Marzo 2024

Helga Zanotti- Legge Europea sull’intelligenza artificiale: il futuro è già domani

Il 12 marzo 2024, il Parlamento Europeo ha approvato il testo definitivo della legge sull’intelligenza artificiale, nota come AI Act (Artificiale Intelligence Act). Le domande che serpeggiano nell’ambiente partono dall’ipotesi di un irrimediabile ritardo sulle strade da intraprendere, per guidare il cambiamento nel rispetto delle persone e dello sviluppo dell’economia europea.

Entro il 2025, il volume totale dei dati prodotti al mondo pare destinato a quintuplicarsi, rispetto al valore di 33 zettabyte del 2018, anche grazie alla rapida progressione dell’intelligenza artificiale. È legittimo attendersi, che questa importante mole di dati trasformi la società, cioè il modo di produrre, consumare e vivere di ogni essere umano. Questa considerazione ci porta ad una prima valutazione: l’innovazione digitale e -nel caso qui trattato- l’intelligenza artificiale è nettamente più veloce del processo normativo ed anche economico. Solo conoscendo le dinamiche proprie dello sviluppo dell’intelligenza artificiale potremo beneficiare dei suoi effetti positivi, anche nell’ambito delle politiche di sviluppo e competitività degli enti.

Negli USA, un’azienda di liquori ha nominato un CEO Robot con intelligenza artificiale, Mika, mentre nello stesso Paese un avvocato ha incaricato Chat-gpt di costruire la difesa di un suo cliente. Nel primo caso, la società ha ottenuto un buon risultato in borsa, mentre nel secondo caso l’avvocato è stato sospeso dall’esercizio della professione forense, perché il giudice ha scoperto che questi e per lui Chat-gpt, si era letteralmente inventata i precedenti a sostegno della difesa elaborata[1]. Il risultato sembra diametralmente opposto, a un primo sguardo. Nei fatti il sistema di intelligenza artificiale che opera come amministratore delegato subisce i limiti legati ai bias cognitivi e la carenza di creatività che solo l’essere umano vanta. In breve, non può raggiungere i risultati degli amministratori delegati umani.

Una seconda valutazione ruota intorno a questi due esempi, non certo edificanti, del resto lo scopo era introdurre un tema importante, che traspare dallo speech dell’AD di Open AI in occasione del lancio di Chat-gpt: l’intelligenza artificiale che vediamo ora è semplice, frequentemente pervasa da errori e bias, anche a causa dei sistemi di machine learning impiegati per addestrarla[2]. Se non conosce i limiti dell’intelligenza artificiale chi la lancia sul mercato, non può farlo la legge.

La vera svolta è stimabile tra il 2028 e il 2030 circa, quando sistemi di intelligenza artificiale oggi, forse, inimmaginabili creeranno nuove opportunità professionali, nuovi metodi di cura e nuovi sistemi di produzione, per esempio.

Ci troviamo al centro di un cambiamento epocale, che chiama gli operatori europei ad essere data driven. A questo scopo, occorre un’intelligenza artificiale antropocentrica e affidabile[3].

Attraverso l’applicazione del c.d. Principio di progettazione antropocentrica dell’intelligenza artificiale, unitamente al Principio di autonomia della persona, è legittimo attendersi un incremento delle abilità cognitive, sociali e culturali dell’essere umano intorno al quale è costruito il diritto europeo[4].

Le società con sede extra-UE non devono rispettare norme simili, per sviluppare l’intelligenza artificiale e quelle statunitensi sono soggette unicamente ad una serie di norme incentrate sul valore economico dell’intelligenza artificiale[5], invece che sul coordinamento fra sviluppo dell’AI e rispetto delle persone. Un vantaggio a discapito dell’Europa? Non è detto, poiché i sistemi sviluppati e commercializzati extra-UE dovranno adeguarsi alle norme dell’AI Act Europeo, per entrare nel nostro mercato.

L’AI Act europeo si applica anche ai sistemi di intelligenza artificiale sviluppati e prodotti all’estero, che si intenda commercializzare sul nostro mercato, per garantire l’affidabilità dei sistemi e la fiducia delle persone, ma anche per arginare i rischi di affossare la competitività delle società europee dinnanzi alle Big Tech. Il ruolo dell’Unione Europea nei prossimi anni sarà probabilmente duplice: attrarre dati per sviluppare la propria economia  ed evitare abusi nel relativo trattamento. Mi pare più attrattivo del capitalismo della sorveglianza.

 

 

 

Avvocata d’affari, laureata in Diritto Internazionale all’Università degli Studi di Pavia ha studiato scienze alla Scuola Universitaria Superiore dello stesso ateneo, nonché Alumna del Collegio Nuovo-Fondazione Sandra ed Enea Mattei. Successivamente, Executive MBA con focus sull’innovazione digitale, successivamente Master sulla Privacy e Master sui Contratti on-line. Ha avuto un incarico triennale all’Università di Bergamo, successivamente all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, mentre oggi è tutor di giurisprudenza, presso l’Almo Collegio Borromeo, uno dei dodici Collegi universitari riconosciuti dal Ministero per l’Università e la Ricerca, nonché al Master International Business Entrepreneurship (M.I.B.E.) entrambi dell’Università di Pavia. Ad Aprile 2024, Dottorato in Business Administration, presso la stessa università con tesi sul tema: Etica dell’Intelligenza Artificiale. Ha scritto sia per https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2020/05/26/fintech-disruption-realta/; nonchè per Giappichelli Editore, “Guidare il cambiamento e l’innovazione. Scenari, talenti, valori”, A cura di Stefano Denicolai, G. Giappichelli Editore, 2020; per CEDAM, “Manuale di diritto dell’informazione e della comunicazione” del Prof. Ruben Razzante, (cap. 3: “Tutela della privacy e nuove frontiere dell’innovazione tecnologica”), 2022 nonché per la Rivista di Diritto dell’Informazione, a cura del Prof. Ruben Razzante. Mensilmente scrive sulla rivista economica WIP-Work in Progress, http://wipbusiness.it. È avvocata of counsel per BMV Law Tax & Finance, dove si occupa del Diritto dell’innovazione digitale e delle nuove tecnologie.

 

[1] Nei sistemi giuridici di Common Law, le sentenze rese in precedenza da altri giudici, in particolare superiori, aventi il medesimo oggetto, ndr.

[2] Chat-gpt è addestrata su Wikipedia e su articoli universitari che paiono troppo datati per essere fonti di conoscenza vera e propria, ndr.

[3] Emendamento 3, considerando 1 – AI Act.

[4] Linee Guida Etiche per un’IA affidabile, a cura del Gruppo di esperti di alto livello sull’intelligenza artificiale, 2028, Gruppo di esperti di alto livello sull’intelligenza artificiale | Plasmare il futuro digitale dell’Europa, nonchè Risoluzione del Parlamento Europeo del 20.10.2020 recante raccomandazioni alla Commissione concernenti il Quadro relative agli aspetti etici dell’intelligenza artificiale, della robotica e delle tecnologie correlate (2020/2012-INL).

[5] Execuive order on the Safe, Secure and Trustworthy Development  and Use of Artificial Intelligence del 23.10.203.

Panem et circenses in salsa araba: lo sportwashing (2 di 2)

Dove eravamo rimasti? Nel corso degli anni vari Stati hanno sempre più investito nella propria immagine, cercando di estendere la leadership al di fuori dei meri confini nazionali. Sia grandi potenze internazionali e sia piccoli Stati hanno iniziato ad aumentare il proprio potere (o in gergo tecnico “bargaining”), sfruttando alcuni settori tipici del soft power: la cultura, il turismo, il commercio, l’arte, il cinema, l’educazione e lo sport.

Gli USA per anni sono stati i maestri incontrastati di soft power: attraverso l’industria di Hollywood e non solo ci hanno inculcato il “mito dell’American dream”, ma nella classifica dei Paesi più attraenti, negli ultimi anni, stanno scalando pozioni importanti le nazioni del Golfo Persico.

Fine del prologo e ripartiamo da qui.

Ci sono i 3 maggiori Paesi del Golfo Persico (Qatar, Emirati Arabi e Arabia Saudita) a cui si aggiunge il Marocco, che tra i Paesi di matrice araba hanno trovato nell’organizzazione dei grandi eventi sportivi il modo più efficace per scalare le posizioni di influenza e gradimento internazionale. Seppur questi Paesi palesino ancora evidenti limiti democratici, offrano rifugio e sostegno a sacche di terrorismo internazionale e siano spesso in conflitto tra di loro, stanno tutte seguendo un comune percorso di consenso, almeno in Occidente.

Questi 4 Paesi hanno investito negli ultimi anni miliardi di dollari (anche se spesso la modalità utilizzata è sospetta), ospitando alcuni dei maggiori eventi sportivi mondiali, acquisendo importanti club calcistici europei e attraendo calciatori di fama internazionale nei propri campionati locali di (ancora) scarsa visibilità internazionale.

Non è oro tutto quello che luccica, ça va sans dire… Anzi, l’utilizzo dello sport al fine di apparire qualificati nello scenario internazionale permette spesso di distogliere l’attenzione da cronici problemi sociali e guai legati ai diritti umani sul fronte interno ed è definito con un termine ben preciso: sportwashing.

L’esempio più eclatante è stato certamente il Mondiale di Calcio 2022, svolto nel minuscolo Qatar. Prima di ospitare i mondiali di calcio, l’emirato aveva anche già organizzato altri eventi sportivi, (Giochi Olimpici asiatici nel 2006, il Qatar Masters Golf e il Qatar Open Tennis). Rimanendo in ambito calcistico, il Qatar, tramite il fondo sovrano Qatar Investment Authority (QIA) ha anche acquistato il Paris Saint Germain, un club molto discusso negli ultimi anni per le sue faraoniche campagne acquisti (Messi, Neymar, Mbappè tra i tanti), pur senza vincere nulla di rilevante a livello continentale (almeno per ora).

Il Paese qatariota ha anche lanciato il progetto “Aspire Academy” che punta a formare o acquisire campioni di diverse discipline sportive, tra cui il calcio. Grazie alle prime naturalizzazioni di calciatori nordafricani e sudamericani  il Qatar è riuscito a vincere la Coppa d’Asia nel 2019, dopo esser considerato per anni la “squadra materasso”. Il Qatar grazie a questi risultati e all’organizzazione di questi eventi ha sovvertito le vecchie regole di politica internazionale, dimostrando che anche un piccolo Paese, seppur sfavorito dalla collocazione geografica e dalla limitata popolazione, con un sapiente uso della soft power può diventare un attore imprescindibile a livello mondiale.

Rimangano però enormi le critiche internazionali sulle condizioni dei lavoratori immigrati impiegati nella costruzione degli stadi per il Mondiale, come pure, il Qatar si è reso protagonista dello scandalo legato alla corruzione di alcuni Europarlamentari, tra cui la vicepresidente Eva Kaili, che in un famoso discorso si era pronunciata a favore dell’apertura al mondo di questa monarchia e dei suoi passi avanti dal punto di vista dei diritti dei lavoratori. “Sic transit gloria mundi”…

Ma il Qatar, tramite lo sport è riuscito a catalizzare le attenzioni internazionali, divenendo al contempo una destinazione popolare per il turismo internazionale e per l’economia mondiale, garantendosi la sopravvivenza in vista dell’inevitabile esaurimento delle riserve di gas e petrolio.

Altro esempio di sportwashing lo offre l’Arabia Saudita che ha acquistato club europei dalla consolidata tradizione sportiva (vedasi il Newcastle), ospitato le finali della Supercoppa Italiana e spagnola, (giocate in desolanti stadi vuoti) e riammesso pure le donne allo stadio per l’occasione.  Ma il colpo di genio dell’Arabia saudita è stato l’acquisto di Cristiano Ronaldo, (oltre a varie altre stelle internazionali), famoso sia per l’ingaggio multimilionario e sia per l’attenzione mediatica globale che il calciatore riesce a garantire.

Peccato che anche l’Arabia Saudita palesi ancora grosse criticità principalmente in materia di libertà di espressione e associazione, ci sia ancora un uso indiscriminato della pena di morte (anche per i minorenni), la condizione della donna è parecchio arretrata e sia ancora irrisolto lo scandalo internazionale per l’omicidio del giornalista Khashoggi. Eppure qualche politico italiano aveva parlato di “rinascimento arabo”. Forse, con il senno di poi, è stato un po’ azzardato.

Gli Emirati Arabi sono il Paese più impegnato a presentarsi come il volto più moderno e tollerante del mondo arabo. Del resto, sono stati i primi ad ospitare un Papa nella penisola araba (nel 2019 Papa Francesco) ed è anche stato  i primi ad aprire le prime sedi arabe del Louvre e del Guggenheim (dietro ovviamente cospicui pagamenti). Niente sport allora? Niente affatto: la costruzione di un circuito di Formula Uno e gli investimenti per costruire il Ferrari World testimoniano solo l’interesse per uno sport diverso, anche se va riconosciuta l’opera di scouting che la leadership emiratina sta effettuando nei confronti di imprenditori, scienziati e tecnici per diventare un polo attrattivo a livello mondiale.

Infine, il Marocco che dopo aver organizzato la Coppa del Mondo per Club, si è finalmente aggiudicato il Mondiale di calcio 2030 con Spagna e Portogallo, dopo 4 candidature andate male.

Anche qui la situazione è preoccupante, sia in termini di limitata libertà di espressione e sia in termini di condizioni di lavoro disastrose, ma forse non è davvero affar nostro guardare cosa avviene fuori dal nostro Paese…

Molto meglio preoccuparci dell’ultima campagna acquisti della nostra squadra del cuore, o di come rendere più spettacolare il nostro sport preferito.

“Panem et circenses”!

Almeno e fino a quando, chi investe nelle moderne arene, ci lascerà la libertà di seguirle…

 

Panem et circenses in salsa araba (1 di 2)

Siamo tutti tifosi di qualcuno o qualcosa. È inutile negarlo. E non mi riferisco solo al famigerato calcio. Fin dalla antica Grecia, ma anche nella Roma delle arene, era lasciata la possibilità al popolo di svagarsi (e sfogarsi) sostenendo l’atleta o il gladiatore preferito. Nonostante lo scetticismo degli intellettuali di allora (Giovenale in una lettera ad un amico e con tono disgustoso lamentava il “panem et circences” come metodo demagogico per governare le genti), le cose, a distanza di duemila e passa anni non sono cambiate affatto. Anzi, si sono solo raffinate…

Oggi semmai, non basta più saper governare le proprie genti, ricorrendo anche a metodi più o meno demagogici, la vera abilità è estendere il concetto di territorialità ed influenzare gli usi e costumi degli altri popoli, divenendone, in poche parole, un modello.

Semplifico il concetto: alcuni Stati cercano di esercitare una leadership carismatica su altri, per influenzarne lo stile di vita, modellarne i gusti e accrescere, a proprio vantaggio, il consenso sia esterno che interno.

Dagli anni novanta, si parla a tal proposito di Soft Power, un neologismo che indica un metodo alternativo di politica estera, basato sulla capacità di attrazione e di persuasione, piuttosto che sull’uso di metodi coercitivi o militari, come era stato fino ad allora con le grandi guerre e appena dopo con la Guerra fredda.

Gli Stati Uniti sono da sempre un fulgido esempio di soft power e i film di Hollywood (ad esempio) hanno da sempre valorizzato “lo stereotipo dell’American dream”: una terra di libertà dove tutto è possibile, catalizzando fascino e speranze di tutta una vasta popolazione occidentale e non solo.

Nel corso degli anni, il livello di consenso su una nazione si è poi sempre più orientato e focalizzato sul suo grado di sviluppo delle istituzioni e dello stato di diritto, sul livello raggiunto in campo tecnologico, della formazione e della crescita economica: più forte insomma si dimostrerà una nazione nel campo dei Soft Power e maggiore sarà la sua abilità nell’attrarre nella propria orbita investimenti, servizi e mercati.

Ogni anno la società di consulenza Brand Finance valuta la capacità attrattiva delle varie nazioni, pubblicando la più accurata e ampia ricerca sulla percezione dei Paesi come Brand e sulla crescita dei loro Soft Power. Una classifica insomma dei paesi ‘più fighi’ o più ‘cool’ (per dirla con slang giovanile) a livello internazionale.

E questo studio considera un’ampia gamma di criteri, valutando anche settori molto diversi tra di loro.

Li cito per importanza: familiarità, reputazione, influenza, capacità di business, forza dell’economia, presenza di marchi mondiali, numero di leader riconosciuti, buon governo, bassa corruzione, sicurezza, relazioni internazionali, influenza nell’arte e nella cultura, rispetto del pianeta, facilità di comunicazione, media influenti, leader comunità scientifica, livello tecnologico raggiunto, educazione, futuro sostenibile, investimenti nel green. Mixando le varie classifiche, emerge lampante il primato degli USA seguiti da Regno Unito, Germania, Giappone, Cina, Francia, Canada, Svizzera e Italia (suvvia, non siamo poi così malaccio). Ma fino a qui non penso che ci siano grandi sorprese.

Mi soffermo invece sulla decima posizione, in cui si colloca un rappresentante di un’area in forte ascesa, su cui converrà spendere il prossimo approfondimento di Nuvole e Mercati: gli Emirati Arabi, unici (per ora) rappresentanti del mondo arabo.

Una zona (quella del Golfo saudita) composta da Arabia Saudita, Emirati Arabi, Oman, Qatar, Bahrein e Kuwait e il cui prodotto lordo aggregato ha già un peso assoluto nell’ economia mondiale, ma che, seppur svantaggiato da un precario stato di diritto (per essere diplomatici…), sta scrivendo una pagina del tutto innovativo di soft power a livello mondiale.

Mi limito a dare qualche indizio e mi ricollego all’incipit di partenza: siamo tutti tifosi di qualcosa. E i rappresentanti del Golfo Saudita sembrerebbe che l’abbiano interpretato alla lettera, comprando per quattro (almeno per loro) miseri spiccioli la passione sportiva di una intera popolazione occidentale…

Ma siamo solo agli inizi…  Non ci meravigliamo nemmeno più che le finali di qualche torneo nazionale delle maggiori leghe calcistiche europee vengano giocate in stadi vuoti sauditi, o che la stagione di Formula 1 inizi nel parziale disinteresse su circuiti semi sconosciuti, o che alcuni dei maggiori collezionisti d’arte ed eventi artistici internazionali siano ormai prerogativa di quell’area. Fa tutto parte di una ben studiata strategia di soft power. Se darà i suoi frutti lo vedremo nei prossimi anni. Intanto, converrà approfondirne gli effetti…

Italo Carli-Arte e iniziative culturali come risorse per la sostenibilità sociale

Arte e cultura svolgono un ruolo fondamentale nello sviluppo sociale, contribuendo in modo determinante allo sviluppo sostenibile. Negli ultimi anni si è assistito ad una crescita nell’interesse per i fattori “ESG”, “Environmental”, “Social” e “Governance”, anche alla luce dell’evoluzione della normativa in materia di reporting non finanziario e di sostenibilità. Bilancio sostenibile, di fatto, obbligatorio dal 2024 in Europa per tutte le compagnie quotate in borsa.

Con questo obbiettivo noi di ARTE Generali insieme all’Istituto per la Ricerca sull’innovazione trasformativa (ITIR) – Università di Pavia – in collaborazione con Banca Generali e Deloitte Private, abbiamo avviato un’indagine esplorativa sulle organizzazioni che detengono beni artistici culturali o promuovono iniziative culturali come fattori determinanti per la sostenibilità.

La ricerca è ancora allo stadio iniziale e costituisce il trampolino di lancio per costruire un vero e proprio “osservatorio” con il fine di approfondire qualitativamente e portare avanti l’indagine introduttiva per capire meglio il potenziale dell’arte e dei beni culturali nell’ambito dello sviluppo sostenibile, ma anche di stimolare lo scambio di domande e risposte tra i principali players del settore in merito agli investimenti in arte e cultura come parte del bilancio sostenibile.

Lo studio intende comprendere se e come tali organizzazioni gestiscano, misurino e comunichino verso l’esterno il proprio impatto sociale. Il monitoraggio e la rendicontazione degli impatti sono infatti fattori fondamentali per incrementare il potenziale dell’arte e della cultura nella promozione dello sviluppo sostenibile, e possono supportare le organizzazioni culturali ad attrarre risorse da stakeholder, pubblici e privati, investitori e donatori.

Da questa indagine emerge che solamente il 20% delle organizzazioni intervistate pubblicano informazioni su queste attività culturali, impegnandosi in una comunicazione trasparente delle loro prestazioni. Inoltre, nonostante solo il 38% delle organizzazioni intervistate fosse a conoscenza del quadro UNESCO Cultura 2030, che consente di definire indicatori utili per comprendere come la cultura contribuisce allo sviluppo sostenibile, e solo il 7% la utilizzi effettivamente, i dati raccolti sottolineano un’importante volontà di miglioramento e la possibilità di rafforzare il ruolo dell’arte e della cultura nello sviluppo sostenibile. È interessante inoltre notare che il 74% delle organizzazioni che attualmente non misurano l’impatto sociale delle loro collezioni d’arte e dei beni culturali indica di volerlo fare in futuro.

Considerando anche i risultati dell’analisi desk e dell’indagine quantitativa, le interviste contribuiscono a suggerire l’identificazione di tre “approcci” nella gestione e nella misurazione dell’arte e dei beni culturali.

Il primo che chiamiamo “approccio basato sulla cultura“, racchiude le organizzazioni che percepiscono l’arte come trascendente e intrinsecamente creativa. Queste organizzazioni svolgono con efficienza il loro ruolo di gestione dell’arte e della cultura, misurando meticolosamente le statistiche dei visitatori a beneficio dei propri consigli di amministrazione, ritenendo tuttavia preferibile la valutazione qualitativa degli impatti generati e della governance di arte e cultura.

La seconda tipologia, “approccio orientato alle comunità locali”, si riferisce invece a quelle organizzazioni che interpretano l’arte e i beni culturali come il ponte ideale per stabilire relazioni e dialogo con il territorio, per restituire alle popolazioni locali il valore generato dall’azienda, o dare valore alle comunità locali, e per gestire relazioni strategiche con importanti stakeholder, con un approccio di “rete”. Infine, il terzo tipo, può essere definito “approccio olistico”, poiché si fonda sulla premessa di cercare di rispondere alla domanda: come possono arte e cultura, secondo più angolazioni, acquisire nuove forme di valore per massimizzare il loro impatto, diventando vere e proprie risorse strategiche che idealmente dovrebbero alimentare il vantaggio competitivo? Questo tipo di organizzazione riconosce esplicitamente l’importanza della cultura nell’agire come motore della sostenibilità economica, ambientale e sociale, affrontando sfide contemporanee come l’eliminazione della povertà, l’adattamento ai cambiamenti climatici e la garanzia di pari opportunità.

Dunque, lo studio evidenzia un potenziale significativo dell’arte e dei beni culturali per ricalibrare i modelli di governance e le competenze nel settore culturale, anche attraverso la rendicontazione, al fine di amplificare gli impatti positivi generati e contribuire più efficacemente agli SDGs. Arte e cultura non solo ispirano e coinvolgono gli individui, ma stimolano anche l’innovazione, il dialogo e lo sviluppo inclusivo.

Le dinamiche economiche e sociali non devono più essere viste come parti antagoniste: è infatti possibile generare sinergie reciproche, e la misurazione della cultura e del suo impatto sulla società possono essere concepite come strumenti per preservare le arti e la cultura per le generazioni future.

 

Branch Manager di ARTE Generali Italia, è laureato in Ingegneria Elettronica presso il Politecnico di Milano. Ha iniziato la sua carriera nel mondo dell’informatica per poi passare al settore assicurativo e specializzarsi nel campo dell’arte. Ha ricoperto diverse posizioni manageriali nel settore assicurativo, sia in ruoli organizzativi che tecnico-commerciali. Tiene conferenze e corsi nelle più prestigiose università italiane sul mondo delle belle arti e sulla gestione del rischio dei beni culturali. Ha una vasta conoscenza nel campo della tecnologia dell’arte, combinando le competenze assicurative con la sua formazione di ingegnere.