Il vitello d’oro che prende la rincorsa
La valle, Salvo, 2018. Courtesy: Dep Art Gallery, Milano

Riassunto dalla puntata precedente: nel 2022, anno che ricorderemo a lungo per il carico di notizie nefaste sia a livello politico, sia a livello sociale e sia a livello economico, c’è stato un piccolo mercato di nicchia che ha raggiunto i livelli più alti di sempre. No, non sto parlando del petrolio o di qualche altra “commodity” che si infiamma quando tutto va a rotoli, ma mi riferisco al piccolo mondo dell’arte da collezione, e più specificatamente, mi riferisco agli strabilianti risultati battuti (e quindi con una patente di ufficialità) dalle maggiori case d’asta internazionali. Risultati così clamorosi che hanno aggiornato molti nuovi record, sia in termini di fatturati assoluti, sia in termini di singole opere, pezzi iconici che ispirano il mutevole gusto del collezionismo internazionale.

Fine del prologo e (probabilmente) delle belle notizie. Il mercato dell’arte non è nuovo a questo genere di clamorose performance: il 15 settembre del 2008 molti telegiornali internazionali aprivano le top news della giornata con (l’allora) nuovo record per artista vivente (Damien Hirst) e con la sua opera chiamata “Il vitello d’oro” battuta per più di 200 milioni di $. Peccato che la stessa mattinata Lehman Brothers avesse annunciato più di 600 miliardi di $ di debiti, di fatto anche esso un record (ancora imbattuto) del peggior fallimento bancario della storia capitalistica e le immagini degli (ex) dipendenti che uscivano con le scatole di cartone dalla banca, avrebbero fatto in un battibaleno il giro del mondo e dato avvio alla recessione più dura di sempre, dopo quella del 1929. (Più di 200 milioni di persone disoccupate e 16 trilioni di $ di ricchezza bruciata nella sola America).

Inizialmente si pensò che il mercato dell’arte fosse immune alla grande recessione, anzi, nei primi mesi del 2009 il mercato continuò a crescere con la stessa intensità con cui gli altri mercati scendevano a capofitto, salvo poi essere travolto da una bolla speculativa che perdurò per tutto il 2010.

La domanda allora nasce spontanea: quanto di questa euforia palesata nel 2022 rimarrà anche nel 2023 e quanto le condizioni di avversità già presenti sui maggiori mercati regolamentati si riverseranno nel breve periodo anche sul mercato dei beni da collezione?

Premesso che nessuno ha la palla di cristallo e alcuni esiti geopolitici (su tutti la vicenda Taiwan) potrebbero di nuovo sparigliare le carte, “a bocce ferme”, è a mio avviso possibile aspettarsi una correzione nel corso dell’anno, ma non per forza un crollo.

Proverò a essere più chiaro. Il mercato dell’arte, per sua natura, consolida i suoi risultati con un ritardo temporale rispetto agli elementi che li determinano. Tra la fase della raccolta di una opera d’arte e la sua vendita c’è un lasso di tempo in cui c’è la catalogazione e il necessario marketing di promozione dell’opera stessa. E questo periodo di tempo può arrivare anche ad un anno. Pensiamo quante cose possono accadere in un tempo così dilatato. Questo “differimento nei risultati non è così pronunciato negli altri mercati: in tempo reale possiamo ad esempio sapere quanto quota un barile di petrolio o una oncia d’oro. I mercati finanziari, ancora di più, scommettono invece sulle aspettative future: l’anno scorso sono andati male perché hanno previsto un periodo immediatamente successivo di contrazione economica (recessione che infatti dovrebbe palesarsi quest’anno). Quindi, seguendo questo ragionamento, gli effetti negativi della contrazione economica dovrebbero ancora manifestarsi sul mercato dell’arte.

Non solo. Anche la struttura dell’offerta, nel mercato dell’arte ha sue peculiarità uniche, dipendendo dalle così dette 3 D (Death, Divorce, Debt). Fatto salvo che la prima D non possiamo noi determinarla e la seconda D sarebbe meglio evitarla, una abbondante offerta di opere d’arte si verrebbe a consolidare solo dopo un ciclo economico recessivo (debt). La faccio ancora più semplice: quando la crisi morde, chi è nella necessità, sarà più motivato a privarsi di opere d’arte per fare cassa.

E anche la domanda in questo mercato risente delle avversità economiche: se la mia azienda o la mia professione annaspa perché riscontro ritardi nei pagamenti dei miei clienti, una delle prime voci che potrei accantonare è quella del leisure&pleasure. Tornerò a comprare oggetti d’arte, viaggiare o “coccolarmi” in momenti di maggiore fiducia sul futuro economico.

E a giudicare dalle nubi grigie (non nere) che molti analisti economici prefigurano per il prossimo futuro, è logico attendersi che piovaschi intensi possano presto colpire anche il mercato dell’arte.

Sarà allora un crollo? No, non sarei neppure così tranchant. Lo sviluppo del digitale post pandemia ha accresciuto il numero di transazioni, ha allargato la base dei clienti e ha dato molto più spessore ai fatturati.

In altre parole: il mercato è cresciuto e si è diversificato a livello internazionale e sarà dunque più difficile che possa subire le speculazioni selvagge del 2010. Ma questo non significa che sia esente da ribassi. Ma anche fosse, ed è la storia di qualunque mercato destinato a durare nel tempo, quando un indice arretra dai suoi livelli di massimo è solo perché sta prendendo la rincorsa verso nuovi picchi.

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