Ottobre 2020

Basta un po’ di coraggio

Per chi, come me, si occupa di consulenza patrimoniale, un periodo così difficile come quello attuale, nonostante alcune caratteristiche assolutamente uniche legate alla pandemia, è un film già visto. Premetto, (prima di essere travisato), mi riferirò ai soli effetti finanziari ed economici. Perché ogni crisi, per quanto unica e diversa dalle altre, provoca, sempre, identiche reazioni: paura e ricerca di protezione patrimoniale. E spesso, la via più scontata e immediata è sempre la stessa: tenere tutto sul conto corrente. Non è solo un atteggiamento solo italico, però da noi, probabilmente scontando ancora un retaggio culturale di tassi attivi alti (che ci trasciniamo da quando avevamo ancora la lira) è molto più evidente. Ai quei tempi avevamo alti tassi nominali, ma una inflazione ancora più alta, che vanificava il vantaggio economico, ma non è questo il punto. Non intendo dilungarmi neppure sulle scontate opportunità di investimento perse nel lasciare tutto in liquidità: lo dimostra già la storia dei mercati finanziari e rischierei di essere fazioso, e poi ci sono colleghi sicuramente più bravi di me nel farlo. No. Mi riferirò allora alla situazione attuale in Italia, dove, durante il lock down è aumentata significativamente la liquidità sui nostri conti correnti. Cresce il risparmio perché consumiamo di meno (effetto rinvio dei progetti) e perché si teme il futuro (effetto paura). Banca d’Italia stima la attuale ricchezza complessiva delle famiglie italiane (esclusa la componente immobiliare) in 4,4 miliardi di euro circa, di cui 1.400 miliardi circa è ferma sui conti correnti e/o depositi vincolati. (Prima del Covid erano poco più di 1 miliardo). Risorse dunque che non producono alcun valore aggiunto all’economia reale e che se solo fossero in parte investite, potrebbero dare un forte impulso alla crescita del Paese. Ma forse proprio questo è il punto. Per investire serve coraggio e il coraggio viene se c’è una opportunità. Una classe politica preparata e un minimo lungimirante, (soprattutto nelle fasi di stress), dovrebbe volere solo una cosa: creare le condizioni di fiducia nel futuro. E questo passa inevitabilmente per passaggi talvolta dolorosi (nel breve), ma assai preziosi nel lungo periodo: avviare un processo di riforme. Altrimenti il rischio che la mancata visione diventi una svista e che una riserva di liquidità diventi una “riserva di pesca″ è proprio la conseguenza di chi alla politica del coraggio ha preferito quella del miraggio.

Spendi, spandi, ma con giudizio

Il Fondo Monetario internazionale (FMI) ha aggiornato le stime della (de)crescita internazionale nel mondo post Covid. Situazione ancora grave, seppur in leggero miglioramento: il Pil globale subirà una contrazione del 4,4% nel 2020, (rispetto al -5,2% stimato quattro mesi fa). Analogamente, il rimbalzo previsto nel 2021, (+ 5,2%) si attenua proprio perché meno profondo dovrebbe essere il crollo del 2020. Nonostante la difficoltà di fare stime sensate in un contesto storico così magmatico e seppur sarà ancora una economia di distanziamento sociale per tutto il 2021, il FMI stima che già nel 2022 il mondo dovrebbe tornare a livelli superiori a quelli del Pre covid: (+0,3% sul PIL 2019). Anche l’Italia è prevista nel 2020 in leggero miglioramento: PIL in contrazione del 10,6% nel 2020, (rispetto al -12,8% stimato a giugno) con un rimbalzo del 5,2% nel 2021. Deficit pubblico previsto al 13% e debito pubblico che si issa al 162% del PIL per fine anno. In questa Europa che ha messo la marcia indietro, non si salva neppure la Germania (-6,1% PIL) e la Francia (-9,8%). Nell’Eurozona il crollo sarà dell’8,3%, rispetto al -10,2% di giugno, con un rimbalzo del 5,2% previsto l’anno prossimo. Abbiamo lasciato l’ultimo posto alla Spagna. Caspita, che soddisfazioni… L’unica grande economia che dovrebbe salvarsi invece sarà la Cina (+1,9% nel 2020), mentre gli USA rimarranno in contrazione del -4,3% (con buona pace dell’America first dell’attuale presidente), e i paesi emergenti saranno pesantemente sfavoriti dalla pandemia (India in primis). Ma questa è la fotografia. Interessante invece cosa dice il FMI per uscire dalla crisi: “i Governi dovranno continuare nelle politiche di welfare sostenendo la popolazione con sussidi salariali e indennità di disoccupazione, purché mirati, come pure sarà necessario continuare ad aiutare le imprese vulnerabili (ma vitali) tramite un sostegno al credito, proroghe fiscali e moratorie sul debito”. Spendere sì, ma con giudizio insomma. Il FMI si dichiara favorevole a sospendere i vincoli di bilancio a livello di singolo Stato purché ci sia un impegno rigoroso e credibile di risanamento, eliminando la spesa pubblica improduttiva e i sussidi a pioggia, «non mirati».(che abbiano letto la N&M della scorsa settimana?..). Infine il FMI suggerisce anche modifiche di carattere fiscale: nuove imposte sulle imprese, ma anche nuove forme di prelievo sugli individui più ricchi e/o quelli relativamente meno colpiti dalla crisi. (con una parolaccia, si chiama patrimoniale). Non proprio una bella notizia per noi Italiani da sempre alle prese con un carico fiscale più alto dell’Eurozona. Forse anche per questo che il FMI termina la ricerca suggerendo che i Paesi dovrebbero trovare il più possibile uniformità nella tassazione sui privati e sulle aziende. Il sospetto che stessero proprio pensando a noi, diventa a questo punto sempre più una certezza…

Paolo Maloberti-il mercato AIM una opportunità per la crescita delle PMI

AIM Italia è un mercato gestito da Borsa Italiana dedicato alle piccole e medie imprese più dinamiche e competitive del nostro Paese. A 10 anni dalla sua istituzione conta già 132 Società operanti in 10 settori, con una capitalizzazione pari a 6,6 miliardi di Euro e una raccolta totale in quotazione pari a 3,9 miliardi di Euro, di cui circa il 93% derivante da nuova emissione di titoli. Si rivolge alle PMI in fase di sviluppo e offre alcuni benefici quali: essere un canale alternativo a quello bancario nel finanziamento di nuovi progetti, la presenza di investitori qualificati internazionali; un accesso al mercato globale; una opportunità di crescita culturale dell’imprenditore; un processo di quotazione molto snello e con requisiti minimi rispetto alla quotazione sul mercato principale (cosa che può poi avvenire successivamente); nessuna soglia di capitalizzazione minima; nessun requisito in tema di Corporate Governance e nessuna istruttoria Consob. Vi sono poi altri obblighi, ma limitati, quali: la forma societaria di SpA, la nomina della società di revisione, redazione e pubblicazione della relazione semestrale, il supporto di un advisor legale per la redazione del documento di ammissione; di un advisor finanziario e di un Global Coordinator per i rapporti con gli investitori. Centrale è la figura del Nomad: il soggetto incaricato di valutare l’appropriatezza della società ai fini dell’ammissione e regista delle fasi qui sopra esposte.

Tracciare un identikit dell’emittente tipo non è immediato, in linea di principio si potrebbe dire che il mercato accoglie favorevolmente aziende che presentano ambiziosi programmi di crescita, un fatturato medio intorno ai 45 milioni di Euro, un EBITDA medio intorno ai 6 milioni di Euro ed un EBITDA margin medio intorno al 15 % ma, nella mia esperienza, posso testimoniare molte IPO di successo e soddisfazione di aziende con fondamentali molto lontani dai numeri citati. Esistono casi virtuosi di aziende con fatturati sotto i 10 milioni di Euro, ma anche imprese che con fatturati di 1,5 milioni, hanno raccolto più del doppio del loro fatturato e oggi capitalizzano oltre 9 milioni di Euro. Le ragioni del successo di queste IPO sono state: una equity story emozionante, un prodotto accattivante, un programma di crescita sfidante, velocità e precisione degli step pre IPO per farsi trovare pronti all’ammissione alla quotazione nella finestra di mercato più opportuna, ma, soprattutto, un imprenditore caparbio, determinato, convincente che crede nel suo progetto. Il fund raising non sarà mai un problema quando c’è credibilità, view strategica e autorevolezza da parte dell’imprenditore e la performace aziendale nel creare valore sarà solo la conseguenza di essere stati capaci di attrare talenti, capitali e partner strategici.

 

Laurea cum laude in Economia all’Università di Genova, Dottore Commercialista e Revisore Legale, partner Audit & Assurance di BDO Italia S.p.A. E’  responsabile dell’Ufficio di Genova.

Professore a contratto in auditing all’Università di Genova; membro della commissione IFRS presso il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti; membro del Gruppo di Saggi città di Genova; membro del Consiglio Direttivo della sezione terziario di Confindustria Genova.

Marco Venturini-La decarbonizzazione dell’economia e l’auto elettrica del futuro

La mobilità elettrica si fa strada anche in Europa, nonostante la tenace opposizione di quella parte dell’industria che ha un largo capitale investito nelle tecnologie automobilistiche correnti, e che finora ha cercato di ignorare questo sviluppo, sperando un giorno di svegliarsi da un brutto sogno.

La verità è che questa trasformazione è inevitabile, desiderabile e comunque destinata ad accadere con un andamento accelerato. Finché le auto elettriche non garantivano autonomia e ricariche rapide, non potevano diffondersi. Oggi è già possibile avere autonomie che sfiorano i 500 km e ricariche in 10 minuti, e il progresso continua. Giunti a questo risultato, chiunque provi un’auto elettrica non torna indietro. Prestazioni elevatissime, assenza di rumore e inquinamento, un pieno di energia con pochi euro, manutenzione quasi nulla. Non c’è confronto. Basta pensare a cosa diventeranno le città, senza fumi e senza rumore. Un pensiero negativo è che però in ogni caso l’energia elettrica necessaria a questa transizione va generata in qualche modo, magari bruciando combustibili fossili altrove, e che quindi non si guadagnerebbe nulla in termini ambientali.

Il futuro sarà diverso, e va pensato diversamente. Il vero problema dei prossimi anni non sono le auto elettriche ma come decarbonizzare completamente l’economia smettendo di emettere CO2. Per fare questo, dando per scontato che la società non vuole l’energia nucleare, c’è solo una soluzione: aumentare drasticamente l’uso di energie rinnovabili, prevalentemente sole e vento. Questo non è impossibile, la quantità di energia in arrivo sul pianeta è abbondante. Il problema è che tutte le rinnovabili sono intermittenti, e per utilizzarle in modo affidabile occorre una elevatissima capacità di accumulo di energia. Si potrebbe fare, ma ci vorrebbe un grandissimo investimento in batterie. Nessun Paese oggi avrebbe il coraggio di investire l’equivalente di una finanziaria per costruire grandi capacità di accumulo (tranne la Cina che lo sta facendo). Pensiamo invece ad un futuro in cui una parte significativa, per esempio il 20%, del parco auto nazionale, è elettrico. Ogni auto ha una batteria di grande capacità, e statisticamente il 90% del tempo le auto sono parcheggiate. Se queste fossero connesse alla rete mentre inutilizzate, ecco che la rete disporrebbe di tutto l’accumulo necessario a operare esclusivamente da fonti rinnovabili. Certo occorre investire in infrastruttura, ma non è impossibile (nelle città del Nord Europa già oggi ad ogni parcheggio su strada corrisponde un allacciamento elettrico). Non si tratta di fantasie, ma della nuova strategia energetica già delineata dall’Europa e in pieno sviluppo. In sintesi, la mobilità elettrica renderà possibile l’utilizzo di energia rinnovabile, oggi non accumulata e quindi non raccolta. Energia sprecata. L’auto elettrica non rappresenta un problema, ma la soluzione ad un problema ben più grande. Questo è il motivo per cui Paesi che pianificano il futuro investono moltissimo nello sviluppo di batterie e costruiscono gigafactories, mentre Paesi meno illuminati sperano che nulla accada e traccheggiano tra gas naturale (che inquina), idrogeno (che non c’è) e attendono, in una perenne competizione ad arrivare ultimi. Magari dichiarando che quando le nuove tecnologie saranno mature, le adotteranno (troppo tardi), salvo chiedersi il motivo di uno sviluppo lento e di una povertà diffusa.

Genovese, ingegnere nucleare, prima ricercatore all’Università della California, Berkeley, poi presso Texas Instruments, e Philips. Fonda  Phase Motion Control Spa, Società ad indirizzo R&D e tecnologico, che si specializza in elettronica di potenza e servomotori speciali ad alte prestazioni, per robotica, automazione e applicazioni di ricerca in astronomia e aerospaziale, mobilità elettrica navale, terrestre e aeronautica. Recentemente l’attività è stata estesa alle batterie al litio ad alta densità di energia e loro integrazione. Detiene numerosi brevetti ed è Life Senior Member di IEEE, socio di IAS, PES, UAI.

 

Pesa più un chilo di evasione o uno di cattiva gestione?

È da sempre il mantra di ogni forza politica che si affaccia alla ribalta: sconfiggeremo la evasione fiscale! E negli ultimi anni si è cercato una spettacolarizzazione dello slogan, assumendo pose plastiche su balconi o comunicazioni in diretta streaming. La fedeltà fiscale dunque come panacea di tutti i mali: basterebbe dire basta all’economia sommersa e il nostro Paese tornerebbe leader a livello mondiale.

Ma temo che questo sia pura mitologia. La realtà infatti è un po’ più complessa. Partiamo da qualche dato (stimato dal Ministero delle finanze): la evasione fiscale peserebbe circa 110 miliardi all’anno (IRPEF, IVA, IRES, IRAP.. c’è tutto un mondo di evasione). E’ tanto? Si, tantissimo. Il nostro PIL (dato ufficiale 2019) è di 1,8 trilioni di euro circa. L’evasione fiscale annua sarebbe dunque il 6% del nostro fatturato ufficiale. (Ma altri uffici studi stimano molto di più). Di certo servirebbe un balcone grande per urlare tutto il nostro sdegno!

Un recente studio della Cgia ha tuttavia stimato anche l’impatto delle inefficienze della nostra pubblica amministrazione: disservizi che gravano sul nostro tessuto produttivo o sul semplice cittadino. Anche qui si va dai debiti commerciali con la pubblica amministrazione, alla lentezza della giustizia civile, dal deficit infrastrutture, alla corruzione (soprattutto nella sanità) o alla ricchezza detenuta in paradisi fiscali… Bene, anzi male.. l’impatto economico stimato da Cgia sarebbe di circa 200 miliardi di euro, dunque più del doppio dell’evasione fiscale. Caspita, qui più che un balcone, servirebbe un terrazzo per sfogare tutta la nostra rabbia!

E il grosso problema che la classe politica (forse) non capisce è che la somma di tutti questi sprechi di spesa pubblica non ci consente di abbassare la nostra pressione fiscale. Più tieni alte le tasse e maggiormente qualcuno cercherà di trovare soluzioni “fai da te”. Un circolo vizioso insomma. Lo capirebbe anche un bambino.

O tempora! O Mores!” Esclamava Cicerone duemila anni fa per denunciare il malaffare dei costumi di allora.

Da allora sembra che non sia cambiato molto. O forse, sarebbe bastato (allora) annunciarlo da un balcone abbastanza grande per convincere da subito e spontaneamente il popolo ad assumere comportamenti più virtuosi. Chissà..

Prendi questa mano, Italia! (semicit.)

Andando a spulciare i risultati dell’asta del BTP a 10 anni sul sito del Ministero dell’economia e delle finanze (lo so, ci sarebbero passatempi più divertenti..), anche i non addetti ai lavori potrebbero arrivare a qualche considerazione interessante sul futuro del nostro Paese.

Primo: c’è tanta voglia di debito pubblico italiano ( la domanda è stata ampiamente superiore all’offerta di 4,5 miliardi di euro in collocamento).

Secondo: il rendimento dei nostri titoli di stato è in continua discesa. È un fatto negativo? Tutt’altro. oggi lo stato paga 89 centesimi per farsi sottoscrivere un debito a 10 anni, un mese fa pagava 22 centesimi in più. Siamo tornati al livello di un anno fa (manca 1 centesimo per essere pignoli), ma in mezzo c’è stato il Covid-19. E l’obiettivo è tornare ai livelli del 2016, in cui si era riusciti ad avere un costo dell’emissione a 55 centesimi.

Terzo: l’Europa non ci sta dando una mano, ma una manona. Di quelle che servono proprio per schiacciare il nostro spread a livelli bassissimi,(ora a 132 bps), evitando che salti dove non conviene che arrivi (più). Lo sta facendo attraverso un piano di acquisti dal nome un po’ politichese (PEPP), ma poco importa, meglio guardare più ai fatti che alle sigle.

Quali sono i vantaggi di questi tre punti? Innumerevoli. Soprattutto per lo Stato Italiano, che risparmia molto di più e (ci si augura) potrebbe utilizzare questo risparmio per fronteggiare meglio la emergenza pandemica in atto. Ma ci sono evidentemente dei vantaggi anche per i cittadini, favoriti (in generale) da uno spread sotto controllo.

Siamo alla fine di un anno balordo e lo Stato italiano ha in programma emissioni ancora per 40 miliardi circa. Non ci sono al momento segnali di preoccupazione e l’obiettivo potrebbe essere raggiunto senza affanno. Semmai il problema sarà quando l’Europa dovrà togliere la “manona” di sostegno, cosa che avverrà ad esempio nel 2023, con una mole di debito da rifinanziare piuttosto pesante (più di 300 miliardi).

Per allora, ce la dovremo cavare sulle nostre gambe.. O sulle nostre mani, dir si voglia..

Giovanni Panigada-Fare finanza straordinaria in tempo di Covid

Covid-19 sta provocando uno degli shock socio-economici più intensi dell’era industriale. C’è persino stato, in una fase per fortuna breve, una sorta di maxi riconversione del tessuto produttivo: chiunque potesse, cercava di convertire la propria attività manifatturiera per improvvisarsi nella produzione di mascherine, gel igienizzanti e simili. Inevitabile una caduta del PIL a livello globale e l’attesa per le imprese di bilanci 2020 caratterizzati da forti perdite di fatturato e da risultati economici in fortissimo peggioramento.

In un contesto così problematico molti imprenditori italiani si ritrovano in un difficile dilemma: cercare di unire le forze con altre imprese tramite aggregazioni per reggere l’urto della crisi, ma anche riuscire a definire una corretta valutazione di un’azienda.

Lo Stato italiano pare muoversi in ordine sparso: da un lato ha fornito un (unico) segnale positivo prorogando la possibilità di procedere alla rivalutazione delle quote di norma possibile fino al 30 giugno, (estesa poi fino al 15 novembre). Dall’altro ha frenato l’attività di aggregazione con una dannosa evoluzione della normativa sulla c.d. Golden Power che sta creando incertezza ed inutile burocrazia anche su operazioni di dimensioni più limitate e non strategiche per il Paese. Ma che impatto ha la pandemia sul valore di un’azienda? O meglio, quanto ha senso penalizzare la valorizzazione di un’azienda per effetto di un fatto esogeno e in parte temporaneo come la pandemia? Purtroppo il primo fenomeno degno di nota è che molti player rinviano sine die le loro scelte strategiche, perdendo ottime opportunità di mercato e a volte addirittura compromettendo la loro possibilità di sopravvivere.

Chi ha deciso comunque di affrontare operazioni straordinarie in questi mesi, sta di norma invece adottando un approccio molto pragmatico e ragionevole che si può così sintetizzare su 3 punti : 1)chi vende non è disposto ad essere valutato sulla base delle performance di un anno anomalo come il 2020; 2)chi compra vuole prima di tutto verificare che la società da acquisire non sia stata impattata in maniera tale da mettere a rischio la continuità aziendale. Di qui la richiesta di una due diligence particolarmente approfondita; 3)l’acquirente necessita di stimare in quale misura i danni della crisi siano momentanei e in quale misura saranno invece strutturali.

Tale stima può però essere oggetto di negoziazioni infinite: la soluzione più pragmatica è di legare una parte sostanziale del prezzo alle performance future della società acquisita, decidendo di rischiare assieme e di attendere i risultati consuntivi degli anni dal 2021 in poi.

Il risultato sono accordi che esaltano la necessità di chi vende di collaborare con chi compra per gestire al meglio l’uscita della propria società da questo periodo anomalo, mantenendo così una forte motivazione, poiché la determinazione del prezzo dipenderà dalle performance future. Se questo approccio stimolerà un’evoluzione culturale del nostro ceto imprenditoriale che spinga a collaborare e non solo a competere con gli altri imprenditori, potremo dire che non tutto il male è venuto per nuocere.

 

Laurea cum laude in Economia. Iscritto all’albo dei Dottori Commercialisti e Revisori contabili di Torino dal 2004, dopo aver lavorato a Londra e Milano come tax consultant e auditor, ha maturato dieci anni di esperienza in attività di M&A come project manager presso M&A International (oggi Oaklins). Vasta esperienza nella generazione e nell’esecuzione di oltre 50 processi sia nazionali sia internazionali e nella gestione di diversi progetti di ristrutturazione del debito ex art. 67 L.F. e di redazione di piani concordatari. È fondatore e amministratore delegato di Nash Advisory.