Giugno 2023

Poveri ma belli

Da sempre nel mondo ci chiamano il BelPaese, riconoscendoci un primato internazionale in termini di clima, arte, cultura, storia, cibo, gusto, fascino etc etc…

Ma da sempre gli stessi nostri ammiratori, si trasformano in feroci detrattori, descrivendoci come un popolo dedito all’arte di arrangiarsi, rumoroso, inaffidabile, senza amor di patria (salvo quando gioca la nazionale di calcio, “Elio e le storie tese” docet…) e profondamente afflitto da problemi economici irrisolti.

I Francesi hanno riassunto nell’espressione “Oh, les Italiens…” una sintesi perfetta di ammirazione e commiserazione, desiderio e distacco, ma spesso il nostro noto proverbio “chi ha i denti non ha il pane, chi ha il pane non ha i denti” ci è sembrato il miglior modo per giustificarci e guardare altrove.

E così abbiamo sempre guardato al di là delle Alpi, idealizzando mondi perfetti e ricchissimi, terre piene di opportunità per il nostro grande talento inespresso.

Soprattutto la motivazione economica è quella che ha spinto sempre più giovani (me medesimo per un periodo della mia vita) a varcare il confine per cercare soddisfazioni più in linea con le proprie aspettative e mettersi alle spalle uno scenario di ristrettezze ed involutivo.

C’è del vero, per carità, ma a giudicare dall’ultimo rapporto Eurostat sul livello di povertà in Europa, forse qualcosa, in Italia, sta cambiando.

No, non mi sto riferendo a chi ci ha promesso che avrebbe “abolito la povertà”, con l’introduzione del tanto discusso reddito di cittadinanza. Mi riferisco piuttosto alla diminuita percentuale di popolazione costretta a rinunciare a beni, servizi e attività sociali per ragioni finanziarie. In altre parole, tutti coloro che sono a rischio di povertà estrema ed esclusione sociale. A livello comunitario, questo indicatore viene chiamato deprivazione materiale e sociale” e sembrerebbe che negli ultimi sette anni in Italia si stia fortemente riducendo. O per dirla in altri termini e confrontandoci con gli altri 2 maggiori Paesi europei (Francia e Germania) da noi si sta riducendo sensibilmente, mentre da loro è in forte aumento.

Sembrerebbe che sulla sua riduzione abbia finalmente inciso più la crescita dell’economia, degli investimenti, dei redditi e dell’occupazione, che il ricorso a misure di assistenzialismo.

Raffino ulteriormente il concetto: la “severa deprivazione materiale e sociale” ovvero l’incapacità da parte di un individuo di soddisfare almeno 7 dei 13 fabbisogni «basici» indicati dall’Eurostat, nel 2015 era pari al 12,1% in Italia, contro il 5,7% della Germania, il 6,8% della Francia. Dopo 7 anni, l’Italia è scesa al 4,5%, (valore più basso di sempre), la Germania è salita al 6,1% e la Francia al 7,5%.

Cito allora le “13 situazione estreme dell’indigenza” in maniera sequenziale, ma non esaustiva: 1) non poter sostenere spese impreviste, 2) non potersi permettere una settimana di vacanza all’anno fuori casa, 3) non potersi permettere un pasto completo almeno una volta ogni due giorni, 4) non poter riscaldare l’abitazione; 5) avere ritardi nei pagamenti di mutui, affitti o finanziamenti, 6) non avere una macchina di proprietà, 7) non avere internet, 8) non potersi comprare abiti nuovi, 9) non avere almeno due paia di scarpe, 10) non avere una piccola somma settimanale per esigenze personali, 11) non poter sostituire mobili danneggiati, 12) non poter avere attività di svago a pagamento, 13) non poter incontrare familiari e/o amici una volta al mese per un momento conviviale fuori casa. Sono indicatori che possono essere contestati, ma di fatto consegnano una immagine dell’Italia in forte risalita nel contesto continentale, anche se ci rimangono eterni problemi irrisolti, come il netto divario esistente tra nord e sud, la massiva economia sommersa del Paese, ma soprattutto un livello di povertà (non di estrema indigenza come appena visto) ancora molto preoccupante: circa un italiano su 5 è ancora a rischio di povertà, (cioè con un reddito netto inferiore al 60% di quello mediano nazionale).

C’è ancora molta strada da fare, insomma. Ma un percorso virtuoso, soprattutto in alcune aree come il Nord-est e il Nord-Ovest (il cui tasso di deprivazione sociale sembrerebbe essere tra i più bassi di tutta Europa) è stato già ampiamente avviato.

Rimaniamo (per ora) con la nostra dignitosa povertà e il nostro fascino internazionale, sperando di poter raggiungere presto nuovi traguardi ancora più ricchi di bellezza. In tutti i sensi…

Rossella Novarini-L’evoluzione delle case d’aste: attuale posizionamento nazionale ed internazionale

Identificherei con l’inizio del 2020 l’avvio di una nuova fase, forse la più evolutiva e propulsiva, nella trasformazione delle case d’aste e nella percezione da parte del pubblico della loro portata operativa.

L’ inevitabile chiusura del mondo delle relazioni e dei contatti durante la crisi pandemica, ha inciso sul modo di rapportarsi con un mercato fino ad allora percepito come esclusivo e riservato a pochi intenditori.

Annullate le fiere, gli eventi, le mostre, serrati i musei, le case d’aste sono rimaste l’unico circuito d’acquisto e di riferimento. Approvvigionarsi di emozioni, sensazioni e nutrimento dello spirito significava navigare per siti, per cataloghi online, per esposizioni virtuali e sperimentare (per tanti per la prima volta) le battiture in streaming.

Stiamo parlando di una svolta epocale, in cui le aste sono emerse con prepotenza, poiché la loro stessa natura ha consentito loro di adattarsi celermente alle modalità dell’offerta di quel preciso momento storico, restando connesse con un tessuto sociale vivo e pulsante, sebbene nascosto dietro a uno schermo. Il collezionista, l’appassionato, il simpatizzante, il neofita, hanno avuto l’opportunità di avvicinarsi all’acquisto d’arte senza più un coinvolgimento fisico e personale, ma come spettatori e osservatori, in una sorta di formazione estetica ed esperienziale unica e inaspettata. Sfogliare i cataloghi significava curiosare nelle proposte, assistere a una personalizzata lezione di storia dell’arte, chiedendo e informandosi direttamente da esperti e specialisti (anche attraverso avanzati servizi di condition report), investendo quindi in un settore che per la prima volta diventava veramente trasversale.

Da lì in poi l’universo delle vendite all’asta si è davvero globalizzato, subendo un’impennata e un’evoluzione espansionistica proporzionale all’interesse suscitato dall’incremento dell’uso di internet a tutti i livelli: geografici, sociali ed economici.

Parlare di casa d’aste, oggi, non è più un argomento per salotti intellettuali, per sofisticati critici d’arte o per operatori del settore, bensì uno scambio di informazioni ampio e condiviso, rafforzato da un’estesa partecipazione e dalla accessibilità dei dati e delle aggiudicazioni, che permette di conoscere in tempo reale l’andamento di un artista, di una corrente e di un settore.

Mi riferisco a un confronto aperto a cui tutti possono partecipare, secondo il proprio potenziale finanziario e la propria propensione al collezionismo e alla raccolta, confrontandosi allo stesso tempo con tanti altri appassionati e concorrenti da tutto il mondo. E’ stato compiuto un passo ulteriore rispetto alle originarie e semplici aste online, siamo giunti ad partecipazione da remoto estremamente coinvolgente, ad una DAD del mercato dell’arte, in cui ognuno può essere diretto protagonista o semplicemente assistere.

Da qui deriva l’apprezzamento sempre maggiore da parte del pubblico per le case d’aste: trasparenza dell’offerta, trasparenza della domanda.

Chi vende in asta può vedere personalmente e direttamente cosa succede del proprio bene, che si tratti di un dipinto, di un gioiello o di un arredo, mentre chi acquista può cogliere l’interesse della platea di concorrenti e ricevere così informazioni preziose sulla scelta dell’investimento compiuto.

Inoltre, a fare la differenza, sono anche i tanti servizi offerti dalle case d’aste: certificazioni, attestazioni di valore, garanzia delle transazioni e dunque attendibilità.

Insomma, da sinonimo di un mondo quasi mitologico, che solo occasionalmente apriva una sorta di “stargate” a cui affacciarsi – mi riferisco a memorabili incanti come l’asta Elizabeth Taylor, di Yves Saint Laurent, dei Rothschild e di Karl Lagerfeld – le case d’aste hanno fatto un salto quantico diventando la corsia preferenziale più divertente e coinvolgente per diventare protagonisti (a vario titolo) del mercato dell’arte.

Sbaragliando ogni previsione ed ogni aspettativa le case d’aste sono diventate un’alternativa aperta e competitiva all’acquisto diretto presso la galleria o il negozio di fiducia, offrendo l’occasione a tanti collezionisti e semplici appassionati di un confronto sul campo di gara con quello stesso commerciante o gallerista. L’iscrizione alle piattaforme e ai siti dedicati sono cresciute in modo esponenziale, segnale di un marcato e disinvolto approccio verso una modalità di acquisto percepita come affidabile, concreta e realistica. Parallelamente è accresciuto il ruolo delle case d’aste nelle grandi logiche di mercato, finanche a condizionarlo proprio in forza dei risultati pubblici e trasparenti.

Appurato la solidità e l’importanza del loro attuale ruolo, risulta necessario un distinguo per quel che riguarda le case d’aste italiane, la cui crescita è purtroppo ancora fortemente limitata rispetto ai concorrenti stranieri. Le legislazioni restrittive (esercizio della notifica, incertezze sull’esportazione, scarsa collaborazione tra istituzioni e privato) nonché la carente regolamentazione – in Francia e in Inghilterra la figura del “battitore d’asta” è paragonata a quella di un notaio, in Italia la turbativa d’asta non è estensibile alla categoria del mercato dell’arte – penalizzano fortemente il potenziale di un settore che troverebbe nel territorio e nella cultura italiana una delle massime espressioni ed esaltazioni, a vantaggio di un’economia vivace e allo stesso tempo trasparente.

Rispetto allo scenario globale, la posizione delle case d’aste italiane risulta quindi retrostante, nonostante il desiderio e la volontà di essere concorrenziali e all’altezza dei più blasonati internazionali che godono invece di situazioni e condizioni estremamente favorevoli, vantando risultati impressionanti e procedure semplici, rapide e fluide per i compratori stranieri.

C‘è ancora molto da fare, ma va riconosciuto che molto è stato fatto per progredire e tenere il passo delle case d’aste estere. L’auspicio è che si vada sempre più nella direzione di un mercato libero e paritario, in cui ognuno possa esprimere la propria forza e il proprio potenziale, a vantaggio di una cultura capace di conciliare e armonizzare mercato dell’arte con rispetto e attenzione per il patrimonio storico e artistico, di cui questo paese è ricco e allo stesso tempo enormemente orgoglioso.

 

Nasce a Parma e si laurea in Lettere Moderne. Durante gli anni dell’Università individua nel mondo delle aste, una realtà in Italia allora poco diffusa e conosciuta, il settore nel quale intraprendere la propria strada professionale e negli anni ’80 entra a far parte del ristretto gruppo di persone che allora costituivano lo staff de Il Ponte Casa d’Aste. Dopo un lungo e duro periodo di “gavetta” e di formazione, in cui entra a diretto contatto con gli innumerevoli aspetti del mestiere, matura quelle competenze sul campo che la porteranno nel 2012 a diventare Direttore Generale dell’azienda. Grazie all’acquisita capacità, in anni di esperienza, di cogliere i segnali di cambiamento del mercato e le evoluzioni tecnologiche che lo affiancano e lo supportano, gli anni della sua affermazione professionale coincidono con la graduale trasformazione de Il Ponte Casa d’Aste da piccola casa d’aste milanese (nata nel 1974) ad azienda leader nel settore in Italia, che si avvale di uno staff di oltre 70 professionisti, 20 dipartimenti e due sedi operative. Alla storica sede di Palazzo Crivelli (situata nel cuore di Brera a Milano) nel 2006 si affiancano le sedi di via Pitteri e di via Medici del Vascello e rimane viva la mission dell’azienda di voler essere un riferimento per quel pubblico di neofiti appassionati che desiderano approcciarsi all’acquisto e al collezionismo partendo da piccoli investimenti.

Nemo propheta in patria

Ammetto che ero tra coloro che prefiguravano scenari abbastanza foschi, o per lo meno di nervosismo estremo, sulla tenuta del nostro spread italico nei confronti del teutonico Bund.

Del resto, gli ingredienti per una sua rapida impennata c’erano tutti: la fine degli acquisti dei titoli italiani da parte della BCE, la fine dei prestiti agevolati “Tltro” alle banche italiane (che non potranno più abbuffarsi di btp), i ritardi sul PNRR (con le inevitabili lamentele europee), le minacce di Moody’s, il giudizio di Goldman Sachs di preferire i Bonos (titoli di stato spagnoli) ai Btp, la crisi energetica, la guerra, le cavallette…

E invece… e invece il bello degli stereotipi è che esistono per essere contraddetti. Il nostro spread, almeno ad ora, gode di ottima salute, inchiodato stabilmente sotto i 200 bps, con punte di tensione a 220-230 bps in rari momenti negli ultimi 3 anni e comunque, ben lontano dall’epocale 575 bps del novembre 2011, nel pieno della crisi del debito sovrano.

Siamo finalmente diventati un Paese affidabile a livello internazionale?

Non esageriamo. Non mi farei (ancora) travolgere da facili entusiasmi, ma cercherei le ragioni di questo successo in alcune sacrosante evidenze.

Prima di tutto, tra le tante virtù del nostro popolo, resiste quella che ci descrive come grandi risparmiatori.  E così, il tormentato contesto dei mercati finanziari degli ultimi 3 anni ha spinto molte famiglie italiane ad abbassare il livello di rischio nei propri portafogli e affidarsi ai “vecchi e cari Btp”, ritornati attraenti dal rialzo repentino dei tassi e anche a costo di rimanere “intrappolati” nell’investimento per 5 o 10 anni.

Il saldo netto della compravendita di titoli di stato delle famiglie italiane, nel solo ultimo anno (aprile 2022- febbraio 2023, ultimo dato disponibile) è stato positivo per 72,5 miliardi di €, più che compensando il mancato riacquisto dei titoli scaduti da parte della BCE.

E il successo dell’ultimo BTP Valore, chiuso con una domanda record di 18,1 miliardi € conferma ancora di più il processo di trasferimento in atto del debito italiano in mani private e domestiche.

Ma le buone notizie potrebbero non finire qui: molti investitori istituzionali (soprattutto internazionali) sono tuttora scarichi di “rischio-Italia”: lo stock di debito pubblico italiano in mano loro è sceso da 658 miliardi di € di giugno 2022 a 615 miliardi di € di gennaio 2023 (fonte BankItalia). E’ abbastanza logico pensare, visti i rendimenti in essere, che tale divario vada a scomparire nel prossimo futuro, sostenendo così (e di fatto) lo spread.

Possiamo allora cantare fieri l’inno?

Calma. C’è ancora una incognita che potrebbe “confermare o ribaltare completamente la situazione” (cit.).

Si chiama PNRR e dal suo rispetto delle scadenze ci giochiamo buona parte della nostra credibilità interna, internazionale e sui mercati finanziari. Ma preferisco non sbilanciarmi con alcun commento. Del resto e come già visto… “nemo propheta in patria”…

Arturo Sica-I riflessi della guerra nelle nevrosi collettive

La pace è finita titola l’ultimo libro di Lucio Caracciolo.

È un’affermazione evidente per la guerra così vicina, in Europa, in casa praticamente.

Contemporaneamente la pace è finita anche dentro di noi. Da nevrosi ed angustie individuali, siamo approdati ad un sentimento di angoscia di morte collettivo.

C’è una inquietante incoerenza fra la negazione totale (la famosa operazione speciale) e la minaccia di guerra atomica di distruzione totale.

Questo scenario ci fa dire che la pulsione autodistruttiva e paranoica prende il sopravvento, stimolando la paura come trama costante delle emozioni della vita.

Le lancette della storia vengono riportate indietro e il codice paterno ritorna ad indicare il suo centro nella virilità del guerriero.

Gli uomini al fronte a morire e le donne a casa o all’estero a proteggere i bambini.

Per noi vicini e insieme lontani dal fronte della guerra, le reazioni vanno in direzione opposte, il ritiro depressivo, la sostanziale rinuncia alla propensione alla vita soffocata dall’angoscia non elaborata e dal senso di impotenza.

In tendenza opposta una sorta di euforia di emozioni con la diminuzione dei freni inibitori, alla ricerca di una gioia difficile da trovare e allora l’uso della violenza come mezzo espressivo.

Nella psicoanalisi della guerra l’autore Franco Fornari sottolinea come la guerra appunto venga sempre annunciata come atto d’amore e mai come pulsione distruttiva.

Amore per la libertà, amore per la democrazia, la religione, amore per la patria, per i propri compatrioti succubi di altri regimi (i russi nel Donbass).

Non possiamo non notare che con pretese motivazionali d’amore, gli uomini autori di violenza giustificano i loro comportamenti violenti con la partner.

“L’amavo troppo per perderla, l’ho uccisa per questo.”

Infine, abbiamo delle risorse per perseguire l’obiettivo di affrancarci da ogni genere di povertà e privazioni sia fisiche che psicologiche senza usare la guerra come unica soluzione?

Partendo dall’esperienza delle generazioni precedenti (padri/madri e nonni/e) proviamo a mettere in moto energie positive per affrontare analoghi percorsi, pericoli e superarli.

 

Arturo Sica psicoterapeuta, direttore del centro “White Dove”, si occupa delle dinamiche familiari e della gestione dei conflitti. Ha sviluppato programmi di supporto per uomini autori di violenza e ha collaborato come consulente con la commissione femminicidio al Senato della Repubblica durante la passata legislatura.