Marzo 2022

Claudio Gavazzi- La sfida delle moderne Aziende Pubbliche

Gli anni ’90, con l’entrata in vigore della legge 142/90 vedono l’ingresso delle Società di Diritto Commerciale nel mondo degli Enti Pubblici. In particolare, l’art.22 della succitata legge introduce, per la prima volta, la possibilità a Comuni e Province di gestire Servizi Pubblici Locali anche per mezzo di Società per Azioni a prevalente capitale pubblico. In allora si parlò, del tutto impropriamente, di privatizzazione dei Servizi Pubblici Locali. Nel 1999 con la sentenza Teckal della Corte di Giustizia Europea nasce l’in house providing. Le società in house providing sono aziende costituite in forma societaria, per lo più società per azioni, il cui capitale è detenuto da un Ente Pubblico che affida loro, direttamente, attività strumentali all’Ente stesso. Le società così strutturate sono definite Aziende Pubbliche, ed hanno la particolarità di essere azienda pubblica se si considera il soggetto economico, ma azienda privata se si considera il soggetto giuridico. La convivenza di pubblico/privato all’interno di un unico soggetto, molto spesso, ne rende la gestione decisamente poco agevole. Il riordino legislativo del 2014, con sempre maggiori restrizioni e l’introduzione dell’obbligo di adottare il Codice degli Appalti, ne ha ulteriormente complicato la gestione, sovraccaricando di burocrazia e formalismi aziende nate per essere snelle, veloci e competitive. A ciò si aggiunga che la “natura” della “Holding” di indirizzo e controllo è, normalmente, esclusivamente “politica”. L’Ente Pubblico di controllo, è governato da un organismo che non è un Consiglio di Amministrazione, formato da manager e professionisti del mondo economico, bensì da una “Giunta” formata da Politici, il cui legittimo fine ultimo è rappresentato dal consenso dei propri elettori. La formazione di un esponente politico assai raramente ha un’impronta manageriale, e l’indirizzo strategico fornito alle controllate da un organismo sì fatto è spesso avulso da ogni considerazione economico/finanziaria, se non in modo meramente astratto e teorico. L’Azienda è così chiamata a perseguire obiettivi politici, ma con la responsabilità dell’equilibrio della gestione, così come richiesto alle società di diritto privato. Per meglio intendere può tornare utile un case history. L’Organo Politico, appena insediato dopo aver vinto le elezioni, decide di mantenere una promessa elettorale diminuendo drasticamente le tariffe orarie della sosta pubblica a rotazione, consolidando così il consenso dei suoi elettori. L’impatto sulla Società di gestione della sosta è un’improvvisa e drastica riduzione dei ricavi, senza possibilità per il management di intervenire sui costi, neppure quelli diretti di concessione, e senza la possibilità di utilizzare ammortizzatori sociali, non previsti per le Aziende Pubbliche. Contestualmente la gestione è chiamata a mantenere in positivo il conto economico. Le criticità non finiscono qui, infatti l’in house providing priva la gestione delle leve marketing fondamentali: mercato e prezzo. Il mercato obiettivo sul quale operare, al pari dei prezzi di vendita, e di ogni strategia di pricing, non è nelle disponibilità del management poiché rimane nella “disponibilità esclusiva” dell’Ente di controllo. Non mi dilungo oltre, evitando di approfondire l’altrettanto complicata gestione delle risorse umane in assenza della possibilità di agire in modo dinamico e meritocratico su selezioni, assunzioni, carriere, avanzamenti retributivi, ecc. La sfida delle Aziende Pubbliche è dunque quella di fornire, a basso costo, servizi moderni ed efficienti, operando in condizioni di perenne taglio delle risorse, ma con obiettivi di bilancio ambiziosi. Una delle vie praticabili è quella di una crescita costante e progressiva dei ricavi, perseguita attraverso l’offerta di nuovi servizi, rivolti sia ai cittadini sia all’Ente di controllo, ancorché a prezzi sempre più contenuti. Quindi: crescita per bilanciare la sensibile e progressiva riduzione del margine di contribuzione. L’offerta di servizi avanzati vecchi e nuovi, a costi via via sempre più agevolati in assenza di maggiori risorse, anzi in costante riduzione delle risorse disponibili e con l’imperativo di un bilancio in equilibrio può essere perseguita solo attraverso l’automazione e l’informatizzazione avanzata, progressiva e costante finalizzata, tra l’altro, a limitare, se non evitare, l’acquisizione delle risorse umane necessarie allo sviluppo. Occorre così ottimizzare e massimizzare l’impiego delle risorse umane esistenti, chiamate ad una sempre maggior flessibilità e all’acquisizione di nuove competenza per poter ricoprire contemporaneamente più ruoli all’interno di un’azienda in costante aggiornamento organizzativo. In buona sostanza le Aziende Pubbliche hanno necessitato e necessitano di un’efficace opera di modernizzazione trasformandosi in aziende snelle con un elevatissimo livello di informatizzazione e automazione e con personale altamente specializzato, flessibile, costantemente aggiornato, disponibile al cambiamento, non tanto per competere sul mercato, quanto per rispondere alle necessità dei propri Enti di controllo che diventano ogni giorno più esigenti. Per concludere l’azienda del case history sopra accennato è sopravvissuta al drastico taglio delle tariffe e dei ricavi, acquisendo nuove attività che hanno portato alla crescita dei volumi di un buon 50% senza incrementare i costi d’esercizio, ma rivoluzionando l’informatizzazione dei servizi e stravolgendo ruoli e funzioni di gran parte dell’organico rimasto stabile nel tempo.

 

Manager in un’Azienda Pubblica fin dalla sua costituzione nel 1995. In oltre 40 di vita lavorativa ha naturato esperienze imprenditoriali e manageriali nel settore pubblico e privato spaziando dalle forniture industriali, alla nautica da diporto; dallo sport professionistico, ai servizi pubblici; dalla logistica, ai beni di lusso.

Olio di palma o cannoni?

Il conflitto in Ucraina è un potente focolaio di instabilità geo-politica, energetica, produttiva e finanziaria. Le prime stime elaborate da prestigiose associazioni internazionali, ci mettono in guardia sull’impatto che questa guerra avrà sulle economie continentali, ma soprattutto, sui nostri futuri stili di vita, sul nostro senso di libertà, sul nostro concetto di democrazia. Sapevamo che lo choc inatteso della pandemia avesse stravolto il nostro vivere quotidiano, poi è arrivata una guerra in casa a sparigliare ancora di più le carte, portando con sé distruzioni fisiche, affettive, economiche e culturali. E se le conseguenze geopolitiche saranno più chiare al termine del conflitto, gli effetti economici sono i più facili da calcolare, ma anche da rimediare: l’Ocse, pur riconoscendo la assoluta fluidità degli eventi, ha già stimato che la guerra impatterà nel 2022 con un decremento del 1,4% sul PIL dell’Eurozona, mentre gli USA, al pari dell’economia globale, vedrebbero una riduzione di un punto percentuale. L’Europa risulta più colpita dal conflitto, sia perché avviene sul suo territorio, sia per la crisi umanitaria in atto- con oltre 3 milioni di rifugiati da ospitare- e sia per la sua forte dipendenza energetica dal gas russo. Riguardo agli effetti finanziari, intesi come sanzioni affibbiate alla Russia, si è già ampiamente discusso nei precedenti N&M: la Russia è diventata un paria internazionale, ma con inevitabili conseguenze anche per noi, fronte occidentale. Si tratta tuttavia di considerazioni provvisorie, che potrebbero drasticamente peggiorare: tutto dipenderà da come procederà il conflitto. Ci sono tuttavia altre conseguenze che stravolgeranno le nostre abitudini future. Penso ad esempio ai costi della difesa: l’Italia (ma non solo) ha deciso di investire maggiormente in tale direzione, che inevitabilmente impatterà sulle altre voci di spesa, quali, ad esempio, la sanità, la scuola, l’ambiente -che rimangono emergenze- a meno che non si pensi che possiamo indebitarci senza limiti. Certo, l’Europa (intesa come Comunità) garantirà maggior flessibilità nelle voci di spesa dei singoli Stati membro, e con buona pace dei Paesi “frugali”, oggi più che mai interessati a poter contare su (altri) eserciti professionistici pronti, nel caso, ad intervenire. Cambieranno anche molti nostri dogmi ecologisti: guardando ai nostri confini, sarà meglio e con celerità svincolarci dall’asfissiante dipendenza dal gas russo, soprassedendo su infantili slogan propagandistici di alcuni partiti, utilizzati in passato per fermare gasdotti alternativi. Paradossalmente e per contrappasso, in attesa di un nuovo dibattito sul nucleare, nell’immediato dovremo anche ricorrere alle nostre inquinanti riserve fossili, a testimonianza che qualunque ideologia che si trasforma in fanatismo, è sempre deleteria. Cambieranno anche alcuni dogmi sul benessere alimentare: tre anni fa questo Paese si era fermato per deliberare una legge che limitasse l’uso di bevande zuccherate. Preistoria. Oggi dinnanzi ai primi scaffali vuoti dei supermercati e in assenza dell’olio di semi, rivalutiamo anche il famigerato olio di palma e dinnanzi alla scarsità del pane e suoi derivati, ci andrebbe (o ci andrà) benissimo anche il grano transgenico. Perché stiamo assistendo da vicino, troppo da vicino, a una guerra che non avremmo mai immaginato e le immagini truci di bombardamenti e disperazione, scuotono il nostro benessere e le nostre certezze, che ritenevamo intoccabili ed acquisite. Ottanta anni fa l’Italia entrava in guerra con una famosa arringa di Mussolini, in cui si chiedeva al popolo “burro o cannoni”. La risposta, allora, fu scontata. Oggi si ripropone lo stesso dilemma. Proveremo a rispondere olio di palma.

Il folle costo della guerra

Sulle varie piattaforme social girano in questi giorni numerosi “meme” sulla presunta capacità da parte della Russia di rimanere immune dalle dure sanzioni finanziarie ed economiche inflitte e ammetto che il tema (almeno nel mio caso) è stato anche oggetto di differenti vedute con amici di vecchia data. Per carità, è il bello della democrazia (almeno qui non è ancora reato avere idee diverse). In estrema sintesi: qualcuno sostiene che chi verrebbe più danneggiato dalle sanzioni inflitte sarebbe proprio il fronte occidentale e il prezzo impazzito di gas, benzina, pane e pasta ne sarebbe una conferma. La Russia sarebbe esente dal caro-vita in quanto grande possessore di materie prime. Ho già dedicato gli ultimi due N&M sull’argomento, cercando di confutare questa tesi, che trovo ancora molto semplicistica. In più, proverò oggi a fare un sommario bilancio anche dei benefici e costi connessi alla mera guerra –con le inevitabili approssimazioni della sintesiper dimostrare la insensatezza di questa strategia e sottintendendo che in un conflitto – da un punto di vista economico – ci perdono tutti, almeno nel breve periodo. Tuttavia, i benefici attesi per chi invade un altro Paese sono ovvii: c’è la gloria verso il proprio popolo, ci sono le materie prime del paese conquistato (gas&oil in questo caso) e le materie finite (aziende e infrastrutture già esistenti). Da ultimo c’è il presidio di un territorio che potrebbe determinare nuovi traffici e rotte commerciali. Ma a quali costi? I costi vivi di una guerra sono i più disparati. Ci sono in primis le vittime, poi quelli della distruzione del Paese invaso e quelli del materiale bellico utilizzato, poi gli interessi sul debito di guerra e infine il rischio di perdita reputazionale. Provo, con la brutalità dei numeri, a tradurre il tutto. Le vittime e i feriti sono un costo sociale, in termini di rimborsi per le famiglie dei primi e pensioni sociali per i feriti e/o veterani. Non solo. C’è anche da considerare la perdita di mancata contribuzione al PIL nazionale della vittima: questa andrebbe moltiplicata per i teorici anni di vita che avrebbe ancora vissuto in caso di pace. Sui costi di transazione ho già ampiamente scritto nei due numeri precedenti, mentre i costi di ricostruzione e dello sforzo bellico sono collegati ai danni arrecati, alle truppe e alle attrezzature impiegate e al tempo necessario per conseguire la vittoria: più lunga è la guerra e più salgono i costi. Alcune stime parlano già di un costo approssimativo di circa 20 miliardi di euro solo per il materiale bellico utilizzato e/o distrutto (e la strenua difesa Ucraina – supportata dalle armi occidentali- farà ancora crescere il conto). I costi sarebbero esorbitanti poiché il materiale è sempre più sofisticato, come pure la manutenzione associata. E poi c’è il costo della logistica, inquantificabile, ma gli errori della armata Russa negli spostamenti lo testimoniano. Ci sono infine i costi di reputazione, anche essi “uncountable”. L’abbandono da parte di molti marchi internazionali (con gli effetti sull’indotto) e la contestuale chiusura dei punti vendita è legato a questo aspetto, come pure, c’è il forte rischio di una chiusura anche nel futuro da parte dell’occidente, (che ad oggi rimane il top spender mondiale) verso il mondo russo e la sua economia. Ma ne parlerò meglio la prossima settimana.  Anche il sistema imprenditoriale che l’invasore si troverebbe a gestire perde valore: per funzionare una economia ha bisogno di rapporti di fiducia e certezza nei diritti di proprietà e forme di interscambio vantaggiosi per ambo le parti. Insomma, a mio vedere, questa guerra è folle nella sua dinamica, ma lo è ancora di più nella sua genesi. E i costi associati saranno asfissianti sia per l’economia del vinto che del vincitore (a meno che, non si permetta ai capitali esteri di fluire nella futura ricostruzione, cedendo però i settori strategici). Un capo di governo minimamente lucido avrebbe dovuto intuire il vicolo cieco della storia in cui si stava per confinare. Chissà che questa analisi possa in parte aiutare ancora gli incerti a capire la follia di questo conflitto e quella dell’uomo che l’ha voluta.

Francesco Pinardi- La tempesta energetica perfetta

Ebbene si, possiamo dirlo…purtroppo: siamo nel pieno di una crisi energetica. Una tempesta energetica perfetta, che ci sta facendo perdere la rotta che a fatica stavamo cercando di riprendere dopo due anni veramente molto impegnativi. Gli osservatori più audaci si spingono a dire che la crisi energetica è solo la conseguenza più visibile di un diverso equilibrio economico e politico che ha purtroppo al centro il vecchio continente. La situazione è veramente complessa e unisce elementi di domanda ed offerta di energia (sfera economica) alla nostra voglia di “riprenderci” il tempo perduto per il COVID (sfera personale) e ancora  alla gestione del cambiamento climatico dove si sono fatti più che altro annunci senza avere piena chiarezza delle conseguenze, ma soprattutto senza alcun sottostante (sfera politica), alla situazione geo politica esplosiva in un’area del mondo che, ci piaccia o no, rappresenta la principale fonte energetica dell’Europa. Tutti i grafici e le analisi del mercato energetico fanno vedere prezzi in velocissima crescita, grande volatilità e record su record bruciati di giorno in giorno. Il tutto comincia con la crisi di domanda dovuta ai lockdown da COVID con i prezzi energetici che finiscono al tappeto, a livelli mai visti primi: tanti operatori decidono di restare “corti” e di stare “a mercato”. È una politica che premia ed ha premiato negli ultimi anni. Ma nel giro di un anno la situazione si capovolge: la ripresa, la decisione della Russia di guardare altrove per trovare clienti più interessati al Gas rispetto all’Europa e infine il la guerra, ultimo atto di una nuova idea di equilibrio mondiale non ancora chiara…o forse si. L’Europa e l’Italia in particolare dipendono dal GAS, sia come vettore energetico per i consumi finali (riscaldamento, produzione industriale, autotrazione), sia, soprattutto, come materia prima per la produzione di più di metà dell’energia elettrica consumata nel nostro paese. Al momento, e a dire il vero già da un po’, sta venendo meno la gran parte del GAS russo, quello che negli ultimi anni ha sempre alimentato il mercato e che ha sempre consentito di approvvigionare GAS a prezzi ottimi, senza dover stipulare contratti di lungo termine con volumi e prezzi definiti…insomma tutto facile e a prezzi ottimi.

Oggi, purtroppo, la situazione è ben diversa: pochi flussi in ingresso (solo quelli garantiti dai contratti di lungo), poco GAS dunque per il mercato spot, e prezzi alle stelle: quindi cosa si può fare per evitare che la tempesta perfetta scateni tutta la sua potenza? Innanzitutto, è fondamentale considerare l’aspetto temporale: dobbiamo trovare soluzioni a breve che ci permettano di “sopravvivere” e nel frattempo, una buona volta, prendere una decisione sulla rotta da tenere nel nostro viaggio energetico verso un futuro sostenibile, per noi e per il pianeta. Non solo annunciarla, ma fare le scelte necessarie e coerenti con la decisione presa. In quest’ultimo periodo si sente tutto ed il contrario di tutto: soluzioni a 20 anni (se non anche più lunghe) proposte come già pronte, commentatori che non conoscono le filiere ed il loro funzionamento e soprattutto, ognuno, propone la soluzione che non porta a nessuna rinuncia, che sia semplice, immediata, indolore. Una soluzione così (a mio avviso) non esiste, soprattutto nel pieno di una crisi energetica. Non ora. E quindi continuare a propinarla è quanto di peggio si possa fare. Adesso servono nervi saldi per gestire la crisi, l’emergenza, consapevoli che di questo si tratta. Soluzioni chiare, che evitino effetti a catena e che permettano poi di partire con le soluzioni di più ampio respiro: da definire quanto prima e da scaricare a terra.

È altresì necessario ricordare e comprendere che l’energia è un problema di tutti e quindi va risolto con il contributo e con lo sforzo di tutti e non solo a colpi di decreto. E tutto questo non sarà “gratis”. La soluzione più rapida e più efficacie è oggi il risparmio energetico: a tutti i livelli e su tutti i fronti. È fondamentale per dare respiro al sistema, per provare ad evitare il blocco totale della filiera del GAS e dell’energia. Ma non basta. Serve poi, da subito, investire su fonti energetiche che abbiamo disponibili, consapevoli però dei limiti tecnici, fisici e temporali. Pensare di sostituire tutto il GAS russo con pannelli fotovoltaici in due anni è un errore. Ci vorrà tempo, soldi, sia privati che pubblici, ma soprattutto una diversa consapevolezza che l’energia per tutti a basso costo non sarà, probabilmente, sempre disponibile nei prossimi anni e tanta capacità di fare progetti buoni, in poco tempo. Bisogna partire subito, con la determinazione di chi sa che l’obiettivo è importante e che non si può mollare, ma con la consapevolezza che non sarà un viaggio in business class e che ci saranno sacrifici e cambi di paradigma da affrontare. Ognuno di noi dovrà sempre più ragionare, a casa, al lavoro, per tutto quello che fa, in ottica di sostenibilità energetica, di autoproduzione da affiancare all’approvvigionamento tradizionale e di sostenibilità ambientale: una sfida notevole per tutti noi, ma soprattutto per le generazioni che verranno e che si confronteranno sempre più con questi problemi. Come tutte le sfide va affrontata guardando lontano, ragionando anche nel medio lungo periodo ma con la concretezza e la consapevolezza che permette di costruire nel tempo in modo solido ed efficiente.Insomma, è necessario scrivere una storia (energetica) diversa, per tanti versi, da quella degli ultimi anni, per evitare che la tempesta perfetta ci faccia naufragare.

 

Nato a Cremona in una fredda domenica di austerity (crisi petrolifera del 1973), si è laureato in ingegneria gestionale al Politecnico di Milano. Ha cominciato la propria esperienza lavorando nel campo dell’ICT e dopo una parentesi come ricercatore al Politecnico di Milano e startupper, è approdato nel “tranquillo” mondo dell’energia.

Nel 2018 ha accettato la sfida di Keropetrol e Gruppo Openlogs di esplorare il mondo della zero carbon mobility ed è entrato in Ekomobil come amministratore delegato.

Padre di tre splendide bimbe è appassionato di tecnologia, motori e nel poco tempo libero ogni sport è valido per ricaricare le batterie…meglio se in riva al mare.

A pane e gas

Il conflitto ucraino sta avendo conseguenze di ogni tipo, in ogni settore, ora dopo ora. Si è già ampiamente dibattuto delle conseguenze di carattere finanziario (dovute alle sanzioni) e di carattere economico, dovute soprattutto all’aumento di gas e petrolio. C’è tuttavia, a mio avviso, un altro elemento non ancora del tutto evidente nella sua drammaticità e legato all’aumento del prezzo del grano e dei prodotti derivati (pane e pasta). In super sintesi: la guerra ha fatto schizzare anche i prezzi di tutte le materie prime agricole. Grano, mais, soia, olio vegetale… Sono stati raggiunti record paragonabili a quelli del 2008. Russia e Ucraina producono quasi un quarto del grano mondiale. A pensar male si fa peccato, tuttavia… Tuttavia già da gennaio 2022 la Russia aveva bloccato le sue esportazioni e la flotta russa posizionata sul Mar Nero ha impedito le esportazioni di grano ucraino. Se a ciò si aggiunge che il 2021 è stato un anno particolarmente negativo per Canada e Usa (con raccolti ridotti, causa siccità), forse la decisione di entrare in guerra proprio adesso, non è del tutto scollegata ad una possibile guerra del grano. Già nel piano di “Dottrina sulla sicurezza alimentare” del 2010, Putin aveva annunciato il perseguimento di una politica autarchica sia sul fronte energetico, che alimentare. Dall’invasione della Crimea nel 2014 ad oggi, la Russia è passata dall’essere grande importatrice a grande esportatrice. L’influenza della Russia nell’industria del cibo in generale è destinata ad aumentare, favorita anche dai cambiamenti climatici: ora si coltivano cereali dove, nel passato, per gli inverni troppo rigidi, era impossibile. Ed è davvero un paradosso: l’ambiente sta aiutando proprio una delle nazioni che più lo hanno danneggiato. Ma torniamo alla guerra del grano. Le conseguenze del conflitto sul mercato alimentare internazionale sono già evidenti per noi europei, ma si rifletteranno presto e con dinamiche più esasperate sui paesi nord africani e mediorientali (Marocco, Tunisia, Egitto, Siria, Iran, Iraq) che presentano già economie in tensione, falcidiate dal Covid, dalla siccità e dal loro fragile contesto politico. Il rischio di disordini di piazza, al grido “vogliamo il pane” potrebbe presto trasformarsi in massicci flussi migratori verso l’Europa, alimentando così il livello di disordine sociale nei paesi più sviluppati. Proprio quello che Putin potrebbe aver pianificato. Sono ovviamente solo scenari e come tali vanno considerati, anche se potrebbero rientrare in un disegno criminale ben più ampio. Come se ne esce? Forse una cosa Putin ha ampiamente sottovalutato oltre alla durata del conflitto: la dipendenza tecnologica della Russia dall’occidente. Rispetto ai precedenti conflitti di portata mondiale, oggi il mondo è completamente interconnesso e dipende dalla tecnologia (civile e militare). Al di là della propaganda bellica, alcuni esempi sono già eclatanti: mezzi militari di ultima generazione fermi perché mancano pezzi di ricambio, l’eliminazione di un generale dell’armata russa, scoperto ad usare una linea civile anziché quelle criptate, le frequenti incursioni di hackers nei programmi televisivi russi. Sono solo esempi, che mostrano però la fragilità dell’autarchia tecnologica russa, sia in ambito militare sia civile. Le file di sovietica memoria dinnanzi a farmacie, bancomat e negozi a Mosca testimoniano un regresso economico di almeno 20 anni. “A’ la guerre comme à la guerre”: in un ulteriore innalzamento della conflittualità con il mondo occidentale, al di là delle forze militari in campo, Putin potrebbe trovarsi presto la popolazione russa in subbuglio, sfinita dall’essere confinata in un isolamento forzato.  E questo potrebbe spingerlo ad accettare una “vittoria mutilata” e alle diplomazie internazionali, (che non possono avere gli stessi tempi dei conflitti), di trovare nuovi punti di equilibrio e nuovi accordi che possano garantire un futuro di pace. Lo speriamo davvero tutti…

Gian Luca Greco- Conflitto Russia Ucraina: crisi energetica e prospettive per il futuro

L’attuale conflitto Russia – Ucraina ha fatto emergere la fragilità del sistema energetico italiano basato sull’importazione di gas da paesi terzi, in particolare dalla Russia, piuttosto che sulla produzione diretta. Si prospetta un’incertezza sulle fonti energetiche di approvvigionamento per l’Europa, che inciderà sui prezzi del gas ma anche del petrolio impattando in modo importante sulle nostre economie: un fenomeno di una portata rilevante, sia per le implicazioni speculative nel breve periodo sia a livello strutturale.

Sconsideratamente, negli ultimi anni la nostra politica energetica si è basata su un unico principale fornitore, né parte dell’UE, né della NATO. L’Italia è infatti uno dei più grandi importatori di gas russo al mondo, e per questo, le conseguenze di questa crisi energetica saranno avvertite maggiormente. Oggi l’Italia si sta adoperando per diversificare i fornitori di gas e petrolio ma questa non sarà una soluzione risolutiva. É necessario implementare un sistema quanto più autarchico possibile attraverso una serie di iniziative: bisogna incentivare gli investimenti nel settore, come nelle rinnovabili, semplificando le normative di riferimento e snellendo la burocrazia. È indispensabile che l’autorità politica dia un segnale forte. Per quanto riguarda lo shock nel breve è necessario attivare un mix di iniziative, nonostante alcune non siano compatibili con la transizione ecologica. Qualora non si volessero toccare le riserve strategiche, il carbone rappresenta una soluzione ponte concreta in grado di accompagnarci verso le fonti green, che in questo momento cubano il 37% della produzione energetica complessiva. Arrivare a coprire il circa 50% di gas che stiamo importando dalla Russia non è banale e le centrali a carbone sono un asset che abbiamo in portafoglio da valutare per soddisfare un fabbisogno energetico impossibile da coprire nel breve con le rinnovabili.  Non è realistico pensare che nel breve o medio periodo il 100% delle fonti siano rinnovabili e avremo sempre bisogno di gas: dovremmo riuscire a produrne il più possibile, considerando che nel 2021 l’89% del consumo interno lordo è stato coperto dall’importazione. In breve, se si vuole adottare una politica energetica che punti agli investimenti senza sfruttare i giacimenti per questioni ambientali, ci si riduce ad essere un paese importatore e a dipendere da terzi. Il nucleare non rappresenta una soluzione: gli investimenti nel settore sono molto intensivi e sarebbero efficaci solo nel medio lungo periodo. La filiera di riattivazione delle centrali nel nostro paese è troppo costosa, e avrebbe senso solo se si decidesse di puntare sul nucleare come fonte ulteriore di approvvigionamento per almeno 20 anni.  Questa è la grande differenza con le centrali a carbone o policarburante che possono diventare operative nell’immediato, anche solo per 1 o 2 anni, in attesa di soluzioni alternative ed ecosostenibili. L’idrogeno sarà una delle fonti di approvvigionamento energetico del futuro, ma si tratta di una risorsa strategica, non tattica: puntare sull’idrogeno verde per la transizione energetica significa collocarsi a valle di una filiera che comprende fonti rinnovabili come idroelettrico, eolico e fotovoltaico a monte. Per dare un’idea, i primi impianti per la produzione di idrogeno verde su scala industriale verranno alla luce verosimilmente non prima di 2 o 3 anni.

Il mercato dell’idrogeno è completamente nuovo, e nel breve non è pronto per impattare sulla crisi a cui stiamo assistendo: ci si arriverà per gradi, ma questa crisi deve  rappresentare sicuramente un’occasione per dare un forte impulso al suo sviluppo e farsi trovare pronti quando la domanda globale sarà più matura.

 

CEO di Greeninvest, società di investimento in realtà che sviluppano progetti e prodotti ecosostenibili. Ha lavorato a lungo nel mondo delle energie rinnovabili, settore che presidia con Energeticamente, società specializzata in sviluppo di parchi eolici e fotovoltaici e di produzione di energia da queste fonti. La sua ultima avventura imprenditoriale si chiama Hydrogenia, una startup innovativa specializzata nella produzione di idrogeno verde. Nel campo delle energie alternative si è occupato non solo degli aspetti manageriali e tecnici ma anche di quelli finanziari. Un ambito in cui ha accumulato una grande esperienza nel decennio precedente (1999-2000), durante il quale ha svolto attività di investment banking con operazioni di M&A ed operazioni di finanza straordinaria.

Andrea Benini- Il Principio di adeguatezza degli assetti organizzativi per un’impresa più responsabile

In Italia è stato avviato un periodo di riforme sulla spinta del PNRR ed il sistema giudiziario è uno dei settori chiave in cui si dovrà intervenire per poter rispettare gli impegni assunti con l’Unione Europea. Sono in via di attuazione, infatti, le riforme del processo civile, di quello penale e della disciplina delle procedure concorsuali, determinanti per migliorare l’efficienza del nostro sistema giudiziario come richiesto dall’Europa. In realtà, una riforma organica del diritto concorsuale era già iniziata prima del periodo pandemico, con l’emanazione del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza di cui al D.Lgs. 12/01/2019 n. 14, la cui entrata in vigore, però, è stata più volte rinviata. Ciò nonostante, il Decreto citato ha apportato ugualmente alcune modifiche al Codice Civile in materia di impresa, passate forse inizialmente un po’ sottotraccia visto il differimento della riforma, ma di indubbia rilevanza stante la loro operatività immediata. Una di queste è la novella dell’art. 2086 c.c., con cui il Legislatore ha sancito per tutte le tipologie di attività imprenditoriali la regola dell’adeguatezza degli assetti organizzativi dell’impresa, quale principio di corretta gestione. Più nello specifico, è stato introdotto un duplice dovere a carico degli amministratori di società e cioè quello, da un lato, di istituire assetti organizzativi che siano adeguati alla natura ed alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi e, dall’altro lato, quello di attivarsi per l’adozione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi stessa. Il principio di adeguatezza degli assetti organizzativi dell’impresa, quale paradigma di una corretta gestione, non è certo una novità nel panorama legislativo, ma è un tema ricorrente nella normativa di settore degli ultimi anni, con la quale il Legislatore ha iniziato a promuovere una cultura imprenditoriale più responsabile. Si sta cercando sempre più di passare dal modello tradizionale incentrato sulla figura dell’imprenditore individualista, ancora diffuso nelle PMI, ad un’organizzazione strutturata dell’impresa, secondo i modelli elaborati dalle moderne scienze aziendalistiche. Gli interventi legislativi incentrati sull’organizzazione dell’impresa sono stati molteplici nel recente passato, dal Testo Unico della Finanza per le società quotate, alla riforma del diritto societario del 2003 con riferimento alle S.p.a. (artt. 2381 c.c. e 2043 c.c.), passando per le discipline di settore delle imprese bancarie, assicurative e di intermediazioni finanziaria, nonché delle società a partecipazione pubblica. In questo quadro normativo meritano una particolare menzione i modelli organizzativi previsti dal D.Lgs. 231/2001 per gli enti collettivi, i quali sono volti a prevenire la commissione di reati da parte dei propri esponenti e ad escludere o limitare il rischio di incorrere nella responsabilità amministrativa prevista a carico delle società in relazione a tali reati. La novella dell’art. 2086 c.c. si pone, dunque, nel solco tracciato dal Legislatore, elevando però il principio degli assetti adeguati a regola generale comune a tutte le imprese. Questa norma è stata concepita nel quadro di riforma del diritto concorsuale che ha dato vita al Codice della crisi e, dunque, la sua ratio legis va individuata in siffatto contesto. Inizialmente, visto lo stretto legame col Codice della crisi, gli operatori del settore si sono chiesti se i nuovi precetti di cui al comma 2 dell’art. 2086 c.c. potessero avere una valenza autonoma, anche a prescindere dagli istituti richiamati dell’allerta e della composizione assistita, i quali, come detto, non sono ancora operativi. La risposta è stata affermativa, tanto che ad oggi si rinvengono già sentenze di Tribunali che ne hanno fatto applicazione. Gli amministratori, quindi, devono necessariamente dotare le società di idonei assetti organizzativi, amministrativi e contabili funzionali a far rilevare tempestivamente un’eventuale situazione di crisi. Nella stessa Relazione illustrativa al Codice della crisi è, infatti, specificato che le possibilità di salvaguardare i valori di un’impresa in difficoltà sono direttamente proporzionali alla prontezza dell’intervento di risanamento, mentre il ritardo nel percepire eventuali segnali di crisi determina, nella maggior parte dei casi, che questa degeneri in un’insolvenza irreversibile. Qui si innesta il secondo obbligo previsto dalla nuova disciplina a carico degli amministratori, i quali, all’apparire della crisi, sono obbligati a reagire prontamente, mettendo in atto uno degli strumenti a tal fine previsti dall’ordinamento. Gli istituti del Codice della crisi che sono collegati con questo precetto, come detto, non sono ancora operativi, però la portata generale della norma impone già oggi agli amministratori di fare ricorso agli strumenti messi a disposizione dalle norme attualmente applicabili, ad esempio quelli tipici della Legge Fallimentare o l’istituto della composizione negoziata recentemente introdotto dal D.L. 118 /2021 o comunque iniziative anche diverse che siano idonee a recuperare la continuità aziendale. In dottrina si è affermato correttamente che questa nuova disciplina sull’adeguatezza organizzativa sarà la nuova frontiera della responsabilità degli amministratori. Invero, in base alle regole generali, gli amministratori sono responsabili verso la società dei danni derivanti dall’inosservanza di doveri ad essi imposti dalla legge, tra cui appunto non possono che rientrare anche i nuovi obblighi previsti dall’art. 2086 c.c. riformato. In ipotesi di violazione di siffatti obblighi, da cui siano derivati anche dei danni, gli amministratori potrebbero dunque subire delle azioni di responsabilità da parte dei soci, dei creditori o, qualora si sia verificato il fallimento della società, da parte dei curatori fallimentari. Bisogna pur sempre ricordare che il concetto di adeguatezza è comunque relativo, tanto che il secondo comma dell’art. 2086 c.c. fa giustamente riferimento ad un assetto organizzativo che sia adeguato alla natura ed alle dimensioni dell’impresa. Ogni impresa ha le sue tipicità e l’attività imprenditoriale può essere organizzata in molti modi diversi tra loro. Si discute, quindi, su quale sia il limite della valutazione dei giudici in questo campo. Sebbene la scienza aziendalistica possa fornire validi parametri per sindacare la correttezza dell’operato degli amministratori, sussiste in ogni caso un ampio margine di discrezionalità per ciò che riguarda le scelte sugli assetti organizzativi da adottare in ambito imprenditoriale. Una parte della dottrina, con un’opinione a mio avviso condivisibile, ritiene che, pur con qualche adeguamento, debba sempre trovare applicazione, anche con riferimento a queste ipotesi di responsabilità, il limite dell’insindacabilità di merito della scelta operata dall’amministratore (c.d. “business judgment rule”).  Esiste, però, anche un orientamento dottrinale opposto, che è favorevole invece ad uno scrutinio giudiziale più stringente e che ritiene applicabile la business judgment rule solo agli obblighi a contenuto generico e non anche a quelli a contenuto specifico, non implicanti scelte di gestione in senso proprio, quali appunto i doveri organizzativi degli amministratori. Questa strada potrebbe portare ad esiti non accettabili, nel caso in cui si volesse ricavare sic et simpliciter dal verificarsi dell’insolvenza la prova dell’inadeguatezza degli assetti organizzativi che erano stati adottati per l’impresa. Per avere un quadro più chiaro si dovrà, però, necessariamente aspettare di vedere quale delle due impostazioni verrà adottata con prevalenza in giurisprudenza.

 

 

Iscritto all’Albo degli Avvocati di Genova, si occupa prevalentemente di diritto civile, diritto commerciale e societario, diritto bancario e finanziario. Offre consulenza alle imprese nel campo della contrattualistica interna ed internazionale ed in quello societario. Ha assistito i propri clienti in diverse operazioni straordinarie sia con società italiane, che con società estere. E’ membro di Organismi di Vigilanza ex D.Lgs. 231/2001 di società operanti in Italia ed all’estero ed ha ricoperto diversi incarichi quale Arbitro in procedimenti arbitrali.

Guerra e pace

Le guerre sono facili da cominciare, ma difficilissime da finire. Qualunque esse siano. Al di là dell’esito dei combattimenti sul martoriato suolo ucraino, una guerra economica altrettanto imprevedibile è appena cominciata e dalle conseguenze, da qualunque parte le si guardi, altrettanto spaventose e imprevedibili. La scorsa settimana, in questa rubrica, si scriveva di come il fronte occidentale fosse stato preso alla sprovvista dall’incursione militare russa, ma la reazione finanziaria è stata tuttavia vigorosa, con (citerò le sanzioni principali) nell’ordine: a) l’esclusione dal circuito Swift di alcuni istituti di credito, (salvati solo quelli che garantiscono i pagamenti del gas verso l’Europa), b) il congelamento di beni e proprietà di alcuni oligarchi e delle riserve in valuta estera dello Stato (600 miliardi di dollari), c) un massiccio ridimensionamento del traffico commerciale da e verso la Russia. Le conseguenze sono avvenute con effetto valanga: le agenzie di rating hanno declassato a “titoli spazzatura” i titoli di stato russi. Mosca si è trovata di colpo senza risorse. In questa ipossia finanziaria, il rublo è in picchiata (in una settimana ha perso circa il 40% nei confronti del dollaro), la borsa moscovita chiusa per tutta la settimana per impossibilità di fare prezzo, le capitalizzazioni delle società russe quotate all’estero completamente evaporate, la prima banca russa internazionale (Sberbank) in default tecnico. Anche la disperata mossa di sostenere il rublo da parte della Banca di Russia, alzando i tassi di interesse al 20% è fallita (ha fatto il giro del mondo la foto dello sguardo pietrificato della governatrice Nabiullina, di fronte a un imperturbabile Putin). Il bollettino è di una devastante guerra economica. Le lunghe code ai bancomat dei cittadini russi testimoniano lo shock del popolo e indeboliscono il fronte interno. Per far fronte alla penuria di liquidità, un nuovo decreto ha imposto agli esportatori russi di convertire in rubli l’80% delle loro entrate. Non proprio un affare considerando la debolezza dello stesso. E il fondo probabilmente non è stato ancora toccato: se vogliamo seguire le indicazioni che provengono dai CDS (credit default swap) il mercato prezza il  rischio di bancarotta della Russia al 67%.

Al di là della retorica della propaganda di guerra, le sanzioni finora comminate vogliono (o vorrebbero) scatenare la paura nel popolo russo e nelle maggiori aziende dl Paese, e spingerli alla ribellione dinnanzi a un rischio di una crisi ben più grave di quella del 1998 ( la Russia non ha una fedina immacolata in tal senso).

Ma le sanzioni, si sa, in un mondo così globalizzato, diventano un’arma di distruzione che danneggia anche chi le ha varate.

Perché gli effetti economici di queste prime sanzioni finanziare cominciano a danneggiare anche lo stesso mondo occidentale, che ad esempio ha circa l’equivalente di 30 miliardi di dollari di investimento in titoli di stato russo in valuta e di cui, per le prime cedole in scadenza, è stato escluso dal rimborso. Ma di questi effetti e di tutti gli altri, (che colpiranno soprattutto i settori del gas, dell’energia e dei cereali), ne parleremo meglio la prossima settimana.

Come Putin era convinto di una guerra (militare) lampo, così anche le forze occidentali stanno sperando in una guerra (finanziaria) lampo, per costringere l’uomo a trattare da una posizione di debolezza. Solo la storia ci dirà chi avrà avuto ragione. Per ora, mi limito a segnalare una freddura piuttosto cinica, che gira in questi giorni, che probabilmente racchiude però un fondo di verità: “più che gli sforzi dei diplomatici, potranno i capricci delle mogli degli oligarchi.” Che banalmente significa: chi ha conosciuto di colpo la ricchezza, non saprà più rinunciarci.

In effetti, le paludi della Siberia non hanno lo stesso fascino del mare della Sardegna e fare shopping a Groznyj non offre la stessa magia dei Champ Elysee. Chissà che prevalga allora il desiderio di continuare a godersi la “bella vita” da parte dei suoi “fedelissimi” oligarchi nei posti più esclusivi del pianeta e soprattutto…in santa PACE!