clock”, tecnicamente l’orologio dell’apocalisse.

Nota importante: nella prosecuzione della lettura di questo pezzo, ogni forma di amuleto è ammesso e anzi incoraggiato.

Fatto sta che un manipolo di ardimentosi scienziati, nel 1947 “si presero la briga e di certo il gusto” (cit.), di creare un simbolico orologio che misura il pericolo di un’ipotetica fine del mondo.

In questo algoritmo che governa questo bizzarro segnatempo, la mezzanotte simboleggia la fine del creato, mentre i minuti prima rappresentano la distanza che ci separerebbe dall’evento fatale per l’umanità.

Mentre in principio alla sola mezzanotte era associata l’eventualità di una guerra atomica, nel corso degli anni si sono aggiunte altre calamità irreversibili a simboleggiare la fine del mondo, quali: un eventuale punto di non ritorno nel mutamento climatico, l’utilizzo di armi batteriologiche e l’utilizzo senza freni della ingegneria genetica.

Giusto per capirci meglio, al momento della sua creazione, (durante la guerra fredda), l’orologio fu impostato sulle ore 23:53, da allora, le lancette si sono spostate solo in 23 occasioni. Il punto più lontano dall’apocalisse (17 minuti)  fu raggiunto nel 1991, alla fine della guerra fredda, quando Usa e Russia firmarono lo START, il primo trattato sulla riduzione delle armi strategiche, mentre nel 2020, nel pieno della pandemia Covid le lancette si avvicinarono paurosamente a 100 secondi dalla mezzanotte.

Dunque… Anche il più distratto lettore delle ultime vicende mondiali può velocemente intuire che, all’alba del mese di febbraio nell’anno 2024, sia molto rischioso voler leggere l’ora su questo orologio.

Faccio un immediato spoiler: le lancette del Doomsady clock alla luce degli ultimi eventi geopolitici in Ucraina e soprattutto in Israele, dove persiste il rischio di una escalation che coinvolga una potenza nucleare come l’Iran, e alla luce delle attuali condizioni di salute del nostro pianeta sono posizionate a 90 secondi dalla fine del mondo.

90… Che poi nella smorfia napoletana è anche il numero della paura… E vorrei anche ben vedere…

Per dirla in altri termini, solo in un caso le lancette si erano così paurosamente avvicinate alla mezzanotte: era il 1953 e tre mesi prima i russi avevano testato le nuove armi all’idrogeno cancellando dal pianeta (letteralmente) un atollo nell’Oceano Pacifico. Non proprio un episodio incoraggiante…

Ora, qualcuno (e tenendo sempre ben saldi nelle mani gli amuleti evocati prima), potrebbe eccepire che questa rubrica si è sempre occupata di economia o di fatti sociali dai marcati riflessi economici e dunque potrebbe sembrare fuori luogo parlare di questo bizzarro orologio in questa sede.

Ma è proprio perché si vorrebbe poter continuare a parlare di economia, di mercati finanziari e di fattori sociali che possono influenzare il nostro futuro benessere economico che lo si fa proprio in questa sede, in fondo è anche questa una forma di esorcismo.

Che poi, è meglio leggere anche un po’ annoiati questa rubrica, che guardare spazientiti l’ora, magari sull’orologio sbagliato…