Febbraio 2025

L’immigrazione fa bene all’economia?

È un annoso problema, cavalcato negli anni dalla politica, che l’ha sempre trasformato in spauracchio da temere o da risorsa da valorizzare, a seconda dei punti di vista.

Non è ovviamente un tema solo italico, anche se da noi ha sempre rappresentato, almeno negli ultimi anni, terreno di scontri epici tra le opposte fazioni politiche.

A dir la verità i primi cenni di questo dibattito internazionale risalgono alla rivoluzione industriale americana, quando la commissione sull’immigrazione nel 1911 (erano i famigerati tempi di Ellis Island) sentenziò che l’immigrazione estera avesse riflessi negativi sul mercato del lavoro e sull’economia in generale.

Nel corso degli anni più economisti hanno cercato di raffinare la ricerca, individuando una correlazione tra immigrazione e reddito reale per abitante. Nel 1944 Steinmann arrivò a una conclusione che ancora oggi molti sostengono: l’immigrazione porterebbe vantaggi sul reddito reale dei nativi nel lungo periodo, ma i costi di integrazione, almeno nel breve periodo, sono superiori dei benefici attesi. Da allora si sono sviluppate, nel corso del tempo, due teorie diametralmente opposte sui benefici dell’immigrazione.

La prima teoria sostiene il “replacement hypothesis”, ovvero, gli stranieri tenderebbero a ridurre il livello salariale degli autoctoni sottraendo posti di lavoro, la seconda teoria sostiene invece la “segmentation hypotesis”, ovvero, alcuni stranieri coprirebbero quelle posizioni lavorative che per ragioni sociali, di formazione o di status, pochi autoctoni vorrebbero ancora svolgere, influendo quindi positivamente sul tasso di occupazione di quella nazione.

Oltre a queste due teorie ci sono diverse posizioni di mezzo che invece sostengono che dopo un iniziale periodo di tempo (che cambia da studio a studio) l’afflusso di migranti porterebbe benefici sui  tassi di disoccupazione e sulla salute economica in generale, poiché gli immigrati sono adulti giovani e di mezza età che mantengono il sistema di welfare adottato dal Paese ospitante.

Di certo, le due teorie prevalenti incendiano il clima politico di qualunque economia matura.

La Banca Mondiale nel 2023 ha dichiarato che già il 2,5% della popolazione mondiale vive al di fuori della sua zona di origine e tale numero tenderà ad aumentare sensibilmente nei prossimi anni, per cui il tema della immigrazione diverrà sempre più un’esigenza da affrontare per i Paesi più ricchi, che dovranno capire se le caratteristiche dei migranti in arrivo corrispondano ai bisogni del Paese ospitante e  perché alcuni Paesi siano preferiti rispetto agli altri (ragioni linguistiche, culturali, religiose…).

Idealmente, i Paesi ospitanti dovrebbero favorire quella parte di migrazione “consona” al loro bisogno di sviluppo, riducendo i costi delle rimesse, attuando programmi di formazione per facilitare l’acquisizione delle competenze richieste e favorire il processo di integrazione e inclusione.

Ma questo è il mondo ideale: teoria e realtà sono quasi sempre ben diverse. E guardando anche ai nostri confini è evidente che i precetti della Banca Mondiale non siano di facile attuazione. Negli ultimi anni assistiamo a flussi sempre più massicci e disordinati di migranti ( in America, in Australia, in Canada, in Europa…) e l’impatto dell’immigrazione sta andando ben oltre un effetto aritmetico sul PIL, determinando inflazione, spesa sociale e abbassamento della qualità della vita in generale.  Questo è dovuto al fatto che gli ultimi flussi migratori si caratterizzano per competenze professionali pressoché nulle rispetto ai bisogni dei Paesi ospitanti. Basti pensare ai settori dell’agricoltura o della ristorazione che utilizzano questi migranti a costo bassissimi, distruggendo il livello salariale per gli altri lavoratori già assunti. La migrazione poco qualificata ridurrebbe dunque i salari e scoraggia persino le aziende a innovare: è il caso dei “car wash”, dove conviene sottopagare l’inserviente che comprare il macchinario automatizzato.

Per concludere e per dirla come illustre economista (Milton): “l’immigrazione non comporta di per sé un rischio, ma la mancata integrazione sì, ma dare il benvenuto ai nuovi migranti significa dare molto di più che lasciarli semplicemente entrare”.

Roberto Albisetti- Gli effetti economici dei salvataggi e il rischio morale del sistema bancario

I programmi di salvataggio promossi dai governi e appoggiati dalle istituzioni finanziarie sovranazionali hanno sollevato il dibattito pubblico sul rischio morale (moral hazard). Questo consiste nel rischio che le grandi banche e le istituzioni finanziarie possano assumere esposizioni eccessive perché, in situazioni di crisi, conterebbero sulla protezione dello Stato, che interverrebbe a garantire la sopravvivenza per assicurare stabilità al mercato, socializzando le perdite dovute a errori nella gestione del rischio. Alcuni critici sostennero che fosse inaccettabile salvare le banche in difficoltà, in funzione della rilevanza della posizione nel mercato, per non destabilizzare il sistema.

Il mancato salvataggio di Lehman Brothers venne giustificato dal rischio morale, però successivamente il Tesoro americano dovette intervenire a favore di un gruppo di banche colpite dalla crisi (per esempio Citibank), per evitare l’impatto sistemico che avrebbe causato il loro fallimento, per cui prevalse l’interpretazione che si dovevano salvare perché «troppo grandi per fallire». 

Gli accordi della BRI di Basilea III (e successivamente IV) hanno introdotto regole più severe che impongono alle banche di mantenere indici minimi di capitale proporzionali al rischio degli impieghi (per accantonamento di quote di capitale, noto anche come «assorbimento di capitale»). Il principio si applica sia al portafoglio crediti sia alle esposizioni per tassi d’interesse, scadenze ed esposizione in cambi.

Durante la riunione del G20 del 2009 a Londra, per assicurare maggiore stabilità ai mercati e ridurre i rischi sistemici del mercato finanziario, venne creato il Financial Stability Board (Fsb), un organismo affiliato alla Banca dei regolamenti internazionali di Basilea, al quale venne affidato il coordinamento tra i paesi membri, che sono gli stessi del G20, Svizzera, Singapore, Hong Kong, e le istituzioni internazionali (Bri, Fmi, Banca Mondiale, Unione Europea, Ocse).

Il Fsb divulga ogni anno un elenco di trenta banche che per dimensione possono essere considerate «sistemiche» a livello internazionale e quindi sottoposte a criteri di supervisione bancaria più severi. In questa lista dinamica (perché cambia annualmente) appartengono, tra le altre, le grandi banche americane Citigroup, JPMorgan Chase, Bank of America, Goldman Sachs, Wells Fargo, Bank of New York Mellon, Morgan Stanley, poi Deutsche Bank, BNP Paribas, Société Générale, UBS in Europa, tre banche cinesi (Bank of China, Agricultural Bank of China, China Bank of Communication). UniCredit era l’unica banca italiana inclusa nella lista sino al 2022.

Il rischio morale, in una certa misura, venne evidenziato anche nella crisi del 2012, osservando che alcuni Stati membri dell’UE si potevano finanziare a tassi d’interesse più bassi di quanto suggerissero i loro fondamentali macroeconomici; questa considerazione implicava che l’Unione Europea non avrebbe permesso a nessun membro di cadere in default, e che sarebbe intervenuta per mantenere il regolare pagamento del debito alle scadenze anche dei paesi con eccessivo indebitamento.  Dal momento che si adottò l’euro come moneta unica, la Bce stabilisce una politica monetaria comune, mentre ogni nazione definisce la propria politica fiscale, in un sistema di condivisione e coordinamento delle politiche di bilancio con gli altri paesi membri.

La separazione tra politica fiscale e monetaria è una delle lacune nell’ordinamento dell’Unione Europea, che la rendono un’istituzione sovranazionale ancora lontana dall’essere una federazione di Stati. Questa debolezza istituzionale condusse all’introduzione del trattato di stabilità fiscale (noto anche come fiscal compact) nel 2012, che richiese agli Stati membri di adottare regole comuni per mantenere tendenzialmente i bilanci in pareggio, con l’accordo politico di contenere il deficit entro il tre per cento del Prodotto interno lordo. Secondo i dati del Fmi del 2019, la somma delle economie di Grecia e Portogallo pesava meno del tre per cento del totale del Prodotto interno lordo dei paesi della «zona euro», mentre quello dell’Italia era di circa il tredici per cento.

La gravità della crisi emerse nei bilanci del 2016 di un numero di banche italiane, che mostravano sofferenze per crediti scaduti del 16%, quasi tre volte la media UE del sei per cento. Un indice di sofferenze del sedici per cento è tipico delle fintech e del credito al consumo, che gestiscono rischi ben più elevati del portafoglio diversificato delle banche. Il declino della qualità dei portafogli crediti di una dozzina di banche, alcune regionali e altre nazionali, fu attribuito a due cause. 

La prima esterna, ovvero il contagio della recessione economica che aveva ridotto la liquidità delle imprese, mentre la seconda fu una causa interna, la debolezza della governance nella gestione del credito, in particolare la scarsezza di controlli e di filtri sul conflitto d’interessi tra azionisti e imprese relazionate con gli azionisti delle banche. In Italia la composizione azionaria di diverse banche è cooperativa, pertanto il capitale può essere frammentato in quote di controllo che riferiscono a imprese e famiglie che nominano membri dei consigli di amministrazione.

La Banca Centrale Europea reagì al contagio della crisi in Europa con imponenti iniezioni di liquidità nei mercati finanziari (operazioni di quantitative easing) che venne canalizzata al sistema economico tramite le banche, le quali ricevettero un afflusso di liquidità che utilizzarono in parte per acquistare titoli di Stato emessi anche da paesi fortemente indebitati e, in parte, alimentarono il credito alle imprese in difficoltà, abbassando la soglia di accettazione del rischio, e accettando di prestare a debitori meno meritevoli di credito o aumentando oltre la soglia raccomandata l’esposizione con clienti esistenti.

Gli economisti hanno dimostrato a posteriori che esiste una correlazione tra l’aumento della liquidità del sistema bancario, i bassi tassi d’interesse, il ciclo economico negativo, le crisi aziendali e l’aumento della morosità dei prestiti, che in ultima analisi porta all’aumento delle sofferenze, a maggiori accantonamenti e a perdite nei bilanci delle banche. La crisi globale tra il 2008 e il 2012 ha evidenziato che alcuni paesi emergenti si mostrarono meno vulnerabili dei paesi occidentali. Tra i fattori che contribuirono a rinforzare la resilienza furono la diversificazione delle esportazioni e l’aumento delle riserve internazionali, che hanno garantito la valuta estera necessaria a pagare puntualmente il debito estero e le importazioni.

Anche il miglioramento della regolamentazione dei mercati contribuì a diminuire la volatilità: i controlli delle autorità per ridurre l’esposizione al debito estero a breve termine, l’introduzione di maggiore disciplina nella spesa fiscale, lo sviluppo dei mercati finanziari in valuta locale. Questi progressi hanno certamente contenuto nei paesi emergenti l’impatto delle improvvise contrazioni di liquidità e di accesso al credito causate dalla crisi globale.

Banchiere d’investimento e consulente aziendale di strategia, M&A, ristrutturazioni e project finance.

Laureato in economia all’Università di Genova e studi di perfezionamento alla New York University, Bocconi e Harvard. Inizia professionalmente in Ansaldo a Genova e New York, in IRI a Washington, poi entra in Banca Mondiale nella rappresentanza italiana al consiglio di amministrazione, quindi a Roma come direttore centrale di SACE. Dal 1998 torna in Banca Mondiale IFC sino al 2019, tra Washington DC, Moldavia, Serbia, e come direttore regionale in Colombia, Messico e Panama.

Ha partecipato in diversi consigli di amministrazione di industrie, banche e fondi di private equity.

Professore invitato di finanza avanzata in MBA. Prorettore di Uniminuto in Colombia nel 2020-21.

Ha scritto quattro libri di finanza, strategia e mercati internazionali. Ultimo nel 2018 Finanza Empresarial per Ed. Javeriana in Colombia e per UAG in Messico. E’ mentore di Endeavor e di club di family office. Ha valutato più di 500 start-up in cerca di capitale.

Presenterà il suo ultimo libro “Business & Finanza” il 20 febbraio 2025 alle 17,30 presso la sala del Consiglio Metropolitano di Genova.