NUVOLE MERCATI

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Ammaccati da tre anni di continui saliscendi sui mercati finanziari (più discese ardite, che risalite), pensavamo di avere finalmente un po’ di tregua emotiva, ma soprattutto un po’ di tempo per farci trovare pronti e in ordine, per il gran ballo della ripartenza, stimata dai più, per il secondo semestre 2023.

E invece… E invece il panico ha ancora invaso i mercati finanziari, con una combinazione assolutamente letale. America, Svizzera, Germania, tre capisaldi del moderno capitalismo, in piena sofferenza, colpite dal fallimento di banche regionali in USA, da una banca sistemica in Svizzera e dal crollo dell’emblema del credito teutonico nel mondo (Deutsche Bank).

E come in un infernale gioco dell’oca, si torna indietro di qualche casella temporale, con l’inflazione giudice e arbitro in terra del bene del male (cit). (Ri)partiamo da qui allora.

I casi di Silicon Valley Bank e Signature Bank prima, Credit Suisse e Deutsche Bank poi, sono chiari segnali di quanto siano nervosi gli operatori del mercato e di quanto appaia ancora fragile il sistema finanziario globale. Tutto discende dal livello di inflazione, solo che questa volta non scomparirà a furia di massicci rialzi dei tassi (come avvenuto negli anni ’80 per intenderci) e l’auspicio di un soft landing sta sempre più diventando un hard landing (atterreremo, ma in che condizioni)?

Perché le banche centrali da un lato non possono permettere (pena la loro credibilità) che l’inflazione si radicalizzi, ma dall’altro lato devono anche garantire la piena stabilità del sistema finanziario, compromessa da politiche monetarie ultra-accomodanti negli ultimi tempi.

Le riforme finanziarie avviate dopo il crash del 2008 hanno ottenuto importanti risultati, almeno in Europa: il capitale delle banche si è rinforzato, sono state avviate fusioni e sono stati creati players di dimensioni internazionali (con l’Italia probabilmente la migliore), frequenti stress test della BCE sono stati applicati, per capire la “resilienza” delle banche. Ma a livello internazionale rimangono vaste zone d’ombra. Comportamenti da verificare sono stati tenuti dalla vigilanza americana sulle banche regionali (deregulation) e da quella svizzera sui casi di riciclaggio. Ma questo è già storia. Il problema è che la stabilità finanziaria va preservata o sarà l’intera economia mondiale a soffrirne e i casi Bearn Stern e poi Lehman del 2008, avrebbero dovuto insegnarci quanto i mercati siano strettamene interconnessi. La mancanza di fiducia in uno o più istituti fa presto a trasformarsi in panico generale e se il panico si diffonde, la crisi mondiale è inesorabile.

Gli interventi di salvataggio per ora adottati sono stati opportuni, quanto tardivi e con difficoltà hanno arginato l’incendio, ma non l’hanno spento. Il caso di Deutsche Bank ne è un esempio.

E qui si torna al problema iniziale: come fare allora a disinnescare l’inflazione, senza causare una recessione, o peggio una crisi finanziaria mondiale?

Una banca centrale indipendente con una missione di stabilità dei prezzi è una garanzia per i cittadini di qualunque paese: deve proteggere il loro potere d’acquisto. Ma una banca centrale che forza la disinflazione con continui rialzi dei tassi, rischia di debellare la malattia (inflazione), ma uccidere anche il paziente (sistema finanziario).

Stiamo navigando in mari agitatissimi e pericolosissimi e serve molta cautela, o qualunque intervento delle autorità centrali comporterà un aumento della già estrema volatilità.

Come nel titolo del film pluri premiato agli Oscar, sta succedendo “tutto, dappertutto e contemporaneamente” e un bravo marinaio deve evitare mosse troppe brusche e spostare il timone con molta delicatezza, o la frenesia di affrontare le onde con caparbietà, rischia di trascinarci nei gorghi più profondi del mare agitato.

Il paradosso ecologico della guerra

Il mondo negli ultimi tre anni è stato funestato da due avvenimenti che hanno sconvolto le nostre esistenze: la pandemia e la guerra.

I due avvenimenti, nella loro assoluta drammaticità, potrebbero tuttavia aver accelerato due processi rivoluzionari per l’umanità intera: la transizione digitale e la transizione ecologica.

Se la digitalizzazione post Covid è ormai storia, con (semmai) dinamiche di eccessi da smart working più volte discussi in questo spazio, meno lineare ed intuitivo appare la relazione tra svolta ecologica e guerra.

Andiamo per gradi. Qualcuno potrebbe subito obiettare che la necessità di sostituire i combustili russi abbia costretto molte amministrazioni europee a riaprire miniere di carbone e mantenere le centrali elettriche inquinanti. Nessuno potrebbe negare questa evidenza. Tuttavia, secondo gli ultimi dati della Agenzia Internazionale per l’energia (IEA), nel 2022 l’economia mondiale è diventata del 2% meno energivora e grazie anche al clima più mite e l’utilizzo di strumenti a maggiore efficienza energetica, il continente europeo ( ad esempio) ha utilizzato il 6-8% di elettricità in meno rispetto al 2021.

In altri termini: l’impatto sempre più esteso di tecnologie più efficienti a livello mondiale (veicoli elettrici nella mobilità e pompe di calore nelle case) ci porterebbe ad essere ottimisti sull’avvio della nuova transizione ecologica. Inoltre, secondo l’IEA, l’attuale capacità produttiva mondiale di petrolio e gas sarebbe già satura: la Russia non può facilmente riorientare le sue infrastrutture di gas e le piattaforme petrolifere sono prive di personale e di pezzi di ricambio, dunque un forte rallentamento o addirittura stop all’attività estrattiva sarebbe imminente. Di contro, il boom dell’eolico e del solare ridurrà l’appetito per i combustibili fossili, soprattutto nei paesi più energivori e non solo in Europa. Sempre la IEA stima che persino la Cina si doterà, entro il 2025, di strutture di energia rinnovabile in grado di fornire fino a 1.000 terawattora, ( per intenderci equivale all’attuale produzione di energia elettrica del Giappone).

Questa transizione ecologica sarebbe inoltre favorita, a livello globale, dal generale calo dei prezzi dei contratti per i progetti eolici e solari fotovoltaici, sensibilmente più bassi rispetto a quelli dell’energia all’ingrosso (nella sola Europa è stato del -77% sul 2021) , da una diversa sensibilità dei consumatori sull’utilizzo di energie rinnovabili e dalla introduzione di normative molto favorevoli, tra cui, su tutte, spicca l’inflation reduction act dell’amministrazione americana.

Per capire meglio, sono in tutto 369 miliardi di $ da destinare all’ambiente nei prossimi 10 anni, e solo 69 miliardi saranno destinati ad imprese che produrranno turbine eoliche e/o batterie per veicoli elettrici. Ma non solo Usa e Cina si muovono nel solco della transizione ecologica, anche la vecchia Europa si sta attrezzando con il Net-Zero Industry Act, ovvero 250 miliardi di € per le aziende che investiranno nelle tecnologie pulite, anticipando così l’obiettivo di raddoppiare la attuale capacità solare installata nell’UE tra il 2025 e il 2030.

Quanto di questi impegni sarebbero stati adottati con questa urgenza, senza lo scoppio del conflitto ucraino? (con le note complicazioni in termini di approvvigionamenti energetici?)

Difficile rispondere, anche perché rimangono fortissime criticità.

Ad esempio, il conflitto ucraino ha fatto schizzare il prezzo di molti metalli  fondamentali per i cavi, le turbine o i pannelli solari, o, più banalmente e allo stato attuale della burocrazia europea, è difficile immaginare la progettazione e la realizzazione di grandi parchi eolici e/o solari entro il 2030.

Ma pensiamo positivo e auguriamoci davvero che con l’aumento dell’energia verde e il calo contestuale dell’uso dei combustibili fossili, le emissioni di anidride carbonica possano davvero crollare drasticamente e restituirci un mondo più vivibile e pulito. Possibilmente anche più sereno e finalmente in pace, quello sarebbe il vero successo.

La Trappola di Tucidide

Dopo un anno di assuefazione agli orrori di questa assurda guerra e non avendo velleità da statista, provo a mettere un po’ di ordine (senza la presunzione di riuscirci) nella ridda di informazioni che giornalmente leggiamo o sentiamo sugli effetti economici del conflitto.

Degli effetti sulle economie occidentali se ne è già ampiamente parlato, con i casi limite di Germania e Italia, emblemi di una pessima politica che ha preferito affidarsi  completamente al gas russo, soffrendo poi di una inflazione da offerta devastante e dovendo andare a reperire e strapagare il poco gas disponibile, in giro per il mondo.

Spesso però leggiamo che l’economia russa sia vicino al tracollo. È davvero così? Limitandoci alla mera analisi numerica, la risposta è no. Il Pil russo è in affanno, ma non è agonizzante. Dopo un 2021 molto vivace (+4,7%), il PIL russo chiuderà negativo di circa il -2,0% e il -2,5%, un risultato allineato al -2,7% del periodo Covid del 2020.

E le previsioni per il 2023 dei maggiori organismi internazionali (FMI, Banca Mondiale, Banca di Russia) oscillano tra il -0,5% e il -4%, ovvero, una situazione difficile, ma non impossibile per un Paese che è in guerra e in un contesto internazionale pre-recessivo.

Allora le sanzioni occidentali non hanno funzionato? No, neppure sostenere questo sembrerebbe corretto. La Russia non è l’Iran, la Libia o l’Iraq, ovvero, rimane il Paese con la maggiore dotazione di risorse naturali al mondo (petrolio, carbone, gas, oro, terre rare…), per cui è difficile falcidiare un gigante del genere. Molti analisti sostengono che la Russia potrebbe continuare a cannoneggiare per altri 3 anni, senza avere grossi problemi economici.

Tuttavia… tuttavia l’insieme dei pacchetti di sanzioni messi in atto dall’Occidente ( più Giappone e Corea) stanno fiaccando l’economia russa e nel lungo termine, le difficoltà non potranno che aumentare, determinando una possibile instabilità sociale e quindi politica.

È vero che i Paesi che stanno crescendo più velocemente nel mondo non sono, almeno attualmente, contro lo Zar (Cina, Turchia, Paesi Arabi e India su tutti), ma è anche vero che stanno sfruttando a loro vantaggio la debolezza della Russia, che ha perso il suo principale mercato europeo e che è costretta a svendere l’oil&gas a prezzi scontati e con contratti di fornitura a volumi ridotti.  Qualche numero: la Cina è diventata il primo partner commerciale russo e ha annunciato un obiettivo di approvvigionamento di circa 88 miliardi di metri cubi di gas nel 2030. Peccato che solo nel 2021 la fornitura con l’UE fu di 154 miliardi di metri cubi. Un bel divario insomma.  Bisogna poi re-inventare la logistica: la differenza la fa ancora una volta la presenza di infrastrutture, ad oggi tutte orientate verso l’Europa (pensiamo al North Stream ad esempio).

Ma sono soprattutto gli embarghi occidentali sulla lavorazione dell’oil a minacciare il futuro russo: il tetto di 60 $ sul prezzo del barile imposto alla Russia costa circa 170 milioni di $ al giorno. Considerando che il prezzo (nonostante il taglio annunciato a Putin della produzione) si sta assestando sotto i 50 $, è chiaro che così diminuiscono anche le entrate fiscali legate all’energia (già -46% rispetto a gennaio 2022). Non il massimo per un Paese che deve sostenere gli ingenti costi della guerra.

Infine, la Russia si ritrova nell’impossibilità di accedere alle riserve in oro e valuta detenute presso le banche centrali di Europa e Stati Uniti. E la Banca centrale Russa deve dare fondo alle sue riserve valutarie per sostenere l’economia locale. Ma si arriva anche a un paradosso: la quota in yuan del Fondo sovrano Russo è stata portata al 60% e anche i futuri pagamenti di petrolio e gas saranno fatti in valuta cinese. Bene. Peccato che la de-dollarizzazione dell’economia russa, di cui Putin si mostra orgoglioso, si traduca in una sostanziale yuanizzazione, ovvero, un asservimento valutario verso la Cina. Lo yuan costituisce ad oggi il 3% circa delle riserve valutarie globali, mentre il dollaro il 60% e l’Euro il 20%. La Russia è già diventata il quarto più grande centro offshore dello yuan, ma la Cina ha bisogno di un dollaro forte per sostenere la propria bilancia commerciale, in tempi duri anche per il dragone. Un corto circuito insomma dove la domanda di yuan come valuta di riserva non indebolisce, allo stato attuale, la forza relativa del dollaro. Insomma, anche da un punto di vista economica sembra che siamo finiti in un pantano che non avvantaggia né le economie occidentali, né tanto meno quella russa. A voler pensare male, sembrerebbe che le sole due potenze che ne escono avvantaggiate da questo conflitto, sia per ragioni economiche, che di prestigio internazionale siano la Cina e gli USA.

Ma come scrisse Tucidide, storico del V secolo A.C., nella sua famosa “trappola”,  una potenza dominante tende a ricorrere alla forza per contenere una potenza emergente e la paura di perdere il primato, porta inevitabilmente allo scontro. Lo scriveva riferito a Sparta ed Atene. Auguriamoci che non sia così. O la trappola sarebbe letale. Per tutta l’umanità.

Per un pugno di PIL

Ci si è interrogati la volta scorsa se davvero il PIL rappresenti la misura selettiva e sintetica più opportuna per descrivere lo stato di benessere economico e sociale di un Paese.

E in effetti il dibattito ha già coinvolto, nei decenni, voci autorevoli di economisti e statisti. (Il Pil è nato nel 1934).

Già Kennedy sottolineava le contraddizioni del sistema economico basato su indicatori puramente numerici: “Il Pil misura tutto, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani”.

Ma ancora di più, lo stesso “inventore” (Simon Kuznets) già negli anni ’30 avvertiva della rischiosità di affidarsi ad una sola unità di misura di sintesi economica: il PIL non poteva riconoscere gli elementi qualitativi della crescita, ma soprattutto, non poteva individuare le diseguaglianze sociali che si creano nella distribuzione della ricchezza. Il Paese che in termini assoluti cresce, ma aumentando contestualmente il numero di poveri, non può essere considerato un Paese ricco.

Di politiche e indici alternativi ne sono stati proposti molti e tutti con una buona dose di ragione. Dalla well-being economy con il paradosso di Easterlin e il livello di assuefazione al benessere, all’Indicatore MEW di Tobin del 1972, dall’Indicatore ISEW, fino allo Human Development Index delle Nazioni Unite del 1990, e infine gli indicatori dell’OCSE, della Commissione Europea o di Eurostat…

Insomma, si rischierebbe di fare solo un elenco non esaustivo e solo mnemonico.

Rimane tuttavia un problema di fondo: qualunque sia il concetto di benessere individuale e sociale che si prediliga, sarà comunque e sempre più un fenomeno multidimensionale, che contempla aspetti economici e sociali.

Sebbene gli indicatori sintetici avranno sempre un grande impatto mediatico, per loro capacità di semplificare la realtà e stereotipizzare fenomeni complessi, va comunque rilevato che il nostro concetto di “qualità della vita” si sostanzia di sempre più aspetti che esulano dalla nostra capacità di contribuire alla formazione di un reddito nazionale.

Se è vero che “ciò che si misura influisce su ciò che si fa” (Stiglitz), è anche vero che “…non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow Jones, né i successi del Paese sulla base del prodotto interno lordo. Il Pil comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine settimana. […] Nel Pil ci sono gli armamenti, le carceri, […] le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle, […] i programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti pericolosi ai nostri bambini”.

Lo diceva Kennedy nel 1968, in un intervento all’università del Kansas.

Sono passati 55 anni da allora. Ho la sensazione che siamo rimasti solo “con un pugno di Pil in mano”.

Salvi per un PIL

Il bello di ogni società di consulenza, anche di quelle più accreditate a livello internazionale, è che negli ultimi anni c’è sempre stato un elemento “disruptive (distruttivo e imprevedibile) a stravolgere completamente lo scenario di partenza e dunque, le conclusioni delle loro previsioni economiche.

Covid, digitalizzazione, guerra in Ucraina, inflazione a doppia cifra: basterebbe fermarci all’ultimo triennio per averne piena conferma. E il mondo della intelligenza artificiale e del metaverso bussano già alla porta per avvertirci che siamo solo all’inizio. “Siate il cambiamento che vorreste vedere avvenire nel mondo”, proclamava Gandhi, ma temo che qui manchi completamente, almeno per gli ultimi avvenimenti, l’elemento della consapevolezza. Si subisce l’evento, non lo si determina.

E così in un mondo sempre più di difficile lettura, si fa fatica a credere a previsioni economiche che superino il prossimo biennio. Un anno fa, ad esempio, l’autorevole centro di ricerche Cebr era uscito con uno studio che aveva fatto molto discutere, in cui, per sommi capi, si sanciva il superamento dei 100 trilioni di dollari del Pil Mondiale nel 2022, il contestuale primato della economia cinese su quella americana nel 2030 e la forte tenuta della economia russa nelle prime 10 economie mondiali nel prossimo decennio.

Pochi giorni fa è uscito un aggiornamento alla ricerca, un bel po’ più pessimista sul futuro dell’economia mondiale, (prevista tecnicamente in recessione), e un bel po’ più preoccupato sulle dinamiche inflattive e sugli effetti dei repentini rialzi dei tassi in atto.

Colpevoli, manco a dirlo, delle loro errate previsioni di un anno prima, sarebbero le “banche centrali, molto lente nel rendersi conto della portata dei problemi inflazionistici di cui avevamo avvertito”. Per lo meno, (sembrerebbe) che ci avessero avvertito.

Nel nuovo scenario, la Cina dovrà aspettare ancora un bel po’, prima di superare in termini di PIL gli USA (2036), ma soprattutto la Russia comincerà ad avvertire il peso delle sanzioni occidentali nei prossimi anni, assistendo a un costante e irreversibile declino. Consola il giudizio sull’Italia, che soffrirà sia per gli effetti di politiche monetarie molto severe (che peseranno sul debito pubblico) e sia per la eccessiva inflazione da offerta (per le miopi politiche di approvvigionamento passate), seppur in un contesto di sostanziale salute della economia domestica.

Insomma, ci salveremo “per un PIL” anche questa volta.

Ma in tutte queste previsioni che si susseguono e naufragano in un batter d’occhio al primo elemento imprevisto, forse e dico forse, non ci siamo mai chiesti se abbia davvero senso voler continuare a ricondurre il nostro concetto di futuro benessere sociale con un solo numero di sintesi. Ma questo, se vorrete, lo vedremo la prossima volta…

Goodbye 2022: non ci mancherai

È arrivato (finalmente) il momento di salutare questo balordo 2022, che ricorderemo nei libri di storia molto complesso dal punto di vista sociale, politico ed economico.

Un anno che cominciava già traballante per l’onda lunga della pandemia, ed è stato da subito offeso dallo scoppio della guerra in Ucraina, con tutte le relative conseguenze sull’economia e sulle catene di approvvigionamento globali, che hanno determinato livelli di inflazione ormai dimenticati nei decenni e livelli dei tassi che hanno sfiorato i massimi storici.

Così i mercati finanziari sono andati a picco, e con essi pure l’emotività di ogni investitore (dai piccoli risparmiatori ai grandi veterani del mercato).

Le continue significative sorprese al rialzo della dinamica dei prezzi hanno portato a livelli di inflazione non toccati dagli anni ‘70-‘80. Le banche centrali sono tornate ad essere i veri protagonisti della scena internazionale, sfidandosi a singolar tenzone in una pericolosa, quanto tardiva sfida all’ultimo rialzo dei tassi. Ha vinto la Fed, ’di corto muso’ (cit.) sulla BCE.

E stato un anno in cui abbiamo imparato a nostre spese la differenza tra inflazione da domanda (come quella americana) che ha pagato tutti gli eccessi di stimoli fiscali del 2021, da quella da offerta (come quella europea), che si è scatenata per miopi scelte passate sull’approvvigionamento energetico e ha catapultato di colpo il vecchio continente alla “canna del gas”. Purtroppo non in senso metaforico.

Poco distante nel Regno Unito abbiamo visto gli effetti della Brexit che si fa sentire sulla stabilità del paese e in Cina quelli di un regime totalitario, dove l’intransigenza nella politica di ‘tolleranza zero’ verso il Covid ha impedito il raggiungimento degli obiettivi di crescita. Salvo poi fare un dietrofront clamoroso, ma tardivo, nel finale di anno.

Usciamo dunque tutti piuttosto contusi e confusi da questo folle e sventurato anno e la domanda che tutti ci poniamo è allora cosa aspettarsi dal 2023.

Le previsioni sono sempre difficili, soprattutto dopo un anno così catastrofico, tuttavia, penso che dovremo con serenità accettare un futuro di recessione economica, che potrebbe non essere per forza spaventosa come quella del 2008.

Il raffreddamento dei consumi, a seguito dell’incremento tassi è un effetto che sapremo accettare, soprattutto se non dovesse impattare troppo sui nostri stili di vita. L’obiettivo di riportare l’inflazione al 2% nei prossimi 2 o 3 anni è una valida motivazione per evitarci nel futuro altre e nuove montagne russe.

Già… la Russia. Dalle future scelte politiche di questo territorio, dipenderanno, principalmente, le possibilità di anticipare o posticipare il nostro recupero economico.

Per chi suona la campanella

Sta per suonare la campanella di un anno assurdo e un po’ come si faceva a scuola, nelle ultime ore delle lezioni finali, tra il vociare generale della classe esausta e i richiami ormai affievoliti di qualche professore, provo a fare il resoconto (economico) di quanto accaduto.  Parto da una constatazione (ma lo scrivo piccolo piccolo e lo dico sottovoce): gli ultimi 2 mesi di questo balordo 2022 portano un po’ più di speranze per il prossimo anno.  Negli ultimi mesi abbiamo scalato picchi di tensioni geopolitiche, picchi di inflazione e picchi dei tassi di interesse. Bene. Ora, dopo così tanta salita, concediamoci la gioia della vista dalla vetta e auguriamoci di poter tornare, prima o poi e in sicurezza, a valle.

A livello internazionale il contesto politico sembra un po’ più rassicurante: gli USA hanno avvertito una lieve scossa nelle elezioni di Mid Term, ma non di certo il terremoto da molti paventato. La Cina sta sperimentando nuove forme di ascolto da parte del Governo, che (finalmente) accoglie l‘esasperazione della popolazione per le restrizioni Covid. Persino nella nostra casa europea, si sta trovando (con molta fatica) un accordo sul prezzo dei fattori energetici.

A livello macro-economico, le economie rallentano, ma non si schiantano e l’ipotesi dell’atterraggio “morbido” della inflazione prende sempre più campo. Un dato ci viene in aiuto: nell’ultima recessione globale (2008) erano 6.000 le aziende americane che fallivano ogni mese, oggi, a parità di tassi di interesse, il numero si ferma a 2.000. Un bel divario, in effetti. In Europa la produzione industriale cala, ma l’occupazione e gli utili aziendali rimangono robusti.

A livello di mercati finanziari, quelli azionari vorrebbero lasciare le zone gelate del “mercato orso” e su quelli obbligazionari splende finalmente il sole dopo un anno di buio assoluto.

Ma il rischio valanghe è sempre dietro l’angolo ed è ancora una volta rappresentato principalmente dal fattore geopolitico: siamo pur sempre in alta montagna e basterebbe un refolo di vento per cambiare radicalmente la situazione. Un grosso cirro minaccioso dal nome esotico di Taiwan ci fa ancora trattenere il respiro, come pure, la situazione in Ucraina potrebbe degenerare in un attimo con l’uso di armi non convenzionali.

Non vorremmo neppure pensarci, eppure il 2022 ci ha insegnato che “l’assurdo” può ancora (raramente) accadere. Ma rimaniamo positivi e vediamo allora cosa ci sta lasciando questo anno. Personalmente, vedo due cose.

In primis, la imprevedibilità del nostro agire umano: la guerra fra Russia ed Ucraina ha sconquassato il nostro concetto di diritto internazionale e ha stravolto qualsiasi aspettativa di crescita economica. E così abbiamo riscoperto parole desuete come inflazione, stagflazione e recessione. E ne avremmo fatto anche a meno.

In secundis, in un mondo che si riaffacciava timidamente al “new normal”, abbiamo anche compreso che il desiderio di riprenderci la vita, di spendere, di viaggiare, di consumare sia stato e rimarrà più forte di qualsiasi livello di inflazione. E limiterà gli effetti di una probabile recessione. Ripartiamo allora da qui, consapevoli che avremo ancora qualche giornata di faticoso e impegnativo cammino, prima di raggiungere il fondo valle. Ma anche agli studenti danno sempre dei compiti per le vacanze, un attimo prima della campanella di fine anno…

 

Permacrisis e il Mito di Prometeo

Permacrisis: a leggerla così, con questo suono così ruvido, già si intuisce qualcosa di insidioso. E in effetti, secondo il dizionario Collins, questa è la parola che meglio rappresenta questo anno così balordo. Il neologismo in questione è dato dalla crasi di permanent (esteso, continuo, duraturo) e “crisis (instabilità, insicurezza). La parola migliore, dunque, per riassumere in un vocabolo quanto successo negli ultimi 12 mesi: dalla guerra in Ucraina, al cambiamento climatico, dal caro bollette alla pandemia ancora in essere, dall’instabilità politica (e qui gli anglosassoni sono diventati maestri) al maltempo, dall’escalation militare all’inflazione galoppante.

Dimenticato qualcosa? Può darsi. Rincuora solo che non si vedono ancora cavallette all’orizzonte e asteroidi volanti nell’universo. Permacrisis, a voler essere pignoli, non è del tutto una novità: coniato negli agitati anni ’70, solo oggi trova sua definitiva consacrazione. Ne avremmo fatto anche a meno. Ma è risultata la migliore definizione di questo anno così difficile e ci ha messo poco a sbaragliare la concorrenza delle altre parole in lizza. Tra le altre, (ma molte si riferiscono ad avvenimenti tipicamente legati alla società britannica), ne spiccano due, che, a mio avviso, ne sentiremo presto parlare: sportwashing e Warm Bank.

La prima si riferisce alla sponsorizzazione di eventi sportivi al fine di migliorare una pessima reputazione, o distrarre la opinione pubblica da modelli culturali controversi. Ho come la sensazione che sempre più Paesi “border line” si faranno promotori della diffusione dei sani valori dello sport, organizzando competizioni a livello internazionale.

La seconda invece indica un edificio pubblico come biblioteche, o scuole, dove le persone che non possono permettersi di pagare le bollette andranno a riscaldarsi. Temo allora che il mito greco di Prometeo, per cui “la cultura è il fuoco della conoscenza, sia stato un po’ travisato.

Trento libera nos a malo (2 di 2)

Breve riassunto dalla puntata precedente: l’Italia non sa fare più figli, di conseguenza diminuisce sostanzialmente di anno in anno la base dei lavoratori attivi, ovvero, coloro che permettono agli anziani di ricevere la pensione, allo Stato di erogare i servizi e in generale alla comunità di vivere mediamente bene. È necessaria una inversione di tendenza poiché si è dimostrato che la vitalità demografica è la variabile più impattante sul benessere sociale ed economico di qualunque Paese: in Italia le cose vanno male perché siamo in ritardo un po’ su tutto, dall’uscita dal sistema scolastico, all’ingresso nel mondo del lavoro, fino al diventare genitori. In questo scenario parecchio desolante, tenuto faticosamente a galla, almeno nel passato, da copiosi flussi immigratori, (che tuttavia hanno determinato problemi sociali di integrazione), c’è una piccola provincia in controtendenza a farci ancora sperare: Trento. Fine del prologo. Trento è una provincia autonoma, e quindi gode di maggiori risorse, ma poiché tutte le altre regioni a statuto speciale hanno avuto risultati allarmanti di denatalità, non è un problema di dotazione. Il problema è di cultura sociale. Vediamolo. Nella provincia del Concilio, si sono potenziati i servizi per l’infanzia, ad esempio istituendo una capillare rete di asili nido comunali e familiari (Tagesmutter), le politiche di welfare a carico delle aziende e non da ultimo, gli aiuti economici alle famiglie con figli, con la introduzione della “dote finanziaria giovani e natalità” , ovvero la  possibilità di ottenere un contributo alla nascita (o adozione) di figli, volto all’estinzione totale o parziale di prestiti bancari contratti con le banche convenzionate. E i numeri parlano chiaro: nella provincia trentina, è cresciuto un orientamento familiare positivo. Negli ultimi dieci anni, le famiglie con 3 figli rappresentano già il 15% delle coppie con discendenti, rispetto alla media nazionale del 10%.  L’ Istat, per il prossimo quinquennio stima per la provincia trentina un numero di nascite che da poco più di 4mila all’anno passerebbe a 5mila nello scenario mediano e  supera persino le 6mila in quello più favorevole, (+50% circa di crescita nelle migliori delle ipotesi!). Non da ultimo, se cresce il numero dei figli, cala anche il numero dei c.d. Neet (Not in education, employment, or training), ovvero quei giovani che non studiano e non lavorano e questo numero è già sensibilmente più basso rispetto alla media nazionale. Guarda caso, anche il tasso di occupazione femminile è non solo il più alto in Italia, ma allineato con i migliori standard europei. Trento rappresenta quindi una eccellenza continentale, ma soprattutto dimostra che con un po’ di programmazione, possiamo “ripopolare” il Paese. Cruciali allora saranno i prossimi cinque anni per 2 ragioni. La prima è che abbiamo una clamorosa occasione con i Fondi Next Gen Eu (spendibili entro il 2026) e la seconda è legata all’evoluzione della struttura demografica: più il tempo passerà senza invertire il trend e più diminuirà la base di popolazione in età riproduttiva. Che allora l’esempio di Trento ci liberi da questo male e speriamo che induca sempre più amministrazioni “alla tentazione” di volerne importare o copiare il modello. Mica si fa peccato…

Trento libera nos a malo (1 di 2)

339.431. No, non sto dando i numeri, ma sono stati i nuovi nati in Italia nel 2021 (fonte Istat). Ogni numero va spiegato però, se vogliamo capirne gli effetti. Spoiler: abbiamo un grosso problema in Italia, le nascite continuano a diminuire (-12% sul 2020), si vive sempre di più (e questa è una buona notizia) e si assiste ad un crollo della popolazione in età lavorativa. “Beh, si lavora di meno e si vive di più, cosa volere di meglio?”, potrebbe obiettare qualcuno. Ma la situazione non è esattamente favorevole. Nel 2021 si è toccato il numero più basso di sempre di nuovi nati della nostra storia Repubblicana. Se i nuovi nati continueranno a diminuire (e contestualmente aumenterà la componente anziana), qualunque flusso migratorio, seppur rilevante, non potrà mai compensare il numero in diminuzione dei lavoratori attivi, ovvero, coloro che permettono agli anziani di ricevere la pensione, allo Stato di erogare i servizi e in generale, alla comunità di fruire del benessere sociale ed economico. Si sperava che durante il Covid, nella costrizione delle mura domestiche, le giovani coppie italiane trovassero più tempo per un po’ più di intimità, ma purtroppo, un anno dopo, sembra che la ricca offerta delle numerose pay-tv abbia prevalso. Il neo-costituito Ministero della famiglia e della natalità dovrà presto invertire la rotta e probabilmente dovrà cominciare favorendo l’occupazione giovanile e soprattutto quella femminile. Non è una scelta ideologica. La natalità non potrà aumentare fino a che rimarrà bassa l’occupazione femminile. In altri termini, fin quando prevarrà la sensazione di incertezza economica e di precarietà, le donne e i giovani in generale ritarderanno scelte genitoriali. Serve anche un nuovo patto scuola-lavoro: devono aumentare le opportunità di immediato inserimento. Se i giovani conquistano prima e in maniera stabile l’autonomia economica, formeranno prima la famiglia e si sentiranno più responsabilizzati all’interno della società. Quando divenni padre, qualcuno mi disse che avrei lavorato di più, perché investito da una nuova responsabilità. Aveva ragione. La vitalità demografica è il più importante indice del dinamismo sociale ed economico di un Paese. Altro che PIL!… Le conseguenze, altrimenti, e nel caso italico sono scontate: con una popolazione attiva in costante calo sarà più difficile ripagare il nostro debito pubblico. E minor teste significa anche minori consumi, dunque minori investimenti, dunque minore produzione, dunque minor occupazione. Un circolo vizioso da cui non se ne esce. Con l’aggravante che non solo il sistema pensionistico andrebbe in forte tensione, ma anche il sistema sanitario non potrebbe più erogare una assistenza essenziale garantita a tutti. Le politiche demografiche sono investimenti, non costi. Abbiamo l’opportunità di utilizzare le risorse di Next Generation EU in asili nido/scuole, in aiuti per le giovani coppie per l’acquisto della casa, in finanziamenti per l’imprenditoria giovanile e femminile, o bonus bebè. Se non lo faremo, l’auspicato aumento del numero medio di figli per donna non compenserebbe comunque la minor natalità dovuta alla riduzione delle potenziali madri. È statistica, purtroppo. Nella desolante fotografia appena rappresentata, c’è tuttavia un punto di luce rappresentata dalla piccola Provincia di Trento, dove invece il saldo di natalità è in costante crescita negli anni. Bollenti ardori, o programmazione? La seconda. Come il 3 novembre del 1918 Trento fu “liberata” dagli Italiani, a distanza di 104 anni potrebbe essere proprio l’esempio di Trento a salvare l’Italia. Come? Beh, lo vediamo la prossima volta…

Adda passà a nuttata (2 di 2)

Ci eravamo lasciati due settimane fa con l’interrogativo che un po’ sta attanagliando tutti: “ma quanto durerà questo caro bollette?”, l’inflazione sarà un nostro sgradito ospite, come nell’ economia italiana degli anni ’80?”. Spoiler: è solo una questione di tempo, non di risultato. Qualche serie statistica ci può aiutare. Da inizio secolo ad oggi, la maggiore economia mondiale (USA) ha affrontato ben 16 periodi recessivi. Con quello che sta per sopraggiungere saranno 17. La Banca centrale americana (FED) ha mediamente impiegato dai 16 ai 24 mesi per riportare l’inflazione ad oscillare nel range desiderato (nel passato era il 3%, negli ultimi anni è il 2%). C’è un caso che ha molte analogie con il presente: nel 1974, l’inflazione arrivò al 12,3%, (ora è circa al 8,2% in USA e tra il 7% e il 10% nei Paesi leader in Europa), sospinta da una crisi energetica che fece impennare il prezzo del petrolio. In quel caso ci vollero 24 mesi per riportarla sotto controllo. Come allora, anche oggi l’inflazione da offerta si è innescata con lo shock energetico. Fine delle “buone” notizie. Ci sono tuttavia anche forti differenze con allora. 2 principali. La prima è che la tanta liquidità immessa nel sistema da generose politiche monetarie (quantitative easing) e fiscali (per fronteggiare l’epidemia da Covid) degli ultimi anni, ha gonfiato gli asset finanziari: il loro repentino calo testimonierebbe allora un riallineamento tra i valori dell’economia reale e quella finanziaria. La seconda è che l’impazzimento del prezzo del gas, soprattutto in Europa potrebbe essere mitigato solo da scelte condivise tra i vari Paesi sul price cap, ma se non si dovesse arrivare a tale accordo, la situazione è destinata a peggiorare e anche drammaticamente. Come se ne esce? Temo, almeno nel breve, male. Purtroppo, le banche centrali di riferimento (in generale) possono fare ben poco su una inflazione da shock energetico. Però sono/saranno costrette ad usare il bazooka dei tassi, per raffreddare l’economia e abbattere l’inflazione. Qualcuno sostiene che sarebbe bastato alle banche centrali saper “andare di fioretto”, l’anno scorso, alle prime avvisaglie di inflazione. E, con il senno di poi, è vero. Ma nessuno ha la macchina del tempo per tornare indietro nei tanti episodi nefasti di questo anno balordo. “Adda passà a nuttata”. Per quanto potrà essere lunga e fredda, poi arriva sempre la luce calda del sole e ricomincia un nuovo giorno.

Adda passà a nuttata (1 di 2)

La domanda più frequente che mi sento fare in questi giorni sull’attuale situazione economica mondiale è: “ma per quanto tempo durerà?”. I più ottimisti pensano che dovremo soffrire ancora questo inverno, poi epocali cambiamenti geopolitici porteranno la pace nel mondo e un livello dei prezzi finalmente normalizzato a livello globale, i più pessimisti, invece, rivivono la memoria della crisi petrolifera del ’74, e (qualcuno) arriva a sentenziare che è l’inizio di una era di decrescita infelice. Non ho doti divinatorie, ma per mia natura rimango ottimista, almeno basandomi sullo studio dei cicli economici.  Però, qualche approfondimento va fatto. Dopo il Covid il nuovo virus da combattere a livello mondiale si chiama inflazione. È un problema per tutti e di tutti e chi sostiene che alcuni Paesi si stiano avvantaggiando dalla guerra in corso, confonde forse i maggiori incassi realizzati dalla vendita di risorse energetiche, con lo svantaggio (comunque superiore) di un costo della vita divenuto insostenibile. E infatti per contrastare questo virus un ruolo essenziale lo giocano le banche centrali che alzano i tassi di interesse, non rinnovano le obbligazioni  di proprietà arrivate a scadenza e drenano la liquidità (si chiama quantitative tightening), nei Paesi dove hanno giurisdizione. Sono tutti tecnicismi, ma non è questo importante. Da inizio anno si contano complessivamente più di 90 rialzi dei tassi a livello mondiale: un numero che non ha precedenti nella storia economica e destinato a superare abbondantemente la centinaia per fine anno. Il meccanismo è semplice: il rialzo dei tassi comporta un aumento del costo del denaro, proprio per scoraggiare l’accesso al credito da parte dei consumatori e/o altri soggetti economici e dunque raffreddare la domanda aggregata e il livello globale dei prezzi. E questo è quello che si fa sulla cosiddetta inflazione da domanda. C’è però anche una altra inflazione (da offerta) legata all’aumento dei prezzi di determinati beni “sentinella” (su tutti materie energetiche e alimentari), su cui le banche centrali possono fare poco: un individuo ha la necessità di scaldare casa e/o mangiare, a prescindere dai prezzi di queste materie. In realtà, se le banche centrali sapranno raffreddare opportunatamente l’economia come indicato prima, questa potrebbe entrare in recessione, e, a un minor livello di consumi aggregati, si assocerebbe un minor livello di produzione industriale, quindi minor energia da consumare e prezzi di questi fattori in forte contrazione. Insomma, si potrebbe partire da sopra, per sistemare il problema anche sotto. Ma torniamo a bomba. Quanto tempo ci vorrà per riportare l’inflazione al livello del 2%, ritenuto come quel livello di inflazione buono e fisiologico che non danneggia il reddito disponibile delle famiglie consumatrici? Per ragioni di spazio risponderò la prossima volta, ho la forte certezza che sarà ancora un tema di forte attualità. E in fondo, questo potrebbe essere già un primo importate indizio…

Il brivido di chiamarsi Italia

Ogni volta che il nostro Paese è chiamato alle urne, i mercati finanziari, con precisione chirurgica, innescano una speculazione, forse a ricordarci che la costante incertezza politica del Belpaese è poco gradita, anzi è scarsamente tollerata. L’attuale scenario delle elezioni anticipate, in un contesto internazionale già caratterizzato dalla guerra in Ucraina, dall’impennata del prezzo del gas e dal diffuso rialzo dei tassi di interesse suonerebbe come un “de profundis” per qualsiasi paese, ma siamo in Italia, “il pericolo è il nostro mestiere”, ed è proprio nelle situazioni più estreme, che troviamo, solitamente, soluzioni.

Esiste dunque un rischio Italia? Ovvio che sì, considerando che la tempesta per essere perfetta, prevede anche che entro fine anno, l’Italia e il suo futuro governo dovranno dare risposte convincenti all’Europa sull’utilizzo dei fondi del PNRR, ovvero come attuare quel piano di riforme urgenti e necessarie per dare un minimo di futuro ai nostri figli, possibilmente in questo Paese. Messa giù così, non verrebbe neppure voglia di giocarsi questa partita e i mercati finanziari, che hanno la brutta abitudine di voler sempre anticipare il futuro, stanno già dando chiare indicazioni: lo spread (BTP-Bund) è schizzato più del 60% da inizio anno, mentre la borsa italiana ha perso quasi il 20% da gennaio, facendo peggio del resto d’Europa. Eppure… Eppure, nonostante tutti questi fattori, l’economia italiana, al momento, tiene ancora: l’Istat (a settembre) ha rivisto al rialzo le stime del PIL del secondo trimestre al +4,7% su base annua e anche il Fondo Monetario Internazionale aveva (a luglio) aumentato le previsioni di crescita per il Belpaese. L’Italia sembrerebbe andare meglio rispetto all’altre economia dell’Eurozona, pur soffrendo maggiormente i rischi di un peggioramento sull’approvvigionamento energetico. E allora guardiamo al futuro, al governo che si formerà e che dovrà affrontare un periodo di eccezionale difficoltà. Si sono sentite molte promesse elettorali su tagli di accise, abbassamento di età pensionabile e bonus a pioggia per contrastare il caro vita. I mercati finanziari tendono tuttavia ad essere estremamente realisti e poco inclini alla fascinazione di fantastiche narrazioni da propaganda elettorale. Possono farlo, non fosse altro perché circa il 30% del debito pubblico italiano è in mano a soggetti non residenti (la Banca d’Italia ne ha circa il 25%). A giugno, il debito pubblico ha toccato il livello record di 2.766 miliardi di euro. Considerando che i tassi di riferimento non potranno che crescere ancora, è palese che anche il costo degli interessi che lo Stato italiano dovrà riconoscere è in aumento. Serviranno politici bravi a guidare il Paese in questo momento così difficile. Confidiamo in loro, ma anche nel nostro proverbiale “stellone italico”. Mi sa che ne avremo bisogno…

Era meglio Spasskij contro Fisher

Abbiamo tutti timore ad ammetterlo, ma le evidenze sono piuttosto palesi: lo scontro tra la Russia e l’Occidente ha scatenato una nuova Guerra Fredda, che potrebbe protrarsi nel tempo o terminare dopo questo inverno. Le conseguenze geopolitiche ed economiche (su cui proverò a concentrarmi) cominciano a delinearsi, senza che sia chiaro, almeno al momento, il vincitore. È necessario però fare un passo indietro nel tempo. Mi si perdonerà l’estrema sintesi: durante la Guerra Fredda del XX secolo, la contrapposizione tra Occidente (Usa e suoi alleati) e Unione Sovietica determinò una corsa agli armamenti, che inizialmente non intaccò i livelli di crescita economica dei 2 Paesi. Tra gli anni ‘50 -‘60, le due economie crebbero di circa il 4% medio annuo, (considerando anche la recessione del ’54), poi, la crisi petrolifera degli anni ‘70, un’economia stagnante a livello globale, le massicce spese militari e il sopravvento del modello capitalistico determinarono la caduta dell’economia sovietica e la formale disgregazione dell’URSS nel 1991. Contestualmente, gli USA superarono i difficili anni ’70, anche grazie a una felice influenza commerciale con i partner europei. È probabilmente da allora che la Federazione Russa abbia covato un forte sentimento anti-occidentale, soprattutto nei confronti degli USA. Arriviamo allora ai giorni nostri. Il conflitto regionale tra Ucraina e Russia è immediatamente deflagrato a livello mondiale per il blocco di materie prime energetiche ed alimentari da parte di Putin. Oggi ci troviamo in un delicatissimo bivio della storia. La Russia ha potuto strozzare l’economia dei Paesi “ostili” (cit.), riducendo o sospendendo di colpo le forniture di energia e causando sconquassi a livello mondiale, che hanno colpito anche gli odiati rivali americani, che seppur autonomi in termini di fabbisogno energetico, hanno risentito, in termini inflattivi, del prezzo energetico completamente impazzito su scala globale. Questo sta determinando un indebolimento del potere d’acquisto delle famiglie consumatrici (soprattutto occidentali), per cui è lecito pensare che seguirà una forte contrazione dei consumi e dunque una recessione economica, in un contesto internazionale già provato da due anni di pandemia mondiale. La Russia, ad oggi, ha saputo compensare le minori esportazioni di gas, con l’aumento dei loro prezzi, ma il fattore tempo rischia di esserle fatale. Infatti, al di là della propaganda, le sanzioni occidentali hanno sempre più isolato la Russia, che soprattutto in ambito tecnologico è fortemente carente.  Inoltre, le spese militari continuano incessanti (nel passato le furono fatali) e non da ultimo, se l’economia globale dovesse entrare in recessione, i prezzi dell’energia diminuirebbero al pari della sua domanda, strozzando, per contrappasso, chi la crisi l’ha determinata per arricchirsi. La Russia si gioca il tutto per tutto questo inverno: se l’Europa non cederà al suo ricatto energetico, a costo di subire gli effetti di una dolorosa recessione, non avrà più risorse per finanziare la guerra, con le conseguenze sulla catena di comando del Paese, che ne deriverebbero. Nel 1972, in piena guerra fredda, ci fu la cosiddetta “sfida del secolo” per l’aggiudicazione del titolo mondiale, tra i due scacchisti più talentuosi di allora (Spasskij e Fisher), il primo russo (che difendeva il titolo) e il secondo americano. Vinse il secondo e la vittoria travalicò l’interesse della sola comunità scacchistica, ma anzi assunse clamore mediatico a livello internazionale. Oggi rivisitiamo drammaticamente le modalità di una finale di scacchi, questa volta tra Russia e Europa, ma con Usa e Cina interessati spettatori. Chi sbaglierà la prima mossa, sa che perderà la partita. E purtroppo questa volta non si assegna un titolo mondiale, ma il nostro diritto all’esistenza.

A tutto Gas

Difficile non farsi delle domande, guardando l’anomalo (per usare un eufemismo) andamento dei prezzi del gas nel nostro continente, da quando il conflitto ucraino è scoppiato. Per carità, ci saranno ragioni ben più profonde a giustificarlo, rimane tuttavia il sospetto che ci siano posizioni troppo distanti tra gli stessi Paesi che hanno appoggiato le sanzioni economiche nei confronti della Russia. Per dirla con altri termini, l’inverno freddo che ci aspetta e la probabile recessione economica che ci colpirà, saranno molto meno fastidiosi in alcuni Paesi europei e molto più drammatici in altri. Da dove si comincia? Da un aspetto tecnico: il prezzo del gas è regolato, per usare termini finanziari, da contratti “future”. Se penso che il prezzo salirà comprerò il future, se penso che scenderà lo vendo ora. La grossa differenza rispetto ad altri beni trattati su altri mercati regolamentati è che non devo materialmente possedere il gas: alla scadenza del future, sarò tenuto a incassare o pagare la differenza che per quella data il prezzo gas avrà toccato, rispetto ad oggi. Già da qui si capisce che il mercato non è solo popolato da chi ha poi bisogno di utilizzare la risorsa energetica, ma è affollato da speculatori che giocano solo su questo differenziale di prezzo. In un contesto internazionale completamente impazzito, come quello odierno, il famigerato e sottile (limitato per numero contratti) mercato Ttf di Amsterdam è diventato il luogo ideale per creare inenarrabili speculazioni. Pochi operatori possono creare un disagio a milioni di famiglie europee, che vedono le loro bollette crescere senza logica. “È il mercato bellezza” (cit.), ma qualcosa non torna. Guardiamo la sola Europa: 3 Paesi (Norvegia che è paese NATO), Olanda e Ungheria (membri della UE) stanno pesantemente beneficiando della speculazione in atto. L’Ungheria ha giacimenti di gas, ma non ha aumentato la sua produzione, la Norvegia (altro grande produttore) condivide il piano militare contro la Russia, ma non intende essere solidale con gli altri europei sul gas, anzi, ultimamente ha pure rallentato i flussi verso l’Europa. L’Olanda, per ovvi motivi è quella meno interessata a soluzioni per calmierare il prezzo del gas (price cap). A pensar male si fa peccato, però la tanto ostentata solidarietà comunitaria sta naufragando negli egoismi dei singoli e la spaccatura tra chi diventerà molto più povero e chi molto più ricco è sempre più netta. C’è infine un altro aspetto decisamente beffardo che testimonia la nostra debolezza politica a livello comunitario: abbiamo creduto ciecamente al dogmatismo ecologico promosso da ragazzette che avevano già compreso tutte le regole del mondo, nonostante la giovane età. Abbiamo dunque sperato che la transizione alle rinnovabili fosse immediato e totale. Così in Italia, (ma anche in Germania) abbiamo smesso di estrarre gas, abbiamo ripudiato il nucleare e soprattutto le energie fossili, che ora per paradosso, dobbiamo comprare a prezzi folli, alimentando proprio la speculazione di cui siamo succubi, arricchendo per contrappasso, soprattutto quei Paesi che non si sono mai posti il problema ambientale, ma che ora ci costringono a firmare contratti di fornitura di lungo periodo. Per esser più chiaro: compriamo il gas che avremmo nei nostri mari e nel sottosuolo, ma a prezzi folli. C’è stata molta sfortuna, è vero, ma di certo ricordiamocelo quando qualche nuovo fanatico, riproporrà soluzioni a costo zero per il nostro benessere collettivo. Purtroppo, tutto ha sempre un prezzo: ci accontenteremmo, per quando sarà, che non sia quello del gas dei nostri giorni.

Una recessione d’azzardo

Era il dicembre del 2021: fior fior di stimati economisti internazionali predicavano cicli economici di straordinaria vitalità, l’inflazione era marginale o comunque si mostrava con picchi transitori e famelici investitori erano pronti ad approfittare di un mondo a tassi reali costantemente negativi e drogato da massicce, quanto generose, manovre di politica monetaria e fiscale. Siamo a fine giugno di una torrida estate 2022: una guerra mondiale, anche se all’apparenza solo locale, ha sconvolto le nostre coscienze e gli effetti di una inflazione persistente e rovinosa hanno minato le nostre certezze, economiche e sociali. I prezzi sono impazziti e le ottimistiche previsioni di sviluppo degli stimati economisti di prima si sono trasformate in sentenze tranchant di recessione, stagflazione, iperinflazione, insomma… foschi presagi che fanno rima con capitolazione. Eppure, è sempre lo stesso mondo di ieri. In nemmeno sei mesi siamo passati dal paradiso, (per quanto artificiale), a un inferno reale senza punti di riferimento, dove la nostra vulnerabilità è aggravata dallo strazio della guerra. Cosa succederà allora adesso? Non si ha, purtroppo, la sfera di cristallo, tuttavia, qualche anno (di eccessi) di mercati finanziari mi ha insegnato che la finanza esaspera sempre nelle performance e nel bene e nel male, quello che succede nell’economia reale. “È il mercato bellezza” (cit.). Non è scontato che assisteremo a una recessione strutturale e duratura, (quella che coinvolge anche l’immobiliare, la domanda aggregata, il clima di fiducia in generale). La pandemia e i suoi lock down prima, le sanzioni economiche e l’iperinflazione poi, hanno determinato una volatilità mai così accentuata nella gestione delle scorte. C’è solo un lavoro peggiore oggi del consulente patrimoniale: chi lavora nella direzione acquisti (procurement) di qualsiasi azienda. L’andamento delle filiere produttive è completamente imprevedibile: shock energetico, impazzimento dei noli, scarsità e impennata dei prezzi di materiali e componenti si riverberano sull’intera organizzazione e di conseguenza, sul consumatore finale. Consumatore finale che comincia ad avere problemi con un reddito eroso dall’inflazione, e di conseguenza, comincia a consumare meno, con una maggiore propensione verso le spese per i servizi (viaggi che non potevo fare prima ad esempio), rispetto alle spese sui prodotti durevoli (ho già comprato di tutto e di più quando ero chiuso in casa). È una recessione che si prevede più ciclica che strutturale: l’effetto delle generose politiche fiscali è ancora in essere, ma prima o poi questa spinta si esaurirà e si sentiranno maggiormente le conseguenze dei rialzi dei tassi, come oggi i mercati dimostrano, anticipando il futuro. Al netto di ulteriori ed eventuali cataclismi che sovvertirebbero il fragile equilibrio in essere (su tutti, penso alle possibili orde immigratorie per carestia verso le economie più sviluppate), non è ancora chiaro su quali basi il nuovo mondo ripartirà. Deglobalizzazione, nuovi equilibri geopolitici, sviluppo tecnologico, energie rinnovabili e sostenibilità saranno le 5 carte su cui si giocherà il nostro futuro e la nostra esistenza. Da come sapremo giocarle sul tavolo dipenderà il nostro successo. Basterebbe riuscire a gestirne bene almeno tre per avere un tris vincente, un trionfo sarebbe calare un poker di scelte azzeccate, ma solo una cosa si deve evitare: tenere tutte le carte in mano e pensare che sia una scelta vincente. In questo caso nessun “jolly” potrebbe più salvarci.

Casa dolce ufficio

Tutti a casa! Anzi no, tutti in ufficio! Interpretare i desiderata delle aziende sta diventando sempre più un mestiere logorante per i lavoratori di oggi. Si è scritto la scorsa settimana che anche oltreoceano la situazione è controversa: da una parte la posizione netta e tranchant di Elon Musk, padre di Tesla: “ Se non vi presenterete in ufficio, dedurremo che vi siete licenziati”, dall’altra parte invece la posizione più rassicurante e conciliante di Mark Zuckerberg, padre di Meta (un tempo Facebook) ”Un buon lavoro può essere svolto ovunque perché la presenza di video in remoto e la realtà virtuale continuano a migliorare”. E mentre lo scontro tra i due pesi massimi del nuovo sogno americano si infiamma, tutte le altre big a stelle&strisce (Google, Microsoft e Apple) cercano soluzioni più equilibrate per il proprio personale e garantire la flessibilità, nel rispetto della produttività. E in Italia? Il nostro Paese ha un sistema produttivo e un diritto giuslavoristico piuttosto diverso da quello americano, ma anche qui non mancano difficoltà nel definire la nuova normalità. Partiamo però da una constatazione: il mercato italiano non è flessibile e dinamico come quello americano. Il Ministero del Lavoro ha stimato che solo 4 milioni e mezzo (su 20 milioni complessivi) riusciranno a mantenere il lavoro agile nei prossimi mesi. Eppure in due anni di pandemia, in Italia, circa 200 lavori sono stati normati prevedendo l’impiego da casa.  Ma dal primo di settembre si tornerà alla nuova normalità, ovvero, gli accordi di smart working verranno stipulati dalle aziende su base individuale. Mancano tre mesi e la situazione appare piuttosto confusa: aziende e sindacati cercano di trovare qualche base di accordo, mentre si sente sempre più forte lo sfregolio di mani di avvocati giuslavoristi pronti ad intervenire per difendere i loro assistiti, (sia lato aziende, sia lato lavoratori), dopo aver osservato per mesi e mesi il mercato del lavoro in panchina, causa blocco dei licenziamenti. Ma il mercato del lavoro che vedremo nel frattempo è profondamente cambiato e sconta il suo atavico limite della flessibilità: reperire manodopera sembra essere sempre più arduo, non solo nei settori manifatturieri trasformati dalla tecnologia, ma anche quelli stagionali, (penso ad esempio al turismo), dove sembrano non bastare, per accrescere l’appeal del settore, le agevolazioni previste di recente dal Governo. Di sicuro, ci sarà da tirarsi su le maniche e sporcarsi per bene le mani se vorremo uscire da questa situazione. In fondo, un bagno dove poi lavarcele, che sia in casa o in ufficio, si troverà sempre…

Lavorare stanca

L’anno scorso, a novembre, si era già parlato in questa rubrica della generazione Yolo, ovvero una nuova generazione di lavoratori che ispirati dal motto (You Live Only Once) aveva deciso di fare un passo indietro dal frenetico mondo del lavoro, per dedicarsi ad attività che meglio conciliassero con la vita privata. (https://nuvolemercati.it/2021/11/15/meglio-yolo-che-mal-accompagnati/). In America la chiamarono “The Great Resignation”: un fuggi fuggi dal mondo del lavoro senza precedenti. E il fenomeno interessò tutti i Paesi più economicamente sviluppati, con un tasso di licenziamenti volontari che oscillò tra il 2% e il 3% della forza lavoro. A distanza di un anno esatto dall’esplosione di questo fenomeno e con statistiche più aggiornate alla mano, si può tracciare allora un quadro più definito. Più che di Great Resignation, sarebbe opportuno parlare di Big Turnover : non si rinuncia a lavorare, ma semplicemente si cambia il lavoro più spesso. L’esplosione della economia digitale ha determinato una maggiore flessibilità nei ritmi e anche nei contratti di lavoro. Lavorando da remoto, si ampliano le opportunità e si compilano più application, anche per aziende fisicamente distanti. Inoltre, con il lavoro ibrido, anche le relazioni tra colleghi tendono a sfilacciarsi molto più rapidamente: la pausa caffè, momento clou per confrontarsi con i colleghi sembra preistoria; la mensa aziendale non è più la roccaforte di segreti inconfessabili o il teatro ideale per rinsaldare lo spirito di squadra. L’azienda è sempre meno una seconda famiglia, anzi, una recente ricerca della società di consulenza Gartner evidenzia come lo smart working sia, per il 70% dei candidati, la conditio sine qua non per cambiare il posto di lavoro. E dall’altro lato, le aziende non sembrano più particolarmente soprese da questa cultura delle dimissioni: la flessibilità introdotta in molti nuovi contratti di lavoro a tempo determinato è un vantaggio reciproco, in quanto il dipendente ha più libertà di cambiamento e alle aziende rimane solo l’onere di prevedere in tempo le eventuali scoperture dei ruoli chiave. Tutto bene dunque? Non proprio. Da anni le società più evolute avevano incentrato la capacità di attrarre e trattenere i migliori talenti sulla progettazione di uffici che offrissero i più alti standard di servizi, vivibilità e accoglienza. Oggi si deve necessariamente passare da una progettazione incentrata sul luogo di lavoro ad una incentrata sul dipendente, attuando politiche che massimizzino il suo benessere psicofisico, anche se lontano dall’azienda e con il rischio di “formare la persona, ma non il dipendente”. La lontananza del dipendente dal sito di lavoro, le nuove logiche di misurazione degli obiettivi, la mancanza di team working, diventano temi spinosi anche per i responsabili aziendali, che in questa epoca di grande trasformazione digitale, non sempre sanno interpretare il nuovo ruolo a cui sono delegati. La leadership a distanza prevede un rapporto gerarchico più orizzontale e basato sulla delega e sulla fiducia tra responsabile e collaboratore. E sempre secondo la ricerca citata, il 94% dei dirigenti il cui lavoro può essere svolto da remoto vorrebbe continuare a lavorare in remoto almeno un giorno alla settimana e ben il 24% di quei dirigenti vorrebbe poter esser sempre da remoto. E fa riflettere che il controverso e visionario imprenditore Elon Musk, 50 anni, abbia proprio la settimana scorsa richiamato ufficialmente il proprio personale (circa 122.000 dipendenti), invitandolo ad essere più visibile in azienda, luogo dove sono pregati di passare almeno 40 ore a settimana. “Se non vi presenterete, dedurremo che vi siete licenziati”, chiosava nella missiva finale. Come potrebbe allora andare a finire e cosa sta succedendo in Italia, lo vediamo invece la prossima settimana: ora devo chiudere perché ho un incontro con un cliente. In presenza…

Sereno variabile sui beni da collezione- speciale mercato dell’arte 2 di 2

Si è scritto la scorsa settimana di un mercato dei beni da collezione effervescente, con fatturati tornati non solo ai livelli dell’epoca pre-COVID, ma addirittura superiori. Un mercato completamente stravolto sia dal lato della domanda, sia in quella della offerta, caratterizzato da nuove tipologie d’arte e da una nuova geografia del collezionismo. Un mercato sempre più globale dove la tecnologia ha permesso di interconnettere le piazze di Hong Kong, Londra, Parigi e New York in simultanea, favorendo così una partecipazione senza precedenti e costituendo un cambiamento epocale. Un mercato che strizza l’occhio ai nuovi top spenders, spesso figli di una nuova economia, soprattutto digitale, con l’ingresso in scena di nuovi protagonisti: i millennial. Un mercato dove le case d’aste devono necessariamente rinnovarsi, per rispondere alle esigenze tecnologiche e al gusto estetico di questi nuovi giovani compratori. Un mercato, infine, dominato dai big spenders asiatici (cinesi soprattutto), sempre più attratti dall’estetica occidentale, ma parimenti corteggiati dalle majors occidentali. Queste sviluppano sempre più partnership con gli operatori locali, per potenziare l’offerta di arte orientale in loco e favorire l’interazione con le loro istituzioni artistiche. Ma qui finiscono probabilmente le belle notizie. La domanda che molti si pongono è capire come la nuova situazione internazionale possa impattare sul mercato dei beni da collezione. Stiamo assistendo a livello mondiale alla esplosione di dinamiche inflattive, a cui le varie Banche centrali stanno cercando di tenere testa con politiche monetarie sempre più restrittive, come pure stiamo vivendo, sulla nostra pelle, rallentamenti economici che non si sono (ancora) trasformati in fasi recessive. La guerra e le conseguenze che essa genera, sia in termini diretti sul livello dei prezzi, sia in termini indiretti sul sistema di sanzioni che inibiscono il commercio internazionale, hanno già determinato una pesante correzione dei mercati dell’economia reale e soprattutto di quelli finanziari. Il mercato dell’arte, ad oggi, sembrerebbe ancora non direttamente toccato da questa dinamica così negativa. I due record registrati negli ultimi giorni (l’iconica Shot Sage Bleu Marylin di Andy Warhol venduta per $ 195 Mln e il nuovo record mondiale per una fotografia con le Violon d’Ingres di Man Ray venduta per $ 12,4 Mln) e in generale la vivacità delle ultime aste farebbero pensare a un mercato al di fuori dei cicli di storno. Guardando al passato, tuttavia, si è già assistito ad un fenomeno simile (mi riferisco alla grossa crisi del 2008) che con un ritardo di circa 1 anno si è poi trasferita anche sul mercato dei beni da collezione, causando un clamoroso sboom. Va detto che allora c’erano condizioni di partenza diverse e il mercato dei beni da collezione di allora era molto “sottile” (per usare un termine finanziario) e quindi più soggetto alla speculazione. Le condizioni macroeconomiche attuali, rispetto a quelle del 2008 non incorporano almeno al momento, una crisi di liquidità e neppure di solvibilità. Tuttavia, una considerazione generale va fatta: qualsiasi mercato, a prescindere dal bene trattato, basa il suo successo sul livello di fiducia nel futuro e sulle capacità di dinamismo dei suoi attori. Sul secondo punto gli operatori hanno dato ampie garanzie di adattamento alle mutate condizioni della domanda causa pandemia, sul primo punto invece, se le condizioni macroeconomiche dovessero ulteriormente peggiorare e intaccare il ciclo produzione-occupazione-consumo, è logico supporre che anche il mercato dell’arte non riesca a rimanerne del tutto esente. Come nelle giornate di sole, si avvistano cirri minacciosi all’orizzonte ed è opportuno avere un ombrello alla bisogna, così forse converrà scrutare con attenzione le evoluzioni nel cielo del mercato dell’arte. Consapevoli però di una grande certezza: anche nel caso di rovesci importanti, non potrà piovere per sempre. Ma questa è la storia non solo del clima, ma anche dei mercati. Qualsiasi mercato.

L’arte diventa “Phygital”

Anche quest’anno ho avuto l’onore di redigere la ricerca annuale sullo stato di salute del mercato dell’arte internazionale, con gli amici di Deloitte. Il tema della finanza dell’arte è del resto un tema che mi appassiona ormai da circa quindici anni (tempus fugit): capire come i mercati dei “luxury goods” reagiscano in tempi di instabilità economica, offre sempre interessanti spunti anche per capire meglio le implicazioni con le dinamiche finanziarie e dell’economia reale. Ma bando alle ciance e vediamo cosa è successo e cosa potrebbe ancora accadere. Il biennio pandemico ha determinato una profonda trasformazione del mercato, che si è affidato all’innovazione e a nuove forme di partnership tra gli operatori. Del resto, è quanto accaduto anche in altri mercati più ampi e più regolamentati. La digitalizzazione è stata l’unica via per mantenere vive le relazioni con il proprio pubblico di riferimento per le case d’asta e, se possibile, sviluppare anche nuove relazioni: si parla infatti di Phygital, il cui mix virtuale e presenza in sala è basato sulla cosiddetta asta ibrida.Primum vivere deinde philosophari” amava ripetere la mia professoressa di latino. E in effetti la svolta tecnologica effettuata “per limitare i danni”, si è presto invece trasformata in una formidabile via d’accesso a nuovi mercati e nuovi clienti. Il problema era semmai intercettare una domanda fortemente trasformata, sempre più dominata dal digitale e dalle giovani generazioni, che hanno portato sul mercato nuove esigenze, nuove abitudini d’acquisto e un nuovo gusto. E così le case d’aste (i cui battuti sono stati alla base dell’analisi) hanno saputo sviluppare nuovi clienti (mediamente il 40% per le più grandi case d’asta internazionali), educando invece i già clienti e meno avvezzi alla tecnologia, all’uso del digitale. Il 2021 è stato un anno di fatturati record, non solo rispetto al 2020 (ça va sans dire, con un +67,4%), ma persino rispetto ai livelli pre-Covid del 2019 (+17,7%). Il tutto impreziosito dal fatto che l’offerta ha annoverato numerosi lotti di qualità, senza avere però il pezzo straordinario (come è stato il Salvator Mundi nel 2017, ad esempio), anche se una collezione soprattutto (quella Macklowe) ha sicuramente aiutato sul fatturato complessivo. L’attenzione per autori meno quotati, contemporanei storicizzati e/o emergenti, ma dal solido background artistico, ha trascinato al rialzo il mercato, ma anche opere di indiscusso valore, come un “old masters” di Botticelli (terzo miglior top lot dell’anno) hanno contribuito al fatturato record.  Stiamo parlando di opere che erano già pronte per il mercato anche l’anno prima, ma che il contesto di incertezza ha consigliato di attendere momenti più propizi per una più consona valorizzazione. E’ boom dei compratori asiatici, sempre più interessati ai modelli di estetica occidentale, ma anche molto sensibili all’acquisto dei cosiddetti Passion Assets (gioielli, orologi, vini pregiati…) che complessivamente sono cresciuti nel fatturato del +44,2% sul 2020 e del +11,8% sul 2019. Ci sono poi dei fenomeni in ascesa che è opportuno segnalare, in attesa di un definitivo consolidamento. Il primo è sicuramente l’esplosione delle aste “online-only”, dove vengono offerti lotti di minor qualità, ma che richiamano l’interesse di una platea sempre più giovane, economicamente solida e propensa alla diversificazione. In tal senso si inserisce l’esplosione dell’arte digitale, con particolare riferimento alla crypto art, con gli NFT che attraggono nuovi potenziali acquirenti, soprattutto Millennial. La presenza degli NFT è stata celebrata dalla vendita per oltre $69,3 Mln dell’opera dell’artista Beeple, divenuta la prima opera d’arte digitale mai venduta ad un’asta. Continua a crescere l’attenzione nei confronti di diversità e inclusione anche nel mondo dell’arte: la sola Christie’s ha registrato 66 nuovi record d’asta per artiste donne e 47 nuovi record per artisti BIPOC (black, indigenous and people of color). Cresce anche la sensibilità per la sostenibilità e sempre di più sono state le aste organizzate dalle majors per beneficienza. Insomma, è stato un anno luminosissimo per il mercato dell’arte, ma nubi cariche di inflazione, rallentamenti economici, forse recessioni e fragili equilibri geopolitici si avvicinano sempre più. Come reagirà il mercato dell’arte? Questo lo vedremo la prossima puntata…