Novembre 2024

France: Le malade n’est pas imaginaire

Velocissimo sunto dalla puntata precedente: i Paesi per anni disprezzati e accomunati nel triste acronimo “PIIGS”, sono oggi quelli che “tirano la carretta” di una malandata Europa. Questo almeno vale guardando i dati di crescita economica.

La Germania, storica locomotiva continentale, è in preda a una profonda crisi politica e produttiva, i “Paesi rigorosi” Austria e Olanda mostrano una economia asfittica.

In questo scenario di mondo capovolto, secondo le agenzie di rating, c’è un Paese più in crisi degli altri, ed è la Francia.

E così, se è vero che Moody’s ha appena confermato il rating ai nostri cugini, l’outlook (previsione) è diventato negativo. Che in soldoni significa: cara Francia se non cominci a promuovere riforme di risanamento, al prossimo giudizio (rating) ti boccio e ti allontano sempre più dal gruppo di Paesi europei che considero virtuoso, almeno per merito creditizio (nell’ordine sono: Germania, Danimarca, Paesi Bassi) e ti avvicino sempre più al gruppo dei perenni pericolanti (nell’ordine sono: Spagna, Portogallo, Italia, Bulgaria, Grecia, Romania). Anche le altre agenzie di rating (Fitch e S&P) erano già arrivate a simili conclusioni, declassando o cambiando la previsione in negativo, sulla qualità del credito della Francia.

Peccato che le società di rating arrivino spesso tardi nei giudizi. Conviene guardare allora ai mercati, che nel famigerato “spread” tra i titoli di stato di due paesi, esprimono un giudizio di salute.  Lo spread tra Italia e Francia è così sceso (non esiste solo quello BTP-Bund…), per la prima volta dal 2010, sotto i 50 punti e oggi oscilla, stabilmente, intorno ai 52-55 punti.

Giusto per avere una idea, lo stesso differenziale nell’estate del 2019 era di 250 punti. 5 anni fa: siamo allora diventati troppo belli noi o troppo brutti loro? Più la seconda.

Il restringimento di questo spread dipende infatti, da un lato del rialzo dei rendimenti dei titoli francesi (cresciuti di 60 punti base da inizio anno) e dall’altro del calo dei rendimenti dei BTP (scesi di 35 punti circa).

Provo a dirlo in parole più semplici: i BTP vengono sempre più comprati, i titoli governativi francesi vengono sempre più venduti. E così il rialzo dei titoli di stato francesi sta diventando sempre più marcato, poiché più il creditore è considerato sempre più rischioso.

Perché succede questo? Questo fenomeno è legato principalmente ai problemi relativi al crescente debito pubblico e alla stabilità economica e politica del Paese transalpino. Le previsioni economiche per la Francia sono diventate preoccupanti, con un aumento del debito pubblico che potrebbe superare il 120% del Pil nei prossimi anni, (era solo al 98% nel 2020) e che è già il terzo per dimensione nell’Eurozona, dopo quelli di Grecia e Italia.

Per inciso, in Italia il rapporto debito su PIL è ben più alto (dovrebbe diventare 139% a fine anno), ma per lo meno abbastanza stabile negli anni (eccetto la parentesi Covid).

Tornando ai nostri cugini, Fitch ha rimarcato che le difficoltà economiche della Francia sono amplificate da una crescita economica lenta e da una spesa pubblica troppo elevata. Soprattutto spaventa l’impegno politico di mantenere costosi programmi sociali e l’incapacità di affrontare la realtà con delle riforme che possano contenere il deficit e di conseguenza il debito pubblico.

In un drammatico messaggio alla nazione (che ha ricordato un po’ quello di Monti del 2001), il nuovo premier francese Barnier ha usato toni gravi per esprimere la serietà della situazione: «Il nostro colossale debito pubblico è sulle nostre teste come una spada di Damocle, senza una correzione il paese «finirà sull’orlo del precipizio».

Concludendo: i bond transalpini oggi esprimono rendimenti più alti di quelli spagnoli (2 punti base) e di quelli portoghesi (27 punti base), mentre offrono ancora un rendimento inferiore solo ai titoli italiani (anche se come visto con un differenziale in continuo restringimento) e a quelli greci, (con un vantaggio di soli 15 punti base).

Chissà se nel suo discorso alla Nazione Barnier non paventasse l’ipotesi di dover comprendere anche la “F” di Francia in un eventuale nuovo acronimo per i paesi meno virtuosi

Anna Maria Saiano-Ansia economica e riallineamento politico nelle Elezioni USA 2024

Nel 2024, gli Stati Uniti hanno vissuto una delle elezioni più significative e per certi versi inaspettate degli ultimi decenni. Mentre l’economia, la stabilità, la sicurezza finanziaria, l’immigrazione, l’equità, l’accessibilità e la giustizia sociale hanno dominato il dibattito elettorale, l’elettorato americano ha mostrato un cambiamento nelle priorità e nelle alleanze politiche, portando a risultati che per alcuni commentatori sono stati sorprendenti, per altri hanno fondamentalmente confermato una tendenza già affermatasi in altri Paesi. La vittoria di Donald Trump nel voto popolare sembrerebbe riflettere una nazione sempre più divisa tra diritti economici e diritti civili, tra la ricerca di stabilità e il desiderio di cambiamento. Vediamo allora di analizzare le dinamiche di questo riallineamento elettorale e la sua trasversalità di voto.

Le elezioni del 2024 hanno rivelato cambiamenti significativi nell’affluenza degli elettori, che si è attestata al 64,5% (era stata del 66,8% nel 2020 e del 59,2% nel 2016) soprattutto in base a istruzione, occupazione, etnia, geografia e una nuova divisione suburbana rispetto alle elezioni recenti.

La partecipazione degli elettori senza un titolo universitario è aumentata, segnalando un cambiamento nell’allineamento politico di questo gruppo, che ha mostrato una preferenza di 6 punti per il candidato Trump. Al contrario, gli elettori con un titolo universitario sono stati in maggioranza a favore della candidata Harris, con un margine del 13%. I lavoratori cosiddetti blue-collar, specialmente nel settore manifatturiero, hanno mostrato un maggiore coinvolgimento, con una forte preferenza per Donald Trump, mentre i professionisti white-collar, nei settori dell’istruzione e della sanità, hanno invece sostenuto Kamal Harris.

Il candidato Trump ha guadagnato un supporto per molti inaspettato tra gli elettori latino-americani, riducendo il vantaggio dei Democratici, mentre gli elettori afroamericani, pur restando in maggioranza Democratici, hanno mostrato un lieve aumento del supporto repubblicano. I white voters hanno continuato a preferire i Repubblicani con un margine del 15%, segnalando cambiamenti influenzati fondamentalmente da questioni economiche. Emergono anche “schemi di voto interculturali”, con gruppi che votano al di fuori degli allineamenti tradizionali: alcune comunità latino-americane e asiatico-americane hanno dato priorità a temi come stabilità economica e criminalità, portando una parte di questi elettori a sostenere i Repubblicani. Una parte significativa dell’elettorato femminile ha sostenuto il candidato Trump per motivi legati alla stabilità economica e ad un approccio più culturalmente tradizionale rispetto alle questioni sociali.

I modelli di voto geografici hanno evidenziato una crescente divisione urbano-rurale. Donald Trump ha dominato le aree rurali, enfatizzando la stabilità economica e la sicurezza nazionale, mentre Kamala Harris ha mantenuto il sostegno nelle città costiere, seppure con un margine più stretto. La Rust Belt (es., Ohio, Michigan, Pennsylvania e Wisconsin) si è orientata verso i Repubblicani, influenzata dalle politiche industriali di Donald Trump, mentre la Sun Belt (es., Arizona, Nevada e Texas) ha visto un crescente sostegno repubblicano tra gli elettori ispanici e tra i lavoratori. La demografia suburbana ha mostrato un allineamento più complesso, con molti elettori dei sobborghi (normalmente sostenitori del cosiddetto “liberalismo urbano”) attratti da politiche economiche conservatrici a causa dell’inflazione e degli alti costi abitativi.

Da queste premesse si può comprendere non solo perché Donald Trump è risultato vincitore nel voto popolare ma anche la trasversalità della sua base elettorale, sorprendentemente diversificata rispetto ai modelli di voto tradizionali. E’ un dato di fatto per esempio che gli elettori LGBTQ+ e i giovani, tradizionalmente Democratici, soprattutto i più giovani, hanno mostrato un maggiore sostegno per Donald Trump, segnalando un cambiamento di priorità, privilegiando la sicurezza economica e del lavoro, i diritti economici piuttosto che le questioni sociali e i diritti civili. In questo contesto, le elezioni del 2024 segnano una divergenza rispetto alle tendenze recenti, somigliando a quelle economicamente orientate del 1980 e 1992. Da aggiungere inoltre che alcuni commentatori hanno notato come le preoccupazioni per la salute individuale, in un contesto post-pandemico, abbiano portato ad un comportamento di voto più cauto, un pragmatismo economico con un focus sulla stabilità e sulla sicurezza finanziaria. D’altra parte, la economic anxiety ha influenzato costantemente le decisioni degli elettori dalla crisi del 2008 in poi, in particolare tra i cosiddetti “swing voters”.

Questa divisione tra diritti economici e sociali si è ovviamente riflessa nei programmi dei candidati.

Il programma di Donald Trump si è incentrato sulla crescita economica e sulla politica fiscale, sull’indipendenza energetica, su una politica commerciale che metta “America First”, sulla sicurezza nazionale. Il programma di Kamala Harris ha privilegiato la giustizia sociale, l’accesso alla sanità, l’equità economica e l’inclusività, il cambiamento climatico e la giustizia ambientale.

In questo contesto, si è anche molto parlato e discusso dell’Influenza di Elon Musk e di alcuni social media rispetto al sostegno, ormai tradizionale, del cosiddetto star system hollywoodiano e dei media mainstream. E’ stato fatto notare che il sostegno di Musk al candidato Trump ha innescato un cambiamento, soprattutto in ambiente imprenditoriale, che ha fatto da contraltare all’usuale supporto di Hollywood per il candidato democratico. I social media hanno sicuramente continuato a giocare un ruolo centrale, amplificando sia sostegno sia scetticismo verso entrambi i candidati e favorendo anche la disinformazione. Inoltre, “micro-influencer” su piattaforme come TikTok o Instagram hanno avuto un forte impatto sull’opinione pubblica, soprattutto tra i più giovani, evidenziando una tendenza verso un’influenza mediatica decentralizzata. Un’ultima annotazione riguarda l’accuratezza dei sondaggi. Se essi suggerivano una corsa serrata, molti hanno sottostimato il sostegno al candidato Trump in gruppi chiave. Da ciò deriva la necessità di riconsiderare i metodi di sondaggio, con l’introduzione di sistemi innovativi per l’analisi dei dati online o tramite l’intelligenza artificiale.

Per concludere, questo riallineamento elettorale, questa tendenza verso una politica pragmatica e orientata alla stabilità in senso lato non è solo il riflesso delle scelte dei singoli candidati, ma rappresenta un cambiamento più ampio nelle priorità degli elettori americani. Le sfide che si prospettano per i prossimi anni saranno decisive non solo per gli Stati Uniti, ma per le dinamiche globali. La strada verso il 2028 è forse già iniziata, e la politica americana, la democrazia americana saprà e continuerà ad evolversi.

 

 

Responsabile dell’Agenzia Consolare degli Stati Uniti d’America a Genova.

Laureata in Lingue e Letterature Straniere Moderne, Master in Letteratura Americana presso la University of Iowa a Iowa City dove ha insegnato, da sempre coltiva le relazioni tra Genova e gli Stati Uniti attraverso la sua attività in varie associazioni culturali.

Presidente Onoraria dell’American International Women’s Club of Genoa– ONLUS, è Consigliere nel CdA della Fondazione MEI – Museo Nazionale dell’Emigrazione Italiana di Genova.

Gloria Gatti-Il Collezionismo è una colpa

Mentre in Francia la prima vera edizione di ArtBasel Paris+ al Grand Palais si è chiusa in positivo e portato una ventata di ottimismo per il mercato dell’arte, in Italia, in questi giorni abbiamo assistito al braccio di ferro tra diversi poteri dello Stato: possiamo affermare che l’unico ambito in cui giustizia e politica sono da oltre un secolo in perfetta armonia sono i beni culturali.

La recente sentenza della Corte di Cassazione (Cass. civ., Sez. V, 15/07/2024, n. 19363) ha confermato, infatti, la correttezza della tassazione della plusvalenza derivata dalla vendita in asta di un dipinto di Monet a distanza di sette anni dal suo acquisto in quanto forma di “speculazione occasionale” ai sensi dell’art. 67, comma 1, lettera i) del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR) perché prestata a una mostra.

Secondo la Corte, un collezionista può essere soggetto a tassazione se vende opere d’arte che ha precedentemente prestato per esposizioni museali, poiché contribuiscono ad aumentare il valore delle stesse, anche quando un collezionista non è un commerciante d’arte professionale.

Il collezionista, generalmente, acquista opere d’arte per motivi personali, estetici o culturali, senza un intento primario di rivendita o guadagno. Tuttavia, nel momento in cui l’opera viene esposta in una mostra e successivamente venduta a un prezzo superiore a quello d’acquisto, la giustizia fiscale ritiene il prestito un’operazione economica funzionale ad una “speculazione occasionale”.

La Cassazione, ancora in questo caso dimostra di non conoscere le molte e diverse sfaccettature del sistema dell’arte e giunge a una conclusione affrettata.

Il prestito può essere gratuito o oneroso, più correttamente definito noleggio oneroso, in cui l’utile per il collezionista, non è il maggior valore di rivendita, ma il canone percepito. Si rimanda al recente giudizio deciso dal Tribunale di Monza si dibattuto se il corrispettivo per il prestito della Bella Principessa di Leonardo ammontasse a € 50.000,00 oppure € 70.500,00 (TRIBUNALE DI MONZA N. 672 del 26.02.2024)

Il prestito gratuito, per una mostra scientifica e culturale, invece, contrariamente a quanto afferma la Cassazione, concorre a promuovere lo sviluppo della cultura attraverso la fruizione delle opere e contribuisce a promuovere lo sviluppo della cultura, come previsto dall’art. 9 delle Costituzione.

I Musei pubblici, infatti, circondano di molte cautele i prestiti in ragione del rischio connesso alla movimentazione e della perdita temporanea della fruizione dalla propria collezione, e lo accordano solo “ove la presenza di tale opera in mostra potrà dare alla completezza organicità e profondità dell’insieme delle opere nell’illustrare un artista, una scuola un periodo, un tema e nell’operare inedite ricostruzioni storiche e culturali”, nonché portare beneficio all’accrescimento di apprezzamento critico che la mostra potrà dare a livello territoriale. Ciò è espressamente previsto nella circolare del Ministero del 29 gennaio 2008.

Tale resistenza è, tuttavia, colmabile solo grazie alla generosità dei collezionisti privati, nonostante i rischi che questi corrono per favorire il beneficio collettivo.

Una mostra scientifica collettiva, che non sia in un Museo importante e principalmente straniero, come il Louvre, la National Gallery, la Tate o il Metropolitan, per citarne alcuni, non comporta affatto un accrescimento di valore di un’opera per effetto della sua esposizione.

Sono pochissimi i casi in cui ciò è avvenuto e riguardano opere di paternità controversa che sono stati esposte in musei stranieri con comitati scientifici con un’autorevolezza così forte da certificare l’attribuzione e condizionare il mercato.

Pensiamo al Salvator Mundi, per gli old masters, esposto come opera di Leonardo alla personale sull’artista Leonardo at the Court of Milan  alla National Gallery nel 2011-12 e alla susseguente vendita da Christie’s del 2017 per 450 milioni, o, per l’arte contemporanea, a un giovane artista, sconosciuto ai più, invitato a partecipare alla Biennale di Venezia.

Per contro la Corte ha omesso di considerare che per la stragrande maggioranza dei collezionisti a cui le opere sono pervenute in successione o acquistate senza un contratto, l’esposizione è un percorso obbligato, una costrizione, per poterne rivendicare la piena proprietà per usucapione.

L’esposizione in mostra, infatti, ormai per una poco condivisibile giurisprudenza costante e consolidata, è indice di buona fede. Lo conferma la recente sentenza della Corte d’Appello di Torino n. 98 del 05. 02.2024 che ha definito il caso sul caso del Ritratto della sorella Elvira di Felice Casorati cassato con rinvio, che richiama il precedente di Cassazione sulla Santa Caterina di Bernardo Strozzi del caso Loeser e quella successiva su un dipinto di Hayez.

La Suprema Corte ha, infatti, teorizzato il principio che il possesso dell’opera non clandestino nella ratio dell’art. 1163 c.c., sussiste solo quando “chiunque” è in grado di acquisire conoscenza che il dipinto sia nella materiale disponibilità del possessore e poter eventualmente contestare tale possesso e precisato che “in ambito di opere d’arte solo l’esposizione a mostre, ovvero l’inserimento in pubblicazioni specializzate”, consenta la conoscibilità delle stesse (Sez. 2, Sent. n. 16059 del 2019).

Non possiamo non considerare che l’esposizione in mostra è anche il momento in cui la Soprintendenza visiona l’opera e quindi avvia il procedimento di dichiarazione di interesse culturale e così polverizza il valore dell’opera, con conseguente grave danno economico per il collezionista.

Ci sorge il dubbio che Kaspar Utz, nell’immaginario di Chatwin, avesse ragione quando scriveva che un oggetto, chiuso nella teca di un museo, deve patire l’innaturale esistenza di un animale in uno zoo. In ogni museo l’oggetto muore – di soffocamento e degli sguardi del pubblico – mentre il possesso privato conferisce al proprietario il diritto e il bisogno di toccare. Come il bambino allunga la mano per toccare ciò di cui pronuncia il nome, così il collezionista appassionato restituisce all’oggetto, gli occhi in armonia con la mano, il tocco vivificante del suo artefice. Il nemico del collezionista è il conservatore del museo. In teoria, i musei dovrebbero essere saccheggiati ogni cinquant’anni e le loro collezioni dovrebbero tornare in circolazione…”.

 

Avvocato, iscritto all’Ordine di Milano, patrocinante in Cassazione. Assiste abitualmente, sia in sede giudiziale che stragiudiziale, imprese multinazionali ed imprese italiane leader di settore, nonché prestigiose istituzioni culturali italiane e straniere, case d’asta, archivi d’artista, privati collezionisti e artisti nei diversi ambiti (civile, penale e amministrativo) del diritto dell’arte e dei beni culturali in Italia e all’estero. È sovente chiamata come docente in corsi di formazione specialistica, come relatore in convegni, seminari e webinar. È giornalista pubblicista dal 2012 e collabora con diverse testate specializzate nel diritto dell’arte e dei beni culturali in particolare con Il Giornale dell’Arte.

La rivincita dei PIIGS

C’erano una volta i Paesi PIIGS: una (s)fortunata invenzione del giornalismo anglosassone per definire prima quattro, poi cinque Paesi (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna) che, nella crisi del 2010, con i loro debiti, stavano facendo saltare l’Euro.

Chi ha già, o comincia ad avere, qualche capello bianco in testa, lo ricorda bene: quella crisi per noi decretò un governo tecnico, una manovra “lacrime e sangue”, con lacrime vere spese a favore di telecamera, anche per fare audience e raccontare al Paese che il momento era davvero grave.

A qualcun altro, (chiedere agli amici ellenici), andò persino peggio ed emerse la netta sensazione che l’“Europa unita” fosse una casa meno accogliente di quanto ci fossimo prodigati a raccontare per anni.

Il giudizio sulla situazione era sprezzante o, meglio, “tranchant”, come direbbero i nostri cugini d’oltralpe: da una parte una Europa laboriosa, virtuosa e sana, dall’altra una Europa casinista e anello debole del mercato unico, con un debito pubblico elevato, una crescita stagnante e fondamentali di lungo periodo che non lasciavano sperare in un cambiamento di rotta. I titoli di debito di questi Paesi non potevano che essere chiamati “Junk” (spazzatura). Non ricordo, poi, se fosse solo riferito ai titoli, a dir la verità.

Sono passati 13 anni da allora: l’Europa ha smesso di crescere, o forse ci eravamo illusi che potesse farlo prima o poi, la Germania è impantanata in una crisi politica ed economica senza fine, con la sua azienda leader nazionale che cerca disperatamente di non chiudere le sue fabbriche, la Francia è schiacciata da un passato ingombrante e un presente spaventoso, l’Inghilterra è solo un ricordo di ex capitale finanziaria europea. Poi ci sono tanti Paesi piccoli in cerca d’autore e gli ex Paesi PIGS o PIIGS che dir si voglia, che udite udite, non sono diventati virtuosi, ma neanche così viziosi come si voleva raccontare.

Vogliamo tirarcela un po’? E allora diciamo anche che i PIIGS, nel periodo 2019-2023 sono mediamente cresciuti di un 5% in più rispetto alla Germania, che, come detto, ha una economia da qualche tempo in sofferenza.

Non solo. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, le economie dei PIIGS dovrebbero continuare a correre, mentre, accanto alla Germania, rimangono sostanzialmente ferme anche altre economie del nord, come Austria e Olanda. E chi ha l’economia più brillante in questi ultimi 12 mesi in Europa? La Grecia, che dal 2023 sembrerebbe aver trovato una stabilità anche politica. Insomma, si sono invertiti i ruoli: la storia sa essere proprio beffarda.

I fattori alla base di questa accelerazione delle economie del Sud Europa sono molteplici e secondo più fonti dipenderebbero dalla ripresa del turismo post Covid, da una minore esposizione alla industria manifatturiera, oltre a un più deciso sostegno dalle risorse pubbliche del Next Generation EU. Il ritorno della fiducia sui PIIGS è dovuto dunque alle recenti politiche economiche adottate in conformità con le richieste dell’Unione Europea.

E così anche i debiti pubblici sono tornati, almeno al momento, sotto controllo, compreso quello elefantiaco dell’Italia che, tolta la spesa per interessi, si riduce di anno in anno; per contro, quello di tutti i ‘peer continentali’ (Regno Unito compreso) si espande.

Non è un caso che lo spread a 10 anni tra le obbligazioni italiane e tedesche, ad esempio, abbia di recente toccato i valori minimi dal 2021.

Non va neppure dimenticato che i livelli di indebitamento pubblico di Grecia (181% del Pil), Portogallo (122%) e Italia (132%) restano elevati e ampiamente sopra la media dell’Eurozona (90%). È vero, però, che rispetto ai titoli tedeschi, il livello dello spread (differenziale) è in netto restringimento per tutti questi Paesi.

Delle grandi economie continentali, solo una sta sensibilmente allargando lo spread su tutti gli altri Paesi e questa economia è quella francese.

Oh parbleu! Proprio loro che non sono mai stati teneri con noi?

Un approfondimento sarà fatto nel prossimo episodio di questa rubrica.

Mi viene però in mente un proverbio francese che avevo imparato tanti anni fa sui banchi di scuola: “Ne te joue pas d’autrui, car la route tourne et aujourd’hui tu es le joueur, demain tu seras le jouet”.

Che peccato che in tutti questi anni, abbia scordato il francese per tradurlo.