Dicembre 2023

Una recessione sospesa tra Drogo e Godot

Si chiude anche questo 2023, un anno che ha contraddetto molte “Cassandre” che prefiguravano scenari economici apocalittici, ma anche qualche regola finanziaria che ritenevamo, fino ad oggi, incontrovertibile.

La recessione più annunciata, twittata, romanzata della storia non si è poi presentata e noi ad aspettarla come un vecchio tenente Drogo (per i più romantici) o come un moderno Godot (per chi ricerca almeno il lato umoristico).

Eppure, riaprendo i libri ormai ingialliti dell’università i presupposti per una recessione mondiale c’erano tutti: una stretta monetaria di magnitudo senza precedenti, una curva tassi invertita, crisi bancarie varie, nuovi conflitti geopolitici e vecchie guerre non ancora risolte e ogni volta il fiato sospeso sulle decisioni dei banchieri centrali, manco fossero divi di Hollywood.

Il rialzo dei tassi o la tenuta dello spread sono diventati argomenti di comune conversazione pure tra sportivi in erba, casalinghe annoiate, stagionati rentier e influencers in rampa di lancio.

Higher for longer è Il mantra da ripetere in maniera ossessiva e che conferirà anche “più carisma e sintomatico mistero” (cit.) nel trittico terribile che ci attende dei prossimi cenoni: vigilia, Natale, capodanno. Qualcuno lo userà magari anche a sproposito, ma il concetto di fondo è che l’obiettivo di riportare l’inflazione verso il target del 2% (o del “2 virgola” come ammesso da qualche banchiere) sarà perseguito sia in Europa sia negli Stati Uniti e per questo i tassi dovranno rimanere più alti per più tempo. Bene, tutto chiaro. Ma a tanta severità negli enunciati è corrisposta anche e spesso qualche inedita apertura sul futuro taglio dei tassi, come quello annunciata dalla FED proprio qualche ora fa. È bastato questo per infiammare le borse al di là dell’oceano. Che poi è lo stesso Presidente che solo quattro mesi prima e con toni visibilmente affranti affermava che “c’è ancora molta strada da fare per riportare l’inflazione al 2%”, trovando subito una sponda altrettanto afflitta nella sua omologa europea che dichiarava “siamo lontano da una vittoria sull’inflazione”. Sappiamo poi come è finita: dell’atterraggio brusco della economia (c.d. hard landing) manco l’ombra e gli operatori di mercato hanno sconfessato, nei fatti, gli enunciati cupi dei banchieri centrali con performance convincenti.

Per carità, ci sono sempre degli accadimenti pronti a “confermare o ribaltare la situazione” e in effetti la guerra israeliana avrebbe (o potrebbe) scatenare ancora una corsa inflattiva, (se si allargasse ai paesi arabi), ma al netto di questa situazione, sembra che da qui a fine anno si voglia solo pensare positivo. Rimane però un contesto economico molto complicato ed inedito e molte domande irrisolte.

L’ambiente geopolitico resta instabile e l’economia internazionale fragile? Sì, però dell’Ucraina non se ne parla più, e chissà… Magari non stanno più combattendo… (amo l’ironia).

L’aumento dei tassi ha avuto un impatto sulla dinamica del debito pubblico? Sì, ma non pensiamoci ora. Anche le agenzie di rating, graziando l’Italia hanno dato (a mio avviso) un segnale: non conviene far valere l’algoritmo. Meglio usare il buonsenso in questi tempi da post Covid, dove tutti i Paesi si trovano con un debito pubblico esploso.

La banca centrale europea dovrà sgonfiare con il “Quantitative Tightening” un bilancio elefantiaco? Si, ma in qualche modo troveremo una soluzione per non danneggiare le economie più fragili.

Il riscaldamento globale e la perdita della biodiversità sono problemi impellenti? Sì, ma abbiamo scoperto che la transizione energetica ha oggi un costo insostenibile per un sistema già stressato dall’inflazione. Ci impegneremo, ma nel tempo.

Insomma, non assilliamoci troppo in questo ultimo scorcio di (ennesimo) anno emotivamente impegnativo.

Il 2024 sarà anche un anno elettorale pieno di insidie in cui la tentazione populista sarà probabilmente cassa di risonanza per molti dei problemi appena esposti.

Ma, personalmente, preferisco mantenere un moderato ottimismo: a meno di nuovi ed imprevedibili sconvolgimenti geopolitici, il sistema economico troverà ancora una volta soluzioni a questo contesto del tutto inedito.

“Il mercato finanziario deve crescere o si estingue”, amava ripetermi un mio vecchio capo.

Non ho mai messo in dubbio le sue parole, come pure non mi sono mai posto il dubbio se fosse più paradossale l’attesa del tenente Drogo o quella di Godot…

Valeria Brambilla- Innovare per competere: la sfida della sostenibilità

Ci troviamo oggi in un momento di profondo cambiamento sociale, economico e demografico, che richiede nuove modalità per analizzare e gestire rischi e opportunità. Un nuovo approccio che deve riguardare le vite delle persone, così come le agende politiche ed economiche, e che deve prevedere, tra le altre cose, un rinnovato impegno per la sostenibilità.

Molti elementi spingono infatti a porre sempre più attenzione agli aspetti ESGEnvironmental, Social e Governance. Più nello specifico, le istituzioni – quelle europee in prima battuta – hanno definito obiettivi di sostenibilità ambiziosi ed elaborato piani per raggiungerli. L’Unione Europea, ad esempio, ha elaborato il Green Deal, un pacchetto di iniziative strategiche per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. In questo ambito, con l’approvazione della direttiva riguardante la rendicontazione societaria di sostenibilità, la Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD), l’UE ha allargato il perimetro di aziende a cui dal 2024 verrà richiesto di predisporre e sottoporre a verifica l’informativa di sostenibilità, coinvolgendo non solo le realtà quotate, ma anche società di medie e grandi dimensioni non quotate aventi specifiche caratteristiche.

Alla richiesta di trasparenza da parte delle istituzioni, si aggiunge quella delle persone, ed in particolare delle nuove generazioni – Millennials e Generazione Z, che manifestano nuovi bisogni, tra cui proprio la sostenibilità nelle sue diverse sfaccettature. L’ultima “Deloitte Global GenZ and Millennial Survey” rileva, infatti, che quando i più giovani si ritrovano a cercare occupazione, valutano accuratamente i datori di lavoro rispetto a criteri come flessibilità e salute mentale sul posto di lavoro, oltre che considerare l’impatto ambientale e sociale dell’impresa, sebbene la carriera rimanga un fondamentale elemento di identità per il 62% dei Millennials e per il 49% della GenZ. Anche le preoccupazioni per lo stato di salute del nostro pianeta rientrano nella scala delle priorità delle nuove generazioni, ed in particolare per il 64% dei Millenials e il 63% della Generazione Z.

Nuove sfide, ma anche nuove opportunità, che portano le aziende non soltanto a definire piani di sostenibilità, ma anche a misurarsi sulle tre dimensioni che le compongono per migliorare nel tempo e soddisfare le richieste dell’UE e delle persone, siano queste clienti o talenti da attirare e trattenere.

Alla base di tutto deve essere posta l’innovazione, soprattutto di processo. Un’innovazione che deve partire dalla comprensione delle nuove sfide del contesto odierno, e delle possibili opportunità emergenti, per passare dal lavorare costantemente sul rapporto di fiducia con tutti gli stakeholder, ed arrivare, infine, ad un nuovo modello di business basato sulla trasparenza e sull’impegno a concretizzare gli elementi caratterizzanti lo sviluppo sostenibile attraverso azioni concrete e quotidiane.

 

Da giugno 2023 è la nuova AD di Deloitte & Touche SpA, la società di revisione e organizzazione contabile appartenente al network di Deloitte in Italia. Assumendo la guida dell’Audit&Assurance è diventata la prima donna a ricoprire il ruolo di AD di una società del network Deloitte in Italia.

Già socia di Deloitte dal 2007, nel 2009 ha guidato l’ufficio di Parma – cresciuto da 10 ad oltre 50 persone nell’arco di 5 anni – e successivamente, nel 2012, è diventata Leader dell’Industry Manufacturing per Deloitte in Italia. Durante la sua carriera ha maturato un’esperienza ultraventennale nella revisione e nel reporting di società appartenenti a gruppi internazionali quotati, società quotate ai mercati italiani e gruppi italiani di medie dimensioni.

Dal 2015 Brambilla è a capo dell’Industry Life Sciences & Healthcare (LSHC) per l’intero Network di Deloitte Italia che, negli ultimi 6 anni, ha visto triplicare il proprio fatturato e ha poi ricoperto il ruolo di Deloitte Central Mediterranean LSHC leader. 

Nel 2019 diviene consigliere del consiglio di amministrazione di Deloitte & Touche S.p.A. con deleghe alla Governance, nel 2021 diviene Presidente del Consiglio di Amministrazione della Società e nel 2023, infine, Amministratore Delegato.

Oltre a ricoprire il ruolo di AD, Valeria Brambilla ricopre occasionalmente l’incarico di docente presso diverse Università di Economia, presso l’Ordine dei Dottori Commercialisti ed è membro della Commissione Consultiva di Assirevi.

 

Paolo Maloberti-La riduzione del valore degli attivi iscritti in bilancio: impairment test

A scopo puramente divulgativo ed evitando di entrare nei tecnicismi della dottrina ragionieristica, possiamo definire il test di riduzione del valore degli attivi iscritti in bilancio, c.d. “impairment test”, come un importante strumento valutativo contabile utilizzato dalle aziende per misurare la recuperabilità di singoli assets aziendali o dell’intera azienda.

Tale processo ricopre un ruolo cruciale nella rendicontazione finanziaria e nella gestione delle risorse aziendali: sia perché viene richiesto dai principi contabili nazionali, internazionali e dalla normativa civilistica e sia perché fornisce un quadro prospettico della capacità degli assets dell’impresa di generare flussi di cassa adeguati al sostegno della continuità aziendale. Attraverso questo test, le aziende possono assicurarsi di: riflettere accuratamente la situazione finanziaria, fornire informazioni trasparenti agli stakeholders e prendere decisioni informate sulla gestione delle risorse dell’impresa, spostando il paradigma valutativo dal costo storico degli assets ad una visione prospettica e dinamica connessa alla capacità di generare flussi di cassa futuri degli stessi.

Il processo di impairment test coinvolge diversi passaggi: in primo luogo, il management  identifica gli attivi che potrebbero essere soggetti ad una perdita di valore, includendo in questa analisi tanto attivi fissi tangibili quali immobili e attrezzature, che attivi fissi intangibili come goodwill o diritti di brevetto piuttosto che investimenti partecipativi in altre imprese.

Successivamente l’esercizio valutativo comporta la determinazione del valore recuperabile di ciascuno dei suddetti attivi, basata sulla stima dei flussi di cassa attesi, derivanti dall’utilizzo del singolo bene nel processo produttivo, in un orizzonte temporale definito. Tale valore così determinato viene confrontato con il valore contabile dell’asset e, qualora il valore recuperabile risultasse inferiore al valore netto contabile dello stesso, il management procederà a rettificarne conseguentemente l’importo iscritto in bilancio.

L’impairment test è essenziale per diverse ragioni: contribuisce a garantire la corretta rappresentazione della situazione finanziaria di un’azienda dimostrando la recuperabilità dei valori iscritti in bilancio, garantisce ad investitori e stakeholders informazioni sulle prestazioni finanziarie dell’azienda e sulla sua capacità prospettica di generare flussi di cassa nel futuro, permette al management di prendere decisioni informate sul mantenimento o sulla realizzazione di attivi che potrebbero aver perso valore, aiuta ad ottimizzare l’allocazione delle risorse.

Alla luce di quanto sopra sintetizzato, concludo dicendo che a prescindere dalle prescrizioni normative, l’impairment test risulta uno strumento consigliabile come processo di moderna gestione aziendale.

Infatti, spostando il paradigma contabile dalla valutazione consuntiva ad un approccio predittivo, disciplina il management ad un sistematico e sistemico esercizio di programmazione aziendale a medio e lungo termine, focalizzando gli obiettivi sulla generazione di flussi di cassa, quale strumento di misurazione delle performance aziendali.

Inoltre, la sua corretta applicazione garantisce la sostenibilità del business rispetto al semplice indicatore di profitto economico. Anche il processo di comunicazione finanziaria con tutti gli stakeholders aziendali è così migliorato: azionisti, creditori, investitori, banche, organizzazioni sindacali etc… possono monitorare il rendimento aziendale e prendere decisioni informate.

In poche parole, si migliora la fiducia verso l’azienda e ne aumenta la reputazione, garantendone, al tempo stesso, la sostenibilità nel tempo.

 

 

Laurea cum laude in Economia all’Università di Genova, Dottore Commercialista e Revisore Legale, partner Audit & Assurance di BDO Italia S.p.A. in Genova e Milano

 

Niente di nuovo sul fronte occidentale

I conflitti in corso in medio oriente e in Ucraina hanno riacutizzato tensioni internazionali sopite nel tempo e hanno riconfermato, se mai ce ne fosse stato bisogno, l’esistenza di superpotenze internazionali pronte ad intervenire politicamente e militarmente per mantenere (il precario) ordine mondiale. Del resto, il caos non è mai visto di buon occhio per chi vuole mantenere un primato economico internazionale. Ce lo insegna la storia antica e anche quella moderna: nel primo dopoguerra, le due super potenze di allora si spartirono immediatamente le aree di influenza e per un bel po’ riuscirono anche a prosperare economicamente. Sappiamo bene cosa sia poi successo al fronte ex URSS e come, di colpo, l’America si sia trovata ad essere “giudice finalmente, arbitro in terra del bene del male…” (cit.)  Gli ultimi avvenimenti geopolitici di inizio secolo hanno poi mostrato una sorta di appannamento della politica internazionale americana, mentre la sua economia manteneva la leadership a livello mondiale, seppur con un distacco sempre più marginale rispetto all’economia cinese. La domanda che ora molte società di ricerca si stanno ponendo è capire quanto la posizione di dominanza politica americana possa sopravvivere alla (eventuale) perdita del suo primato economico internazionale. Negli ultimi mesi, infatti, sono stati pubblicati alcuni studi che ribadiscono che l’equilibrio del potere economico globale cambierà radicalmente nei prossimi anni e l’Asia continentale (escluso il Giappone quindi) diventerà nei prossimi 25 anni il maggior contribuente al PIL mondiale. Qualcuno sostiene (Goldman Sachs) che questa porzione di Asia, composta da Cina, India e Indonesia rappresenterà il 40% del PIL mondiale nel 2050, superando il fronte occidentale, in contrazione al 35% (era il 77% nel 2000), che potrebbe così trovarsi soppiantato da un pericoloso antagonista, non fosse solo perché più ricco.

Altri studi (PWC) sostengono che l’economia mondiale arriverà a raddoppiarsi nel 2050, grazie a una migliore produttività guidata dallo sviluppo tecnologico e la Cina contenderà lo scettro di superpotenza internazionale all’India, mentre il Bangladesh, le Filippine, il Messico e la Nigeria rappresenteranno le economie a maggior propulsione mondiale.

Le economie emergenti potrebbero infatti crescere mediamente più del doppio delle economie avanzate consolidate, grazie agli elevati tassi di crescita della popolazione e all’età media relativamente bassa, che si traduce in una forza lavoro più ampia. Gli USA perderebbero il loro primato mondiale economico piazzandosi solo al terzo posto nella classifica globale del PIL, dietro a Cina e India, mentre bisognerebbe scalare fino alla decima posizione per trovare il primo paese europeo (Germania).

Se infatti nel corso degli ultimi anni abbiamo scoperto il significato dell’acronimo BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) per identificare le nazioni più importanti tra le economie emergenti, converrà ora imparare anche il termine MINT (Messico, Indonesia, Nigeria, Turchia) per definire i paesi ricchi di risorse e con una popolazione dinamica, che sono maggiormente candidati per iscriversi al club delle nuove super potenze economiche. Queste economie avranno però bisogno di migliorare significativamente il loro aspetto istituzionale e delle infrastrutture se vorranno pienamente realizzare il loro potenziale.

Sono tuttavia economie che beneficeranno di almeno due fattori cruciali: una popolazione in crescita e una forte dotazione di materie prime di trasformazione. Significativo l’esempio dell’Africa, un continente destinato ad espandere la propria influenza nello scacchiere economico globale (anche e suo malgrado attraverso le migrazioni): la popolazione africana quasi raddoppierà, raggiungendo i 2,5 miliardi dagli 1,4 miliardi di individui di oggi.

L’Italia invece diventerà (probabilmente) sempre più un posto ideale per le vacanze, il buon cibo e la buona vita, ma non per fare business.  A livello economico la sua discesa appare inarrestabile: era la sesta potenza economica mondiale nel 1980, passata poi al settimo posto nel 2000 e caduta al decimo posto nel 2022. 

La causa della inarrestabile caduta italiana è stata già ampiamente dibattuta su questo blog in diverse occasioni ed è principalmente una: la nostra fragile demografia. Siamo 59 milioni e saremo, in previsione, 51 milioni. Per la cronaca, un siffatto calo della popolazione italiana potrebbe infatti generare una perdita economica fino a un terzo del PIL, anche perchè l’invecchiamento della nostra popolazione peserà sempre di più sulla spesa pensionistica e sulla spesa sanitaria.

Ma tornando all’incipit iniziale, a fronte di una economia in salute, ma non più esplosiva, quanto gli USA perderanno della loro supremazia a livello internazionale?  A mio avviso poco, quasi nulla. È più facile che gli equilibri possano rimanere abbastanza immutati nonostante l’exploit, come visto, delle nuove economie. Gli Usa avranno infatti due grossi vantaggi: la crescita della India determinerà presto o tardi una collisione con la repubblica popolare cinese su chi sarà il maggior polo aggregante continentale. L’India in questo caso non diventerà mai una alleata di Washington, ma fiaccherà e non poco, le energie del maggiore competitore statunitense.  Ma la grande fortuna americana sarà però probabilmente e ancora l’Europa: il costante invecchiamento della popolazione indebolirà l’economia continentale e una politica comunitaria probabilmente ancora disancorata da una visione strategica di lungo periodo le impedirà di diventare un credibile leader internazionale per tutti quei Paesi, geograficamente vicini, ma che per ragioni ideologiche non riconoscono l’America come guida e non hanno vincoli storici con il subcontinente cinese o quello indiano. Rimarremo “vassalli fedeli e di pregio” e un ricco mercato di sbocco per i loro prodotti, ma in fondo, forse è meglio così, del resto, potevamo mica essere proprio noi motivo di caos…