NUVOLE MERCATI

France: Le malade n’est pas imaginaire

Velocissimo sunto dalla puntata precedente: i Paesi per anni disprezzati e accomunati nel triste acronimo “PIIGS”, sono oggi quelli che “tirano la carretta” di una malandata Europa. Questo almeno vale guardando i dati di crescita economica.

La Germania, storica locomotiva continentale, è in preda a una profonda crisi politica e produttiva, i “Paesi rigorosi” Austria e Olanda mostrano una economia asfittica.

In questo scenario di mondo capovolto, secondo le agenzie di rating, c’è un Paese più in crisi degli altri, ed è la Francia.

E così, se è vero che Moody’s ha appena confermato il rating ai nostri cugini, l’outlook (previsione) è diventato negativo. Che in soldoni significa: cara Francia se non cominci a promuovere riforme di risanamento, al prossimo giudizio (rating) ti boccio e ti allontano sempre più dal gruppo di Paesi europei che considero virtuoso, almeno per merito creditizio (nell’ordine sono: Germania, Danimarca, Paesi Bassi) e ti avvicino sempre più al gruppo dei perenni pericolanti (nell’ordine sono: Spagna, Portogallo, Italia, Bulgaria, Grecia, Romania). Anche le altre agenzie di rating (Fitch e S&P) erano già arrivate a simili conclusioni, declassando o cambiando la previsione in negativo, sulla qualità del credito della Francia.

Peccato che le società di rating arrivino spesso tardi nei giudizi. Conviene guardare allora ai mercati, che nel famigerato “spread” tra i titoli di stato di due paesi, esprimono un giudizio di salute.  Lo spread tra Italia e Francia è così sceso (non esiste solo quello BTP-Bund…), per la prima volta dal 2010, sotto i 50 punti e oggi oscilla, stabilmente, intorno ai 52-55 punti.

Giusto per avere una idea, lo stesso differenziale nell’estate del 2019 era di 250 punti. 5 anni fa: siamo allora diventati troppo belli noi o troppo brutti loro? Più la seconda.

Il restringimento di questo spread dipende infatti, da un lato del rialzo dei rendimenti dei titoli francesi (cresciuti di 60 punti base da inizio anno) e dall’altro del calo dei rendimenti dei BTP (scesi di 35 punti circa).

Provo a dirlo in parole più semplici: i BTP vengono sempre più comprati, i titoli governativi francesi vengono sempre più venduti. E così il rialzo dei titoli di stato francesi sta diventando sempre più marcato, poiché più il creditore è considerato sempre più rischioso.

Perché succede questo? Questo fenomeno è legato principalmente ai problemi relativi al crescente debito pubblico e alla stabilità economica e politica del Paese transalpino. Le previsioni economiche per la Francia sono diventate preoccupanti, con un aumento del debito pubblico che potrebbe superare il 120% del Pil nei prossimi anni, (era solo al 98% nel 2020) e che è già il terzo per dimensione nell’Eurozona, dopo quelli di Grecia e Italia.

Per inciso, in Italia il rapporto debito su PIL è ben più alto (dovrebbe diventare 139% a fine anno), ma per lo meno abbastanza stabile negli anni (eccetto la parentesi Covid).

Tornando ai nostri cugini, Fitch ha rimarcato che le difficoltà economiche della Francia sono amplificate da una crescita economica lenta e da una spesa pubblica troppo elevata. Soprattutto spaventa l’impegno politico di mantenere costosi programmi sociali e l’incapacità di affrontare la realtà con delle riforme che possano contenere il deficit e di conseguenza il debito pubblico.

In un drammatico messaggio alla nazione (che ha ricordato un po’ quello di Monti del 2001), il nuovo premier francese Barnier ha usato toni gravi per esprimere la serietà della situazione: «Il nostro colossale debito pubblico è sulle nostre teste come una spada di Damocle, senza una correzione il paese «finirà sull’orlo del precipizio».

Concludendo: i bond transalpini oggi esprimono rendimenti più alti di quelli spagnoli (2 punti base) e di quelli portoghesi (27 punti base), mentre offrono ancora un rendimento inferiore solo ai titoli italiani (anche se come visto con un differenziale in continuo restringimento) e a quelli greci, (con un vantaggio di soli 15 punti base).

Chissà se nel suo discorso alla Nazione Barnier non paventasse l’ipotesi di dover comprendere anche la “F” di Francia in un eventuale nuovo acronimo per i paesi meno virtuosi

La rivincita dei PIIGS

C’erano una volta i Paesi PIIGS: una (s)fortunata invenzione del giornalismo anglosassone per definire prima quattro, poi cinque Paesi (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna) che, nella crisi del 2010, con i loro debiti, stavano facendo saltare l’Euro.

Chi ha già, o comincia ad avere, qualche capello bianco in testa, lo ricorda bene: quella crisi per noi decretò un governo tecnico, una manovra “lacrime e sangue”, con lacrime vere spese a favore di telecamera, anche per fare audience e raccontare al Paese che il momento era davvero grave.

A qualcun altro, (chiedere agli amici ellenici), andò persino peggio ed emerse la netta sensazione che l’“Europa unita” fosse una casa meno accogliente di quanto ci fossimo prodigati a raccontare per anni.

Il giudizio sulla situazione era sprezzante o, meglio, “tranchant”, come direbbero i nostri cugini d’oltralpe: da una parte una Europa laboriosa, virtuosa e sana, dall’altra una Europa casinista e anello debole del mercato unico, con un debito pubblico elevato, una crescita stagnante e fondamentali di lungo periodo che non lasciavano sperare in un cambiamento di rotta. I titoli di debito di questi Paesi non potevano che essere chiamati “Junk” (spazzatura). Non ricordo, poi, se fosse solo riferito ai titoli, a dir la verità.

Sono passati 13 anni da allora: l’Europa ha smesso di crescere, o forse ci eravamo illusi che potesse farlo prima o poi, la Germania è impantanata in una crisi politica ed economica senza fine, con la sua azienda leader nazionale che cerca disperatamente di non chiudere le sue fabbriche, la Francia è schiacciata da un passato ingombrante e un presente spaventoso, l’Inghilterra è solo un ricordo di ex capitale finanziaria europea. Poi ci sono tanti Paesi piccoli in cerca d’autore e gli ex Paesi PIGS o PIIGS che dir si voglia, che udite udite, non sono diventati virtuosi, ma neanche così viziosi come si voleva raccontare.

Vogliamo tirarcela un po’? E allora diciamo anche che i PIIGS, nel periodo 2019-2023 sono mediamente cresciuti di un 5% in più rispetto alla Germania, che, come detto, ha una economia da qualche tempo in sofferenza.

Non solo. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, le economie dei PIIGS dovrebbero continuare a correre, mentre, accanto alla Germania, rimangono sostanzialmente ferme anche altre economie del nord, come Austria e Olanda. E chi ha l’economia più brillante in questi ultimi 12 mesi in Europa? La Grecia, che dal 2023 sembrerebbe aver trovato una stabilità anche politica. Insomma, si sono invertiti i ruoli: la storia sa essere proprio beffarda.

I fattori alla base di questa accelerazione delle economie del Sud Europa sono molteplici e secondo più fonti dipenderebbero dalla ripresa del turismo post Covid, da una minore esposizione alla industria manifatturiera, oltre a un più deciso sostegno dalle risorse pubbliche del Next Generation EU. Il ritorno della fiducia sui PIIGS è dovuto dunque alle recenti politiche economiche adottate in conformità con le richieste dell’Unione Europea.

E così anche i debiti pubblici sono tornati, almeno al momento, sotto controllo, compreso quello elefantiaco dell’Italia che, tolta la spesa per interessi, si riduce di anno in anno; per contro, quello di tutti i ‘peer continentali’ (Regno Unito compreso) si espande.

Non è un caso che lo spread a 10 anni tra le obbligazioni italiane e tedesche, ad esempio, abbia di recente toccato i valori minimi dal 2021.

Non va neppure dimenticato che i livelli di indebitamento pubblico di Grecia (181% del Pil), Portogallo (122%) e Italia (132%) restano elevati e ampiamente sopra la media dell’Eurozona (90%). È vero, però, che rispetto ai titoli tedeschi, il livello dello spread (differenziale) è in netto restringimento per tutti questi Paesi.

Delle grandi economie continentali, solo una sta sensibilmente allargando lo spread su tutti gli altri Paesi e questa economia è quella francese.

Oh parbleu! Proprio loro che non sono mai stati teneri con noi?

Un approfondimento sarà fatto nel prossimo episodio di questa rubrica.

Mi viene però in mente un proverbio francese che avevo imparato tanti anni fa sui banchi di scuola: “Ne te joue pas d’autrui, car la route tourne et aujourd’hui tu es le joueur, demain tu seras le jouet”.

Che peccato che in tutti questi anni, abbia scordato il francese per tradurlo.

Oh my Gold! (2 di 2)

Veloce riassunto dalla puntata precedente: la valutazione dell’oro è ai massimi storici e si è visto come ogni volta che l’uomo tenda a temere gli effetti di una crisi economica, o peggio, una perdita di valore dei soldi che ha in tasca, si rifugi in qualcosa di fisico che resista alla volatilità dei mercati.

Questo ha spiegato il rally del metallo giallo cominciato nell’era Covid e proseguito con la guerra ucraina. Ma la performance dell’ultimo biennio, (apparentemente senza una causa scatenante) è ancora più sbalorditiva.

Contestualizziamo un attimo: non sta crescendo solo l’oro, ma anche gli altri metalli preziosi, come pure i metalli industriali (su tutti argento, rame, zinco e ottone). La spiegazione è semplice: l’argento è fortemente utilizzato per la transizione green (celle solari e batterie elettriche), il rame e gli altri metalli, (ahimè), in conseguenza delle guerre in atto: ogni singolo proiettile è rivestito di ottone, una lega di ramo e zinco. Tornando all’oro, la sua crescita non è dovuta solo ad opportunità di diversificazione, ma anche per l’impulso di un gruppo di Paesi che vorrebbero ridurre e/o sostituire il dollaro come valuta internazionale di riferimento (de-dollarizzazione). Originariamente erano i soli Paesi BRICS interessati (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), ai quali si sono aggiunti, di recente, altri 6 Paesi emergenti (Iran e Arabia su tutti).

Alla luce dei prezzi raggiunti dall’oro, la domanda retail è stata la prima a subirne gli effetti: in gioielleria ad esempio (tradizionale fonte di metà della domanda aurifera) i consumi sono da un anno in netto calo.

Ma poi, a fine estate, c’è stato un “coup de théâtre”: la Banca Centrale Cinese ha smesso di trainare il mercato dell’oro, complice anche la forte ripresa dei listini nazionali, tornati ad essere una opportunità di investimento e in reazione agli stimoli appena varati dal Governo locale.

Ma quello che è successo da inizio anno è davvero storico: più di 30 volte è stato aggiornato il nuovo prezzo massimo, una frequenza di “nuovi record” che era stata superata solo due volte dal 1971 ad oggi, ovvero, dalla sospensione degli accordi di Bretton Wood con la fine della convertibilità del dollaro in oro. Siamo molto vicini al record del 2011 (dove erano state 38 le sedute di nuovi record), ma lontani dal 1979, quando invece era successo per ben 54 volte e con un rialzo complessivo del 126%.

A dir la verità, da settembre 1978 a febbraio 1980 le quotazioni dell’oro si sono quasi quadruplicate, salvo poi crollare a marzo 1980. Anche quello era un periodo difficile, segnato dal secondo shock petrolifero degli anni 70 e da tassi d’inflazione a doppia cifra percentuale,(persino negli Stati Uniti), oltre che da gravi tensioni geopolitiche (rivoluzione iraniana e l’invasione sovietica in Afghanistan).

Il rally dell’oro nel 2024 (circa il +30%) è paragonabile al rialzo avvenuto nel 2010 (+29%), quando iniziavano a emergere i primi segnali della crisi del debito nell’Eurozona e a quello del 2007 (+32%), anno che ha preceduto la grande crisi finanziaria e la recessione globale.

Dunque e tornando alla chiusura di due settimane fa: “l’oro adora le brutte notizie”?

Questa volta non è per forza detto: l’oro tende a muoversi inversamente ai tassi di interesse reali e tassi di interesse più bassi, come stanno definendo le banche centrali, non da ultimo la nostra BCE, dovrebbe aiutare l’oro. Insomma, sembrerebbe che questa volta sul metallo giallo non sia ancora arrivata la fase della razionalità.

E allora cediamo agli entusiasmi, purchè consapevoli del motto che “non è tutto oro ciò che luccica”.

Oh my Gold! (1 di 2)

Nel 1980 il Time, celebre per le sue copertine iconiche, inseriva un lingotto d’oro nella sua prima pagina, con il titolo “Ingot we trust”, giocando sulla paronomasia tra “God” (Dio) e “Ingot” (lingotto d’oro). Sono passati 44 anni e la corsa del metallo giallo prosegue spedita segnando nuovi massimi e consacrandosi come bene rifugio per eccellenza. L’oro è qualcosa che si può toccare ed è conosciuto da tutti: diventa particolarmente interessante quando le altre asset class sono in crisi.

È solitamente de-correlato dai mercati finanziari, ma c’è sempre l’eccezione che conferma la regola: il 2023 è stato un anno molto positivo per entrambi.

L’anno appena concluso si è portato in eredità questioni irrisolte dall’anno precedente (conflitto in Ucraina)e generandone di nuove (conflitto in Israele). Situazioni così complesse che hanno portato l’oro ancora più al centro dell’attenzione, confermando la regola aurea (per l’appunto…) di essere particolarmente richiesto in situazioni storiche critiche.

Del resto, dalle maschere micenee al culto dei faraoni, dall’antico testamento, alla Bibbia, dall’esser uno dei doni dei re Magi, al rappresentare uno dei sette tesori nel Buddismo, l’oro non ha mai conosciuto né limiti territoriali, né storici, né religiosi che potessero limitare il suo mito.

Ma è stata la sua storica capacità di rappresentare la base per le valute di molti stati a consacrarne il valore. Dalle prime monete d’oro, coniate nell’Asia Minore nel 560 a.C. fino alla fine degli accordi di Bretton Woods (1971, con la fine della piena convertibilità dollaro in oro), la politica monetaria internazionale ha trovato nel metallo giallo il punto di equilibrio, da cui stabilire i rapporti di forza e valutari tra i singoli stati.

Fior fior di economisti sostennero che l’avvento della carta moneta, scollegata quindi dalle riserve auree, avrebbe ridotto il suo valore drasticamente, limitando il suo uso a quella porzione necessaria per realizzare monili di indubbio valore estetico. E in effetti all’inizio fu proprio così: negli anni ’70 il prezzo dell’oro collassò dagli 800 dollari per oncia ai 252 dollari nel 2001. Come ha fatto poi a risalire allora ai 2.650 dollari e passa per oncia attuali? Gli economisti non avevano (probabilmente) fatto i conti con la paura che agita gli animi dell’uomo. Ogni volta che l’uomo teme gli effetti di una crisi economica, o peggio, una perdita di valore dei soldi che ha in tasca si rifugia in qualcosa di fisico che resista alla volatilità dei mercati. Ma questo può spiegare la prima parte del rally cominciato nell’era Covid nel 2020 e poi accelerato con la guerra ucraina nel 2022. Ma cosa giustifica questa folle corsa dell’ultimo biennio?

Ne parleremo bene la prossima volta, collegandola anche alla crescita con gli altri metalli preziosi e metalli industriali, ma analizzando solo la performance dell’oro va detto che buona parte della recente crescita (2023 e 2024) sia da collegare al fenomeno della de-dollarizzazione in atto (a cui sono stati già dedicati ben due approfondimenti in questa rubrica lo scorso anno),  al coinvolgimento di molte banche centrali, di cui una in particolare modo ( People Bank of China)  e da ultimo, da una sostenuta domanda retail, proprio per la sua natura di diversificazione.

Quanto durerà questa crescita?

Mai come ora gli analisti delle grandi banche d’affari si dividono tra chi vede per il 2025 una rottura della barriera dei 3.000 dollari per oncia e chi invece più cautamente prevede una correzione, se non un cambio di inversione, dovuta proprio al venire meno di uno dei grandi protagonisti di questa “corsa all’oro”: la Cina.

Pechino da maggio ha interrotto l’accumulo di riserve auree. Non solo: la forte ripresa dei listini azionari cinesi di questi giorni, in reazione agli stimoli appena varati dal Partito Popolare potrebbe anzi ancora di più drenare liquidità dal lingotto (che fino a poco tempo fa era invece l’unico asset a dare qualche soddisfazione).

Un proverbio dice: “L’oro adora le brutte notizie”. Sarà vero anche nel 2025? Ah, saperlo…

Overtourism: aiutamoli a casa nostra

Autunno, i primi refoli di un gelido vento di origine polare confermano la fine dell’estate, che per l’Italia ha significato l’ennesima stagione turistica trionfante, con il tutto esaurito sulle spiagge, in montagna, sui laghi e in tutte le strutture ricettive.

Se da un lato esultiamo per questa patente di gradimento del Belpaese, dall’altro lato questo massivo spostamento di genti genera spesso una distorsione sulla sostenibilità dei nostri piccoli o medi borghi, che si trovano presi d’assalto da una orda turistica disorganizzata e (talvolta) poco rispettosa.

Il fenomeno del turismo eccessivo viene definito “Overtourism” e ci spiega come un eccesso di domanda turistica può deteriorare la qualità della vita della popolazione residente e la perdita di autenticità della cultura locale.

Attenzione, non vorrei essere frainteso, qui non si tratta di demonizzare i flussi turistici, anzi, per una nazione come la nostra, caratterizzata da un’economia asfittica, il turismo rimane tanta manna, ma bisogna evitare distorsioni che in Spagna, ad esempio, balzano già agli onori della cronaca, con organizzazione di ronde anti-turisti, o pistole ad acqua utilizzate come atto di “benvenuto”. (Vivendo in Liguria da più di dieci anni come “foresto”, non vorrei mai che prendessero ispirazione…).

Facciamo allora un passo indietro e analizziamo il contesto della attuale domanda turistica.

Ci sono una serie di fattori che stanno facilitando, negli ultimi anni, un afflusso disordinato di turisti in località con limitata capacità ricettiva.

Uno di questi è la moltiplicazione in Paesi come Italia o Spagna di strutture alternative, come airbnb, b&b o case vacanze. Contestualmente, la proliferazione di compagnia aeree low cost ha permesso a una sempre più vasta moltitudine di avere nuovi collegamenti. Questo vale soprattutto per la classe media di tanti Paesi emergenti, che oggi possono accedere a standard di turismo di massa a buon mercato, prima impensabili. I flussi del turismo cinese ne sono un buon esempio.

L’attuale contesto geopolitico internazionale ha poi sicuramente ridotto la rosa dei Paesi sicuri su cui orientare questo turismo “mordi e fuggi”, intasando così, la domanda sull’Italia, la Spagna e il sud della Francia, seppur siano state scoperte nuove rotte, ancora marginali, quali Croazia e Albania.

C’è anche un fattore psicologico che infiamma la domanda: dopo un anno e mezzo chiusi in casa per la pandemia, la gente vuole riprendersi la libertà di viaggiare e la curiosità di scoprire posti nuovi e in tal senso lo stock di risparmio accumulato durante il “lock down” è una fonte a cui poter facilmente attingere. E fin qui sembrerebbe tutto perfetto, basterebbe solo essere accoglienti e frotte di turisti potrebbero/dovrebbero far ripartire l’economia tricolore.

Ma un proverbio insegna che il “troppo stroppia” e l’overtourism finisce per essere un costo per la collettività e in generale un peggioramento della qualità della vita.

Come è possibile? Vediamolo.

L’overtourism satura gli spazi e questo determina limitazioni agi accessi ad alcuni siti, almeno in alcuni periodi dell’anno. Giusto per dare qualche numero, secondo l’istituto di ricerche REF, il 15% dei Comuni totalizza l’86% del totale delle presenze turistiche in Italia. La manutenzione di un territorio così sovrappopolato comporta degli extra costi o una lievitazione dei costi per servizi di pubblica utilità, (spazzatura, sicurezza, sanità, manutenzione strade, etc…) che vengono sostenuti dagli abitanti del luogo. Il consumo eccessivo di risorse è un altro grave problema da associare al sovraffollamento turistico. Il turismo aumenta la domanda di acqua, energia e materiali da costruzione, spesso in aree dove le risorse sono già limitate. Rimini (per fare un esempio) ogni anno accoglie fino a 7 milioni di turisti  e le sue aree costiere sono sfruttate fino al 95%  Non solo. Un numero considerevole di abitazioni turistiche stagionali genera un aumento del prezzo del mattone e degli affitti nei centri più richiesti, con una contestuale proliferazione di attività a basso capitale umano ( ristoranti, rivendite di gadget, alcune tipologie di bar) e uno spostamento dei cittadini residenti verso le periferie. Sono tornato a Siena dopo averci vissuto per anni e ritengo che la città toscana sia un fulgido esempio in tal senso.

Una maggiore presenza di turisti dovrebbe stimolare per lo meno l’occupazione, peccato che i nuovi posti siano spesso creati per le gestire le punte di sovraffollamento e i contratti siano, di conseguenza, a termine, (se va bene),  se non addirittura irregolari e dunque per nulla significativi per contrastare la disoccupazione.

E allora come se ne esce?

La soluzione del contingentamento in alcuni centri a vocazione artistica come Venezia, Roma e Firenze, può essere una soluzione efficace per alcune grandi città, ma non può di certo essere applicata al Mezzogiorno, in cui il turismo rappresenta la filiera più importante, anche in ottica futura.

Per ridurre l’eccesso di pressione,  bisognerebbe riorganizzare l’offerta,  mediante eventi ad hoc, o altre attrattive spalmate su un calendario più profondo.

L’Organizzazione Mondiale del Turismo delle Nazioni Unite (UNWTO) ha stilato un decalogo di 11  punti per gestire l’extra flusso turistico nelle destinazioni più ricercate. Il problema non è quindi solo italiano, anche altrove è forte il rischio di depauperare nel lungo termine una località turistica per massimizzare un guadagno immediato.

Degli 11 punti individuati, uno mi sembra quello più cruciale e riguarda “educare i turisti” al rispetto culturale e ai principi della sostenibilità, scoraggiando determinati segmenti di visitatori, in base alle specifiche esigenze e contesto locali.

Che poi è quello che facciamo quando invitiamo degli ospiti a casa: per garantire l’ospitalità, li selezioniamo in numero limitato e li coccoliamo. Del resto, mica si può essere accoglienti in un posto se non lo sentiamo più “casa nostra”.

Italia-Francia: liaison “très” difficile

C’è un “fil rouge” (spesso incandescente) che lega Italia e Francia: un rapporto secolare contraddistinto da amore-odio, da profonde e comuni radici culturali e linguistiche da un lato, e da una continua competizione, scherni e sfottò dall’altro lato, ogni volta che i due Paesi si ritrovano contrapposti in campo civile, economico, culturale e sportivo.

Noi sorridiamo ancora beffardamente pensando alla finale che ci ha decretato “Campioni del mondo” e – ammettiamolo – abbiamo anche un po’ gioito per la loro recente eliminazione agli europei di calcio. Loro, invece, non finiscono di meravigliarsi quando devono commentare le nostre annose vicende politiche, che con marcato distacco amano sintetizzare con l’espressione “Ah, Les Italiens!”: un giudizio tagliente che riassume non solo la nostra imprevedibilità e capacità di cacciarci spesso nei guai, ma anche la distanza che i francesi amano prendere da noi, in quei casi.

Il problema è che ultimamente questo mondo sembra si stia ribaltando: sul calcio è meglio ancora non confrontarci, ma con sguardo benevolo (ed un po’ di legittima rivalsa) guardiamo ai loro problemi interni, alla loro situazione politica a dir poco ingarbugliata e alle polveriere delle loro “banlieues”.

Non è mia abitudine commentare i fatti politici e non lo farò neanche questa volta. Tuttavia, da un punto di vista economico, quello che è successo – e, peggio, quello che potrebbe ancora succedere in Francia – avrà delle conseguenze rilevanti anche per noi.

Che piaccia o no, l’Italia è il Paese maggiormente esposto a una (eventuale) crisi istituzionale francese.

Qualche dato può aiutare. Negli ultimi 10 anni le importazioni francesi sono aumentate del 22% in area Euro, mentre quelle dalla sola Italia del 48%. Il nostro surplus commerciale verso la Francia è raddoppiato nello stesso arco temporale (circa 14 miliardi di euro, grazie al traino della meccanica, dell’agroalimentare e dell’ automotive).

Con la Francia esiste una consolidata ossatura industriale comune, fondata sulla presenza di società bi-nazionali (circa 4mila) e tra i 2 Paesi abbondano le fusioni cross borders (es. Stellantis ed EssilorLuxottica), come pure le grandi collaborazioni industriali in settori chiave come la componentistica elettronica (STMicroelectronics), la cantieristica militare (Fincantieri e NavalGroup) e il comparto aero-spaziale (Avio e ArianeGroup).

 

Le grandi imprese francesi hanno sempre trovato nella flessibilità e nell’alto livello tecnologico delle PMI italiane degli ideali fornitori per le loro produzioni: la seconda e la terza economia continentale, al di là delle inevitabili contrapposizioni e rivalità, dipendono l’una dall’altra.

Ecco perché qualunque situazione, che possa destabilizzare la Francia, rischia di destabilizzare anche noi.

Già, ma cosa sta destabilizzando la Francia? La politica è evidentemente lo specchio di radici più profonde.

La prima ragione è che la Francia sta vivendo da circa vent’anni al di sopra delle proprie possibilità (ha una bilancia commerciale negativa), e ha finito per indebitarsi sempre di più.  Il debito di un Paese lo si può leggere da molti indicatori. Quello che spaventa è che non solo cresce a dismisura il debito pubblico francese, ma anche quello di imprese e famiglie. A differenza di Germania, Spagna e – udite, udite – Italia, che rimangono Paesi molto più virtuosi.

E allora, in questa situazione di incertezza i mercati potrebbero cominciare a fare quello che sanno fare meglio, ovvero speculare.

E così, se la situazione politica francese non riuscisse a dare abbastanza garanzie, potrebbe, nei prossimi giorni, pretendere tassi più alti per continuare a finanziare le attività francesi e, di conseguenza, far salire lo spread francese con il bund tedesco.

Qualcuno potrebbe dire: è un problema loro. Purtroppo, non funziona così, perché una Francia agitata da ondate di speculazione comporterebbe un restringimento della sua domanda (e abbiamo già visto quanto pesi sul nostro export), ma, soprattutto, un allargamento degli spread di credito tra Paesi virtuosi e Paesi viziosi.

E indovinate chi ha uno spread peggiore di quello francese? Esatto!…

E allora: “bonne chanche” ai nostri cugini d’Oltralpe.

Urliamolo forte. Se non altro perché… tifiamo tutti Italia!

Si stava meglio ai tempi della Lira

“Ai tempi della Lira costava tutto la metà!” L’abbiamo sentita tutti questa affermazione e probabilmente, in molte occasioni, l’abbiamo anche sostenuta ed avvallata.

Molti ancora oggi individuano nella scelta della moneta unica l’inizio della nostra “decrescita infelice”. Non ho la presunzione di trattare in poche righe una vicenda così annosa, che non ha, tra l’altro, una risposta univoca.

Più che demerito della moneta unica, parlerei piuttosto di incapacità da parte dell’Italia di adattarsi allavelocità di crociera” tenuta dai suoi nuovi compagni di viaggio, almeno da quando si è scelto di avere tutti la stessa moneta di riferimento.

Quando parlo di velocità di crociera intendo quel binomio composto da produttività e salari reali, che nella stragrande maggioranza degli altri Paesi area Euro è stato virtuoso e per noi decisamente vizioso.

Un passo indietro: per anni l’Italia è rimasta competitiva sui mercati internazionali grazie a una “svalutazione competitiva” della propria valuta. Semplifico e molto: non facevamo e vendevamo il prodotto migliore, ma spesso quello più economico. E più ci cullavamo dei nostri risultati straordinari di export e più la nostra produttività, le nostre imprese, peggioravano e perdevano competitività.

Poi è arrivato l’Euro e senza poter ricorrere a questo giochino, forti di un potere economico basato sulla capillare presenza di PMI “padronali” sui nostri territori, si è deciso che lo svantaggio della ridotta produttività si sarebbe recuperato con salari mediamente più bassi.

Alzate di scudi? Nulla di tutto ciò. Come mai?  Per un mix di fattori: la ridotta dimensione delle nostre PMI, un capitalismo familiare spesso mal conciliante con l’innovazione e il progresso tecnologico, un sistema di capitali gestito da alcuni poli di riferimento e per il resto piuttosto asfittico e infine una forza lavoro mediamente anziana, poco specializzata e poco istruita hanno contribuito, negli anni, a una forte resistenza all’incremento salariale.

Peccato che nel frattempo fossimo entrati in un mercato più grande, dove tutti gli attori (imprese e forza lavoro) erano e (continuano ad essere) pagati e valorizzati con la stessa moneta.

Ergo, mercati più produttivi tendono a pagare di più, ma soprattutto attraggono il personale più qualificato e/o talentuoso. I regimi fiscali agevolati introdotti (cosiddetto “rientro dei cervelli”) sono stati una risposta necessaria, ma tardiva e ancora blanda per recuperare il terreno perduto.

E così non meravigliamoci se anche quest’anno la classifica dell’Ocse su dati Eurostat ci consegna una fotografia impietosa sulla de-crescita dei nostri salari. E qui entra in gioco un convitato di pietra che è l’inflazione.  In virtù del balzo considerevole dell’inflazione nel 2022, i nostri redditi medi reali sono tornati ai livelli degli anni ’90. Gli anni delle Notte Magiche e Totò Schillaci per intenderci. Peccato che di magico ci sia ben poco.

I salari reali in Italia, secondo l’Ocse, erano già scesi del 2,9% dal 1990 al 2020. L’alta inflazione generata dalla guerra in Ucraina e della veloce ripresa post Covid ha solo aggravato la nostra situazione.

Ma i bassi salari hanno un impatto diretto anche sulla crescita demografica che impatta a sua volta sulla tenuta del welfare sociale, che a sua volta ha conseguenza sulla tenuta del debito pubblico…“che al mercato mio padre comprò” (cit.)

Insomma, nel campionato della produttività e della crescita salariale siamo ultimi in classifica in Europa.

Per fortuna che nelle cose che contano, come gli attuali europei di calcio in corso, ci prendiamo una sonora rivincita e siamo ancora i “Maestri” del bel giuoco!

Perché lo siamo ancora, vero?…

“Presto che è tardi”

In questi mesi stanno uscendo numerosi studi sul livello di ricchezza raggiunto dalla generazione dei baby boomers (nati tra il 1946 e il 1964) e del travaso di ricchezza a cui (presto o tardi) assisteremo a favore delle generazioni appena successive, ovvero la generazione X o “di transizione” (nati tra il 1965 e il 1980) e Y o “Millenials” (1981-1996).

Nelle società occidentali il boom economico postguerra ha creato una ricchezza clamorosa: oggi è massima la percentuale di persone con abitazione di proprietà, come pure i diversi sistemi di welfare adottati nel dopoguerra hanno ridotto la povertà nella classe tradizionalmente più fragile (quella degli anziani).

Negli ultimi anni stiamo però assistendo ad un calo demografico pronunciato, che non solo metterà a repentaglio la tenuta dei sistemi pensionistici, ma determinerà anche grossi cambiamenti in termini di concentrazione della ricchezza. Un mio professore universitario sosteneva che il destino delle società occidentali sarebbe stato quello di assomigliare al Brasile, dove il divario sociale tra le classi è evidente da anni (auguriamoci per lo meno di riuscire a giocare a calcio altrettanto bene…).

È un aspetto che tocca tutte le società occidentali, anche se in Italia, complice il miracolo del boom economico degli anni ’60 e la successiva stagnazione della nostra economia nei decenni successivi, questo divario rischia di essere tragico.

Provo a spiegarmi meglio, facendo un confronto con l’economia americana.

Negli USA grazie ad una economia in salute da decenni, con una forte connotazione all’innovazione e allo sviluppo tecnologico si è sempre generata nuova ricchezza. Esemplare il caso Covid che ha favorito l’emergere di nuovi imprenditori digitali, divenuti estremamente ricchi nel giro di pochi mesi e mediamente giovani. Questo ha ancora una volta favorito una ridistribuzione della ricchezza complessiva.

In Italia invece, l’economia cresce da troppi anni ad un livello più basso della media europea e questo ha ancora di più cristallizzato la stratificazione sociale, con un grande squilibrio patrimoniale tra “benestanti” e il resto della popolazione.

Se ciò non bastasse, il Belpaese palesa anche allarmanti livelli di cultura finanziaria, ha mercati finanziari (e dunque opportunità) ridotte rispetto al livello assoluto di ricchezza detenuta e soffre di una burocrazia asfissiante che limita nuove iniziative imprenditoriali.

Il rischio che le nuove generazioni che si arricchiranno per via successoria si limitino ad un mero esercizio di amministrazione (nel migliore dei casi) e non di investimento è piuttosto evidente.

Non solo. Secondo recenti studi, la ricchezza media pro-capite di un over 65 in Italia si aggira sui 300 mila euro (valore degli immobili compreso), mentre quella dei giovani under 35 e già inseriti nel mondo del lavoro si aggira sui 150 mila euro (il picco è raggiunto nella fascia 45-54 anni, ovvero persone già da anni in attività con 330 mila euro pro-capite).

La sproporzione che si sta palesando nella generazione dei millenials tra (i pochi) che beneficeranno del passaggio generazionale e (i molti) che non riceveranno nulla, fa crescere enormemente la probabilità di spingere (nel tempo) una grossa parte di questi soggetti ai livelli di povertà.

E la cosa è particolarmente pericolosa perché il funzionamento dell’attuale sistema pensionistico, ad esempio, è basato sulla capacità reddituale delle classi lavorative: se i giovani non hanno la possibilità di mettersi in gioco perché non hanno capitali o hanno difficoltà di accesso perché chi li ha non li mette in circolo… beh, non serve una laurea in economia per capire dove voglio arrivare…

Se poi la base di lavoratori sta anche diminuendo per ragioni demografiche e la forza lavoro disponibile non è allineata ai nuovi standard di economia digitale richiesti… beh, non serve una laurea in sociologia per intuire la reazione di chi assisterà inerme al suo impoverimento.

Come se ne esce? Difficile prevederlo.

Una ricetta sicura di benessere non esiste, o meglio, quelle che potrebbero comportare una maggiore probabilità di ripartenza economica rischierebbero di essere molto impopolari: le “soluzioni patrimoniali” sono sempre state mal digerite in questo Paese e una prova di questo è anche rappresentato dall’attuale sistema successorio, particolarmente favorevole per gli eredi.

Personalmente, vedrei di buon occhio qualunque soluzione che faciliti e tuteli i giovani per entrare più velocemente nel mondo del lavoro, (allargheremmo subito la base dei contribuenti) e un ripensamento sull’attuale livello del nostro risparmio, che troppo spesso si cristallizza in giacenze e non crea valore in investimenti nell’economia reale.

Prendendo a prestito uno slogan televisivo di successo, direi però “presto che è tardi”. Il rischio di trovarci in un sistema completamente paralizzato tra qualche anno e affondare dunque tutti è evidente.

Cui prodest?

Il fattore “Knockback” nel mercato dell’arte 2023 e altre amenità (2 di 2)

Breve sintesi dalla puntata precedente: si è scritto e ribadito che il 2023 è stato per il mercato dell’arte un anno difficile.

Fatturati in calo in tutti i maggiori segmenti, crollo dei prezzi medi dei lotti, tassi di unsold in crescita e (di conseguenza) anche la classifica dei primi 5 top dell’anno ha palesato una significativa contrazione sul 2022.

Si sono analizzate le cause di questo ridimensionamento e nella presentazione tenuta nella Greenhouse di Deloitte, si è anche cercato di capire le correlazioni tra mercato dell’arte, mercato finanziario e situazione geopolitica in essere. E così si è compreso che questo raffreddamento degli entusiasmi nella domanda globale di collectibles deriva da un ritardo intrinseco del mercato dell’arte, che comunque rimane (e sempre rimarrà) meno reattivo a cambiamenti esogeni repentini, che invece vengono subito recepiti negli altri mercati regolamentati.

Una delle due parole utilizzate per descrivere l’anno è stata “Knockback” (rinculo, contraccolpo), proprio per rimarcare il confronto con il pirotecnico 2022: –18% di contrazione del fatturato sull’anno precedente, con un -26,2% dell’arte figurativa e un –5,4% degli altri passion assets. Una forte contrazione, ovviamente, ma la situazione non è così drammatica come i numeri indicherebbero.

Perché non vanno dimenticati alcuni elementi non ricorrenti che avevano favorito la performance eccezionale del 2022, tra cui, su tutti, le sensazionali vendite delle diverse “single owner collection”. Se togliessimo questi risultati (straordinari in tutti i sensi), il fatturato complessivo sarebbe sostanzialmente stabile (-3,0%).

Ma ci sono state altre notizie a mitigare la crudeltà dei numeri: in primis è proseguita la ricerca di opere di qualità, come pure la scelta di inserire artisti nuovi ed emergenti nelle grandi collezioni (anche museali) rispetto agli artisti più storicizzati; e da qui la scelta del termine “ricerca” per identificare la seconda parola chiave dell’anno.

E’ proseguito anche l’interesse mostrato dalle nuove generazioni: le major internazionali hanno registrato tra il 30% e il 50% di nuovi acquirenti, di cui un terzo appartenenti alle generazioni dei Millennial e dei Gen Z.

La pandemia ha lasciato tra i tanti effetti anche una nuova classe di super ricchi divenuti tali con lo sviluppo dell’economia digitale e che oggi rappresenta per il mercato dell’arte un nuovo potenziale target da attrarre, fidelizzare e coccolare. Questi soggetti hanno però un gusto estetico diverso rispetto al collezionismo maggiormente spendente degli ultimi decenni (orientato soprattutto all’arte moderna e contemporanea), e questo spiega la sempre più diffusa attenzione per i Passion Assets (borse, sneaker, orologi, vini…), meno impegnativi da un punto di vista economico e più funzionali in tema di rappresentatività sociale.

E così le case d’asta si trovano ad ampliare l’offerta di collectibles ed affinare nuove modalità di vendita, consolidando la presenza internazionale per incentivare nuovi acquirenti ed incuriosire i più giovani.

Austin, Aspen e Palm Beach si sono aggiunti agli hub storici del collezionismo internazionale, mentre le sedi di Hong Kong e Milano sono state rafforzate nel 2023 da alcune delle 3 maggiori case d’asta internazionali.

E parlando in termini geografici, va ribadita la posizione dominante di New York nel mercato dell’arte internazionale, essendo la piazza in cui le major hanno presentato i cataloghi più prestigiosi, seppur moltissime aggiudicazioni sono state battute, nell’anno, vicino alle stime basse.

La piazza di Hong Kong ha risentito anche della crisi immobiliare cinese e delle nuove limitazioni sull’utilizzo dei capitali da parte del governo Popolare, mentre in Asia continua la crescita della piazza indiana, fortemente favorita da una classe dirigente giovane, internazionale e da una economia locale molto dinamica.  Guardando alla nostra vecchia Europa, Londra continua a perdere mercato a favore di Parigi ( ahi ahi la Brexit…) , mentre l’Italia cerca di sopravvivere, studiando come copiare qualche iniziativa di successo già adottata oltralpe (In Francia l’IVA su opere d’arte è già al 5,5%).  Cosa aspettarsi per il futuro?

Il contesto internazionale rimane estremamente complesso e nonostante i miglioramenti a livello macro-economico che hanno fatto rimbalzare i mercati finanziari nel 2023, sul mercato dell’arte mantengo un giudizio di forte cautela.

Le mie maggiori perplessità riguardano l’impatto che la prosecuzione della guerra in Medioriente potrebbe avere sia sul mondo del collezionismo ebreo e sia (toccando tutto il ferro a disposizione) su eventuali conseguenze terroristiche: nel 2001 gli attentati alle Torri impattarono pesantemente l’industria del lusso, (di cui l’arte può essere in qualche modo assimilata) per le conseguenze sulla mobilità internazionale. Bisogna augurarsi che questo conflitto finisca al più presto o, alla peggio, che rimanga circoscritto a livello regionale e non travalichi in aspetti ideologici.

Inoltre, rimane limitata la visibilità sulla reale situazione economica cinese che ha già fortemente impattato la ricca classe di top spenders locali, che si sono trovati di colpo regole più stringenti sulle esportazioni di capitali.

Ma Il vero rischio del 2024 può tuttavia essere di carattere politico: assisteremo (in parte è già avvenuto) al rinnovo dei governi in ben 76 Paesi, di cui 8 sono tra i 10 Paesi più popolosi al mondo e sono dunque legittime le preoccupazioni per un anno che potrebbe stravolgere ancora di più i già fragili equilibri geopolitici internazionali. Dall’esito delle urne potrebbero venire fuori nuovi scenari ad oggi inattesi.

E questa situazione di incertezza potrebbe estendersi anche al mercato dell’arte, con una eventuale reticenza a vendere da parte dei collezionisti in possesso delle opere più pregiate, che magari aspetteranno momenti di maggior visibilità, ritardando così il punto di rimbalzo del mercato e costringendolo, se va bene, ad un più prudente movimento laterale.

Nel mondo della finanza una situazione del genere viene definita “wait and see”.

Che ci piaccia o no, anche per il mercato dell’arte ci tocca aspettare un po’ di mesi per constatare se ci avevamo visto giusto…

 

Il fattore “Knockback” nel mercato dell’arte 2023 e altre amenità (1 di 2)

Questa volta non scriverò di economia e neppure di finanza. O meglio, lo farò di riflesso, raccontando come è andato il mercato dell’arte e dei beni da collezione nel 2023 alla luce del contesto socioeconomico che ha caratterizzato l’anno.

Per chi mi conosce, sa che è una ricerca a cui tengo molto, di cui ho portato avanti una serie di studi e un discreto numero di pubblicazioni e che condivido da ormai sette anni con gli amici di Deloitte Private. (In realtà questa ricerca la porto avanti da molto più tempo, ma ho già raggiunto una età in cui, se posso, preferisco togliermi gli anni che aggiungermeli).

Arriverò subito al sodo: il 2023 è stato un anno difficile per il mercato dell’arte e dei beni da collezione. Fatturati complessivi in calo, contestuale riduzione dei prezzi medi dei lotti, tassi di unsold in crescita: ha prevalso un atteggiamento di maggior prudenza nella eletta categoria dei top spenders internazionali. E i numeri parlano chiaro: contrazione annua del segmento della Pittura (per intenderci, il segmento che contribuisce a poco più del 70% del fatturato complessivo delle aste) del -26,8%, mentre l’altro segmento (quello dei Passion Assets, ovvero tutte le altre forme di collezione) ha “limitato i danni” con una contrazione del -5,4% sul 2022.

E questi sono i numeri. Vediamo le ragioni e quanto ha inciso la situazione economica e geopolitica a livello internazionale.

E qui mi tocca aprire prima una parentesi. Ammetto che amo disorientare (e lo faccio anche con un certo grado di soddisfazione) gli studenti di alcuni insegnamenti in cui sono coinvolto, in cui racconto di non credere alla vulgata che vorrebbe “l’arte come bene rifugio”. Non mi dilungo con spiegazioni di carattere economico sulla scarsa rappresentatività del bene artistico come investimento che mantiene inalterato nel tempo il suo valore intrinseco, ma mi limito a sostenere che il sistema dell’arte, soprattutto nel suo segmento più importante in termini di fatturato (ovvero quello dell’arte contemporanea) è molto volatile (nel bene e nel male) e dunque speculativo.

È vero invece (e qui a mio avviso nasce la confusione) che potremmo trovarci casi abbastanza limite in cui il contesto macro-economico peggiora di colpo e il sistema arte continua a performare in maniera eccezionale.

È successo ad esempio nel 2022, ma anche nel 2008, per citare i casi più eclatanti: sistema finanziario e mercati dell’economia reale in crash con investitori disperati e mercato dell’arte sui massimi storici.  Il 15 settembre 2008 falliva Lehman Brothers e nello stesso giorno assistevamo al nuovo record per artista vivente (Damien Hirst); nel 2022 con lo scoppio della guerra ucraina, l’inflazione cominciava a galoppare e abbiamo vissuto il peggior anno finanziario di sempre per numerosità delle classi investibili negative, ma il mercato dell’arte ha segnato, invece, il suo punto di massimo splendore.

Ma allora l’arte è un bene rifugio, come qualcuno mi vorrebbe far credere?

Niente affatto, semplicemente il mercato dell’arte è poco reattivo ai repentini cambiamenti esogeni che impattano immediatamente tutti gli altri mercati. E c’è una spiegazione semplice. Qui non abbiamo un sistema telematico che determina il prezzo in maniera efficiente, ma soprattutto, nel lato dell’offerta, i lotti proposti nelle aste più importanti sono frutto della raccolta realizzata l’anno precedente e nel lato della domanda, questi lotti possono essere stati soggetti a proposte vincolanti (tecnicamente si chiamano “garanzie”), pervenute ben prima del giorno dell’asta.

Insomma, il prezzo comincia a formarsi in scenari che potrebbero essere molto diversi da quelli che uno scoppio di una guerra o di una repentina crisi finanziaria potrebbe poi determinare.

E questo spiega perché nel 2023 il mercato dell’arte è stato un anno di “knockback (contraccolpo) per richiamare la parola utilizzata nel report Deloitte. E il bello è che lo avevamo anche (pre)detto presentando il report un anno fa, usando le due parole chiave “Fireworks” e “Opacity” per descrivere il 2022 e quello che ci aspettavamo per l’anno successivo.  Anche qui mi piace allora usare una similitudine: tanto eclatante è stato il risultato del 2022 che possiamo immaginarlo come un colpo di cannone.  Ma tanto più forte è lo sparo del cannone e tanto maggiore sarà il contraccolpo appena dopo. Che poi Knockback letteralmente andrebbe tradotto con “rinculo”, (per l’appunto), ma ci sembrava poco appropriato come titolo di un comunicato stampa.

Insomma, se ne volete sapere di più di quello che è successo nel 2023 nel mercato dell’arte e scoprire l’altra parola che ha caratterizzato l’anno, potete sempre venire a scoprirlo partecipando alla presentazione che si terrà giovedì prossimo 9 maggio a Milanocloud.marcom.deloitte.it/ArtFinance09

Oppure basterà seguire la prossima puntata di Nuvole e Mercati. In cui cercherò di dare molti più dettagli qualitativi su quel che è successo e su quel che potrà essere. Sperando di azzeccare ancora le previsioni. Del resto, è tutta una questione di rinculo (o qualcosa che ci fa rima).

 

Non è tutto debito ciò che luccica

Non è passato inosservato l’ennesimo progetto di vendere gran parte dell’attuale patrimonio immobiliare della Pubblica Amministrazione per ridurre il nostro mastodontico debito pubblico. Immobili, caserme, palazzi uso ufficio, case, iniziative turistico ricettive, spiagge, università, ospedali, persino cantieri… secondo le stime aggiornate del Mef (ma quasi tutti gli ultimi Governi hanno portato avanti progetti analoghi), ci sarebbero ricavi per almeno 60 miliardi di euro, (dei 300 miliardi complessivamente stimati di asset immobiliari), da dismettere o mettere a reddito.

Il problema, penso, sia arcinoto: bisogna ridurre il nostro altissimo debito pubblico (oltre 2800 miliardi di euro), che assorbe una quota elevata dello sforzo fiscale dei cittadini italiani e pone pesanti ipoteche sul loro futuro. Si potrebbe allora liquidare quella parte del patrimonio pubblico che non è essenziale per lo svolgimento delle funzioni fondamentali di Stato e amministrazioni locali.

E fin qui penso che nessuno abbia nulla da obiettare.

Ma forse, la situazione non è così disperata come potrebbe sembrare: dipende infatti da cosa intendiamo davvero per debito pubblico?

Prendo, per aiutarmi, l’ultimo bollettino della Banca d’Italia sulla ricchezza di famiglie, imprese e pubblica amministrazione. Ebbene… se ci riferiamo al solo debito pubblico lordo, (come è comunemente inteso) questo rappresenta in Italia il 140% del PIL (solitamente si prende questo rapporto per capire quanto una nazione sia indebitata rispetto alla sua capacità di generare ricchezza).

E in questo caso… beh, sì… potremmo pensare di essere abbastanza spacciati. Anche perché la media europea si aggira a circa il 90%.

Se invece consideriamo la differenza tra le passività dello Stato e le attività finanziarie (azioni e obbligazioni prevalentemente), allora il rapporto debito/pil migliorerebbe già al 132,7%. Un brodino, è vero, ma in questo aggregato non verrebbero comunque conteggiate le attività finanziarie detenute da Banca d’Italia,  (con qualche dubbio se abbia senso o meno includere il patrimonio finanziario della Banca d’Italia di pertinenza dello Stato Italiano).

Ma se ci riferissimo al debito pubblico come quell’aggregato ottenuto dalla differenza tra le totali passività e totali attività di uno Stato, allora dovremmo considerare anche le attività finanziarie detenute dalle famiglie a cui aggiungere anche l’insieme di attività reali detenute da famiglie, imprese e pubblica amministrazione. E qui il rapporto debito/Pil si ridurrebbe al di sotto del limite “auspicato” del 60%.

In Italia del resto (e rispetto ad altri Paesi), è molto alto infatti il valore delle attività complessive (reali e finanziarie) detenute dalle famiglie: circa l’80% circa delle famiglie ha almeno un’abitazione di proprietà.

Questa situazione comporta spesso una cattiva interpretazione della realtà, sia da controparti domestiche che estere. Da una parte, nelle discussioni politiche viene proprio avanzata l’argomentazione che l’elevato debito pubblico dell’Italia non sarebbe un problema perché esso è più che compensato dal debito privato che è molto basso. Dall’altra parte, all’estero, c’è una certa superficialità nell’indicare nelle attività reali e finanziarie delle famiglie italiane la soluzione dell’alto debito pubblico. Il vero problema rimane un altro: la sostenibilità del debito pubblico italiano, ancora fortemente detenuto nelle mani di istituzionali esteri (sebbene lo sforzo degli ultimi governi di favorire un “effetto sostituzione” con le famiglie italiane).

Ma torniamo “in topic” a parlare di cosa davvero intendiamo per debito pubblico.

E c’è un aspetto curioso che può fra sorridere: il nostro dato debito/PIL potrebbe essere sensibilmente più basso se venisse poi adottato un diverso principio contabile rispetto a quello attualmente in uso, che penalizza particolarmente la valutazione di un ricco patrimonio artistico e storico come quello italiano. La dico in maniera più semplice: l’attuale criterio adottato sottostima sistematicamente gli immobili e i monumenti a più elevato valore storico e artistico.

Magari Dostoevskij ha un tantino esagerato quando scrisse che la “bellezza salverà il mondo”. Più prosaicamente, poteva limitarsi al caso italiano: le bellezze artistiche del nostro Bel Paese ci salveranno dall’alto debito pubblico… E nessuno, almeno dei nostri governanti, avrebbe avuto nulla su cui obiettare…

Panem et circenses in salsa araba: lo sportwashing (2 di 2)

Dove eravamo rimasti? Nel corso degli anni vari Stati hanno sempre più investito nella propria immagine, cercando di estendere la leadership al di fuori dei meri confini nazionali. Sia grandi potenze internazionali e sia piccoli Stati hanno iniziato ad aumentare il proprio potere (o in gergo tecnico “bargaining”), sfruttando alcuni settori tipici del soft power: la cultura, il turismo, il commercio, l’arte, il cinema, l’educazione e lo sport.

Gli USA per anni sono stati i maestri incontrastati di soft power: attraverso l’industria di Hollywood e non solo ci hanno inculcato il “mito dell’American dream”, ma nella classifica dei Paesi più attraenti, negli ultimi anni, stanno scalando pozioni importanti le nazioni del Golfo Persico.

Fine del prologo e ripartiamo da qui.

Ci sono i 3 maggiori Paesi del Golfo Persico (Qatar, Emirati Arabi e Arabia Saudita) a cui si aggiunge il Marocco, che tra i Paesi di matrice araba hanno trovato nell’organizzazione dei grandi eventi sportivi il modo più efficace per scalare le posizioni di influenza e gradimento internazionale. Seppur questi Paesi palesino ancora evidenti limiti democratici, offrano rifugio e sostegno a sacche di terrorismo internazionale e siano spesso in conflitto tra di loro, stanno tutte seguendo un comune percorso di consenso, almeno in Occidente.

Questi 4 Paesi hanno investito negli ultimi anni miliardi di dollari (anche se spesso la modalità utilizzata è sospetta), ospitando alcuni dei maggiori eventi sportivi mondiali, acquisendo importanti club calcistici europei e attraendo calciatori di fama internazionale nei propri campionati locali di (ancora) scarsa visibilità internazionale.

Non è oro tutto quello che luccica, ça va sans dire… Anzi, l’utilizzo dello sport al fine di apparire qualificati nello scenario internazionale permette spesso di distogliere l’attenzione da cronici problemi sociali e guai legati ai diritti umani sul fronte interno ed è definito con un termine ben preciso: sportwashing.

L’esempio più eclatante è stato certamente il Mondiale di Calcio 2022, svolto nel minuscolo Qatar. Prima di ospitare i mondiali di calcio, l’emirato aveva anche già organizzato altri eventi sportivi, (Giochi Olimpici asiatici nel 2006, il Qatar Masters Golf e il Qatar Open Tennis). Rimanendo in ambito calcistico, il Qatar, tramite il fondo sovrano Qatar Investment Authority (QIA) ha anche acquistato il Paris Saint Germain, un club molto discusso negli ultimi anni per le sue faraoniche campagne acquisti (Messi, Neymar, Mbappè tra i tanti), pur senza vincere nulla di rilevante a livello continentale (almeno per ora).

Il Paese qatariota ha anche lanciato il progetto “Aspire Academy” che punta a formare o acquisire campioni di diverse discipline sportive, tra cui il calcio. Grazie alle prime naturalizzazioni di calciatori nordafricani e sudamericani  il Qatar è riuscito a vincere la Coppa d’Asia nel 2019, dopo esser considerato per anni la “squadra materasso”. Il Qatar grazie a questi risultati e all’organizzazione di questi eventi ha sovvertito le vecchie regole di politica internazionale, dimostrando che anche un piccolo Paese, seppur sfavorito dalla collocazione geografica e dalla limitata popolazione, con un sapiente uso della soft power può diventare un attore imprescindibile a livello mondiale.

Rimangano però enormi le critiche internazionali sulle condizioni dei lavoratori immigrati impiegati nella costruzione degli stadi per il Mondiale, come pure, il Qatar si è reso protagonista dello scandalo legato alla corruzione di alcuni Europarlamentari, tra cui la vicepresidente Eva Kaili, che in un famoso discorso si era pronunciata a favore dell’apertura al mondo di questa monarchia e dei suoi passi avanti dal punto di vista dei diritti dei lavoratori. “Sic transit gloria mundi”…

Ma il Qatar, tramite lo sport è riuscito a catalizzare le attenzioni internazionali, divenendo al contempo una destinazione popolare per il turismo internazionale e per l’economia mondiale, garantendosi la sopravvivenza in vista dell’inevitabile esaurimento delle riserve di gas e petrolio.

Altro esempio di sportwashing lo offre l’Arabia Saudita che ha acquistato club europei dalla consolidata tradizione sportiva (vedasi il Newcastle), ospitato le finali della Supercoppa Italiana e spagnola, (giocate in desolanti stadi vuoti) e riammesso pure le donne allo stadio per l’occasione.  Ma il colpo di genio dell’Arabia saudita è stato l’acquisto di Cristiano Ronaldo, (oltre a varie altre stelle internazionali), famoso sia per l’ingaggio multimilionario e sia per l’attenzione mediatica globale che il calciatore riesce a garantire.

Peccato che anche l’Arabia Saudita palesi ancora grosse criticità principalmente in materia di libertà di espressione e associazione, ci sia ancora un uso indiscriminato della pena di morte (anche per i minorenni), la condizione della donna è parecchio arretrata e sia ancora irrisolto lo scandalo internazionale per l’omicidio del giornalista Khashoggi. Eppure qualche politico italiano aveva parlato di “rinascimento arabo”. Forse, con il senno di poi, è stato un po’ azzardato.

Gli Emirati Arabi sono il Paese più impegnato a presentarsi come il volto più moderno e tollerante del mondo arabo. Del resto, sono stati i primi ad ospitare un Papa nella penisola araba (nel 2019 Papa Francesco) ed è anche stato  i primi ad aprire le prime sedi arabe del Louvre e del Guggenheim (dietro ovviamente cospicui pagamenti). Niente sport allora? Niente affatto: la costruzione di un circuito di Formula Uno e gli investimenti per costruire il Ferrari World testimoniano solo l’interesse per uno sport diverso, anche se va riconosciuta l’opera di scouting che la leadership emiratina sta effettuando nei confronti di imprenditori, scienziati e tecnici per diventare un polo attrattivo a livello mondiale.

Infine, il Marocco che dopo aver organizzato la Coppa del Mondo per Club, si è finalmente aggiudicato il Mondiale di calcio 2030 con Spagna e Portogallo, dopo 4 candidature andate male.

Anche qui la situazione è preoccupante, sia in termini di limitata libertà di espressione e sia in termini di condizioni di lavoro disastrose, ma forse non è davvero affar nostro guardare cosa avviene fuori dal nostro Paese…

Molto meglio preoccuparci dell’ultima campagna acquisti della nostra squadra del cuore, o di come rendere più spettacolare il nostro sport preferito.

“Panem et circenses”!

Almeno e fino a quando, chi investe nelle moderne arene, ci lascerà la libertà di seguirle…

 

Panem et circenses in salsa araba (1 di 2)

Siamo tutti tifosi di qualcuno o qualcosa. È inutile negarlo. E non mi riferisco solo al famigerato calcio. Fin dalla antica Grecia, ma anche nella Roma delle arene, era lasciata la possibilità al popolo di svagarsi (e sfogarsi) sostenendo l’atleta o il gladiatore preferito. Nonostante lo scetticismo degli intellettuali di allora (Giovenale in una lettera ad un amico e con tono disgustoso lamentava il “panem et circences” come metodo demagogico per governare le genti), le cose, a distanza di duemila e passa anni non sono cambiate affatto. Anzi, si sono solo raffinate…

Oggi semmai, non basta più saper governare le proprie genti, ricorrendo anche a metodi più o meno demagogici, la vera abilità è estendere il concetto di territorialità ed influenzare gli usi e costumi degli altri popoli, divenendone, in poche parole, un modello.

Semplifico il concetto: alcuni Stati cercano di esercitare una leadership carismatica su altri, per influenzarne lo stile di vita, modellarne i gusti e accrescere, a proprio vantaggio, il consenso sia esterno che interno.

Dagli anni novanta, si parla a tal proposito di Soft Power, un neologismo che indica un metodo alternativo di politica estera, basato sulla capacità di attrazione e di persuasione, piuttosto che sull’uso di metodi coercitivi o militari, come era stato fino ad allora con le grandi guerre e appena dopo con la Guerra fredda.

Gli Stati Uniti sono da sempre un fulgido esempio di soft power e i film di Hollywood (ad esempio) hanno da sempre valorizzato “lo stereotipo dell’American dream”: una terra di libertà dove tutto è possibile, catalizzando fascino e speranze di tutta una vasta popolazione occidentale e non solo.

Nel corso degli anni, il livello di consenso su una nazione si è poi sempre più orientato e focalizzato sul suo grado di sviluppo delle istituzioni e dello stato di diritto, sul livello raggiunto in campo tecnologico, della formazione e della crescita economica: più forte insomma si dimostrerà una nazione nel campo dei Soft Power e maggiore sarà la sua abilità nell’attrarre nella propria orbita investimenti, servizi e mercati.

Ogni anno la società di consulenza Brand Finance valuta la capacità attrattiva delle varie nazioni, pubblicando la più accurata e ampia ricerca sulla percezione dei Paesi come Brand e sulla crescita dei loro Soft Power. Una classifica insomma dei paesi ‘più fighi’ o più ‘cool’ (per dirla con slang giovanile) a livello internazionale.

E questo studio considera un’ampia gamma di criteri, valutando anche settori molto diversi tra di loro.

Li cito per importanza: familiarità, reputazione, influenza, capacità di business, forza dell’economia, presenza di marchi mondiali, numero di leader riconosciuti, buon governo, bassa corruzione, sicurezza, relazioni internazionali, influenza nell’arte e nella cultura, rispetto del pianeta, facilità di comunicazione, media influenti, leader comunità scientifica, livello tecnologico raggiunto, educazione, futuro sostenibile, investimenti nel green. Mixando le varie classifiche, emerge lampante il primato degli USA seguiti da Regno Unito, Germania, Giappone, Cina, Francia, Canada, Svizzera e Italia (suvvia, non siamo poi così malaccio). Ma fino a qui non penso che ci siano grandi sorprese.

Mi soffermo invece sulla decima posizione, in cui si colloca un rappresentante di un’area in forte ascesa, su cui converrà spendere il prossimo approfondimento di Nuvole e Mercati: gli Emirati Arabi, unici (per ora) rappresentanti del mondo arabo.

Una zona (quella del Golfo saudita) composta da Arabia Saudita, Emirati Arabi, Oman, Qatar, Bahrein e Kuwait e il cui prodotto lordo aggregato ha già un peso assoluto nell’ economia mondiale, ma che, seppur svantaggiato da un precario stato di diritto (per essere diplomatici…), sta scrivendo una pagina del tutto innovativo di soft power a livello mondiale.

Mi limito a dare qualche indizio e mi ricollego all’incipit di partenza: siamo tutti tifosi di qualcosa. E i rappresentanti del Golfo Saudita sembrerebbe che l’abbiano interpretato alla lettera, comprando per quattro (almeno per loro) miseri spiccioli la passione sportiva di una intera popolazione occidentale…

Ma siamo solo agli inizi…  Non ci meravigliamo nemmeno più che le finali di qualche torneo nazionale delle maggiori leghe calcistiche europee vengano giocate in stadi vuoti sauditi, o che la stagione di Formula 1 inizi nel parziale disinteresse su circuiti semi sconosciuti, o che alcuni dei maggiori collezionisti d’arte ed eventi artistici internazionali siano ormai prerogativa di quell’area. Fa tutto parte di una ben studiata strategia di soft power. Se darà i suoi frutti lo vedremo nei prossimi anni. Intanto, converrà approfondirne gli effetti…

Conflitto ucraino due anni dopo: perché le sanzioni economiche sono state un flop

Il 24 febbraio 2022 la Russia invadeva l’Ucraina, puntando direttamente su Kiev, da sempre considerata la culla della civiltà russa. Negli stessi giorni Putin aveva già riconosciuto le repubbliche separatiste del Donbass (Donetsk e Lugansk) situate sul territorio ucraino e otto anni prima (2014) si era annesso la penisola di Crimea, nel silenzio (o peggio disinteresse) del mondo occidentale. A distanza di due anni da quel fatidico giorno, ci troviamo ancora disorientati da questa guerra che ancora non comprendiamo e ora anche distratti da un conflitto, come quello israeliano, che per ragioni storiche e culturali avvertiamo più insidioso.

Questa rubrica ha sempre cercato di tenersi al di fuori dai giudizi di merito, (e continuerà a farlo) ma ha sempre indagato le conseguenze economiche che prima il conflitto ucraino e poi quello israeliano hanno determinato a livello mondiale.

Il conflitto ucraino è stato infatti il detonatore per una spirale inflattiva mondiale da cui, solo oggi, riusciamo faticosamente ad imboccare la via d’uscita e il continente europeo è stato il più colpito, pagando il fio di essersi legato “mani e piedi” all’ex alleato russo.

Ma se le fonti energetiche sono state faticosamente e costosamente sostituite, a distanza di due anni appare chiaro il mezzo fallimento di tutte l’insieme di sanzioni economiche che sono state applicate e che, almeno negli intenti, avrebbero dovuto fiaccare prima e poi piegare l’economia della Russia e spingerla a una completa revisione nella politica militare.

Più volte ho parlato degli effetti delle sanzioni in questa rubrica (ricordo “Guerra e Pace” del 5 marzo 2022 e “Il folle costo della guerra” del 20 marzo 2022), ma riassumo anche oggi i principali: l’esclusione dal circuito Swift degli istituti di credito russi, il congelamento di beni e proprietà di alcuni oligarchi e delle riserve in valuta estera dello Stato e un massiccio ridimensionamento del traffico commerciale da e per verso la Russia.

A giudicare però dai dati appena pubblicati dal Fondo Monetario Internazionale, queste sanzioni non hanno funzionato: il PIL russo è atteso in crescita del 2,6% nel 2024 (una crescita tripla rispetto all’Europa al +0,9% e superiore agli USA al +2,1%). Il dato russo per il 2024 confermerebbe anche l’ottimo risultato già raggiunto nel 2023 (+ 3,0%).

Le ragioni di questo exploit potrebbero essere due: da una parte il forte intervento pubblico di stimolo in quella che è diventata, a tutti gli effetti, una economia di guerra, dall’altra parte la buona tenuta dell’export russo (soprattutto energia, metalli e fertilizzanti).

Ma se la spesa pubblica potrebbe non sostenere nel lungo termine l’economia russa, la tenuta dell’export è un effetto dell’insuccesso delle sanzioni applicate.

Sono infatti tre (a mio avviso) le ragioni di questo fallimento occidentale.

La prima, come detto, è legata appunto alla tenuta dell’export russo. Molti Paesi energivori hanno fiutato la opportunità di potersi sostituire alle potenze europee nell’accaparramento del gas, contrattando con la Russia un prezzo di “favore”. È il caso di India, Cina e Turchia, che hanno potuto così favorire le loro industrie e hanno salvato la bilancia commerciale russa.  Ma è anche il caso del Sudamerica per i fertilizzanti, o l’Africa per le armi. Non solo, molti Paesi occidentali hanno continuato a comprare risorse energetiche dal Cremlino, triangolando tali acquisti con Paesi terzi.

Anche il rublo inizialmente sotto pressione ha largamente recuperato terreno. L’inflazione dovrebbe scendere al 4,5%, dopo che la Banca centrale ha alzato i tassi d’interesse fino al picco del 15%.

La seconda ragione è di carattere politico: fin dalle prime votazioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite era palese che non tutti volessero tenere atteggiamenti di rigidità con la Russia, astenendosi nelle votazioni e rimanendo neutrali. Molti Paesi (soprattutto quelli più poveri e dipendenti dal gas russo) non volevano compromettere i rapporti con lo Zar e vedevano nel conflitto ucraino un mero problema europeo.

La terza ragione è riferibile alla peculiarità della società e dell’economia russa, da sempre piuttosto “chiusa”. L’enorme sforzo finanziario per sostenere la guerra è stato sostenuto a discapito delle pensioni, degli stipendi dei dipendenti pubblici, della manutenzione delle infrastrutture e dell’edilizia, ma il tasso di disoccupazione è rimasto basso (grazie alla leva obbligatoria e ai tanti dissidenti che hanno lasciato il Paese). In un Paese in cui non esiste né libertà di parola, né di stampa e vige una esasperata propaganda politica, tutte le possibili rivolte sono state soffocate sul nascere, cristallizzando il sistema di governo in essere. E qui si spiega il grande errore del “fronte occidentale”, che ha ciecamente creduto che l’applicazione di sanzioni economiche e qualche fornitura militare a Kiev, bastassero per sgretolare il fronte di consenso interno verso lo Zar.

Inoltre, il crollo del regime russo dato più volte per imminente non si è mai realizzato, indebolendo anche l’alleanza atlantica con gli USA, che nel caso di vittoria di Trump, avranno buon gioco a defilarsi da una guerra lontana, costosa e non di certo strategica come quella in Medio Oriente.

Insomma, sul piano militare la guerra è in stallo, le sanzioni economiche sono state un flop e l’alleanza atlantica si è indebolita e l’avvicinamento dei Paesi scandinavi alla NATO è solo un parziale successo. Converrà allora lavorare tutti per una pace veloce e giusta, anche se dovesse passare per privazioni territoriali importanti per l’Ucraina. Bisogna farlo prima che l’immagine della Unione Europea possa uscirne del tutto compromessa, risvegliando a livello nazionale pericolosi focolai populisti: la storia recente ci dovrebbe aver insegnato che è una strada pericolosa, quanto masochista.

Doomsday clock: meglio non chiedere l’ora

A che ora è la fine del mondo” fu una celebre hit del 1994 di un cantautore italiano, cover a sua volta di un’altra canzone di un ben più noto gruppo inglese, che la compose nel 1987.

Onestamente, non so quanto i musicisti in questione si siano ispirati nella composizione di queste canzoni da un preliminare approfondimento sul “Doomsday clock”, tecnicamente l’orologio dell’apocalisse.

Nota importante: nella prosecuzione della lettura di questo pezzo, ogni forma di amuleto è ammesso e anzi incoraggiato.

Fatto sta che un manipolo di ardimentosi scienziati, nel 1947 “si presero la briga e di certo il gusto” (cit.), di creare un simbolico orologio che misura il pericolo di un’ipotetica fine del mondo.

In questo algoritmo che governa questo bizzarro segnatempo, la mezzanotte simboleggia la fine del creato, mentre i minuti prima rappresentano la distanza che ci separerebbe dall’evento fatale per l’umanità.

Mentre in principio alla sola mezzanotte era associata l’eventualità di una guerra atomica, nel corso degli anni si sono aggiunte altre calamità irreversibili a simboleggiare la fine del mondo, quali: un eventuale punto di non ritorno nel mutamento climatico, l’utilizzo di armi batteriologiche e l’utilizzo senza freni della ingegneria genetica.

Giusto per capirci meglio, al momento della sua creazione, (durante la guerra fredda), l’orologio fu impostato sulle ore 23:53, da allora, le lancette si sono spostate solo in 23 occasioni. Il punto più lontano dall’apocalisse (17 minuti)  fu raggiunto nel 1991, alla fine della guerra fredda, quando Usa e Russia firmarono lo START, il primo trattato sulla riduzione delle armi strategiche, mentre nel 2020, nel pieno della pandemia Covid le lancette si avvicinarono paurosamente a 100 secondi dalla mezzanotte.

Dunque… Anche il più distratto lettore delle ultime vicende mondiali può velocemente intuire che, all’alba del mese di febbraio nell’anno 2024, sia molto rischioso voler leggere l’ora su questo orologio.

Faccio un immediato spoiler: le lancette del Doomsady clock alla luce degli ultimi eventi geopolitici in Ucraina e soprattutto in Israele, dove persiste il rischio di una escalation che coinvolga una potenza nucleare come l’Iran, e alla luce delle attuali condizioni di salute del nostro pianeta sono posizionate a 90 secondi dalla fine del mondo.

90… Che poi nella smorfia napoletana è anche il numero della paura… E vorrei anche ben vedere…

Per dirla in altri termini, solo in un caso le lancette si erano così paurosamente avvicinate alla mezzanotte: era il 1953 e tre mesi prima i russi avevano testato le nuove armi all’idrogeno cancellando dal pianeta (letteralmente) un atollo nell’Oceano Pacifico. Non proprio un episodio incoraggiante…

Ora, qualcuno (e tenendo sempre ben saldi nelle mani gli amuleti evocati prima), potrebbe eccepire che questa rubrica si è sempre occupata di economia o di fatti sociali dai marcati riflessi economici e dunque potrebbe sembrare fuori luogo parlare di questo bizzarro orologio in questa sede.

Ma è proprio perché si vorrebbe poter continuare a parlare di economia, di mercati finanziari e di fattori sociali che possono influenzare il nostro futuro benessere economico che lo si fa proprio in questa sede, in fondo è anche questa una forma di esorcismo.

Che poi, è meglio leggere anche un po’ annoiati questa rubrica, che guardare spazientiti l’ora, magari sull’orologio sbagliato…

Anno bisesto voto richiesto

È sempre difficile fare previsioni economiche quando comincia un anno nuovo, negli ultimi tempi, poi, lo è stato ancora di più visto l’insorgere nei primi due mesi dell’anno di due grossi “cigni neri” che hanno completamente sovvertito gli equilibri internazionali (Covid e conflitto ucraino) e dunque il sistema di predizioni in essere.

Il 2024 rischia di essere di ancora più difficile previsione, visto che oltre alle conseguenze dei tre “cigni neri”, (nel mentre si è aggiunto anche quello del conflitto israeliano), assisteremo (a Taiwan è già avvenuto) al rinnovo dei governi in ben 76 Paesi, di cui 8 sono tra i 10 Paesi più popolosi al mondo.

Complessivamente sono 2 miliardi le persone chiamate a votare (che equivale anche a dire la metà della popolazione adulta nel mondo) e sono dunque legittime le preoccupazioni per un anno che potrebbe stravolgere ancora di più i già fragili equilibri politici e sociali internazionali.

India, Usa, Indonesia, Unione Europea, Brasile, Bangladesh, Russia, Messico, Regno Unito, Taiwan, Sudafrica (in ordine numerico): sarà un anno di campagna elettorale permanente.

Abbiamo già visto quanto accaduto con la vittoria di Lai a Taiwan (centro cruciale per la tecnologia dei microchip e molto attenzionato dalle mire espansionistiche cinesi): immediatamente il ministro degli esteri cinese si è espresso sulla “esistenza di una sola Cina, di cui Taiwan fa parte”.

Se il buongiorno si vede dal mattino…

Da primavera in poi sarà il turno della Gran Bretagna del Parlamento Europeo, per chiudere a fine anno con l’evento più importante: il Presidente degli Stati Uniti.  Certo, nel mentre (a marzo) ci sarebbero anche le elezioni russe, ma appaiono abbastanza scontate, mentre interessanti potrebbero essere gli spunti provenienti (entrambe in estate) dalle elezioni in Sudafrica e in India: le nuove leadership potrebbero confermare o rivedere i rapporti geopolitici all’interno del gruppo dei “BRICS”. Insomma, gli elementi di incertezza (geo)politica sono elevatissimi e rischiano di compromettere le potenzialità dell’economia mondiale. Le promesse elettorali, come demagogia vuole, saranno tutte improntate a pompare l’economia e qualunque candidato prometterà mondi avveniristici, il progresso alle porte, una ricchezza diffusa e la pace nel mondo. Beh, no, probabilmente quella sarà l’unica a non essere menzionata.

E poi l’attuale contesto macro-economico, almeno nei paesi occidentali, con una inflazione finalmente in ritirata, seppur con economie ancora molto fragili, potrebbe dare spunti e supporti importanti per campagne elettorali votate all’ottimismo: del resto il popolo è “ miope” (in realtà il proverbio vorrebbe che sia “bue”, ma mi sembrava indelicato riportarlo qui) e nel segreto delle urne voterà guardando al suo portafoglio, per cui ogni miglioramento economico sarà opportunatamente ricordato e premiato. Vale anche, ovviamente, il viceversa.

A meno di clamorosi errori di politica monetaria, l’atterraggio morbido (il soft landing tanto auspicato) sembrerebbe concretizzarsi e spazzare via lo spettro del più insidioso hard landing che tanto aveva spaventato i mercati negli ultimi due anni. Ma di questo se ne è parlato diffusamente nella scorsa puntata.

Si è detto che è un anno che rimarrà però sospeso in attesa della votazione più importante: quella a stelle e strisce.

A seconda di chi dovesse essere eletto, c’è la possibilità di assistere a un cambiamento sostanziale nella politica economica, nella politica internazionale delle alleanze e nella politica ambientale del Paese più influente al mondo.

A tal proposito, c’è però una statistica abbastanza longeva (120 anni) che val la pena ricordare: il principale indice borsistico americano (il Dow Jones, che poi è anche il più rappresentativo del mercato finanziario mondiale) negli anni delle elezioni presidenziali USA è quasi sempre rimasto piatto nei primi sei mesi dell’anno, salvo poi accelerare al rialzo, appena la campagna elettorale entra nel vivo e poi correre all’annuncio del nuovo Presidente.

Sarà anche così nel 2024? C’è sempre l’eccezione che conferma la regola, è vero, ma tendenzialmente fa sorridere come il “razionale” mercato finanziario creda con entusiasmo alle mirabolanti promesse elettorali. Da circa 120 anni ormai. Chi siamo allora noi per smettere di fargliele credere?

Una recessione sospesa tra Drogo e Godot

Si chiude anche questo 2023, un anno che ha contraddetto molte “Cassandre” che prefiguravano scenari economici apocalittici, ma anche qualche regola finanziaria che ritenevamo, fino ad oggi, incontrovertibile.

La recessione più annunciata, twittata, romanzata della storia non si è poi presentata e noi ad aspettarla come un vecchio tenente Drogo (per i più romantici) o come un moderno Godot (per chi ricerca almeno il lato umoristico).

Eppure, riaprendo i libri ormai ingialliti dell’università i presupposti per una recessione mondiale c’erano tutti: una stretta monetaria di magnitudo senza precedenti, una curva tassi invertita, crisi bancarie varie, nuovi conflitti geopolitici e vecchie guerre non ancora risolte e ogni volta il fiato sospeso sulle decisioni dei banchieri centrali, manco fossero divi di Hollywood.

Il rialzo dei tassi o la tenuta dello spread sono diventati argomenti di comune conversazione pure tra sportivi in erba, casalinghe annoiate, stagionati rentier e influencers in rampa di lancio.

Higher for longer è Il mantra da ripetere in maniera ossessiva e che conferirà anche “più carisma e sintomatico mistero” (cit.) nel trittico terribile che ci attende dei prossimi cenoni: vigilia, Natale, capodanno. Qualcuno lo userà magari anche a sproposito, ma il concetto di fondo è che l’obiettivo di riportare l’inflazione verso il target del 2% (o del “2 virgola” come ammesso da qualche banchiere) sarà perseguito sia in Europa sia negli Stati Uniti e per questo i tassi dovranno rimanere più alti per più tempo. Bene, tutto chiaro. Ma a tanta severità negli enunciati è corrisposta anche e spesso qualche inedita apertura sul futuro taglio dei tassi, come quello annunciata dalla FED proprio qualche ora fa. È bastato questo per infiammare le borse al di là dell’oceano. Che poi è lo stesso Presidente che solo quattro mesi prima e con toni visibilmente affranti affermava che “c’è ancora molta strada da fare per riportare l’inflazione al 2%”, trovando subito una sponda altrettanto afflitta nella sua omologa europea che dichiarava “siamo lontano da una vittoria sull’inflazione”. Sappiamo poi come è finita: dell’atterraggio brusco della economia (c.d. hard landing) manco l’ombra e gli operatori di mercato hanno sconfessato, nei fatti, gli enunciati cupi dei banchieri centrali con performance convincenti.

Per carità, ci sono sempre degli accadimenti pronti a “confermare o ribaltare la situazione” e in effetti la guerra israeliana avrebbe (o potrebbe) scatenare ancora una corsa inflattiva, (se si allargasse ai paesi arabi), ma al netto di questa situazione, sembra che da qui a fine anno si voglia solo pensare positivo. Rimane però un contesto economico molto complicato ed inedito e molte domande irrisolte.

L’ambiente geopolitico resta instabile e l’economia internazionale fragile? Sì, però dell’Ucraina non se ne parla più, e chissà… Magari non stanno più combattendo… (amo l’ironia).

L’aumento dei tassi ha avuto un impatto sulla dinamica del debito pubblico? Sì, ma non pensiamoci ora. Anche le agenzie di rating, graziando l’Italia hanno dato (a mio avviso) un segnale: non conviene far valere l’algoritmo. Meglio usare il buonsenso in questi tempi da post Covid, dove tutti i Paesi si trovano con un debito pubblico esploso.

La banca centrale europea dovrà sgonfiare con il “Quantitative Tightening” un bilancio elefantiaco? Si, ma in qualche modo troveremo una soluzione per non danneggiare le economie più fragili.

Il riscaldamento globale e la perdita della biodiversità sono problemi impellenti? Sì, ma abbiamo scoperto che la transizione energetica ha oggi un costo insostenibile per un sistema già stressato dall’inflazione. Ci impegneremo, ma nel tempo.

Insomma, non assilliamoci troppo in questo ultimo scorcio di (ennesimo) anno emotivamente impegnativo.

Il 2024 sarà anche un anno elettorale pieno di insidie in cui la tentazione populista sarà probabilmente cassa di risonanza per molti dei problemi appena esposti.

Ma, personalmente, preferisco mantenere un moderato ottimismo: a meno di nuovi ed imprevedibili sconvolgimenti geopolitici, il sistema economico troverà ancora una volta soluzioni a questo contesto del tutto inedito.

“Il mercato finanziario deve crescere o si estingue”, amava ripetermi un mio vecchio capo.

Non ho mai messo in dubbio le sue parole, come pure non mi sono mai posto il dubbio se fosse più paradossale l’attesa del tenente Drogo o quella di Godot…

Niente di nuovo sul fronte occidentale

I conflitti in corso in medio oriente e in Ucraina hanno riacutizzato tensioni internazionali sopite nel tempo e hanno riconfermato, se mai ce ne fosse stato bisogno, l’esistenza di superpotenze internazionali pronte ad intervenire politicamente e militarmente per mantenere (il precario) ordine mondiale. Del resto, il caos non è mai visto di buon occhio per chi vuole mantenere un primato economico internazionale. Ce lo insegna la storia antica e anche quella moderna: nel primo dopoguerra, le due super potenze di allora si spartirono immediatamente le aree di influenza e per un bel po’ riuscirono anche a prosperare economicamente. Sappiamo bene cosa sia poi successo al fronte ex URSS e come, di colpo, l’America si sia trovata ad essere “giudice finalmente, arbitro in terra del bene del male…” (cit.)  Gli ultimi avvenimenti geopolitici di inizio secolo hanno poi mostrato una sorta di appannamento della politica internazionale americana, mentre la sua economia manteneva la leadership a livello mondiale, seppur con un distacco sempre più marginale rispetto all’economia cinese. La domanda che ora molte società di ricerca si stanno ponendo è capire quanto la posizione di dominanza politica americana possa sopravvivere alla (eventuale) perdita del suo primato economico internazionale. Negli ultimi mesi, infatti, sono stati pubblicati alcuni studi che ribadiscono che l’equilibrio del potere economico globale cambierà radicalmente nei prossimi anni e l’Asia continentale (escluso il Giappone quindi) diventerà nei prossimi 25 anni il maggior contribuente al PIL mondiale. Qualcuno sostiene (Goldman Sachs) che questa porzione di Asia, composta da Cina, India e Indonesia rappresenterà il 40% del PIL mondiale nel 2050, superando il fronte occidentale, in contrazione al 35% (era il 77% nel 2000), che potrebbe così trovarsi soppiantato da un pericoloso antagonista, non fosse solo perché più ricco.

Altri studi (PWC) sostengono che l’economia mondiale arriverà a raddoppiarsi nel 2050, grazie a una migliore produttività guidata dallo sviluppo tecnologico e la Cina contenderà lo scettro di superpotenza internazionale all’India, mentre il Bangladesh, le Filippine, il Messico e la Nigeria rappresenteranno le economie a maggior propulsione mondiale.

Le economie emergenti potrebbero infatti crescere mediamente più del doppio delle economie avanzate consolidate, grazie agli elevati tassi di crescita della popolazione e all’età media relativamente bassa, che si traduce in una forza lavoro più ampia. Gli USA perderebbero il loro primato mondiale economico piazzandosi solo al terzo posto nella classifica globale del PIL, dietro a Cina e India, mentre bisognerebbe scalare fino alla decima posizione per trovare il primo paese europeo (Germania).

Se infatti nel corso degli ultimi anni abbiamo scoperto il significato dell’acronimo BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) per identificare le nazioni più importanti tra le economie emergenti, converrà ora imparare anche il termine MINT (Messico, Indonesia, Nigeria, Turchia) per definire i paesi ricchi di risorse e con una popolazione dinamica, che sono maggiormente candidati per iscriversi al club delle nuove super potenze economiche. Queste economie avranno però bisogno di migliorare significativamente il loro aspetto istituzionale e delle infrastrutture se vorranno pienamente realizzare il loro potenziale.

Sono tuttavia economie che beneficeranno di almeno due fattori cruciali: una popolazione in crescita e una forte dotazione di materie prime di trasformazione. Significativo l’esempio dell’Africa, un continente destinato ad espandere la propria influenza nello scacchiere economico globale (anche e suo malgrado attraverso le migrazioni): la popolazione africana quasi raddoppierà, raggiungendo i 2,5 miliardi dagli 1,4 miliardi di individui di oggi.

L’Italia invece diventerà (probabilmente) sempre più un posto ideale per le vacanze, il buon cibo e la buona vita, ma non per fare business.  A livello economico la sua discesa appare inarrestabile: era la sesta potenza economica mondiale nel 1980, passata poi al settimo posto nel 2000 e caduta al decimo posto nel 2022. 

La causa della inarrestabile caduta italiana è stata già ampiamente dibattuta su questo blog in diverse occasioni ed è principalmente una: la nostra fragile demografia. Siamo 59 milioni e saremo, in previsione, 51 milioni. Per la cronaca, un siffatto calo della popolazione italiana potrebbe infatti generare una perdita economica fino a un terzo del PIL, anche perchè l’invecchiamento della nostra popolazione peserà sempre di più sulla spesa pensionistica e sulla spesa sanitaria.

Ma tornando all’incipit iniziale, a fronte di una economia in salute, ma non più esplosiva, quanto gli USA perderanno della loro supremazia a livello internazionale?  A mio avviso poco, quasi nulla. È più facile che gli equilibri possano rimanere abbastanza immutati nonostante l’exploit, come visto, delle nuove economie. Gli Usa avranno infatti due grossi vantaggi: la crescita della India determinerà presto o tardi una collisione con la repubblica popolare cinese su chi sarà il maggior polo aggregante continentale. L’India in questo caso non diventerà mai una alleata di Washington, ma fiaccherà e non poco, le energie del maggiore competitore statunitense.  Ma la grande fortuna americana sarà però probabilmente e ancora l’Europa: il costante invecchiamento della popolazione indebolirà l’economia continentale e una politica comunitaria probabilmente ancora disancorata da una visione strategica di lungo periodo le impedirà di diventare un credibile leader internazionale per tutti quei Paesi, geograficamente vicini, ma che per ragioni ideologiche non riconoscono l’America come guida e non hanno vincoli storici con il subcontinente cinese o quello indiano. Rimarremo “vassalli fedeli e di pregio” e un ricco mercato di sbocco per i loro prodotti, ma in fondo, forse è meglio così, del resto, potevamo mica essere proprio noi motivo di caos…

Homeland economy e il costo della de-globalizzazione

L’anno scorso, all’alba dello scoppio del conflitto ucraino avevo scritto un commento su come la pandemia prima e l’instabilità geopolitica poi, stessero probabilmente decretando una interruzione dell’era della globalizzazione.

Il mondo ideale che avevamo apprezzato per anni, basato su produzioni just in time che limitavano le scorte industriali, sul progresso tecnologico che garantiva prezzi sempre efficienti e sull’equilibrio geopolitico che favoriva lo scambio internazionale, appariva seriamente compromesso.

A distanza di un anno e mezzo circa, anche il Fondo Monetario ha approfondito le possibili conseguenze di questo scenario nel suo ultimo World Economic Outlook (vabbè, se avessero letto il mio commento, mi sarei accontentato per lo meno di una citazione…Sic transit gloria mundi).

A quale conclusione il report allora perviene? Una che semplifico: chi possiede le materie prime vince. Le materie prime sono infatti diventate l’anello più fragile nella catena del valore. Le tensioni e le divisioni a livello internazionale che sono esplose negli ultimi anni hanno determinato “[…]restrizioni al commercio di materie prime nel solo 2022 sei volte superiori rispetto alla media 2016-2019”. Il caos logistico da post Covid aveva già frammentato i mercati di approvvigionamento, la guerra ucraina ha invece ulteriormente ampliato le distanze tra occidente e oriente, con un corollario di sanzioni applicate senza precedenti.

Anche la contesa tra Usa e Cina era già scoppiata da tempo, con Trump e il suo celebre “America first; e la “povera” Unione Europea s’era trovata a seguire l’alleato USA, prendendo le distanze da Pechino, con un crescendo di azioni anti-dumping su auto elettriche, turbine eoliche e produzione d’acciaio.

Questo inizio di de-globalizzazione potrebbe esplodere in futuro, allargandosi ad altri settori, non tanto al petrolio e al gas (come si è solito considerare), quanto molto di più su alcuni metalli specifici, con il rischio di rincari fino a venti volte superiori ai prezzi attuali.

Magnesio, alluminio, platino, litio, cobalto: nello scenario più stressato dal FMI, con la comparsa di due blocchi contrapposti (Usa-Ue e Russia-Cina), sarà soprattutto su questi elementi e su altre materie prime agricole che si potrebbe scatenerare un nuovo contesto da guerra fredda.

Certo, questo scenario di “fanta-economia” va “preso con le pinze”, anche perché alcuni Paesi come il Brasile ad esempio (primo esportatore mondiale di soia), non sarebbe facilmente collocabile in nessuno dei due schieramenti: fa parte dei paesi Brics, ma ha una bilancia commerciale sbilanciata sul fronte USA-UE. E come il Brasile, sono molti altri i Paesi esportatori di materie prime a cui non gioverebbe affatto una così netta regionalizzazione dei commerci internazionali.

Eppure, sta sempre più crescendo una dottrina economica sostenitrice del sovranismo economico, che rifiuta la globalizzazione e il libero scambio e che spinge invece al protezionismo, al ricorso ai sussidi statali e al forte accentramento dello Stato. L’idea di base di questa “homeland economy” è di de-globalizzare il più possibile, rendendo così “resiliente” la propria economia da qualsiasi shock esogeno, che sia di matrice geopolitica, sanitaria, tecnologica o ambientale.

I sostenitori della Homeland economy sostengono dunque il reshoring, in tutte le sue declinazioni (backshoring, nearshoring, friendshoring), ovvero quel processo che vuole far rientrare le aziende che avevano portato la produzione fuori dai confini nazionali, nello stato di origine o in stati vicini per confini, o similari per orientamenti geopolitici ed economici.

Rimane però un problema di fondo: la dinamica dei costi globali tende ad esplodere nel momento in cui gli scambi internazionali seguono logiche di de-globalizzazione.

Non solo, soprattutto per lo schieramento occidentale, la mancata disponibilità di molte materie prime, una manodopera ancora molto costosa e il costo di riallocazione dei sistemi produttivi comportano sacrifici economici incalcolabili e inaccettabili in un contesto già gravato dall’esplosione del debito pubblico.

Il costo della homeland economy appare così inconciliabile e difficilmente giustificabile in termini economici: la posizione (soprattutto) europea appare molto simile a quel “vaso di coccio tra vasi di ferro” di manzoniana memoria.

Usa e Cina appaiono troppo distanti dal continente europeo, con i primi a far man bassa dei sussidi esteri globali e i secondi avvantaggiati dalla ricchezza di materie prime disponibili internamente o nel continente africano, dove sono stati fatti massicci investimenti.

La storia si ripete sempre, ma il prezzo sale ogni volta (William Durant).  Come dopo un periodo di progresso scientifico a livello internazionale, tra le due guerre mondiali si scatenò una fase di diffidenza internazionale e politiche economiche autarchiche come reazione, oggi, nel 2023, un nuovo contesto bellico si sta scatenando economicamente. Con una differenza sostanziale però: oggi il mondo è molto più interconnesso di allora e sarà molto più arduo emanciparsi di colpo dai Paesi utilizzati per una massiva produzione fino a ieri, e l’anello delle materie prime va maneggiato con cura, perché se si dovesse spezzare, l’intera catena internazionale dei rifornimenti ne uscirebbe sconvolta.

E al continente europeo, questo scenario potrebbe fare davvero molto male.

L’impatto economico della follia di Hamas

Il 7 ottobre sarà un nuovo triste “giorno della memoria” per il mondo intero.

Cercando di accantonare un attimo l’aspetto umano, provo a delineare gli impatti economici di questa nuova guerra in atto. Si è immediatamente parlato di crisi energetica e shock petrolifero, anche attingendo alla vasta letteratura riveniente dalle storiche guerre in cui fu coinvolto Israele: su tutte quella del Kippur di ottobre 1973.

Uno degli effetti collaterali legata a quella guerra fu una impennata del prezzo del petrolio, con una punta del +300% tra il 1973 e il 1974 e il rimando dei nostri genitori che ci raccontavano delle domeniche a piedi in una Italia deserta.

Anche con l’avvento al potere di Khomeyni nel 1979 (rivoluzione iraniana) il petrolio ebbe delle forti impennate, ma relativamente minori grazie alla pronta riorganizzazione delle politiche energetiche tra occidente e produttori mediorientali.

Abbiamo sperimentato anche una recentissima crisi energetica nel 2022, con lo scoppio del conflitto ucraino e le ripercussioni nefaste sui prezzi delle materie prime che hanno esacerbato il livello di inflazione e dunque innalzato il livello dei tassi, soprattutto in Europa.

Questo è la sintesi di fondo. Fermandoci all’analisi dell’area mediorientale ci sono però delle sostanziali differenze rispetto ai conflitti del passato. Premessa importante (e collegata al momento in cui scrivo), le implicazioni economiche dipenderanno dall’estensione del conflitto. Se la portata della guerra rimarrà regionale allora sarà improbabile che avremo impatti duraturi sui prezzi del petrolio e del gas, se invece altri paesi arabi si unissero al conflitto (su tutti l’Iran), allora gli effetti sarebbero su scala globale.

L’Iran è tra i maggiori produttori al mondo di petrolio, ma soprattutto controlla lo Stretto di Hormuz, da cui passano il 20% delle forniture internazionali giornaliere. Un suo coinvolgimento nel conflitto potrebbe far crescere il prezzo del petrolio, ma questo determinerebbe anche una recessione globale, che a sua volta ne soffocherebbe rapidamente la domanda. Non solo: rispetto alle crisi petrolifere passate, gli Stati Uniti sono diventati esportatori netti di petrolio e non importatori. Avere la maggior potenza industriale meno coinvolta dagli impatti economici, limita l’estensione del danno.

C’è un’altra ragione puramente economica che spingerebbe ad una efficace soluzione diplomatica. Ci sono due paesi arabi molto coinvolti dalla situazione, ovvero Arabia Saudita e Qatar. Della posizione ambigua del Qatar se ne parla un po’ ovunque, tuttavia, sono soprattutto i sauditi (almeno per ora) a trovarsi in un pericolosissimo impasse: da una parte potrebbero soppiantare la produzione di petrolio iraniana se questi dovessero attuare un embargo, dall’altra parte un prezzo del petrolio in clamorosa ascesa (ovvero ben sopra il limite psicologico dei 100 $ al barile) determinerebbe un effetto boomerang, poiché molte economie industrializzate cercherebbero fonti alternative al petrolio, determinando un dissesto per le finanze statali saudite.

Non solo. Ci sono almeno altri quattro elementi che alimentano il livello di incertezza in questo conflitto. Il primo si chiama Russia, che si guarda bene di inimicarsi il mondo arabo, ma contestualmente ospita una delle comunità ebraiche più numerose in patria. La Russia ha evidenti interessi che il conflitto israeliano si protragga il più a lungo possibile per costringere gli USA in dispendiose campagne belliche, ma soprattutto, per esporla al rischio di rivalsa del mondo arabo.

Il secondo siamo noi europei, ormai molto frastornati economicamente e politicamente da questi 2 conflitti negli ultimi 2 anni che non hanno fatto altro che indebolirci internamente e a livello internazionale. Per ora ci siamo limitati a sospendere gli avviati progetti di finanziamento per l’area di Gaza. La nostra debolezza è tuttavia palese.

C’è un terzo elemento prettamente economico che in parte giustifica il nostro tergiversare politico europeo: nel corso degli anni “l’oro nero” ha perso progressivamente peso nel mix energetico; oggi è la quotazione del gas che può avere forti ripercussioni economiche e quindi sociali. Nei primi giorni del conflitto, la chiusura delle piattaforme israeliane di Tamar e Ashkelon aveva determinato un incremento del +30% del prezzo del gas sul TTF (il mercato di riferimento per il gas in Europa). Probabilmente la situazione in atto consiglia la cautela, almeno e soprattutto per noi italiani, che per non farci mancare nulla, nel 2022 abbiamo prontamente sostituito il gas russo con quello algerino. Sì, proprio l’Algeria che ha prontamente condannato la reazione bellica di Israele e ha espresso “piena solidarietà al popolo palestinese”.

Ho scritto però che sono quattro gli elementi da considerare. L’ultimo non ha radici economiche, ma solo ideologiche ed è il più pericoloso. Abbiamo ancora negli occhi quelle tremende immagini del popolo israeliano trucidato e del popolo palestinese bombardato. Questa spettacolarizzazione della morte è probabilmente la strategia adottata da Hamas per spostare il conflitto su ragioni ideologiche e attivare cellule dormienti di fanatismo religioso. Siamo reduci da un decennio di terrorismo e sappiamo bene il prezzo pagato in termini di vite umane e libertà individuali. Stiamo probabilmente rientrando in una fase oscura della nostra esistenza, a prescindere dai vinti e dai vincitori. Vincere una guerra allora non basterà più. Sarà più importante organizzare e subito la pace.

De-Dollarizzazione: chimera o realtà? (2 di 2)

Breve riassunto della puntata precedente: sempre più Paesi emergenti stanno cercando di trovare una alternativa all’egemonia del dollaro come valuta internazionale di riferimento, sia per motivi geopolitici che commerciali.

Per ora il risultato è ancora piuttosto modesto, ma sappiamo che una valanga può innestarsi anche da una palla di neve: nel settore del petrolio la Cina ha già avviato contratti internazionali in renmimbi e l’ultimo summit allargato in Sudafrica dei Paesi emergenti ha testimoniato una certa volontà di smarcarsi dal pesante fardello del biglietto verde. Si era anche detto che la fine del dollaro non dipenderà da una sostituzione con una nuova valuta dominante, ma piuttosto per uno sgretolamento dell’attuale sistema dei pagamenti internazionali.

Fine del prologo.

Perché il ruolo del dollaro allora, solo nel tempo, dovrebbe sbiadirsi? Perché stiamo assistendo a una caduta del dollaro fra le valute di riserva (sceso al 47% nel 2022 rispetto al 70% di quindici anni fa). La Cina, (come confermato dalla vendita shock di qualche giorno fa) sta diminuendo sensibilmente il suo stock di titoli USA in valuta (nel 2023 è sceso del 35% rispetto al valore di 10 anni fa) ed è il Paese che ne accelera maggiormente il processo.

Ma il dollaro soffre anche la grande performance dell’oro, che sta tornando al suo ruolo di commodity regina, favorita dal susseguirsi degli ultimi sviluppi geopolitici. Sempre la Cina lo sta comprando in grandi quantità, raggiungendo il quinto posto a livello mondiale. (Per nostra curiosità, l’Italia è in quarta posizione per riserve auree). Sono prevalentemente le banche centrali artefici di questa crescita e il trend sembra destinato a continuare anche per il futuro.

Una altra ragione è che la bilancia commerciale USA è da tempo in rosso: secondo un vecchio insegnamento imparato sui banchi dell’università, quando un’economia ha più da vendere che da comprare, la sua moneta allora sarà desiderata in quanto chiave d’accesso per ottenere le sue merci, ma vale anche il viceversa. E a differenza degli Usa, i Brics hanno invece una bilancia commerciale in surplus: se fossero in grado di organizzarsi in maniera efficace, potrebbero davvero costituire un problema per il dollaro.

La loro debolezza tuttavia sta, almeno ad oggi, nella necessità di dover coinvolgere Paesi dalla pessima reputazione finanziaria per poter fare massa critica: quale investitore terzo si sentirebbe tutelato nell’affidare i propri scambi o i propri risparmi ad una valuta rappresentativa dell’Argentina o dell’Egitto, dell’Etiopia o dell’Iran?

Faccio un esempio al riguardo. Se io ho un credito in dollari che per qualche ragione mi viene contestato, a proteggere i miei diritti ci sarà la giustizia americana, quindi uno Stato di diritto. Se io ho un credito in renminbi cinese e io dovessi incontrare qualche problema dovrò affidarmi ai tribunali cinesi. Auguri… Se lo avessi in pesos argentini, oltre alla giustizia locale a cui affidarmi, dovrei sperare che l’inflazione nel frattempo non mi abbia del tutto mangiato il valore del denaro da incassare (per la cronaca nel 2023 l’inflazione argentina è cresciuta del 113% circa a/a). Doppiamente auguri…

C’è anche un altro esempio che racconta bene la fragilità di questo club anti-americano in formazione: l’India sta comprando petrolio e gas russo a prezzi scontatissimi e pagandoli in rupie indiane. Ora, l’India è uno Stato di diritto, ma la rupia indiana ha scarsa utilità globale. Quando i russi incassano quelle rupie, moltissimi paesi le rifiutano, così i russi dopo aver svenduto la loro merce (energia in questo caso) all’India sono anche costretti a comprarsi prodotti indiani, di cui magari non hanno stretta necessità, per ri-utilizzare la valuta ricevuta. Se avessero ottenuto dei dollari anziché delle rupie, li avrebbero potuti utilizzare come volevano.

Insomma, che piaccia o meno, questa dittatura del dollaro è destinata a durare ancora per un po’, perché è molto conveniente per tutti.

Ma come tutte le dittature (illuminate o meno) si fondano su processi di controllo accentrati ed assolutistici.

Essere esclusi dal circuito del dollaro equivale, ancora ad oggi, ad una forte menomazione economica perché condanna all’emarginazione. Le sanzioni decise dagli USA hanno infatti il dono della “extra-territorialità”, cioè il loro impatto va ben oltre il continente americano (come ad esempio l’espulsione dal circuito Swift) e devono essere applicate e replicate da tutti i Paesi aderenti a quel sistema (anche se magari non ne condividono le ragioni).

E se questo fa davvero arrabbiare i Paesi del club anti U.S.A., fa arricciare il naso anche a tutti quei Paesi fondati su solidi sistemi democratici, necessariamente allergici a qualsiasi forma di tirannia. Anche quella monetaria…

De-Dollarizzazione: chimera o realtà? (1 di 2)

Si sente sempre più spesso parlare di de-dollarizzazione, ossia quel processo sostenuto da alcuni Paesi che vorrebbero ridurre e/o sostituire il dollaro come valuta internazionale di riferimento. Dallo scoppio del conflitto ucraino il tema si è infiammato. Ma siamo davvero vicini al crepuscolo del “biglietto verde” come valuta egemone a livello mondiale?

Lo dubito fortemente. Ma non per una imperitura supremazia della economia americana rispetto alle altre, ma per altre ragioni che qui provo a motivare.

Breve tuffo nel passato: già negli anni ’60, il generale francese De Gaulle cercò di contrastare l’egemonia del dollaro, come pure, anche la nascita dell’Euro avrebbe voluto se non soppiantare, almeno ri-equilibrare il peso tra le due valute a livello internazionale.

Sappiamo già come è andata a finire. Ora il coraggioso ardire è soprattutto affidato a un gruppo di Paesi, originariamente identificati nell’acronimo BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), ai quali si sono aggiunti, di recente, altri 6 Paesi emergenti (Argentina, Iran, Arabia su tutti).

C’è una grossa ragione geopolitica dietro a questo intento: spodestare il primato del dollaro contrasterebbe anche il primato internazionale economico e finanziario degli USA.

Tuttavia, il dollaro, a mio parere, rimarrà ancora egemone per un po’ di anni a livello mondiale almeno per quattro ragioni: 1) è la moneta con maggiore stabilità al mondo; 2) l’economia statunitense rimane ancora la più importante in ambito internazionale; 3) gli USA sono una superpotenza militare ed economica che tutto il mondo occidentale riconosce e 4) una eventuale valuta alternativa risentirebbe ancora troppo della debolezza dei suoi stati sostenitori.

Andiamo con ordine.

Il dollaro è stabile. Rappresenta tra il 60% e il 70% delle riserve monetarie mondiali, il 40% delle transazioni bancarie avviene in dollari; l’88% delle operazioni commerciali è in moneta USA. Se è vero che il dollaro non è più ancorato all’oro (fine del sistema aureo indiretto), la sua quotazione è definita tuttavia in dollari, come pure il prezzo dell’altra commodity di riferimento: il petrolio.

Certo, la Cina è il Paese che sta cercando maggiormente di indebolire questa leadership. Ad esempio, essendo uno dei maggiori importatori al mondo di petrolio (e questo spiega molto dell’appoggio alla Russia nel conflitto ucraino) ha avviato il sistema “Petroyuan, finalizzato ad aumentare il valore dell’utilizzo del Renminbi cinese nei mercati internazionali. E ha trovato subito nell’Arabia un valido alleato.

Anche la Russia, (ça va sans dire), è direttamente coinvolta nel processo di de-dollarizzazione più per necessità che per volontà: è stata obbligata ad uscire dal sistema di pagamento internazionale SWIFT e ha visto il congelamento delle riserve di dollari detenute dalla sua Banca centrale.

In aggiunta a questi 3 colossi, anche altri Paesi minori hanno iniziato a sottoscrivere nuovi trattati commerciali utilizzando monete sostitutive. E questo non può essere ignorato.

Però, per dirlo con le parole del premio Nobel Krugman, “il dominio del biglietto verde non durerà per sempre, perché nulla è eterno, ma il clamore sulla de- dollarizzazione è molto rumore per quasi nulla: il dollaro domina perché non ci sono ancora alternative valide”. Margaret Thatcher, più pragmaticamente avrebbe sintetizzato il tutto con l’espressione “TINA” (there is no alternative).

L’egemonia del biglietto verde nel tempo potrebbe allora scemare, non tanto per l’emergere di una nuova super potenza mondiale, (come molti sostengono indicando la Cina), ma più per una normale frammentazione dei sistemi di pagamenti, dove, a seconda dei settori, una valuta potrebbe essere più idonea di un’altra.

Ma questo lo vediamo meglio la prossima volta. Devo andare velocemente a fare la spesa e spendere i pochi euro rimasti prima che definitivamente perdano valore schiacciati da valute che diverranno, nel tempo, molto più importanti…

Achtung Deutschland!

C’era una volta il modello di efficienza teutonica: l’industria tedesca era trainante per tutta l’Europa, le loro macchine erano sinonimo di eccellenza e una giovane donna guidava un continente, mostrando invidiabili doti di leadership e rappresentando un fulgido esempio di parità di genere al mondo intero.

Oggi, dopo un decennio di grande successo (dal 2010 al 2020) contraddistinto da forte crescita, aumento dell’occupazione e forti avanzi della bilancia commerciale, la “locomotiva” si è di colpo grippata. L’export è in preoccupante calo, gli investimenti nell’immobiliare (nuove abitazioni) sono crollati, la persistente inflazione (ancora al 6,4%) deprime il consumo dei privati, l’indice PMI è stabilmente negativo, confermando la sfiducia sul futuro, da parte degli imprenditori tedeschi.

Il Fondo Monetario Internazionale ha già sentenziato una crescita di Berlino nei prossimi cinque anni ben più lenta rispetto agli altri Paesi industrializzati e lo stesso Cancelliere Scholz, per ironia della sorte con una vistosa benda sull’occhio per un incidente domestico, ha ammesso nell’ultimo G20, non senza qualche imbarazzo, che “l’economia tedesca può fare di più”.

Tecnicamente la Germania è già in recessione economica dallo scorso inverno e non sembrano esserci alcuni segnali di ripresa.

Ma come ci si è arrivati?

Ci sono, a mio avviso, almeno 3 ragioni e sono tutte di natura strutturale, più che congiunturale. Quindi è anche peggio.

In primis, l’errore strategico di legarsi “mani e piedi” all’energia russa (lato import) e al mercato cinese (lato export), in secundis (e in parte è una diretta conseguenza), il ritardo nell’adozione di tecnologie verdi, e da ultimo, un persistente arretramento infrastrutturale (sia fisico che digitale).

Cominciamo dal primo punto: la guerra ucraina ha mandato in frantumi l’intero modello economico basato su una industria che, per anni, ha goduto del ‘doping’ dell’energia russa a basso costo. Il Paese si è trovato in una paradossale situazione: meglio salvare l’economia nazionale o la faccia e il prestigio (almeno a livello politico) internazionale?

La Germania è infatti un paese estremamente energivoro: venendo meno l’approvvigionamento di gas russo, non avendo energia nucleare e ancora una bassa produzione di idrogeno è necessario ripensare l’intero modello industriale, con intere filiere che devono essere ridotte, o peggio riconvertite e/o delocalizzate.

Cosa che sta già succedendo: per rimanere competitivi, i colossi tedeschi stanno spostando intere filiere dove i fattori produttivi costano di meno, oppure abbondano i sussidi. Si aprono così fabbriche negli USA (per beneficiare dei sussidi dell’Inflation Reduction Act), ma anche in Marocco (per il basso costo del lavoro), o persino in Cina (la Basf ha appena annunciato un investimento di 10 miliardi di euro).

La prestigiosa industria automobilistica (secondo punto) è la grande zavorra dell’economia tedesca: rappresentando una lobby molto influente ha rallentato per anni l’adozione di nuove tecnologie verdi, godendo del petrolio a prezzo stracciato. Ora però è in clamoroso ritardo sull’auto elettrica. E ha scommesso troppo sulla Cina: Volkswagen lì fa il 40% dei profitti, Mercedes e Bmw il 30%. Peccato però che la Cina, nel frattempo, abbia sviluppato modelli elettrici più performanti ed economici e sia contestualmente leader mondiale del mercato delle batterie elettriche.

Infine,(terzo punto) l’eccessiva austerità tedesca (ovvero un livello di investimenti pubblici spesso minore rispetto al fabbisogno) ha determinato un marcato ritardo nella digitalizzazione. A ciò si aggiunga un set infrastrutturale di autostrade e ferrovie piuttosto datato: l’obsolescenza del sistema ferroviario sta mortificando anche gli investimenti nell’alta velocità. Sfatiamo qui anche qualche mito: la Germania ha uno dei peggior ranking continentali in termini di puntualità dei treni, tanto da ricevere questa estate un reclamo formale da parte della Svizzera, per i continui ritardi nelle linee tra i due paesi.

Non aiutano neppure altri due fattori, quali: 1) la burocrazia che rallenta l’avvio di nuovi business (120 giorni è in stima l’iter autorizzativo, il doppio della media europea) e 2) la piaga demografica, con circa due milioni di pensionati previsti nei prossimi cinque anni.

La Commissione Europea ha appena rivisto (al ribasso) le previsioni economiche dei paesi leader, assegnando alla Germania la maglia nera per il 2023 e 2024.

Nonostante le evidenti criticità, già confermate anche dalla BDI (l’omologa della nostra Confindustria) nessun politico in Germania si azzarda a parlare di “grande malato d’Europa”, anzi, il governo è molto sicuro che il pacchetto di sgravi da 7 miliardi di € all’anno per le PMI sarà la panacea del malessere economico.

Non ci resta che attendere, ma non cadiamo nella retorica del sorrisetto di “umano contrappasso”: se Berlino piange, l’Europa non ride.

Poveri ma belli

Da sempre nel mondo ci chiamano il BelPaese, riconoscendoci un primato internazionale in termini di clima, arte, cultura, storia, cibo, gusto, fascino etc etc…

Ma da sempre gli stessi nostri ammiratori, si trasformano in feroci detrattori, descrivendoci come un popolo dedito all’arte di arrangiarsi, rumoroso, inaffidabile, senza amor di patria (salvo quando gioca la nazionale di calcio, “Elio e le storie tese” docet…) e profondamente afflitto da problemi economici irrisolti.

I Francesi hanno riassunto nell’espressione “Oh, les Italiens…” una sintesi perfetta di ammirazione e commiserazione, desiderio e distacco, ma spesso il nostro noto proverbio “chi ha i denti non ha il pane, chi ha il pane non ha i denti” ci è sembrato il miglior modo per giustificarci e guardare altrove.

E così abbiamo sempre guardato al di là delle Alpi, idealizzando mondi perfetti e ricchissimi, terre piene di opportunità per il nostro grande talento inespresso.

Soprattutto la motivazione economica è quella che ha spinto sempre più giovani (me medesimo per un periodo della mia vita) a varcare il confine per cercare soddisfazioni più in linea con le proprie aspettative e mettersi alle spalle uno scenario di ristrettezze ed involutivo.

C’è del vero, per carità, ma a giudicare dall’ultimo rapporto Eurostat sul livello di povertà in Europa, forse qualcosa, in Italia, sta cambiando.

No, non mi sto riferendo a chi ci ha promesso che avrebbe “abolito la povertà”, con l’introduzione del tanto discusso reddito di cittadinanza. Mi riferisco piuttosto alla diminuita percentuale di popolazione costretta a rinunciare a beni, servizi e attività sociali per ragioni finanziarie. In altre parole, tutti coloro che sono a rischio di povertà estrema ed esclusione sociale. A livello comunitario, questo indicatore viene chiamato deprivazione materiale e sociale” e sembrerebbe che negli ultimi sette anni in Italia si stia fortemente riducendo. O per dirla in altri termini e confrontandoci con gli altri 2 maggiori Paesi europei (Francia e Germania) da noi si sta riducendo sensibilmente, mentre da loro è in forte aumento.

Sembrerebbe che sulla sua riduzione abbia finalmente inciso più la crescita dell’economia, degli investimenti, dei redditi e dell’occupazione, che il ricorso a misure di assistenzialismo.

Raffino ulteriormente il concetto: la “severa deprivazione materiale e sociale” ovvero l’incapacità da parte di un individuo di soddisfare almeno 7 dei 13 fabbisogni «basici» indicati dall’Eurostat, nel 2015 era pari al 12,1% in Italia, contro il 5,7% della Germania, il 6,8% della Francia. Dopo 7 anni, l’Italia è scesa al 4,5%, (valore più basso di sempre), la Germania è salita al 6,1% e la Francia al 7,5%.

Cito allora le “13 situazione estreme dell’indigenza” in maniera sequenziale, ma non esaustiva: 1) non poter sostenere spese impreviste, 2) non potersi permettere una settimana di vacanza all’anno fuori casa, 3) non potersi permettere un pasto completo almeno una volta ogni due giorni, 4) non poter riscaldare l’abitazione; 5) avere ritardi nei pagamenti di mutui, affitti o finanziamenti, 6) non avere una macchina di proprietà, 7) non avere internet, 8) non potersi comprare abiti nuovi, 9) non avere almeno due paia di scarpe, 10) non avere una piccola somma settimanale per esigenze personali, 11) non poter sostituire mobili danneggiati, 12) non poter avere attività di svago a pagamento, 13) non poter incontrare familiari e/o amici una volta al mese per un momento conviviale fuori casa. Sono indicatori che possono essere contestati, ma di fatto consegnano una immagine dell’Italia in forte risalita nel contesto continentale, anche se ci rimangono eterni problemi irrisolti, come il netto divario esistente tra nord e sud, la massiva economia sommersa del Paese, ma soprattutto un livello di povertà (non di estrema indigenza come appena visto) ancora molto preoccupante: circa un italiano su 5 è ancora a rischio di povertà, (cioè con un reddito netto inferiore al 60% di quello mediano nazionale).

C’è ancora molta strada da fare, insomma. Ma un percorso virtuoso, soprattutto in alcune aree come il Nord-est e il Nord-Ovest (il cui tasso di deprivazione sociale sembrerebbe essere tra i più bassi di tutta Europa) è stato già ampiamente avviato.

Rimaniamo (per ora) con la nostra dignitosa povertà e il nostro fascino internazionale, sperando di poter raggiungere presto nuovi traguardi ancora più ricchi di bellezza. In tutti i sensi…

Nemo propheta in patria

Ammetto che ero tra coloro che prefiguravano scenari abbastanza foschi, o per lo meno di nervosismo estremo, sulla tenuta del nostro spread italico nei confronti del teutonico Bund.

Del resto, gli ingredienti per una sua rapida impennata c’erano tutti: la fine degli acquisti dei titoli italiani da parte della BCE, la fine dei prestiti agevolati “Tltro” alle banche italiane (che non potranno più abbuffarsi di btp), i ritardi sul PNRR (con le inevitabili lamentele europee), le minacce di Moody’s, il giudizio di Goldman Sachs di preferire i Bonos (titoli di stato spagnoli) ai Btp, la crisi energetica, la guerra, le cavallette…

E invece… e invece il bello degli stereotipi è che esistono per essere contraddetti. Il nostro spread, almeno ad ora, gode di ottima salute, inchiodato stabilmente sotto i 200 bps, con punte di tensione a 220-230 bps in rari momenti negli ultimi 3 anni e comunque, ben lontano dall’epocale 575 bps del novembre 2011, nel pieno della crisi del debito sovrano.

Siamo finalmente diventati un Paese affidabile a livello internazionale?

Non esageriamo. Non mi farei (ancora) travolgere da facili entusiasmi, ma cercherei le ragioni di questo successo in alcune sacrosante evidenze.

Prima di tutto, tra le tante virtù del nostro popolo, resiste quella che ci descrive come grandi risparmiatori.  E così, il tormentato contesto dei mercati finanziari degli ultimi 3 anni ha spinto molte famiglie italiane ad abbassare il livello di rischio nei propri portafogli e affidarsi ai “vecchi e cari Btp”, ritornati attraenti dal rialzo repentino dei tassi e anche a costo di rimanere “intrappolati” nell’investimento per 5 o 10 anni.

Il saldo netto della compravendita di titoli di stato delle famiglie italiane, nel solo ultimo anno (aprile 2022- febbraio 2023, ultimo dato disponibile) è stato positivo per 72,5 miliardi di €, più che compensando il mancato riacquisto dei titoli scaduti da parte della BCE.

E il successo dell’ultimo BTP Valore, chiuso con una domanda record di 18,1 miliardi € conferma ancora di più il processo di trasferimento in atto del debito italiano in mani private e domestiche.

Ma le buone notizie potrebbero non finire qui: molti investitori istituzionali (soprattutto internazionali) sono tuttora scarichi di “rischio-Italia”: lo stock di debito pubblico italiano in mano loro è sceso da 658 miliardi di € di giugno 2022 a 615 miliardi di € di gennaio 2023 (fonte BankItalia). E’ abbastanza logico pensare, visti i rendimenti in essere, che tale divario vada a scomparire nel prossimo futuro, sostenendo così (e di fatto) lo spread.

Possiamo allora cantare fieri l’inno?

Calma. C’è ancora una incognita che potrebbe “confermare o ribaltare completamente la situazione” (cit.).

Si chiama PNRR e dal suo rispetto delle scadenze ci giochiamo buona parte della nostra credibilità interna, internazionale e sui mercati finanziari. Ma preferisco non sbilanciarmi con alcun commento. Del resto e come già visto… “nemo propheta in patria”…

A tutto debito

Si era già approfondito nella scorsa puntata di come il BelPaese viva spericolatamente e da anni con un altissimo debito pubblico, seppur, allo stesso tempo, sia particolarmente virtuoso in termini di debito privato, occupando l’ambitissima ultima posizione nei Paesi dell’eurozona. Quando si parla di debito, è infatti bene distinguere tra debito pubblico e debito privato, il primo è riferito allo Stato, il secondo a famiglie e imprese: dalla somma di questi due settori, rileviamo il vero indebitamento totale dell’economia di un Paese e il reale senso di preoccupazione che ne dovrebbe derivare.

La fotografia che emerge dall’ultimo rapporto dell’ IIF (Institute of International Finance) sul debito globale al primo trimestre 2023 è piuttosto preoccupante e vanifica i progressi annunciati pochi mesi fa nel rapporto di fine anno.

La fredda cronaca: l’ammontare complessivo del debito contratto nel mondo da Stati, imprese, banche e famiglie ha superato i 300.000 miliardi di $ (il record di sempre è a 304.900 miliardi di $), in crescita di 8.300 miliardi nel solo primo trimestre 2023. A soffiare sul fuoco del debito complessivo ci sarebbero prevalentemente i Paesi emergenti per la prima volta nella storia sopra i 100mila miliardi.

Quanto dobbiamo preoccuparci? I fronti di rischio ci sono e sono molteplici. Una buona parte di questo indebitamento è piuttosto recente: nel 2020 e nel 2021 per affrontare l’emergenza pandemica i Paesi hanno fatto ampio ricorso alle politiche fiscali. Ma anche le restrittive politiche monetarie delle Banche centrali stanno complicando lo scenario. L’accesso al credito si fa sempre più difficile, ma le famiglie consumatrici, soprattutto quelle americane ed europee, non intendono cambiare il loro tenore di vita, (almeno così sembrerebbe per ora), scatenando di fatto un corto circuito pericolosissimo: si indebitano di più, non calano i consumi, l’inflazione rimane alta e le banche centrali sono costrette a “rincorrere” la situazione, con continui rialzi dei tassi. E le prime avvisaglie di tensione si sono già parzialmente verificate con la crisi delle banche regionali americane.

Ci sono però anche altri rischi che aumentano il livello di guardia: l’invecchiamento della popolazione, l’aumento dei costi sanitari e le notevoli lacune nei finanziamenti per il climate change continuano a mettere sotto pressione i bilanci pubblici di tutte le principali economie mature.

In più, per non farci mancare nulla, il fragilissimo contesto geopolitico ha costretto i maggiori Paesi occidentali ad uno stanziamento extra in termini di spese per la difesa, che ovviamente gravano sul debito pubblico.

Anche la stabilizzazione del rapporto debito globale su Pil mondiale (ad oggi attorno al 335%) non induce all’ottimismo: l’esplosione dell’inflazione ha di fatto gonfiato il valore nominale del PIL e quindi ridotto automaticamente il rapporto. Senza questo livello di inflazione così alta, per dirla in parole povere, sarebbe molto più in accelerazione. (Per carità, il rapporto a marzo 2021 era anche arrivato al 361%, ma depurato, appunto dell’effetto inflazione).

È dunque un epilogo mesto ad attenderci? Dipende. Rispetto alla grande crisi del 2008, il rafforzamento del sistema creditizio è decisamente evidente e più rassicurante. Concentrandosi solo sugli USA ad esempio (da dove poi tutto partì…), le istituzioni finanziarie americane rappresentano un debito pari al 78% del Pil, molto inferiore al livello del 110% della crisi del 2007-2008. E questo, come detto, è un ottimo punto di partenza. Ma temo che ancora una volta la risposta dovrà arrivare proprio e ancora dagli USA, dove la recente apertura dell’amministrazione democratica per trovare soluzioni condivise con l’opposizione sul tetto al debito pubblico, fa pensare che, parafrasando Flaiano, la situazione è davvero grave, ma anche seria (semicit.)

Italia una Repubblica fondata sul debito pubblico

Ricordo fin dai tempi dell’Università l’espressione tra il serioso e lo smarrito di un mio stimato professore di scienze delle finanze che ci spiegava il rapporto tra debito pubblico e pil.

Già allora il debito era nettamente superiore al PIL e ricordo la sua fronte corrugata nell’illustrarci le modalità con cui il nostro Paese sarebbe dovuto rientrare nei limiti richiesti dalla Unione Europea. Nulla di quanto allora spiegato (o sperato) è mai accaduto.

La faccio più semplice: alla fine della 2° guerra mondiale, la spesa pubblica italiana era equivalente agli odierni 20 miliardi di euro. Oggi è di circa mille miliardi di euro. Non ci vuole un corso universitario per comprendere che è cresciuta di 50 volte in 77 anni. Alla stessa stregua, il nostro PIL era equivalente a circa 150 miliardi di euro nel 1945 ed oggi vale circa 1.900 miliardi di euro. Il rapporto di crescita è questa volta di 12,5 volte. E già qui qualcosa dovrebbe seriamente spaventare.

Qualcuno potrebbe obiettare che siamo in buona compagnia. Certo. Secondo l’ultima comunicazione Eurostat (gennaio 2023), il rapporto tra debito pubblico su Pil nell’area UE si è attestato al 93% alla fine del terzo trimestre 2022, rispetto al 94,2% del secondo trimestre.  La diminuzione è dovuta al maggior aumento del PIL rispetto alla crescita del debito. In Italia il debito ora è al 147,3%, (in miglioramento dal 150,4% del secondo trimestre). Tra gli altri Paesi, i rapporti più alti sono: Grecia (178,2%), Portogallo (120,1%), Spagna (115,6%), Francia (113,4%) e Belgio (106,3%).

Lo dico in altri termini: l’Italia ha un debito che è una volta e mezza superiore ai suoi ricavi.

Tuttavia, nel caso dell’Italia bisogna ricordarsi che questa crescita del debito pubblico non è mai stata graduale e costante; anzi, abbiamo avuto momenti di splendore (il boom economico degli anni ’50- ’60) e momenti di rigore (i primi anni ’90). Ma una cosa non siamo mai riusciti a fare: un bilancio in pareggio. In poche parole, non abbiamo mai smesso di indebitarci.

Oggi si discute dei fondi del PNRR, dove, è opportuno ricordarlo, abbiamo preso sia i trasferimenti (grants), che gli impieghi (loans) dall’Europa. I primi sono a titolo di solidarietà, i secondi sono da ripagare, con gli interessi.  Nel frattempo, l’inflazione, scatenata da questa assurda guerra è diventata sempre più pugnace, con l’inevitabile ricorso da parte della BCE a una politica sempre più restrittiva e continui aumenti dei tassi d’interesse. Più salgono i tassi e più aumenta il costo per rifinanziare il nostro debito.

E in questo contesto così minato, suonano beffarde le parole di Moody’s che avrebbe invitato a sostituire i Btp italiani con i Bonos spagnoli. Una concatenazione di effetti che potrebbe tramortire qualunque Paese. Ripartiamo da qui allora. Mi piace essere positivo e ricordare come tutte le crisi finanziarie abbiano poi sempre giovato all’Italia e all’Europa. Così è stato nel ’92 con la crisi dello SME che accelerò l’unificazione monetaria e poi ancora nel 2008 con i mutui subprime e nel 2011 crisi dei debiti sovrani che portarono a nuovi meccanismi di solidarietà e garanzia tra Stati e una riforma del sistema bancario internazionale, così come la pandemia del 2020 ha introdotto in Europa per la prima volta il debito comune.

Far cadere l’Italia è una strategia piuttosto miope, ma invitare l’Italia a una spesa pubblica più oculata è sacrosanto e legittimo. La politica dovrà allora ragionare per priorità e individuare quali sono i programmi da finanziare e quanto poter (o dover) coinvolgere il privato nella loro attuazione.

Ricorrere indistintamente al decifit pubblico è una leva che va utilizzata con dovuta proprietà, il rischio di perdere credibilità con chi sottoscrive il nostro debito inviterebbe per lo meno a una maggior prudenza e responsabilità.

Siamo davvero disposti a rischiare così tanto?

Il vitello d’oro che prende la rincorsa

Riassunto dalla puntata precedente: nel 2022, anno che ricorderemo a lungo per il carico di notizie nefaste sia a livello politico, sia a livello sociale e sia a livello economico, c’è stato un piccolo mercato di nicchia che ha raggiunto i livelli più alti di sempre. No, non sto parlando del petrolio o di qualche altra “commodity” che si infiamma quando tutto va a rotoli, ma mi riferisco al piccolo mondo dell’arte da collezione, e più specificatamente, mi riferisco agli strabilianti risultati battuti (e quindi con una patente di ufficialità) dalle maggiori case d’asta internazionali. Risultati così clamorosi che hanno aggiornato molti nuovi record, sia in termini di fatturati assoluti, sia in termini di singole opere, pezzi iconici che ispirano il mutevole gusto del collezionismo internazionale.

Fine del prologo e (probabilmente) delle belle notizie. Il mercato dell’arte non è nuovo a questo genere di clamorose performance: il 15 settembre del 2008 molti telegiornali internazionali aprivano le top news della giornata con (l’allora) nuovo record per artista vivente (Damien Hirst) e con la sua opera chiamata “Il vitello d’oro” battuta per più di 200 milioni di $. Peccato che la stessa mattinata Lehman Brothers avesse annunciato più di 600 miliardi di $ di debiti, di fatto anche esso un record (ancora imbattuto) del peggior fallimento bancario della storia capitalistica e le immagini degli (ex) dipendenti che uscivano con le scatole di cartone dalla banca, avrebbero fatto in un battibaleno il giro del mondo e dato avvio alla recessione più dura di sempre, dopo quella del 1929. (Più di 200 milioni di persone disoccupate e 16 trilioni di $ di ricchezza bruciata nella sola America).

Inizialmente si pensò che il mercato dell’arte fosse immune alla grande recessione, anzi, nei primi mesi del 2009 il mercato continuò a crescere con la stessa intensità con cui gli altri mercati scendevano a capofitto, salvo poi essere travolto da una bolla speculativa che perdurò per tutto il 2010.

La domanda allora nasce spontanea: quanto di questa euforia palesata nel 2022 rimarrà anche nel 2023 e quanto le condizioni di avversità già presenti sui maggiori mercati regolamentati si riverseranno nel breve periodo anche sul mercato dei beni da collezione?

Premesso che nessuno ha la palla di cristallo e alcuni esiti geopolitici (su tutti la vicenda Taiwan) potrebbero di nuovo sparigliare le carte, “a bocce ferme”, è a mio avviso possibile aspettarsi una correzione nel corso dell’anno, ma non per forza un crollo.

Proverò a essere più chiaro. Il mercato dell’arte, per sua natura, consolida i suoi risultati con un ritardo temporale rispetto agli elementi che li determinano. Tra la fase della raccolta di una opera d’arte e la sua vendita c’è un lasso di tempo in cui c’è la catalogazione e il necessario marketing di promozione dell’opera stessa. E questo periodo di tempo può arrivare anche ad un anno. Pensiamo quante cose possono accadere in un tempo così dilatato. Questo “differimento nei risultati non è così pronunciato negli altri mercati: in tempo reale possiamo ad esempio sapere quanto quota un barile di petrolio o una oncia d’oro. I mercati finanziari, ancora di più, scommettono invece sulle aspettative future: l’anno scorso sono andati male perché hanno previsto un periodo immediatamente successivo di contrazione economica (recessione che infatti dovrebbe palesarsi quest’anno). Quindi, seguendo questo ragionamento, gli effetti negativi della contrazione economica dovrebbero ancora manifestarsi sul mercato dell’arte.

Non solo. Anche la struttura dell’offerta, nel mercato dell’arte ha sue peculiarità uniche, dipendendo dalle così dette 3 D (Death, Divorce, Debt). Fatto salvo che la prima D non possiamo noi determinarla e la seconda D sarebbe meglio evitarla, una abbondante offerta di opere d’arte si verrebbe a consolidare solo dopo un ciclo economico recessivo (debt). La faccio ancora più semplice: quando la crisi morde, chi è nella necessità, sarà più motivato a privarsi di opere d’arte per fare cassa.

E anche la domanda in questo mercato risente delle avversità economiche: se la mia azienda o la mia professione annaspa perché riscontro ritardi nei pagamenti dei miei clienti, una delle prime voci che potrei accantonare è quella del leisure&pleasure. Tornerò a comprare oggetti d’arte, viaggiare o “coccolarmi” in momenti di maggiore fiducia sul futuro economico.

E a giudicare dalle nubi grigie (non nere) che molti analisti economici prefigurano per il prossimo futuro, è logico attendersi che piovaschi intensi possano presto colpire anche il mercato dell’arte.

Sarà allora un crollo? No, non sarei neppure così tranchant. Lo sviluppo del digitale post pandemia ha accresciuto il numero di transazioni, ha allargato la base dei clienti e ha dato molto più spessore ai fatturati.

In altre parole: il mercato è cresciuto e si è diversificato a livello internazionale e sarà dunque più difficile che possa subire le speculazioni selvagge del 2010. Ma questo non significa che sia esente da ribassi. Ma anche fosse, ed è la storia di qualunque mercato destinato a durare nel tempo, quando un indice arretra dai suoi livelli di massimo è solo perché sta prendendo la rincorsa verso nuovi picchi.

Fireworks e Opacity: mercato dell’arte scoppiettante, ma rimane una scia di fumo nero

Puntuale anche quest’anno, arriva l’appuntamento con il Report, relativo all’anno 2022, “Il mercato dell’arte e dei beni da collezione: una ricerca a cui tengo molto e che porto avanti da più di quindici anni (ahia…), pubblicata con gli amici di Deloitte Private. Ricordo che il primo report era nato durante la grande crisi del 2008, dove provavo a capire se “l’arte fosse davvero un bene rifugio” e se potesse salvarsi dal crollo dei mercati dell’economia reale e finanziaria, allora in atto.

Ci sono evidentemente alcune analogie tra il 2022 e il 2008, entrambi definibili come “annus horribilis”, ma andiamo con ordine.

Mi spiace subito dare una brutta notizia a tutti coloro che si avvicinano con animo perennemente romantico all’arte: l’arte non è tecnicamente un bene rifugio, in quanto se è vero che in epoche di grandi tensioni sui mercati regolamentati, potrebbe mantenere o addirittura incrementare il suo valore, non è vero che questo valore “intrinseco” tenda a mantenersi pressoché costante nel tempo (condizione imprescindibile per essere definito bene rifugio). Anzi, l’investimento in arte è assolutamente volatile. Nel bene e nel male.

E nel 2022 (spoiler della ricerca) è stato decisamente un bene: mentre tutti i mercati crollavano sotto il peso dell’inflazione e delle tensioni geopolitiche, il mercato dell’arte registrava il suo fatturato (in termini assoluti) più alto di sempre.

Certo, sul risultato eccezionale, hanno avuto un peso determinante alcuni elementi non ricorrenti, quali i sensazionali risultati di alcune “single owner collection” (collezioni appartenute a un solo collezionista), tra cui spicca quella del co-fondatore di Microsoft, Paul G. Allen (battuta per oltre 1,6 miliardi $), e che complessivamente sono state pari a circa 2,6 miliardi di $.

Ma non solo: il perfezionamento delle strategie ibride e digitali avviate nell’immediato post Covid da un lato ed il rafforzamento delle partnership con operatori locali nei mercati emergenti, nonché il ritorno alla piena normalità nei mercati più maturi dall’altro lato, hanno favorito il raggiungimento di questi risultati record.

Provo a dirlo in maniera più semplice: gli operatori del mercato hanno saputo “coccolare” i collezionisti più consolidati che popolano usualmente le aste di maggior rilievo internazionale con una offerta di assoluta qualità (c.d. museale) e al contempo “strizzare l’occhio” a tutta una platea di nuovi collezionisti “Millennial”, arricchiti dal boom della economia digitale e caratterizzati da un diverso gusto e interesse su elementi iconici, (borse, sneaker, orologi…). Questa nuova nicchia di collezionisti è molto sensibile all’uso della tecnologia (solitamente comprano nelle aste online) e costituisce, per gli operatori di mercato, il nuovo potenziale target da fidelizzare e sviluppare per il futuro.

Se l’arte contemporanea dopo anni di primato ha ceduto lo scettro all’arte moderna (largamente rappresentata nelle collezioni record dell’anno) è anche vero che si assiste a un boom del segmento “ultra-contemporaneo”, rappresentato da artisti giovanissimi, accomunati da una pittura figurativa molto colorata, di facile richiamo sui social e particolarmente ambita da acquirenti più giovani.

È tutto oro che luccica?

Non proprio, perché se con la co-autrice del Report (Roberta Ghilardi) abbiamo individuato nella parola “fireworks” (fuochi d’artificio) la vivacità che ha caratterizzato i risultati del 2022, abbiamo altresì definito nella parola opacity” l’altra faccia della medaglia.

Un po’ come il fumo rimasto dopo l’esplosione del fuoco d’artificio, così è avvenuto nel 2022 nel mercato dell’arte: già nelle ultime aste dell’anno sono affiorati elementi di criticità, sia nel lato dell’offerta con un sostenuto uso delle garanzie; sia nel lato della domanda, in termini di maggior prudenza dei collezionisti, una complessiva riduzione della propensione al rischio ed un brusco raffreddamento dei risultati.

Inoltre, molte dinamiche sociali ed economiche in atto sembrano, almeno al momento, solo aver sfiorato il mercato dell’arte, per cui si consiglia una lettura dei risultati 2022 meno enfatica e più cautelativa.

Si rischia infatti di assistere a un “dèjà vu”: nella crisi globale del biennio 2008-2009 il mondo dell’arte aveva inizialmente resistito alla crisi che aveva messo in ginocchio le economie internazionali, per poi registrare un clamoroso tonfo appena dopo.

È anche vero che ci sono oggi alcuni elementi di salvaguardia che potrebbero decisamente attutire (l’eventuale) contraccolpo, ma per questi e altri approfondimenti, mi riservo una analisi supplementare nel prossimo N&M, lasciando ovviamente aperta la possibilità, per chi vorrà, di scoprirlo già partecipando all’evento in presenza o in streaming la prossima settimana:

https://cloud.marcom.deloitte.it/ArtFinancePresenza

Non ci saranno magari i fuochi d’artificio, ma neppure il fumo “opaco” che ne deriva…

Everything everywhere all at once

Ammaccati da tre anni di continui saliscendi sui mercati finanziari (più discese ardite, che risalite), pensavamo di avere finalmente un po’ di tregua emotiva, ma soprattutto un po’ di tempo per farci trovare pronti e in ordine, per il gran ballo della ripartenza, stimata dai più, per il secondo semestre 2023.

E invece… E invece il panico ha ancora invaso i mercati finanziari, con una combinazione assolutamente letale. America, Svizzera, Germania, tre capisaldi del moderno capitalismo, in piena sofferenza, colpite dal fallimento di banche regionali in USA, da una banca sistemica in Svizzera e dal crollo dell’emblema del credito teutonico nel mondo (Deutsche Bank).

E come in un infernale gioco dell’oca, si torna indietro di qualche casella temporale, con l’inflazione giudice e arbitro in terra del bene del male (cit). (Ri)partiamo da qui allora.

I casi di Silicon Valley Bank e Signature Bank prima, Credit Suisse e Deutsche Bank poi, sono chiari segnali di quanto siano nervosi gli operatori del mercato e di quanto appaia ancora fragile il sistema finanziario globale. Tutto discende dal livello di inflazione, solo che questa volta non scomparirà a furia di massicci rialzi dei tassi (come avvenuto negli anni ’80 per intenderci) e l’auspicio di un soft landing sta sempre più diventando un hard landing (atterreremo, ma in che condizioni)?

Perché le banche centrali da un lato non possono permettere (pena la loro credibilità) che l’inflazione si radicalizzi, ma dall’altro lato devono anche garantire la piena stabilità del sistema finanziario, compromessa da politiche monetarie ultra-accomodanti negli ultimi tempi.

Le riforme finanziarie avviate dopo il crash del 2008 hanno ottenuto importanti risultati, almeno in Europa: il capitale delle banche si è rinforzato, sono state avviate fusioni e sono stati creati players di dimensioni internazionali (con l’Italia probabilmente la migliore), frequenti stress test della BCE sono stati applicati, per capire la “resilienza” delle banche. Ma a livello internazionale rimangono vaste zone d’ombra. Comportamenti da verificare sono stati tenuti dalla vigilanza americana sulle banche regionali (deregulation) e da quella svizzera sui casi di riciclaggio. Ma questo è già storia. Il problema è che la stabilità finanziaria va preservata o sarà l’intera economia mondiale a soffrirne e i casi Bearn Stern e poi Lehman del 2008, avrebbero dovuto insegnarci quanto i mercati siano strettamene interconnessi. La mancanza di fiducia in uno o più istituti fa presto a trasformarsi in panico generale e se il panico si diffonde, la crisi mondiale è inesorabile.

Gli interventi di salvataggio per ora adottati sono stati opportuni, quanto tardivi e con difficoltà hanno arginato l’incendio, ma non l’hanno spento. Il caso di Deutsche Bank ne è un esempio.

E qui si torna al problema iniziale: come fare allora a disinnescare l’inflazione, senza causare una recessione, o peggio una crisi finanziaria mondiale?

Una banca centrale indipendente con una missione di stabilità dei prezzi è una garanzia per i cittadini di qualunque paese: deve proteggere il loro potere d’acquisto. Ma una banca centrale che forza la disinflazione con continui rialzi dei tassi, rischia di debellare la malattia (inflazione), ma uccidere anche il paziente (sistema finanziario).

Stiamo navigando in mari agitatissimi e pericolosissimi e serve molta cautela, o qualunque intervento delle autorità centrali comporterà un aumento della già estrema volatilità.

Come nel titolo del film pluri premiato agli Oscar, sta succedendo “tutto, dappertutto e contemporaneamente” e un bravo marinaio deve evitare mosse troppe brusche e spostare il timone con molta delicatezza, o la frenesia di affrontare le onde con caparbietà, rischia di trascinarci nei gorghi più profondi del mare agitato.

Il paradosso ecologico della guerra

Il mondo negli ultimi tre anni è stato funestato da due avvenimenti che hanno sconvolto le nostre esistenze: la pandemia e la guerra.

I due avvenimenti, nella loro assoluta drammaticità, potrebbero tuttavia aver accelerato due processi rivoluzionari per l’umanità intera: la transizione digitale e la transizione ecologica.

Se la digitalizzazione post Covid è ormai storia, con (semmai) dinamiche di eccessi da smart working più volte discussi in questo spazio, meno lineare ed intuitivo appare la relazione tra svolta ecologica e guerra.

Andiamo per gradi. Qualcuno potrebbe subito obiettare che la necessità di sostituire i combustili russi abbia costretto molte amministrazioni europee a riaprire miniere di carbone e mantenere le centrali elettriche inquinanti. Nessuno potrebbe negare questa evidenza. Tuttavia, secondo gli ultimi dati della Agenzia Internazionale per l’energia (IEA), nel 2022 l’economia mondiale è diventata del 2% meno energivora e grazie anche al clima più mite e l’utilizzo di strumenti a maggiore efficienza energetica, il continente europeo ( ad esempio) ha utilizzato il 6-8% di elettricità in meno rispetto al 2021.

In altri termini: l’impatto sempre più esteso di tecnologie più efficienti a livello mondiale (veicoli elettrici nella mobilità e pompe di calore nelle case) ci porterebbe ad essere ottimisti sull’avvio della nuova transizione ecologica. Inoltre, secondo l’IEA, l’attuale capacità produttiva mondiale di petrolio e gas sarebbe già satura: la Russia non può facilmente riorientare le sue infrastrutture di gas e le piattaforme petrolifere sono prive di personale e di pezzi di ricambio, dunque un forte rallentamento o addirittura stop all’attività estrattiva sarebbe imminente. Di contro, il boom dell’eolico e del solare ridurrà l’appetito per i combustibili fossili, soprattutto nei paesi più energivori e non solo in Europa. Sempre la IEA stima che persino la Cina si doterà, entro il 2025, di strutture di energia rinnovabile in grado di fornire fino a 1.000 terawattora, ( per intenderci equivale all’attuale produzione di energia elettrica del Giappone).

Questa transizione ecologica sarebbe inoltre favorita, a livello globale, dal generale calo dei prezzi dei contratti per i progetti eolici e solari fotovoltaici, sensibilmente più bassi rispetto a quelli dell’energia all’ingrosso (nella sola Europa è stato del -77% sul 2021) , da una diversa sensibilità dei consumatori sull’utilizzo di energie rinnovabili e dalla introduzione di normative molto favorevoli, tra cui, su tutte, spicca l’inflation reduction act dell’amministrazione americana.

Per capire meglio, sono in tutto 369 miliardi di $ da destinare all’ambiente nei prossimi 10 anni, e solo 69 miliardi saranno destinati ad imprese che produrranno turbine eoliche e/o batterie per veicoli elettrici. Ma non solo Usa e Cina si muovono nel solco della transizione ecologica, anche la vecchia Europa si sta attrezzando con il Net-Zero Industry Act, ovvero 250 miliardi di € per le aziende che investiranno nelle tecnologie pulite, anticipando così l’obiettivo di raddoppiare la attuale capacità solare installata nell’UE tra il 2025 e il 2030.

Quanto di questi impegni sarebbero stati adottati con questa urgenza, senza lo scoppio del conflitto ucraino? (con le note complicazioni in termini di approvvigionamenti energetici?)

Difficile rispondere, anche perché rimangono fortissime criticità.

Ad esempio, il conflitto ucraino ha fatto schizzare il prezzo di molti metalli  fondamentali per i cavi, le turbine o i pannelli solari, o, più banalmente e allo stato attuale della burocrazia europea, è difficile immaginare la progettazione e la realizzazione di grandi parchi eolici e/o solari entro il 2030.

Ma pensiamo positivo e auguriamoci davvero che con l’aumento dell’energia verde e il calo contestuale dell’uso dei combustibili fossili, le emissioni di anidride carbonica possano davvero crollare drasticamente e restituirci un mondo più vivibile e pulito. Possibilmente anche più sereno e finalmente in pace, quello sarebbe il vero successo.

La Trappola di Tucidide

Dopo un anno di assuefazione agli orrori di questa assurda guerra e non avendo velleità da statista, provo a mettere un po’ di ordine (senza la presunzione di riuscirci) nella ridda di informazioni che giornalmente leggiamo o sentiamo sugli effetti economici del conflitto.

Degli effetti sulle economie occidentali se ne è già ampiamente parlato, con i casi limite di Germania e Italia, emblemi di una pessima politica che ha preferito affidarsi  completamente al gas russo, soffrendo poi di una inflazione da offerta devastante e dovendo andare a reperire e strapagare il poco gas disponibile, in giro per il mondo.

Spesso però leggiamo che l’economia russa sia vicino al tracollo. È davvero così? Limitandoci alla mera analisi numerica, la risposta è no. Il Pil russo è in affanno, ma non è agonizzante. Dopo un 2021 molto vivace (+4,7%), il PIL russo chiuderà negativo di circa il -2,0% e il -2,5%, un risultato allineato al -2,7% del periodo Covid del 2020.

E le previsioni per il 2023 dei maggiori organismi internazionali (FMI, Banca Mondiale, Banca di Russia) oscillano tra il -0,5% e il -4%, ovvero, una situazione difficile, ma non impossibile per un Paese che è in guerra e in un contesto internazionale pre-recessivo.

Allora le sanzioni occidentali non hanno funzionato? No, neppure sostenere questo sembrerebbe corretto. La Russia non è l’Iran, la Libia o l’Iraq, ovvero, rimane il Paese con la maggiore dotazione di risorse naturali al mondo (petrolio, carbone, gas, oro, terre rare…), per cui è difficile falcidiare un gigante del genere. Molti analisti sostengono che la Russia potrebbe continuare a cannoneggiare per altri 3 anni, senza avere grossi problemi economici.

Tuttavia… tuttavia l’insieme dei pacchetti di sanzioni messi in atto dall’Occidente ( più Giappone e Corea) stanno fiaccando l’economia russa e nel lungo termine, le difficoltà non potranno che aumentare, determinando una possibile instabilità sociale e quindi politica.

È vero che i Paesi che stanno crescendo più velocemente nel mondo non sono, almeno attualmente, contro lo Zar (Cina, Turchia, Paesi Arabi e India su tutti), ma è anche vero che stanno sfruttando a loro vantaggio la debolezza della Russia, che ha perso il suo principale mercato europeo e che è costretta a svendere l’oil&gas a prezzi scontati e con contratti di fornitura a volumi ridotti.  Qualche numero: la Cina è diventata il primo partner commerciale russo e ha annunciato un obiettivo di approvvigionamento di circa 88 miliardi di metri cubi di gas nel 2030. Peccato che solo nel 2021 la fornitura con l’UE fu di 154 miliardi di metri cubi. Un bel divario insomma.  Bisogna poi re-inventare la logistica: la differenza la fa ancora una volta la presenza di infrastrutture, ad oggi tutte orientate verso l’Europa (pensiamo al North Stream ad esempio).

Ma sono soprattutto gli embarghi occidentali sulla lavorazione dell’oil a minacciare il futuro russo: il tetto di 60 $ sul prezzo del barile imposto alla Russia costa circa 170 milioni di $ al giorno. Considerando che il prezzo (nonostante il taglio annunciato a Putin della produzione) si sta assestando sotto i 50 $, è chiaro che così diminuiscono anche le entrate fiscali legate all’energia (già -46% rispetto a gennaio 2022). Non il massimo per un Paese che deve sostenere gli ingenti costi della guerra.

Infine, la Russia si ritrova nell’impossibilità di accedere alle riserve in oro e valuta detenute presso le banche centrali di Europa e Stati Uniti. E la Banca centrale Russa deve dare fondo alle sue riserve valutarie per sostenere l’economia locale. Ma si arriva anche a un paradosso: la quota in yuan del Fondo sovrano Russo è stata portata al 60% e anche i futuri pagamenti di petrolio e gas saranno fatti in valuta cinese. Bene. Peccato che la de-dollarizzazione dell’economia russa, di cui Putin si mostra orgoglioso, si traduca in una sostanziale yuanizzazione, ovvero, un asservimento valutario verso la Cina. Lo yuan costituisce ad oggi il 3% circa delle riserve valutarie globali, mentre il dollaro il 60% e l’Euro il 20%. La Russia è già diventata il quarto più grande centro offshore dello yuan, ma la Cina ha bisogno di un dollaro forte per sostenere la propria bilancia commerciale, in tempi duri anche per il dragone. Un corto circuito insomma dove la domanda di yuan come valuta di riserva non indebolisce, allo stato attuale, la forza relativa del dollaro. Insomma, anche da un punto di vista economica sembra che siamo finiti in un pantano che non avvantaggia né le economie occidentali, né tanto meno quella russa. A voler pensare male, sembrerebbe che le sole due potenze che ne escono avvantaggiate da questo conflitto, sia per ragioni economiche, che di prestigio internazionale siano la Cina e gli USA.

Ma come scrisse Tucidide, storico del V secolo A.C., nella sua famosa “trappola”,  una potenza dominante tende a ricorrere alla forza per contenere una potenza emergente e la paura di perdere il primato, porta inevitabilmente allo scontro. Lo scriveva riferito a Sparta ed Atene. Auguriamoci che non sia così. O la trappola sarebbe letale. Per tutta l’umanità.

Per un pugno di PIL

Ci si è interrogati la volta scorsa se davvero il PIL rappresenti la misura selettiva e sintetica più opportuna per descrivere lo stato di benessere economico e sociale di un Paese.

E in effetti il dibattito ha già coinvolto, nei decenni, voci autorevoli di economisti e statisti. (Il Pil è nato nel 1934).

Già Kennedy sottolineava le contraddizioni del sistema economico basato su indicatori puramente numerici: “Il Pil misura tutto, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani”.

Ma ancora di più, lo stesso “inventore” (Simon Kuznets) già negli anni ’30 avvertiva della rischiosità di affidarsi ad una sola unità di misura di sintesi economica: il PIL non poteva riconoscere gli elementi qualitativi della crescita, ma soprattutto, non poteva individuare le diseguaglianze sociali che si creano nella distribuzione della ricchezza. Il Paese che in termini assoluti cresce, ma aumentando contestualmente il numero di poveri, non può essere considerato un Paese ricco.

Di politiche e indici alternativi ne sono stati proposti molti e tutti con una buona dose di ragione. Dalla well-being economy con il paradosso di Easterlin e il livello di assuefazione al benessere, all’Indicatore MEW di Tobin del 1972, dall’Indicatore ISEW, fino allo Human Development Index delle Nazioni Unite del 1990, e infine gli indicatori dell’OCSE, della Commissione Europea o di Eurostat…

Insomma, si rischierebbe di fare solo un elenco non esaustivo e solo mnemonico.

Rimane tuttavia un problema di fondo: qualunque sia il concetto di benessere individuale e sociale che si prediliga, sarà comunque e sempre più un fenomeno multidimensionale, che contempla aspetti economici e sociali.

Sebbene gli indicatori sintetici avranno sempre un grande impatto mediatico, per loro capacità di semplificare la realtà e stereotipizzare fenomeni complessi, va comunque rilevato che il nostro concetto di “qualità della vita” si sostanzia di sempre più aspetti che esulano dalla nostra capacità di contribuire alla formazione di un reddito nazionale.

Se è vero che “ciò che si misura influisce su ciò che si fa” (Stiglitz), è anche vero che “…non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow Jones, né i successi del Paese sulla base del prodotto interno lordo. Il Pil comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine settimana. […] Nel Pil ci sono gli armamenti, le carceri, […] le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle, […] i programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti pericolosi ai nostri bambini”.

Lo diceva Kennedy nel 1968, in un intervento all’università del Kansas.

Sono passati 55 anni da allora. Ho la sensazione che siamo rimasti solo “con un pugno di Pil in mano”.

Salvi per un PIL

Il bello di ogni società di consulenza, anche di quelle più accreditate a livello internazionale, è che negli ultimi anni c’è sempre stato un elemento “disruptive (distruttivo e imprevedibile) a stravolgere completamente lo scenario di partenza e dunque, le conclusioni delle loro previsioni economiche.

Covid, digitalizzazione, guerra in Ucraina, inflazione a doppia cifra: basterebbe fermarci all’ultimo triennio per averne piena conferma. E il mondo della intelligenza artificiale e del metaverso bussano già alla porta per avvertirci che siamo solo all’inizio. “Siate il cambiamento che vorreste vedere avvenire nel mondo”, proclamava Gandhi, ma temo che qui manchi completamente, almeno per gli ultimi avvenimenti, l’elemento della consapevolezza. Si subisce l’evento, non lo si determina.

E così in un mondo sempre più di difficile lettura, si fa fatica a credere a previsioni economiche che superino il prossimo biennio. Un anno fa, ad esempio, l’autorevole centro di ricerche Cebr era uscito con uno studio che aveva fatto molto discutere, in cui, per sommi capi, si sanciva il superamento dei 100 trilioni di dollari del Pil Mondiale nel 2022, il contestuale primato della economia cinese su quella americana nel 2030 e la forte tenuta della economia russa nelle prime 10 economie mondiali nel prossimo decennio.

Pochi giorni fa è uscito un aggiornamento alla ricerca, un bel po’ più pessimista sul futuro dell’economia mondiale, (prevista tecnicamente in recessione), e un bel po’ più preoccupato sulle dinamiche inflattive e sugli effetti dei repentini rialzi dei tassi in atto.

Colpevoli, manco a dirlo, delle loro errate previsioni di un anno prima, sarebbero le “banche centrali, molto lente nel rendersi conto della portata dei problemi inflazionistici di cui avevamo avvertito”. Per lo meno, (sembrerebbe) che ci avessero avvertito.

Nel nuovo scenario, la Cina dovrà aspettare ancora un bel po’, prima di superare in termini di PIL gli USA (2036), ma soprattutto la Russia comincerà ad avvertire il peso delle sanzioni occidentali nei prossimi anni, assistendo a un costante e irreversibile declino. Consola il giudizio sull’Italia, che soffrirà sia per gli effetti di politiche monetarie molto severe (che peseranno sul debito pubblico) e sia per la eccessiva inflazione da offerta (per le miopi politiche di approvvigionamento passate), seppur in un contesto di sostanziale salute della economia domestica.

Insomma, ci salveremo “per un PIL” anche questa volta.

Ma in tutte queste previsioni che si susseguono e naufragano in un batter d’occhio al primo elemento imprevisto, forse e dico forse, non ci siamo mai chiesti se abbia davvero senso voler continuare a ricondurre il nostro concetto di futuro benessere sociale con un solo numero di sintesi. Ma questo, se vorrete, lo vedremo la prossima volta…

Goodbye 2022: non ci mancherai

È arrivato (finalmente) il momento di salutare questo balordo 2022, che ricorderemo nei libri di storia molto complesso dal punto di vista sociale, politico ed economico.

Un anno che cominciava già traballante per l’onda lunga della pandemia, ed è stato da subito offeso dallo scoppio della guerra in Ucraina, con tutte le relative conseguenze sull’economia e sulle catene di approvvigionamento globali, che hanno determinato livelli di inflazione ormai dimenticati nei decenni e livelli dei tassi che hanno sfiorato i massimi storici.

Così i mercati finanziari sono andati a picco, e con essi pure l’emotività di ogni investitore (dai piccoli risparmiatori ai grandi veterani del mercato).

Le continue significative sorprese al rialzo della dinamica dei prezzi hanno portato a livelli di inflazione non toccati dagli anni ‘70-‘80. Le banche centrali sono tornate ad essere i veri protagonisti della scena internazionale, sfidandosi a singolar tenzone in una pericolosa, quanto tardiva sfida all’ultimo rialzo dei tassi. Ha vinto la Fed, ’di corto muso’ (cit.) sulla BCE.

E stato un anno in cui abbiamo imparato a nostre spese la differenza tra inflazione da domanda (come quella americana) che ha pagato tutti gli eccessi di stimoli fiscali del 2021, da quella da offerta (come quella europea), che si è scatenata per miopi scelte passate sull’approvvigionamento energetico e ha catapultato di colpo il vecchio continente alla “canna del gas”. Purtroppo non in senso metaforico.

Poco distante nel Regno Unito abbiamo visto gli effetti della Brexit che si fa sentire sulla stabilità del paese e in Cina quelli di un regime totalitario, dove l’intransigenza nella politica di ‘tolleranza zero’ verso il Covid ha impedito il raggiungimento degli obiettivi di crescita. Salvo poi fare un dietrofront clamoroso, ma tardivo, nel finale di anno.

Usciamo dunque tutti piuttosto contusi e confusi da questo folle e sventurato anno e la domanda che tutti ci poniamo è allora cosa aspettarsi dal 2023.

Le previsioni sono sempre difficili, soprattutto dopo un anno così catastrofico, tuttavia, penso che dovremo con serenità accettare un futuro di recessione economica, che potrebbe non essere per forza spaventosa come quella del 2008.

Il raffreddamento dei consumi, a seguito dell’incremento tassi è un effetto che sapremo accettare, soprattutto se non dovesse impattare troppo sui nostri stili di vita. L’obiettivo di riportare l’inflazione al 2% nei prossimi 2 o 3 anni è una valida motivazione per evitarci nel futuro altre e nuove montagne russe.

Già… la Russia. Dalle future scelte politiche di questo territorio, dipenderanno, principalmente, le possibilità di anticipare o posticipare il nostro recupero economico.

Per chi suona la campanella

Sta per suonare la campanella di un anno assurdo e un po’ come si faceva a scuola, nelle ultime ore delle lezioni finali, tra il vociare generale della classe esausta e i richiami ormai affievoliti di qualche professore, provo a fare il resoconto (economico) di quanto accaduto.  Parto da una constatazione (ma lo scrivo piccolo piccolo e lo dico sottovoce): gli ultimi 2 mesi di questo balordo 2022 portano un po’ più di speranze per il prossimo anno.  Negli ultimi mesi abbiamo scalato picchi di tensioni geopolitiche, picchi di inflazione e picchi dei tassi di interesse. Bene. Ora, dopo così tanta salita, concediamoci la gioia della vista dalla vetta e auguriamoci di poter tornare, prima o poi e in sicurezza, a valle.

A livello internazionale il contesto politico sembra un po’ più rassicurante: gli USA hanno avvertito una lieve scossa nelle elezioni di Mid Term, ma non di certo il terremoto da molti paventato. La Cina sta sperimentando nuove forme di ascolto da parte del Governo, che (finalmente) accoglie l‘esasperazione della popolazione per le restrizioni Covid. Persino nella nostra casa europea, si sta trovando (con molta fatica) un accordo sul prezzo dei fattori energetici.

A livello macro-economico, le economie rallentano, ma non si schiantano e l’ipotesi dell’atterraggio “morbido” della inflazione prende sempre più campo. Un dato ci viene in aiuto: nell’ultima recessione globale (2008) erano 6.000 le aziende americane che fallivano ogni mese, oggi, a parità di tassi di interesse, il numero si ferma a 2.000. Un bel divario, in effetti. In Europa la produzione industriale cala, ma l’occupazione e gli utili aziendali rimangono robusti.

A livello di mercati finanziari, quelli azionari vorrebbero lasciare le zone gelate del “mercato orso” e su quelli obbligazionari splende finalmente il sole dopo un anno di buio assoluto.

Ma il rischio valanghe è sempre dietro l’angolo ed è ancora una volta rappresentato principalmente dal fattore geopolitico: siamo pur sempre in alta montagna e basterebbe un refolo di vento per cambiare radicalmente la situazione. Un grosso cirro minaccioso dal nome esotico di Taiwan ci fa ancora trattenere il respiro, come pure, la situazione in Ucraina potrebbe degenerare in un attimo con l’uso di armi non convenzionali.

Non vorremmo neppure pensarci, eppure il 2022 ci ha insegnato che “l’assurdo” può ancora (raramente) accadere. Ma rimaniamo positivi e vediamo allora cosa ci sta lasciando questo anno. Personalmente, vedo due cose.

In primis, la imprevedibilità del nostro agire umano: la guerra fra Russia ed Ucraina ha sconquassato il nostro concetto di diritto internazionale e ha stravolto qualsiasi aspettativa di crescita economica. E così abbiamo riscoperto parole desuete come inflazione, stagflazione e recessione. E ne avremmo fatto anche a meno.

In secundis, in un mondo che si riaffacciava timidamente al “new normal”, abbiamo anche compreso che il desiderio di riprenderci la vita, di spendere, di viaggiare, di consumare sia stato e rimarrà più forte di qualsiasi livello di inflazione. E limiterà gli effetti di una probabile recessione. Ripartiamo allora da qui, consapevoli che avremo ancora qualche giornata di faticoso e impegnativo cammino, prima di raggiungere il fondo valle. Ma anche agli studenti danno sempre dei compiti per le vacanze, un attimo prima della campanella di fine anno…

 

Permacrisis e il Mito di Prometeo

Permacrisis: a leggerla così, con questo suono così ruvido, già si intuisce qualcosa di insidioso. E in effetti, secondo il dizionario Collins, questa è la parola che meglio rappresenta questo anno così balordo. Il neologismo in questione è dato dalla crasi di permanent (esteso, continuo, duraturo) e “crisis (instabilità, insicurezza). La parola migliore, dunque, per riassumere in un vocabolo quanto successo negli ultimi 12 mesi: dalla guerra in Ucraina, al cambiamento climatico, dal caro bollette alla pandemia ancora in essere, dall’instabilità politica (e qui gli anglosassoni sono diventati maestri) al maltempo, dall’escalation militare all’inflazione galoppante.

Dimenticato qualcosa? Può darsi. Rincuora solo che non si vedono ancora cavallette all’orizzonte e asteroidi volanti nell’universo. Permacrisis, a voler essere pignoli, non è del tutto una novità: coniato negli agitati anni ’70, solo oggi trova sua definitiva consacrazione. Ne avremmo fatto anche a meno. Ma è risultata la migliore definizione di questo anno così difficile e ci ha messo poco a sbaragliare la concorrenza delle altre parole in lizza. Tra le altre, (ma molte si riferiscono ad avvenimenti tipicamente legati alla società britannica), ne spiccano due, che, a mio avviso, ne sentiremo presto parlare: sportwashing e Warm Bank.

La prima si riferisce alla sponsorizzazione di eventi sportivi al fine di migliorare una pessima reputazione, o distrarre la opinione pubblica da modelli culturali controversi. Ho come la sensazione che sempre più Paesi “border line” si faranno promotori della diffusione dei sani valori dello sport, organizzando competizioni a livello internazionale.

La seconda invece indica un edificio pubblico come biblioteche, o scuole, dove le persone che non possono permettersi di pagare le bollette andranno a riscaldarsi. Temo allora che il mito greco di Prometeo, per cui “la cultura è il fuoco della conoscenza, sia stato un po’ travisato.

Trento libera nos a malo (2 di 2)

Breve riassunto dalla puntata precedente: l’Italia non sa fare più figli, di conseguenza diminuisce sostanzialmente di anno in anno la base dei lavoratori attivi, ovvero, coloro che permettono agli anziani di ricevere la pensione, allo Stato di erogare i servizi e in generale alla comunità di vivere mediamente bene. È necessaria una inversione di tendenza poiché si è dimostrato che la vitalità demografica è la variabile più impattante sul benessere sociale ed economico di qualunque Paese: in Italia le cose vanno male perché siamo in ritardo un po’ su tutto, dall’uscita dal sistema scolastico, all’ingresso nel mondo del lavoro, fino al diventare genitori. In questo scenario parecchio desolante, tenuto faticosamente a galla, almeno nel passato, da copiosi flussi immigratori, (che tuttavia hanno determinato problemi sociali di integrazione), c’è una piccola provincia in controtendenza a farci ancora sperare: Trento. Fine del prologo. Trento è una provincia autonoma, e quindi gode di maggiori risorse, ma poiché tutte le altre regioni a statuto speciale hanno avuto risultati allarmanti di denatalità, non è un problema di dotazione. Il problema è di cultura sociale. Vediamolo. Nella provincia del Concilio, si sono potenziati i servizi per l’infanzia, ad esempio istituendo una capillare rete di asili nido comunali e familiari (Tagesmutter), le politiche di welfare a carico delle aziende e non da ultimo, gli aiuti economici alle famiglie con figli, con la introduzione della “dote finanziaria giovani e natalità” , ovvero la  possibilità di ottenere un contributo alla nascita (o adozione) di figli, volto all’estinzione totale o parziale di prestiti bancari contratti con le banche convenzionate. E i numeri parlano chiaro: nella provincia trentina, è cresciuto un orientamento familiare positivo. Negli ultimi dieci anni, le famiglie con 3 figli rappresentano già il 15% delle coppie con discendenti, rispetto alla media nazionale del 10%.  L’ Istat, per il prossimo quinquennio stima per la provincia trentina un numero di nascite che da poco più di 4mila all’anno passerebbe a 5mila nello scenario mediano e  supera persino le 6mila in quello più favorevole, (+50% circa di crescita nelle migliori delle ipotesi!). Non da ultimo, se cresce il numero dei figli, cala anche il numero dei c.d. Neet (Not in education, employment, or training), ovvero quei giovani che non studiano e non lavorano e questo numero è già sensibilmente più basso rispetto alla media nazionale. Guarda caso, anche il tasso di occupazione femminile è non solo il più alto in Italia, ma allineato con i migliori standard europei. Trento rappresenta quindi una eccellenza continentale, ma soprattutto dimostra che con un po’ di programmazione, possiamo “ripopolare” il Paese. Cruciali allora saranno i prossimi cinque anni per 2 ragioni. La prima è che abbiamo una clamorosa occasione con i Fondi Next Gen Eu (spendibili entro il 2026) e la seconda è legata all’evoluzione della struttura demografica: più il tempo passerà senza invertire il trend e più diminuirà la base di popolazione in età riproduttiva. Che allora l’esempio di Trento ci liberi da questo male e speriamo che induca sempre più amministrazioni “alla tentazione” di volerne importare o copiare il modello. Mica si fa peccato…

Trento libera nos a malo (1 di 2)

339.431. No, non sto dando i numeri, ma sono stati i nuovi nati in Italia nel 2021 (fonte Istat). Ogni numero va spiegato però, se vogliamo capirne gli effetti. Spoiler: abbiamo un grosso problema in Italia, le nascite continuano a diminuire (-12% sul 2020), si vive sempre di più (e questa è una buona notizia) e si assiste ad un crollo della popolazione in età lavorativa. “Beh, si lavora di meno e si vive di più, cosa volere di meglio?”, potrebbe obiettare qualcuno. Ma la situazione non è esattamente favorevole. Nel 2021 si è toccato il numero più basso di sempre di nuovi nati della nostra storia Repubblicana. Se i nuovi nati continueranno a diminuire (e contestualmente aumenterà la componente anziana), qualunque flusso migratorio, seppur rilevante, non potrà mai compensare il numero in diminuzione dei lavoratori attivi, ovvero, coloro che permettono agli anziani di ricevere la pensione, allo Stato di erogare i servizi e in generale, alla comunità di fruire del benessere sociale ed economico. Si sperava che durante il Covid, nella costrizione delle mura domestiche, le giovani coppie italiane trovassero più tempo per un po’ più di intimità, ma purtroppo, un anno dopo, sembra che la ricca offerta delle numerose pay-tv abbia prevalso. Il neo-costituito Ministero della famiglia e della natalità dovrà presto invertire la rotta e probabilmente dovrà cominciare favorendo l’occupazione giovanile e soprattutto quella femminile. Non è una scelta ideologica. La natalità non potrà aumentare fino a che rimarrà bassa l’occupazione femminile. In altri termini, fin quando prevarrà la sensazione di incertezza economica e di precarietà, le donne e i giovani in generale ritarderanno scelte genitoriali. Serve anche un nuovo patto scuola-lavoro: devono aumentare le opportunità di immediato inserimento. Se i giovani conquistano prima e in maniera stabile l’autonomia economica, formeranno prima la famiglia e si sentiranno più responsabilizzati all’interno della società. Quando divenni padre, qualcuno mi disse che avrei lavorato di più, perché investito da una nuova responsabilità. Aveva ragione. La vitalità demografica è il più importante indice del dinamismo sociale ed economico di un Paese. Altro che PIL!… Le conseguenze, altrimenti, e nel caso italico sono scontate: con una popolazione attiva in costante calo sarà più difficile ripagare il nostro debito pubblico. E minor teste significa anche minori consumi, dunque minori investimenti, dunque minore produzione, dunque minor occupazione. Un circolo vizioso da cui non se ne esce. Con l’aggravante che non solo il sistema pensionistico andrebbe in forte tensione, ma anche il sistema sanitario non potrebbe più erogare una assistenza essenziale garantita a tutti. Le politiche demografiche sono investimenti, non costi. Abbiamo l’opportunità di utilizzare le risorse di Next Generation EU in asili nido/scuole, in aiuti per le giovani coppie per l’acquisto della casa, in finanziamenti per l’imprenditoria giovanile e femminile, o bonus bebè. Se non lo faremo, l’auspicato aumento del numero medio di figli per donna non compenserebbe comunque la minor natalità dovuta alla riduzione delle potenziali madri. È statistica, purtroppo. Nella desolante fotografia appena rappresentata, c’è tuttavia un punto di luce rappresentata dalla piccola Provincia di Trento, dove invece il saldo di natalità è in costante crescita negli anni. Bollenti ardori, o programmazione? La seconda. Come il 3 novembre del 1918 Trento fu “liberata” dagli Italiani, a distanza di 104 anni potrebbe essere proprio l’esempio di Trento a salvare l’Italia. Come? Beh, lo vediamo la prossima volta…

Adda passà a nuttata (2 di 2)

Ci eravamo lasciati due settimane fa con l’interrogativo che un po’ sta attanagliando tutti: “ma quanto durerà questo caro bollette?”, l’inflazione sarà un nostro sgradito ospite, come nell’ economia italiana degli anni ’80?”. Spoiler: è solo una questione di tempo, non di risultato. Qualche serie statistica ci può aiutare. Da inizio secolo ad oggi, la maggiore economia mondiale (USA) ha affrontato ben 16 periodi recessivi. Con quello che sta per sopraggiungere saranno 17. La Banca centrale americana (FED) ha mediamente impiegato dai 16 ai 24 mesi per riportare l’inflazione ad oscillare nel range desiderato (nel passato era il 3%, negli ultimi anni è il 2%). C’è un caso che ha molte analogie con il presente: nel 1974, l’inflazione arrivò al 12,3%, (ora è circa al 8,2% in USA e tra il 7% e il 10% nei Paesi leader in Europa), sospinta da una crisi energetica che fece impennare il prezzo del petrolio. In quel caso ci vollero 24 mesi per riportarla sotto controllo. Come allora, anche oggi l’inflazione da offerta si è innescata con lo shock energetico. Fine delle “buone” notizie. Ci sono tuttavia anche forti differenze con allora. 2 principali. La prima è che la tanta liquidità immessa nel sistema da generose politiche monetarie (quantitative easing) e fiscali (per fronteggiare l’epidemia da Covid) degli ultimi anni, ha gonfiato gli asset finanziari: il loro repentino calo testimonierebbe allora un riallineamento tra i valori dell’economia reale e quella finanziaria. La seconda è che l’impazzimento del prezzo del gas, soprattutto in Europa potrebbe essere mitigato solo da scelte condivise tra i vari Paesi sul price cap, ma se non si dovesse arrivare a tale accordo, la situazione è destinata a peggiorare e anche drammaticamente. Come se ne esce? Temo, almeno nel breve, male. Purtroppo, le banche centrali di riferimento (in generale) possono fare ben poco su una inflazione da shock energetico. Però sono/saranno costrette ad usare il bazooka dei tassi, per raffreddare l’economia e abbattere l’inflazione. Qualcuno sostiene che sarebbe bastato alle banche centrali saper “andare di fioretto”, l’anno scorso, alle prime avvisaglie di inflazione. E, con il senno di poi, è vero. Ma nessuno ha la macchina del tempo per tornare indietro nei tanti episodi nefasti di questo anno balordo. “Adda passà a nuttata”. Per quanto potrà essere lunga e fredda, poi arriva sempre la luce calda del sole e ricomincia un nuovo giorno.

Adda passà a nuttata (1 di 2)

La domanda più frequente che mi sento fare in questi giorni sull’attuale situazione economica mondiale è: “ma per quanto tempo durerà?”. I più ottimisti pensano che dovremo soffrire ancora questo inverno, poi epocali cambiamenti geopolitici porteranno la pace nel mondo e un livello dei prezzi finalmente normalizzato a livello globale, i più pessimisti, invece, rivivono la memoria della crisi petrolifera del ’74, e (qualcuno) arriva a sentenziare che è l’inizio di una era di decrescita infelice. Non ho doti divinatorie, ma per mia natura rimango ottimista, almeno basandomi sullo studio dei cicli economici.  Però, qualche approfondimento va fatto. Dopo il Covid il nuovo virus da combattere a livello mondiale si chiama inflazione. È un problema per tutti e di tutti e chi sostiene che alcuni Paesi si stiano avvantaggiando dalla guerra in corso, confonde forse i maggiori incassi realizzati dalla vendita di risorse energetiche, con lo svantaggio (comunque superiore) di un costo della vita divenuto insostenibile. E infatti per contrastare questo virus un ruolo essenziale lo giocano le banche centrali che alzano i tassi di interesse, non rinnovano le obbligazioni  di proprietà arrivate a scadenza e drenano la liquidità (si chiama quantitative tightening), nei Paesi dove hanno giurisdizione. Sono tutti tecnicismi, ma non è questo importante. Da inizio anno si contano complessivamente più di 90 rialzi dei tassi a livello mondiale: un numero che non ha precedenti nella storia economica e destinato a superare abbondantemente la centinaia per fine anno. Il meccanismo è semplice: il rialzo dei tassi comporta un aumento del costo del denaro, proprio per scoraggiare l’accesso al credito da parte dei consumatori e/o altri soggetti economici e dunque raffreddare la domanda aggregata e il livello globale dei prezzi. E questo è quello che si fa sulla cosiddetta inflazione da domanda. C’è però anche una altra inflazione (da offerta) legata all’aumento dei prezzi di determinati beni “sentinella” (su tutti materie energetiche e alimentari), su cui le banche centrali possono fare poco: un individuo ha la necessità di scaldare casa e/o mangiare, a prescindere dai prezzi di queste materie. In realtà, se le banche centrali sapranno raffreddare opportunatamente l’economia come indicato prima, questa potrebbe entrare in recessione, e, a un minor livello di consumi aggregati, si assocerebbe un minor livello di produzione industriale, quindi minor energia da consumare e prezzi di questi fattori in forte contrazione. Insomma, si potrebbe partire da sopra, per sistemare il problema anche sotto. Ma torniamo a bomba. Quanto tempo ci vorrà per riportare l’inflazione al livello del 2%, ritenuto come quel livello di inflazione buono e fisiologico che non danneggia il reddito disponibile delle famiglie consumatrici? Per ragioni di spazio risponderò la prossima volta, ho la forte certezza che sarà ancora un tema di forte attualità. E in fondo, questo potrebbe essere già un primo importate indizio…

Il brivido di chiamarsi Italia

Ogni volta che il nostro Paese è chiamato alle urne, i mercati finanziari, con precisione chirurgica, innescano una speculazione, forse a ricordarci che la costante incertezza politica del Belpaese è poco gradita, anzi è scarsamente tollerata. L’attuale scenario delle elezioni anticipate, in un contesto internazionale già caratterizzato dalla guerra in Ucraina, dall’impennata del prezzo del gas e dal diffuso rialzo dei tassi di interesse suonerebbe come un “de profundis” per qualsiasi paese, ma siamo in Italia, “il pericolo è il nostro mestiere”, ed è proprio nelle situazioni più estreme, che troviamo, solitamente, soluzioni.

Esiste dunque un rischio Italia? Ovvio che sì, considerando che la tempesta per essere perfetta, prevede anche che entro fine anno, l’Italia e il suo futuro governo dovranno dare risposte convincenti all’Europa sull’utilizzo dei fondi del PNRR, ovvero come attuare quel piano di riforme urgenti e necessarie per dare un minimo di futuro ai nostri figli, possibilmente in questo Paese. Messa giù così, non verrebbe neppure voglia di giocarsi questa partita e i mercati finanziari, che hanno la brutta abitudine di voler sempre anticipare il futuro, stanno già dando chiare indicazioni: lo spread (BTP-Bund) è schizzato più del 60% da inizio anno, mentre la borsa italiana ha perso quasi il 20% da gennaio, facendo peggio del resto d’Europa. Eppure… Eppure, nonostante tutti questi fattori, l’economia italiana, al momento, tiene ancora: l’Istat (a settembre) ha rivisto al rialzo le stime del PIL del secondo trimestre al +4,7% su base annua e anche il Fondo Monetario Internazionale aveva (a luglio) aumentato le previsioni di crescita per il Belpaese. L’Italia sembrerebbe andare meglio rispetto all’altre economia dell’Eurozona, pur soffrendo maggiormente i rischi di un peggioramento sull’approvvigionamento energetico. E allora guardiamo al futuro, al governo che si formerà e che dovrà affrontare un periodo di eccezionale difficoltà. Si sono sentite molte promesse elettorali su tagli di accise, abbassamento di età pensionabile e bonus a pioggia per contrastare il caro vita. I mercati finanziari tendono tuttavia ad essere estremamente realisti e poco inclini alla fascinazione di fantastiche narrazioni da propaganda elettorale. Possono farlo, non fosse altro perché circa il 30% del debito pubblico italiano è in mano a soggetti non residenti (la Banca d’Italia ne ha circa il 25%). A giugno, il debito pubblico ha toccato il livello record di 2.766 miliardi di euro. Considerando che i tassi di riferimento non potranno che crescere ancora, è palese che anche il costo degli interessi che lo Stato italiano dovrà riconoscere è in aumento. Serviranno politici bravi a guidare il Paese in questo momento così difficile. Confidiamo in loro, ma anche nel nostro proverbiale “stellone italico”. Mi sa che ne avremo bisogno…

Era meglio Spasskij contro Fisher

Abbiamo tutti timore ad ammetterlo, ma le evidenze sono piuttosto palesi: lo scontro tra la Russia e l’Occidente ha scatenato una nuova Guerra Fredda, che potrebbe protrarsi nel tempo o terminare dopo questo inverno. Le conseguenze geopolitiche ed economiche (su cui proverò a concentrarmi) cominciano a delinearsi, senza che sia chiaro, almeno al momento, il vincitore. È necessario però fare un passo indietro nel tempo. Mi si perdonerà l’estrema sintesi: durante la Guerra Fredda del XX secolo, la contrapposizione tra Occidente (Usa e suoi alleati) e Unione Sovietica determinò una corsa agli armamenti, che inizialmente non intaccò i livelli di crescita economica dei 2 Paesi. Tra gli anni ‘50 -‘60, le due economie crebbero di circa il 4% medio annuo, (considerando anche la recessione del ’54), poi, la crisi petrolifera degli anni ‘70, un’economia stagnante a livello globale, le massicce spese militari e il sopravvento del modello capitalistico determinarono la caduta dell’economia sovietica e la formale disgregazione dell’URSS nel 1991. Contestualmente, gli USA superarono i difficili anni ’70, anche grazie a una felice influenza commerciale con i partner europei. È probabilmente da allora che la Federazione Russa abbia covato un forte sentimento anti-occidentale, soprattutto nei confronti degli USA. Arriviamo allora ai giorni nostri. Il conflitto regionale tra Ucraina e Russia è immediatamente deflagrato a livello mondiale per il blocco di materie prime energetiche ed alimentari da parte di Putin. Oggi ci troviamo in un delicatissimo bivio della storia. La Russia ha potuto strozzare l’economia dei Paesi “ostili” (cit.), riducendo o sospendendo di colpo le forniture di energia e causando sconquassi a livello mondiale, che hanno colpito anche gli odiati rivali americani, che seppur autonomi in termini di fabbisogno energetico, hanno risentito, in termini inflattivi, del prezzo energetico completamente impazzito su scala globale. Questo sta determinando un indebolimento del potere d’acquisto delle famiglie consumatrici (soprattutto occidentali), per cui è lecito pensare che seguirà una forte contrazione dei consumi e dunque una recessione economica, in un contesto internazionale già provato da due anni di pandemia mondiale. La Russia, ad oggi, ha saputo compensare le minori esportazioni di gas, con l’aumento dei loro prezzi, ma il fattore tempo rischia di esserle fatale. Infatti, al di là della propaganda, le sanzioni occidentali hanno sempre più isolato la Russia, che soprattutto in ambito tecnologico è fortemente carente.  Inoltre, le spese militari continuano incessanti (nel passato le furono fatali) e non da ultimo, se l’economia globale dovesse entrare in recessione, i prezzi dell’energia diminuirebbero al pari della sua domanda, strozzando, per contrappasso, chi la crisi l’ha determinata per arricchirsi. La Russia si gioca il tutto per tutto questo inverno: se l’Europa non cederà al suo ricatto energetico, a costo di subire gli effetti di una dolorosa recessione, non avrà più risorse per finanziare la guerra, con le conseguenze sulla catena di comando del Paese, che ne deriverebbero. Nel 1972, in piena guerra fredda, ci fu la cosiddetta “sfida del secolo” per l’aggiudicazione del titolo mondiale, tra i due scacchisti più talentuosi di allora (Spasskij e Fisher), il primo russo (che difendeva il titolo) e il secondo americano. Vinse il secondo e la vittoria travalicò l’interesse della sola comunità scacchistica, ma anzi assunse clamore mediatico a livello internazionale. Oggi rivisitiamo drammaticamente le modalità di una finale di scacchi, questa volta tra Russia e Europa, ma con Usa e Cina interessati spettatori. Chi sbaglierà la prima mossa, sa che perderà la partita. E purtroppo questa volta non si assegna un titolo mondiale, ma il nostro diritto all’esistenza.

A tutto Gas

Difficile non farsi delle domande, guardando l’anomalo (per usare un eufemismo) andamento dei prezzi del gas nel nostro continente, da quando il conflitto ucraino è scoppiato. Per carità, ci saranno ragioni ben più profonde a giustificarlo, rimane tuttavia il sospetto che ci siano posizioni troppo distanti tra gli stessi Paesi che hanno appoggiato le sanzioni economiche nei confronti della Russia. Per dirla con altri termini, l’inverno freddo che ci aspetta e la probabile recessione economica che ci colpirà, saranno molto meno fastidiosi in alcuni Paesi europei e molto più drammatici in altri. Da dove si comincia? Da un aspetto tecnico: il prezzo del gas è regolato, per usare termini finanziari, da contratti “future”. Se penso che il prezzo salirà comprerò il future, se penso che scenderà lo vendo ora. La grossa differenza rispetto ad altri beni trattati su altri mercati regolamentati è che non devo materialmente possedere il gas: alla scadenza del future, sarò tenuto a incassare o pagare la differenza che per quella data il prezzo gas avrà toccato, rispetto ad oggi. Già da qui si capisce che il mercato non è solo popolato da chi ha poi bisogno di utilizzare la risorsa energetica, ma è affollato da speculatori che giocano solo su questo differenziale di prezzo. In un contesto internazionale completamente impazzito, come quello odierno, il famigerato e sottile (limitato per numero contratti) mercato Ttf di Amsterdam è diventato il luogo ideale per creare inenarrabili speculazioni. Pochi operatori possono creare un disagio a milioni di famiglie europee, che vedono le loro bollette crescere senza logica. “È il mercato bellezza” (cit.), ma qualcosa non torna. Guardiamo la sola Europa: 3 Paesi (Norvegia che è paese NATO), Olanda e Ungheria (membri della UE) stanno pesantemente beneficiando della speculazione in atto. L’Ungheria ha giacimenti di gas, ma non ha aumentato la sua produzione, la Norvegia (altro grande produttore) condivide il piano militare contro la Russia, ma non intende essere solidale con gli altri europei sul gas, anzi, ultimamente ha pure rallentato i flussi verso l’Europa. L’Olanda, per ovvi motivi è quella meno interessata a soluzioni per calmierare il prezzo del gas (price cap). A pensar male si fa peccato, però la tanto ostentata solidarietà comunitaria sta naufragando negli egoismi dei singoli e la spaccatura tra chi diventerà molto più povero e chi molto più ricco è sempre più netta. C’è infine un altro aspetto decisamente beffardo che testimonia la nostra debolezza politica a livello comunitario: abbiamo creduto ciecamente al dogmatismo ecologico promosso da ragazzette che avevano già compreso tutte le regole del mondo, nonostante la giovane età. Abbiamo dunque sperato che la transizione alle rinnovabili fosse immediato e totale. Così in Italia, (ma anche in Germania) abbiamo smesso di estrarre gas, abbiamo ripudiato il nucleare e soprattutto le energie fossili, che ora per paradosso, dobbiamo comprare a prezzi folli, alimentando proprio la speculazione di cui siamo succubi, arricchendo per contrappasso, soprattutto quei Paesi che non si sono mai posti il problema ambientale, ma che ora ci costringono a firmare contratti di fornitura di lungo periodo. Per esser più chiaro: compriamo il gas che avremmo nei nostri mari e nel sottosuolo, ma a prezzi folli. C’è stata molta sfortuna, è vero, ma di certo ricordiamocelo quando qualche nuovo fanatico, riproporrà soluzioni a costo zero per il nostro benessere collettivo. Purtroppo, tutto ha sempre un prezzo: ci accontenteremmo, per quando sarà, che non sia quello del gas dei nostri giorni.

Una recessione d’azzardo

Era il dicembre del 2021: fior fior di stimati economisti internazionali predicavano cicli economici di straordinaria vitalità, l’inflazione era marginale o comunque si mostrava con picchi transitori e famelici investitori erano pronti ad approfittare di un mondo a tassi reali costantemente negativi e drogato da massicce, quanto generose, manovre di politica monetaria e fiscale. Siamo a fine giugno di una torrida estate 2022: una guerra mondiale, anche se all’apparenza solo locale, ha sconvolto le nostre coscienze e gli effetti di una inflazione persistente e rovinosa hanno minato le nostre certezze, economiche e sociali. I prezzi sono impazziti e le ottimistiche previsioni di sviluppo degli stimati economisti di prima si sono trasformate in sentenze tranchant di recessione, stagflazione, iperinflazione, insomma… foschi presagi che fanno rima con capitolazione. Eppure, è sempre lo stesso mondo di ieri. In nemmeno sei mesi siamo passati dal paradiso, (per quanto artificiale), a un inferno reale senza punti di riferimento, dove la nostra vulnerabilità è aggravata dallo strazio della guerra. Cosa succederà allora adesso? Non si ha, purtroppo, la sfera di cristallo, tuttavia, qualche anno (di eccessi) di mercati finanziari mi ha insegnato che la finanza esaspera sempre nelle performance e nel bene e nel male, quello che succede nell’economia reale. “È il mercato bellezza” (cit.). Non è scontato che assisteremo a una recessione strutturale e duratura, (quella che coinvolge anche l’immobiliare, la domanda aggregata, il clima di fiducia in generale). La pandemia e i suoi lock down prima, le sanzioni economiche e l’iperinflazione poi, hanno determinato una volatilità mai così accentuata nella gestione delle scorte. C’è solo un lavoro peggiore oggi del consulente patrimoniale: chi lavora nella direzione acquisti (procurement) di qualsiasi azienda. L’andamento delle filiere produttive è completamente imprevedibile: shock energetico, impazzimento dei noli, scarsità e impennata dei prezzi di materiali e componenti si riverberano sull’intera organizzazione e di conseguenza, sul consumatore finale. Consumatore finale che comincia ad avere problemi con un reddito eroso dall’inflazione, e di conseguenza, comincia a consumare meno, con una maggiore propensione verso le spese per i servizi (viaggi che non potevo fare prima ad esempio), rispetto alle spese sui prodotti durevoli (ho già comprato di tutto e di più quando ero chiuso in casa). È una recessione che si prevede più ciclica che strutturale: l’effetto delle generose politiche fiscali è ancora in essere, ma prima o poi questa spinta si esaurirà e si sentiranno maggiormente le conseguenze dei rialzi dei tassi, come oggi i mercati dimostrano, anticipando il futuro. Al netto di ulteriori ed eventuali cataclismi che sovvertirebbero il fragile equilibrio in essere (su tutti, penso alle possibili orde immigratorie per carestia verso le economie più sviluppate), non è ancora chiaro su quali basi il nuovo mondo ripartirà. Deglobalizzazione, nuovi equilibri geopolitici, sviluppo tecnologico, energie rinnovabili e sostenibilità saranno le 5 carte su cui si giocherà il nostro futuro e la nostra esistenza. Da come sapremo giocarle sul tavolo dipenderà il nostro successo. Basterebbe riuscire a gestirne bene almeno tre per avere un tris vincente, un trionfo sarebbe calare un poker di scelte azzeccate, ma solo una cosa si deve evitare: tenere tutte le carte in mano e pensare che sia una scelta vincente. In questo caso nessun “jolly” potrebbe più salvarci.

Casa dolce ufficio

Tutti a casa! Anzi no, tutti in ufficio! Interpretare i desiderata delle aziende sta diventando sempre più un mestiere logorante per i lavoratori di oggi. Si è scritto la scorsa settimana che anche oltreoceano la situazione è controversa: da una parte la posizione netta e tranchant di Elon Musk, padre di Tesla: “ Se non vi presenterete in ufficio, dedurremo che vi siete licenziati”, dall’altra parte invece la posizione più rassicurante e conciliante di Mark Zuckerberg, padre di Meta (un tempo Facebook) ”Un buon lavoro può essere svolto ovunque perché la presenza di video in remoto e la realtà virtuale continuano a migliorare”. E mentre lo scontro tra i due pesi massimi del nuovo sogno americano si infiamma, tutte le altre big a stelle&strisce (Google, Microsoft e Apple) cercano soluzioni più equilibrate per il proprio personale e garantire la flessibilità, nel rispetto della produttività. E in Italia? Il nostro Paese ha un sistema produttivo e un diritto giuslavoristico piuttosto diverso da quello americano, ma anche qui non mancano difficoltà nel definire la nuova normalità. Partiamo però da una constatazione: il mercato italiano non è flessibile e dinamico come quello americano. Il Ministero del Lavoro ha stimato che solo 4 milioni e mezzo (su 20 milioni complessivi) riusciranno a mantenere il lavoro agile nei prossimi mesi. Eppure in due anni di pandemia, in Italia, circa 200 lavori sono stati normati prevedendo l’impiego da casa.  Ma dal primo di settembre si tornerà alla nuova normalità, ovvero, gli accordi di smart working verranno stipulati dalle aziende su base individuale. Mancano tre mesi e la situazione appare piuttosto confusa: aziende e sindacati cercano di trovare qualche base di accordo, mentre si sente sempre più forte lo sfregolio di mani di avvocati giuslavoristi pronti ad intervenire per difendere i loro assistiti, (sia lato aziende, sia lato lavoratori), dopo aver osservato per mesi e mesi il mercato del lavoro in panchina, causa blocco dei licenziamenti. Ma il mercato del lavoro che vedremo nel frattempo è profondamente cambiato e sconta il suo atavico limite della flessibilità: reperire manodopera sembra essere sempre più arduo, non solo nei settori manifatturieri trasformati dalla tecnologia, ma anche quelli stagionali, (penso ad esempio al turismo), dove sembrano non bastare, per accrescere l’appeal del settore, le agevolazioni previste di recente dal Governo. Di sicuro, ci sarà da tirarsi su le maniche e sporcarsi per bene le mani se vorremo uscire da questa situazione. In fondo, un bagno dove poi lavarcele, che sia in casa o in ufficio, si troverà sempre…

Lavorare stanca

L’anno scorso, a novembre, si era già parlato in questa rubrica della generazione Yolo, ovvero una nuova generazione di lavoratori che ispirati dal motto (You Live Only Once) aveva deciso di fare un passo indietro dal frenetico mondo del lavoro, per dedicarsi ad attività che meglio conciliassero con la vita privata. (https://nuvolemercati.it/2021/11/15/meglio-yolo-che-mal-accompagnati/). In America la chiamarono “The Great Resignation”: un fuggi fuggi dal mondo del lavoro senza precedenti. E il fenomeno interessò tutti i Paesi più economicamente sviluppati, con un tasso di licenziamenti volontari che oscillò tra il 2% e il 3% della forza lavoro. A distanza di un anno esatto dall’esplosione di questo fenomeno e con statistiche più aggiornate alla mano, si può tracciare allora un quadro più definito. Più che di Great Resignation, sarebbe opportuno parlare di Big Turnover : non si rinuncia a lavorare, ma semplicemente si cambia il lavoro più spesso. L’esplosione della economia digitale ha determinato una maggiore flessibilità nei ritmi e anche nei contratti di lavoro. Lavorando da remoto, si ampliano le opportunità e si compilano più application, anche per aziende fisicamente distanti. Inoltre, con il lavoro ibrido, anche le relazioni tra colleghi tendono a sfilacciarsi molto più rapidamente: la pausa caffè, momento clou per confrontarsi con i colleghi sembra preistoria; la mensa aziendale non è più la roccaforte di segreti inconfessabili o il teatro ideale per rinsaldare lo spirito di squadra. L’azienda è sempre meno una seconda famiglia, anzi, una recente ricerca della società di consulenza Gartner evidenzia come lo smart working sia, per il 70% dei candidati, la conditio sine qua non per cambiare il posto di lavoro. E dall’altro lato, le aziende non sembrano più particolarmente soprese da questa cultura delle dimissioni: la flessibilità introdotta in molti nuovi contratti di lavoro a tempo determinato è un vantaggio reciproco, in quanto il dipendente ha più libertà di cambiamento e alle aziende rimane solo l’onere di prevedere in tempo le eventuali scoperture dei ruoli chiave. Tutto bene dunque? Non proprio. Da anni le società più evolute avevano incentrato la capacità di attrarre e trattenere i migliori talenti sulla progettazione di uffici che offrissero i più alti standard di servizi, vivibilità e accoglienza. Oggi si deve necessariamente passare da una progettazione incentrata sul luogo di lavoro ad una incentrata sul dipendente, attuando politiche che massimizzino il suo benessere psicofisico, anche se lontano dall’azienda e con il rischio di “formare la persona, ma non il dipendente”. La lontananza del dipendente dal sito di lavoro, le nuove logiche di misurazione degli obiettivi, la mancanza di team working, diventano temi spinosi anche per i responsabili aziendali, che in questa epoca di grande trasformazione digitale, non sempre sanno interpretare il nuovo ruolo a cui sono delegati. La leadership a distanza prevede un rapporto gerarchico più orizzontale e basato sulla delega e sulla fiducia tra responsabile e collaboratore. E sempre secondo la ricerca citata, il 94% dei dirigenti il cui lavoro può essere svolto da remoto vorrebbe continuare a lavorare in remoto almeno un giorno alla settimana e ben il 24% di quei dirigenti vorrebbe poter esser sempre da remoto. E fa riflettere che il controverso e visionario imprenditore Elon Musk, 50 anni, abbia proprio la settimana scorsa richiamato ufficialmente il proprio personale (circa 122.000 dipendenti), invitandolo ad essere più visibile in azienda, luogo dove sono pregati di passare almeno 40 ore a settimana. “Se non vi presenterete, dedurremo che vi siete licenziati”, chiosava nella missiva finale. Come potrebbe allora andare a finire e cosa sta succedendo in Italia, lo vediamo invece la prossima settimana: ora devo chiudere perché ho un incontro con un cliente. In presenza…

Sereno variabile sui beni da collezione- speciale mercato dell’arte 2 di 2

Si è scritto la scorsa settimana di un mercato dei beni da collezione effervescente, con fatturati tornati non solo ai livelli dell’epoca pre-COVID, ma addirittura superiori. Un mercato completamente stravolto sia dal lato della domanda, sia in quella della offerta, caratterizzato da nuove tipologie d’arte e da una nuova geografia del collezionismo. Un mercato sempre più globale dove la tecnologia ha permesso di interconnettere le piazze di Hong Kong, Londra, Parigi e New York in simultanea, favorendo così una partecipazione senza precedenti e costituendo un cambiamento epocale. Un mercato che strizza l’occhio ai nuovi top spenders, spesso figli di una nuova economia, soprattutto digitale, con l’ingresso in scena di nuovi protagonisti: i millennial. Un mercato dove le case d’aste devono necessariamente rinnovarsi, per rispondere alle esigenze tecnologiche e al gusto estetico di questi nuovi giovani compratori. Un mercato, infine, dominato dai big spenders asiatici (cinesi soprattutto), sempre più attratti dall’estetica occidentale, ma parimenti corteggiati dalle majors occidentali. Queste sviluppano sempre più partnership con gli operatori locali, per potenziare l’offerta di arte orientale in loco e favorire l’interazione con le loro istituzioni artistiche. Ma qui finiscono probabilmente le belle notizie. La domanda che molti si pongono è capire come la nuova situazione internazionale possa impattare sul mercato dei beni da collezione. Stiamo assistendo a livello mondiale alla esplosione di dinamiche inflattive, a cui le varie Banche centrali stanno cercando di tenere testa con politiche monetarie sempre più restrittive, come pure stiamo vivendo, sulla nostra pelle, rallentamenti economici che non si sono (ancora) trasformati in fasi recessive. La guerra e le conseguenze che essa genera, sia in termini diretti sul livello dei prezzi, sia in termini indiretti sul sistema di sanzioni che inibiscono il commercio internazionale, hanno già determinato una pesante correzione dei mercati dell’economia reale e soprattutto di quelli finanziari. Il mercato dell’arte, ad oggi, sembrerebbe ancora non direttamente toccato da questa dinamica così negativa. I due record registrati negli ultimi giorni (l’iconica Shot Sage Bleu Marylin di Andy Warhol venduta per $ 195 Mln e il nuovo record mondiale per una fotografia con le Violon d’Ingres di Man Ray venduta per $ 12,4 Mln) e in generale la vivacità delle ultime aste farebbero pensare a un mercato al di fuori dei cicli di storno. Guardando al passato, tuttavia, si è già assistito ad un fenomeno simile (mi riferisco alla grossa crisi del 2008) che con un ritardo di circa 1 anno si è poi trasferita anche sul mercato dei beni da collezione, causando un clamoroso sboom. Va detto che allora c’erano condizioni di partenza diverse e il mercato dei beni da collezione di allora era molto “sottile” (per usare un termine finanziario) e quindi più soggetto alla speculazione. Le condizioni macroeconomiche attuali, rispetto a quelle del 2008 non incorporano almeno al momento, una crisi di liquidità e neppure di solvibilità. Tuttavia, una considerazione generale va fatta: qualsiasi mercato, a prescindere dal bene trattato, basa il suo successo sul livello di fiducia nel futuro e sulle capacità di dinamismo dei suoi attori. Sul secondo punto gli operatori hanno dato ampie garanzie di adattamento alle mutate condizioni della domanda causa pandemia, sul primo punto invece, se le condizioni macroeconomiche dovessero ulteriormente peggiorare e intaccare il ciclo produzione-occupazione-consumo, è logico supporre che anche il mercato dell’arte non riesca a rimanerne del tutto esente. Come nelle giornate di sole, si avvistano cirri minacciosi all’orizzonte ed è opportuno avere un ombrello alla bisogna, così forse converrà scrutare con attenzione le evoluzioni nel cielo del mercato dell’arte. Consapevoli però di una grande certezza: anche nel caso di rovesci importanti, non potrà piovere per sempre. Ma questa è la storia non solo del clima, ma anche dei mercati. Qualsiasi mercato.

L’arte diventa “Phygital”

Anche quest’anno ho avuto l’onore di redigere la ricerca annuale sullo stato di salute del mercato dell’arte internazionale, con gli amici di Deloitte. Il tema della finanza dell’arte è del resto un tema che mi appassiona ormai da circa quindici anni (tempus fugit): capire come i mercati dei “luxury goods” reagiscano in tempi di instabilità economica, offre sempre interessanti spunti anche per capire meglio le implicazioni con le dinamiche finanziarie e dell’economia reale. Ma bando alle ciance e vediamo cosa è successo e cosa potrebbe ancora accadere. Il biennio pandemico ha determinato una profonda trasformazione del mercato, che si è affidato all’innovazione e a nuove forme di partnership tra gli operatori. Del resto, è quanto accaduto anche in altri mercati più ampi e più regolamentati. La digitalizzazione è stata l’unica via per mantenere vive le relazioni con il proprio pubblico di riferimento per le case d’asta e, se possibile, sviluppare anche nuove relazioni: si parla infatti di Phygital, il cui mix virtuale e presenza in sala è basato sulla cosiddetta asta ibrida.Primum vivere deinde philosophari” amava ripetere la mia professoressa di latino. E in effetti la svolta tecnologica effettuata “per limitare i danni”, si è presto invece trasformata in una formidabile via d’accesso a nuovi mercati e nuovi clienti. Il problema era semmai intercettare una domanda fortemente trasformata, sempre più dominata dal digitale e dalle giovani generazioni, che hanno portato sul mercato nuove esigenze, nuove abitudini d’acquisto e un nuovo gusto. E così le case d’aste (i cui battuti sono stati alla base dell’analisi) hanno saputo sviluppare nuovi clienti (mediamente il 40% per le più grandi case d’asta internazionali), educando invece i già clienti e meno avvezzi alla tecnologia, all’uso del digitale. Il 2021 è stato un anno di fatturati record, non solo rispetto al 2020 (ça va sans dire, con un +67,4%), ma persino rispetto ai livelli pre-Covid del 2019 (+17,7%). Il tutto impreziosito dal fatto che l’offerta ha annoverato numerosi lotti di qualità, senza avere però il pezzo straordinario (come è stato il Salvator Mundi nel 2017, ad esempio), anche se una collezione soprattutto (quella Macklowe) ha sicuramente aiutato sul fatturato complessivo. L’attenzione per autori meno quotati, contemporanei storicizzati e/o emergenti, ma dal solido background artistico, ha trascinato al rialzo il mercato, ma anche opere di indiscusso valore, come un “old masters” di Botticelli (terzo miglior top lot dell’anno) hanno contribuito al fatturato record.  Stiamo parlando di opere che erano già pronte per il mercato anche l’anno prima, ma che il contesto di incertezza ha consigliato di attendere momenti più propizi per una più consona valorizzazione. E’ boom dei compratori asiatici, sempre più interessati ai modelli di estetica occidentale, ma anche molto sensibili all’acquisto dei cosiddetti Passion Assets (gioielli, orologi, vini pregiati…) che complessivamente sono cresciuti nel fatturato del +44,2% sul 2020 e del +11,8% sul 2019. Ci sono poi dei fenomeni in ascesa che è opportuno segnalare, in attesa di un definitivo consolidamento. Il primo è sicuramente l’esplosione delle aste “online-only”, dove vengono offerti lotti di minor qualità, ma che richiamano l’interesse di una platea sempre più giovane, economicamente solida e propensa alla diversificazione. In tal senso si inserisce l’esplosione dell’arte digitale, con particolare riferimento alla crypto art, con gli NFT che attraggono nuovi potenziali acquirenti, soprattutto Millennial. La presenza degli NFT è stata celebrata dalla vendita per oltre $69,3 Mln dell’opera dell’artista Beeple, divenuta la prima opera d’arte digitale mai venduta ad un’asta. Continua a crescere l’attenzione nei confronti di diversità e inclusione anche nel mondo dell’arte: la sola Christie’s ha registrato 66 nuovi record d’asta per artiste donne e 47 nuovi record per artisti BIPOC (black, indigenous and people of color). Cresce anche la sensibilità per la sostenibilità e sempre di più sono state le aste organizzate dalle majors per beneficienza. Insomma, è stato un anno luminosissimo per il mercato dell’arte, ma nubi cariche di inflazione, rallentamenti economici, forse recessioni e fragili equilibri geopolitici si avvicinano sempre più. Come reagirà il mercato dell’arte? Questo lo vedremo la prossima puntata…

Le bombe del caos

Ha stupito inizialmente alcuni commentatori il fatto che campi, silos e magazzini ucraini venissero bombardati dai missili russi fin dai primi giorni di guerra. Dietro all’azione militare, si nasconde tuttavia una strategia ben precisa, che mira a scatenare una serie di effetti relativi all’aumento dei prezzi del cibo e dell’energia a livello mondiale. Partiamo dall’ effetto più immediato: l’Ucraina è un paese essenzialmente agricolo, non a caso chiamato il granaio d’Europa e distruggere i suoi raccolti, significa distruggere la sua fonte principale di reddito. Il grano invernale (in raccolta a maggio) è coltivato in alcuni casi fino al 80% delle pianure delle province del sud. Non solo. L’Ucraina rappresenta il 9% (30% con la Russia) delle esportazioni globali di grano (ma anche il 16% di quelle di mais, e il 42% di quelle di olio di girasole). A marzo, il grano ucraino esportato è stato solo un quarto di quello normalmente venduto nei periodi anteguerra. Con i porti ucraini chiusi e gli accordi sui cereali russi in pausa, a causa delle note sanzioni, 13 milioni e mezzo di tonnellate di grano (16 milioni di mais) sono attualmente congelati nei porti del Mar Nero, senza contare che i premi assicurativi di spedizione di questi carichi sono sensibilmente aumentati. La combinazione nefasta di minor offerta di materie prime alimentari, cattivi raccolti causa siccità (avvenuto a livello globale) e costi dei fertilizzanti alle stelle, ha determinato un livello di prezzi mai visto sui cereali e suoi derivati. La dinamica inflattiva alimentare ha scatenato anche e in parte quella energetica: grano, mais, bietola, canna da zucchero, sono alla base dei biocarburanti (in tutta l’Unione europea c’è l’obbligo ad esempio di aggiungere a benzina, gasolio e metano una quota di circa il 10% di biocarburanti) e di necessità, queste coltivazioni sono state (o stanno per essere) riconvertite ad uso alimentare, con un inevitabile aggravio del prezzo finale del combustibile energetico. Da ultimo, c’è un possibile effetto geopolitico, dietro a questa azione militare: numerosi Paesi, tra cui Somalia, Senegal, Egitto, Yemen, Afghanistan, Etiopia, Siria dipendono da Russia e/o Ucraina per i rifornimenti di grano. Se la guerra continuerà a lungo, queste nazioni, già gravate dai debiti da pandemia, chiederanno nuovi aiuti al Fondo Monetario Internazionale. Il rischio che deflagri una fame mondiale, soprattutto in questi Paesi più poveri e a più alta instabilità politica è molto concreto: il WFP (programma alimentare mondiale) in uno studio di due settimane fa, ha dichiarato che il 2022 potrebbe essere un anno “di fame catastrofica, con 323 milioni di persone nella morsa della fame in 38 Stati sull’orlo della carestia”. Il che comporterebbe una nuova stagione di disordini sociali, visto che le spese per l’alimentazione sono ancora quelle principali in molte economie in via di sviluppo , come già paventato in un Nuvole e Mercati di due mesi fa: https://nuvolemercati.it/2022/03/11/a-pane-e-gas/. È attribuita ad Einstein una frase che recita “Uno stomaco vuoto non è mai un buon consigliere politico”. Speriamo allora di non fare presto indigestione di cattive idee politiche.

E quindi fu Deglobalizzazione

Stiamo probabilmente entrando in una nuova fase della storia: l’era della globalizzazione, basata su una standardizzazione di produzioni just in time, spesso effettuate sui mercati a più basso costo della manodopera, sembra ormai tramontata. Un condiviso sistema di scambi internazionali aveva ridotto nel passato il rischio di inefficienze nella gestione delle scorte e il progresso tecnologico garantiva prezzi di vendita sempre più bassi, quindi un livello di inflazione risibile per i consumatori e alta marginalità per l’industria. Un mondo ideale insomma, senza preoccupazioni geopolitiche particolari e la bilancia commerciale di un Paese, primo indicatore della sua vitalità. In un mondo così deregolamentato, liberalizzato e delocalizzato, (si produce dove costa di meno) gli scambi internazionali sono decollati: dai 3,5 trilioni di $ del 1990 si arriva ai 20 trilioni di $ nel 2018. Preistoria. Tra il 2020 e il 2022 due eventi straordinari, quanto inaspettati e nefasti (pandemia e guerra) hanno stravolto questo mondo, avviando l’era della deglobalizzazione. Ma cosa è?  È un mondo in cui la diffidenza vince sulla fiducia, dove i Paesi hanno scoperto per necessità (a causa della pandemia) o per opportunità (a causa della guerra) che alcune produzioni di beni primari (ad esempio dispositivi sanitari e produzione energetica) devo essere avvicinati a casa. È un mondo in cui la necessità di controllo e sicurezza prevale su quella di efficienza. E così i nuovi confini geopolitici restringono il concetto di globalizzazione ai soli Paesi di cui ci fidiamo, erigendo muri con tutti gli altri. La storia ama ripetersi e una involuzione di questo genere è già capitata nel secolo scorso: dopo un periodo di progresso scientifico a livello internazionale, tra le due guerre mondiali si scatena una fase di diffidenza internazionale e politiche economiche autarchiche come reazione. Con una differenza sostanziale però: oggi il mondo è molto più interconnesso di allora e sarà molto più arduo emanciparsi di colpo dai Paesi utilizzati per una massiva produzione fino a ieri. Le prime statistiche parlano chiaro: circa 300 mila aziende europee e americane sono già in difficoltà per avere basato in Ucraina e in Russia le loro forniture. Non solo. L’Europa sembra oggi l’area più esposta al rischio deglobalizzazione: il mix di errate politiche comunitarie del passato, (come ad esempio lasciare il settore dei microchip ai coreani o affidarsi ad un unico fornitore energetico) determina l’affannosa ricerca di alternative a prezzi maggiorati e, di conseguenza, un livello di inflazione più alta che strozza l’economia. Il “made in China” ci aveva aperto un mondo low cost in cui ci siamo abbuffati per anni. Ora dovremo rilocalizzare le produzioni, ma nel rispetto del nostro sistema di regole salariali, ambientali e di sicurezza.  Con tutte le conseguenze del caso. Potrebbe essere però un momento molto favorevole: le rilocalizzazioni potrebbero determinare milioni di posti di lavoro, se e solo se le imprese dovessero trovare un ambiente favorevole dove investire, privo di burocrazia e con un sistema fiscale meno oppressivo. Altrimenti rimarremo un territorio economico sempre più piccolo e insignificante. Più per demeriti nostri, che per meriti altrui.

 

Totò ai tempi della Shrinkflation

Sarà anche la necessità di sdrammatizzare un po’ questo momento storico così difficile, ma non fosse davvero una dinamica reale quello di cui parlerò, potrebbe sembrare la trama di “Totò d’Arabia”, film d’antan della comicità italiana. Quello, per intenderci, famoso per la frase “ccà nisciuno è fesso”. Mentre l’inflazione non sembra arrestarsi a livello mondiale, toccando livelli sconosciuti da almeno 30 anni (Usa al 7,9% e Eurozona al 7,5%), gli anglosassoni (maestri del humour raffinato) hanno coniato un neologismo per fotografare la situazione in essere: “shrinkflation”, ovvero la crasi di shrink (riduzione) e inflation (inflazione). Come funziona? Le aziende hanno capito come scaricare l’inflazione sul consumatore, senza però alzare i prezzi, ma rimpicciolendo la quantità di prodotto venduto: si paga lo stesso, ma per avere qualcosa in meno. Lapalissiano. Un caso di prestigirizzazione”(cit.). Alcuni esempi fanno davvero sorridere (non nominerò il nome delle aziende coinvolte): si va dal pacchetto di chips, rivisto con packaging accattivante, che contiene 10 patatine in meno, a due famose bevande analcoliche che hanno fatto bottiglie più aerodinamiche, più facili da afferrare (ma più piccole), fino ai grandi rotoli di carta igienica e/o scottex, ma con una trentina di fogli in meno. Ma la lista è lunga e coinvolge marchi di biscotti, formaggini, gelati, verdure surgelate: tutti quei prodotti dalle dimensioni ridotte, ma a veloce tasso di consumo e di cui diviene quindi più immediato abituarsi alle nuove dimensioni. Sorridiamo, ma l’escamotage riesce con successo poiché, come consumatori, siamo price conscious, (ovvero focalizzati sul prezzo) e non net-weight conscious, ovvero attenti alla quantità di prodotto. Così noi paghiamo di più, ma non ce ne accorgiamo: dovremmo guardare ogni volta il prezzo al kg/litro, esposto in piccolo sull’etichetta nel retro del prodotto, ma chi ci bada? Una distrazione però fatale e a vantaggio del produttore. Anzi, spesso siamo convinti dell’affare, proprio perché attratti da una comunicazione basata sul prezzo (in calo), ma inerente a una quantità di prodotto minore. La shrinkflation funziona sempre? No, poiché la creazione del nuovo packaging comporta solitamente costi di produzione e attività di comunicazione a supporto e possibili esposti da parte delle associazioni consumatori, ma in contesti di inflazione duratura (come quelli attuali) i risparmi ottenuti superano velocemente il surplus di costo. Nell’epoca (dell’abuso) del “politically correct”, molte aziende motivano persino queste scelte con l’adesione a politiche di sensibilizzazione contro lo spreco di cibo, l’ecologismo, la riduzione del materiale plastico. Una nota azienda americana di cioccolato è riuscita a motivarla con una presa di posizione nei confronti dell’obesità. Se Totò potesse tornare in vita, di certo aggrotterebbe il sopracciglio e con aria un po’stupita, ma voce stentorea, esclamerebbe “ma mi faccia il piacere”.

La corsa del coniglio della economia internazionale

Come nella scena cult del film “Gioventù bruciata”, vinceva chi prima riusciva a gettarsi fuori dalla macchina, nella cosiddetta “corsa del coniglio”, così oggi nel braccio di ferro tra Russia e fronte occidentale, relativamente alla valuta da utilizzare per il pagamento delle materie prime russe, il primo che tentenna cadrà nel burrone.

Il diktat del pagamento in rubli è stato reiterato, ma in una forma ambigua: nei contratti di diritto internazionale, le condizioni non possono essere cambiate unilateralmente, a meno di non precisate cause di forza maggiore. La guerra può essere annoverata come tale? Nessuno ha (per ora) la risposta, ma nella fluidità degli eventi, l’utilizzo di una valuta rappresenta una formidabile arma geopolitica, da sempre difesa a spada stratta da USA e in subordine dai Paesi dell’Area Euro. Ma quanto i due contendenti potranno sopportare gli effetti della guerra economica scatenata? Difficile saperlo. Da una parte le economie europee continentali sono di certo le più esposte alle ricadute della guerra in Ucraina e il conflitto sta già pesando sulla crescita delle economie del G7 secondo tre direttrici: la bilancia commerciale con la Russia; l’aumento dei prezzi globali delle materie prime che alimentano l’inflazione globale e le interruzioni della catena di approvvigionamento, già provate da mesi di strozzature per la pandemia. L’Economist ha appena rettificato le previsioni di crescita nell’eurozona per il 2022: si passa dal 4,0% a circa il 3,3%. (Per curiosità, l’Italia passa dal 4,4% al 3,4%, la Germania dal 3,3% al 2,5%), ma non abbiamo ancor raggiunto il picco dei prezzi delle materie prime (idrocarburi, metalli e cereali), che determineranno livelli di inflazione ancora più alta. Una maggiore inflazione intaccherà il potere d’acquisto delle famiglie e potrebbe spingere le Banche centrali a inasprire le politiche monetarie in atto. Spoiler: questo livello di inflazione ha molti elementi transitori, ma ne ha anche alcuni strutturali: non torneremo di certo ai livelli di bassa inflazione del pre-pandemia. Qualcuno parla già di recessione imminente, probabilmente e come già anticipato un mese fa,( https://nuvolemercati.it/2022/02/14/stagflazione-o-una-diversa-comunicazione/) è più opportuno parlare di stagflazione: crescita rallentata con un’inflazione elevata. Se poi a questa crisi si accompagnasse anche una crisi alimentare di carattere mondiale, con prezzi degli alimenti impazziti (Russia e Ucraina sono tra i 5 maggiori produttori mondiali di grano), non è da escludere nemmeno una crisi migratoria dai Paesi più poveri verso l’Europa, che già arranca di suo con quella ucraina in corso.  Ma nel frattempo bisognerà capire anche la “resistenza economica” dell’altra parte. Perché se è vero che il rublo si sta riposizionando sui valori pre-guerra (sostenuta da massicci investimenti propri), il default della economia russa è stato solo rimandato, non scongiurato, come pure il Paese continua ad essere escluso dal maggiore sistema di pagamento internazionale e la protesta interna cresce di ora in ora per una popolazione sempre più schiacciata dalla iperinflazione e tassi di interessi più che raddoppiati. Chi vincerà? Chi si butterà giù per primo dalla macchina economica impazzita? Solo la storia ce lo dirà, ma di certo sarebbe stato meglio evitare di accendere i motori per questa folle e inutile corsa.

Olio di palma o cannoni?

Il conflitto in Ucraina è un potente focolaio di instabilità geo-politica, energetica, produttiva e finanziaria. Le prime stime elaborate da prestigiose associazioni internazionali, ci mettono in guardia sull’impatto che questa guerra avrà sulle economie continentali, ma soprattutto, sui nostri futuri stili di vita, sul nostro senso di libertà, sul nostro concetto di democrazia. Sapevamo che lo choc inatteso della pandemia avesse stravolto il nostro vivere quotidiano, poi è arrivata una guerra in casa a sparigliare ancora di più le carte, portando con sé distruzioni fisiche, affettive, economiche e culturali. E se le conseguenze geopolitiche saranno più chiare al termine del conflitto, gli effetti economici sono i più facili da calcolare, ma anche da rimediare: l’Ocse, pur riconoscendo la assoluta fluidità degli eventi, ha già stimato che la guerra impatterà nel 2022 con un decremento del 1,4% sul PIL dell’Eurozona, mentre gli USA, al pari dell’economia globale, vedrebbero una riduzione di un punto percentuale. L’Europa risulta più colpita dal conflitto, sia perché avviene sul suo territorio, sia per la crisi umanitaria in atto- con oltre 3 milioni di rifugiati da ospitare- e sia per la sua forte dipendenza energetica dal gas russo. Riguardo agli effetti finanziari, intesi come sanzioni affibbiate alla Russia, si è già ampiamente discusso nei precedenti N&M: la Russia è diventata un paria internazionale, ma con inevitabili conseguenze anche per noi, fronte occidentale. Si tratta tuttavia di considerazioni provvisorie, che potrebbero drasticamente peggiorare: tutto dipenderà da come procederà il conflitto. Ci sono tuttavia altre conseguenze che stravolgeranno le nostre abitudini future. Penso ad esempio ai costi della difesa: l’Italia (ma non solo) ha deciso di investire maggiormente in tale direzione, che inevitabilmente impatterà sulle altre voci di spesa, quali, ad esempio, la sanità, la scuola, l’ambiente -che rimangono emergenze- a meno che non si pensi che possiamo indebitarci senza limiti. Certo, l’Europa (intesa come Comunità) garantirà maggior flessibilità nelle voci di spesa dei singoli Stati membro, e con buona pace dei Paesi “frugali”, oggi più che mai interessati a poter contare su (altri) eserciti professionistici pronti, nel caso, ad intervenire. Cambieranno anche molti nostri dogmi ecologisti: guardando ai nostri confini, sarà meglio e con celerità svincolarci dall’asfissiante dipendenza dal gas russo, soprassedendo su infantili slogan propagandistici di alcuni partiti, utilizzati in passato per fermare gasdotti alternativi. Paradossalmente e per contrappasso, in attesa di un nuovo dibattito sul nucleare, nell’immediato dovremo anche ricorrere alle nostre inquinanti riserve fossili, a testimonianza che qualunque ideologia che si trasforma in fanatismo, è sempre deleteria. Cambieranno anche alcuni dogmi sul benessere alimentare: tre anni fa questo Paese si era fermato per deliberare una legge che limitasse l’uso di bevande zuccherate. Preistoria. Oggi dinnanzi ai primi scaffali vuoti dei supermercati e in assenza dell’olio di semi, rivalutiamo anche il famigerato olio di palma e dinnanzi alla scarsità del pane e suoi derivati, ci andrebbe (o ci andrà) benissimo anche il grano transgenico. Perché stiamo assistendo da vicino, troppo da vicino, a una guerra che non avremmo mai immaginato e le immagini truci di bombardamenti e disperazione, scuotono il nostro benessere e le nostre certezze, che ritenevamo intoccabili ed acquisite. Ottanta anni fa l’Italia entrava in guerra con una famosa arringa di Mussolini, in cui si chiedeva al popolo “burro o cannoni”. La risposta, allora, fu scontata. Oggi si ripropone lo stesso dilemma. Proveremo a rispondere olio di palma.

Il folle costo della guerra

Sulle varie piattaforme social girano in questi giorni numerosi “meme” sulla presunta capacità da parte della Russia di rimanere immune dalle dure sanzioni finanziarie ed economiche inflitte e ammetto che il tema (almeno nel mio caso) è stato anche oggetto di differenti vedute con amici di vecchia data. Per carità, è il bello della democrazia (almeno qui non è ancora reato avere idee diverse). In estrema sintesi: qualcuno sostiene che chi verrebbe più danneggiato dalle sanzioni inflitte sarebbe proprio il fronte occidentale e il prezzo impazzito di gas, benzina, pane e pasta ne sarebbe una conferma. La Russia sarebbe esente dal caro-vita in quanto grande possessore di materie prime. Ho già dedicato gli ultimi due N&M sull’argomento, cercando di confutare questa tesi, che trovo ancora molto semplicistica. In più, proverò oggi a fare un sommario bilancio anche dei benefici e costi connessi alla mera guerra –con le inevitabili approssimazioni della sintesiper dimostrare la insensatezza di questa strategia e sottintendendo che in un conflitto – da un punto di vista economico – ci perdono tutti, almeno nel breve periodo. Tuttavia, i benefici attesi per chi invade un altro Paese sono ovvii: c’è la gloria verso il proprio popolo, ci sono le materie prime del paese conquistato (gas&oil in questo caso) e le materie finite (aziende e infrastrutture già esistenti). Da ultimo c’è il presidio di un territorio che potrebbe determinare nuovi traffici e rotte commerciali. Ma a quali costi? I costi vivi di una guerra sono i più disparati. Ci sono in primis le vittime, poi quelli della distruzione del Paese invaso e quelli del materiale bellico utilizzato, poi gli interessi sul debito di guerra e infine il rischio di perdita reputazionale. Provo, con la brutalità dei numeri, a tradurre il tutto. Le vittime e i feriti sono un costo sociale, in termini di rimborsi per le famiglie dei primi e pensioni sociali per i feriti e/o veterani. Non solo. C’è anche da considerare la perdita di mancata contribuzione al PIL nazionale della vittima: questa andrebbe moltiplicata per i teorici anni di vita che avrebbe ancora vissuto in caso di pace. Sui costi di transazione ho già ampiamente scritto nei due numeri precedenti, mentre i costi di ricostruzione e dello sforzo bellico sono collegati ai danni arrecati, alle truppe e alle attrezzature impiegate e al tempo necessario per conseguire la vittoria: più lunga è la guerra e più salgono i costi. Alcune stime parlano già di un costo approssimativo di circa 20 miliardi di euro solo per il materiale bellico utilizzato e/o distrutto (e la strenua difesa Ucraina – supportata dalle armi occidentali- farà ancora crescere il conto). I costi sarebbero esorbitanti poiché il materiale è sempre più sofisticato, come pure la manutenzione associata. E poi c’è il costo della logistica, inquantificabile, ma gli errori della armata Russa negli spostamenti lo testimoniano. Ci sono infine i costi di reputazione, anche essi “uncountable”. L’abbandono da parte di molti marchi internazionali (con gli effetti sull’indotto) e la contestuale chiusura dei punti vendita è legato a questo aspetto, come pure, c’è il forte rischio di una chiusura anche nel futuro da parte dell’occidente, (che ad oggi rimane il top spender mondiale) verso il mondo russo e la sua economia. Ma ne parlerò meglio la prossima settimana.  Anche il sistema imprenditoriale che l’invasore si troverebbe a gestire perde valore: per funzionare una economia ha bisogno di rapporti di fiducia e certezza nei diritti di proprietà e forme di interscambio vantaggiosi per ambo le parti. Insomma, a mio vedere, questa guerra è folle nella sua dinamica, ma lo è ancora di più nella sua genesi. E i costi associati saranno asfissianti sia per l’economia del vinto che del vincitore (a meno che, non si permetta ai capitali esteri di fluire nella futura ricostruzione, cedendo però i settori strategici). Un capo di governo minimamente lucido avrebbe dovuto intuire il vicolo cieco della storia in cui si stava per confinare. Chissà che questa analisi possa in parte aiutare ancora gli incerti a capire la follia di questo conflitto e quella dell’uomo che l’ha voluta.

A pane e gas

Il conflitto ucraino sta avendo conseguenze di ogni tipo, in ogni settore, ora dopo ora. Si è già ampiamente dibattuto delle conseguenze di carattere finanziario (dovute alle sanzioni) e di carattere economico, dovute soprattutto all’aumento di gas e petrolio. C’è tuttavia, a mio avviso, un altro elemento non ancora del tutto evidente nella sua drammaticità e legato all’aumento del prezzo del grano e dei prodotti derivati (pane e pasta). In super sintesi: la guerra ha fatto schizzare anche i prezzi di tutte le materie prime agricole. Grano, mais, soia, olio vegetale… Sono stati raggiunti record paragonabili a quelli del 2008. Russia e Ucraina producono quasi un quarto del grano mondiale. A pensar male si fa peccato, tuttavia… Tuttavia già da gennaio 2022 la Russia aveva bloccato le sue esportazioni e la flotta russa posizionata sul Mar Nero ha impedito le esportazioni di grano ucraino. Se a ciò si aggiunge che il 2021 è stato un anno particolarmente negativo per Canada e Usa (con raccolti ridotti, causa siccità), forse la decisione di entrare in guerra proprio adesso, non è del tutto scollegata ad una possibile guerra del grano. Già nel piano di “Dottrina sulla sicurezza alimentare” del 2010, Putin aveva annunciato il perseguimento di una politica autarchica sia sul fronte energetico, che alimentare. Dall’invasione della Crimea nel 2014 ad oggi, la Russia è passata dall’essere grande importatrice a grande esportatrice. L’influenza della Russia nell’industria del cibo in generale è destinata ad aumentare, favorita anche dai cambiamenti climatici: ora si coltivano cereali dove, nel passato, per gli inverni troppo rigidi, era impossibile. Ed è davvero un paradosso: l’ambiente sta aiutando proprio una delle nazioni che più lo hanno danneggiato. Ma torniamo alla guerra del grano. Le conseguenze del conflitto sul mercato alimentare internazionale sono già evidenti per noi europei, ma si rifletteranno presto e con dinamiche più esasperate sui paesi nord africani e mediorientali (Marocco, Tunisia, Egitto, Siria, Iran, Iraq) che presentano già economie in tensione, falcidiate dal Covid, dalla siccità e dal loro fragile contesto politico. Il rischio di disordini di piazza, al grido “vogliamo il pane” potrebbe presto trasformarsi in massicci flussi migratori verso l’Europa, alimentando così il livello di disordine sociale nei paesi più sviluppati. Proprio quello che Putin potrebbe aver pianificato. Sono ovviamente solo scenari e come tali vanno considerati, anche se potrebbero rientrare in un disegno criminale ben più ampio. Come se ne esce? Forse una cosa Putin ha ampiamente sottovalutato oltre alla durata del conflitto: la dipendenza tecnologica della Russia dall’occidente. Rispetto ai precedenti conflitti di portata mondiale, oggi il mondo è completamente interconnesso e dipende dalla tecnologia (civile e militare). Al di là della propaganda bellica, alcuni esempi sono già eclatanti: mezzi militari di ultima generazione fermi perché mancano pezzi di ricambio, l’eliminazione di un generale dell’armata russa, scoperto ad usare una linea civile anziché quelle criptate, le frequenti incursioni di hackers nei programmi televisivi russi. Sono solo esempi, che mostrano però la fragilità dell’autarchia tecnologica russa, sia in ambito militare sia civile. Le file di sovietica memoria dinnanzi a farmacie, bancomat e negozi a Mosca testimoniano un regresso economico di almeno 20 anni. “A’ la guerre comme à la guerre”: in un ulteriore innalzamento della conflittualità con il mondo occidentale, al di là delle forze militari in campo, Putin potrebbe trovarsi presto la popolazione russa in subbuglio, sfinita dall’essere confinata in un isolamento forzato.  E questo potrebbe spingerlo ad accettare una “vittoria mutilata” e alle diplomazie internazionali, (che non possono avere gli stessi tempi dei conflitti), di trovare nuovi punti di equilibrio e nuovi accordi che possano garantire un futuro di pace. Lo speriamo davvero tutti…

Guerra e pace

Le guerre sono facili da cominciare, ma difficilissime da finire. Qualunque esse siano. Al di là dell’esito dei combattimenti sul martoriato suolo ucraino, una guerra economica altrettanto imprevedibile è appena cominciata e dalle conseguenze, da qualunque parte le si guardi, altrettanto spaventose e imprevedibili. La scorsa settimana, in questa rubrica, si scriveva di come il fronte occidentale fosse stato preso alla sprovvista dall’incursione militare russa, ma la reazione finanziaria è stata tuttavia vigorosa, con (citerò le sanzioni principali) nell’ordine: a) l’esclusione dal circuito Swift di alcuni istituti di credito, (salvati solo quelli che garantiscono i pagamenti del gas verso l’Europa), b) il congelamento di beni e proprietà di alcuni oligarchi e delle riserve in valuta estera dello Stato (600 miliardi di dollari), c) un massiccio ridimensionamento del traffico commerciale da e verso la Russia. Le conseguenze sono avvenute con effetto valanga: le agenzie di rating hanno declassato a “titoli spazzatura” i titoli di stato russi. Mosca si è trovata di colpo senza risorse. In questa ipossia finanziaria, il rublo è in picchiata (in una settimana ha perso circa il 40% nei confronti del dollaro), la borsa moscovita chiusa per tutta la settimana per impossibilità di fare prezzo, le capitalizzazioni delle società russe quotate all’estero completamente evaporate, la prima banca russa internazionale (Sberbank) in default tecnico. Anche la disperata mossa di sostenere il rublo da parte della Banca di Russia, alzando i tassi di interesse al 20% è fallita (ha fatto il giro del mondo la foto dello sguardo pietrificato della governatrice Nabiullina, di fronte a un imperturbabile Putin). Il bollettino è di una devastante guerra economica. Le lunghe code ai bancomat dei cittadini russi testimoniano lo shock del popolo e indeboliscono il fronte interno. Per far fronte alla penuria di liquidità, un nuovo decreto ha imposto agli esportatori russi di convertire in rubli l’80% delle loro entrate. Non proprio un affare considerando la debolezza dello stesso. E il fondo probabilmente non è stato ancora toccato: se vogliamo seguire le indicazioni che provengono dai CDS (credit default swap) il mercato prezza il  rischio di bancarotta della Russia al 67%.

Al di là della retorica della propaganda di guerra, le sanzioni finora comminate vogliono (o vorrebbero) scatenare la paura nel popolo russo e nelle maggiori aziende dl Paese, e spingerli alla ribellione dinnanzi a un rischio di una crisi ben più grave di quella del 1998 ( la Russia non ha una fedina immacolata in tal senso).

Ma le sanzioni, si sa, in un mondo così globalizzato, diventano un’arma di distruzione che danneggia anche chi le ha varate.

Perché gli effetti economici di queste prime sanzioni finanziare cominciano a danneggiare anche lo stesso mondo occidentale, che ad esempio ha circa l’equivalente di 30 miliardi di dollari di investimento in titoli di stato russo in valuta e di cui, per le prime cedole in scadenza, è stato escluso dal rimborso. Ma di questi effetti e di tutti gli altri, (che colpiranno soprattutto i settori del gas, dell’energia e dei cereali), ne parleremo meglio la prossima settimana.

Come Putin era convinto di una guerra (militare) lampo, così anche le forze occidentali stanno sperando in una guerra (finanziaria) lampo, per costringere l’uomo a trattare da una posizione di debolezza. Solo la storia ci dirà chi avrà avuto ragione. Per ora, mi limito a segnalare una freddura piuttosto cinica, che gira in questi giorni, che probabilmente racchiude però un fondo di verità: “più che gli sforzi dei diplomatici, potranno i capricci delle mogli degli oligarchi.” Che banalmente significa: chi ha conosciuto di colpo la ricchezza, non saprà più rinunciarci.

In effetti, le paludi della Siberia non hanno lo stesso fascino del mare della Sardegna e fare shopping a Groznyj non offre la stessa magia dei Champ Elysee. Chissà che prevalga allora il desiderio di continuare a godersi la “bella vita” da parte dei suoi “fedelissimi” oligarchi nei posti più esclusivi del pianeta e soprattutto…in santa PACE!

Passionarnost e le nostre sanzioni spuntate (per ora)

Siamo entrati e di colpo in un tunnel della storia che speravamo di aver relegato a ricordi lontanissimi. In questa era in cui le informazioni viaggiano velocissime e tutto è assolutamente amplificato, il conflitto ucraino ci spiazza con la sua ferocia e con il suo dolore. Questa rubrica vuole parlare solo di economia e possibilmente farlo in maniera leggera e semplificata. Mi asterrò dunque dal giudizio politico della guerra in atto per ragionare sulle conseguenze delle “sanzioni durissime” (cit.) che il mondo occidentale ha immediatamente promesso, ma che, al momento in cui scrivo, sembrano ancora piuttosto vaghe e parecchio rituali. Due pacchetti già varati e uno allo studio. L’obiettivo è uno solo: sfiancare o strozzare l’economia russa. E per farlo le soluzioni possono essere molteplici. Sono state congelate le ricchezze di Putin e dei suoi oligarchi in Europa. Per carità, rinunciare alle vacanze nella villa in Costa Azzurra o in Sardegna deve essere un duro colpo per questi signori, ma forse non è abbastanza. Le agenzie di rating hanno già tagliato i livelli: immagino l’espressione crucciata del nuovo dittatore. Escludere la Russia dalla tecnologia occidentale “dual use (sia civile che militare) ha invece più effetto (la Russia è fortemente dipendente), ma non ferma nell’immediato la (probabile) capitolazione di Kiev. Si è parlato di sospendere l’export verso la Russia, ma con dei distinguo sui “beni di lusso”: la Francia vorrebbe escludere dal divieto i suoi vini e l’Italia la sua moda.. (Così però diventa tutto più difficile). Escludere le maggiori banche russe dal mercato internazionale dei capitali o applicare il divieto di rifinanziare il debito sovrano o ancora di più, vietare i pagamenti in dollari dell’export russo sono sanzioni già più sensate se si vuol puntare all’effetto desiderato. Soprattutto se la “valuta di scorta” (il rublo) si è schiantata ai minimi storici da quando è scoppiato il conflitto. Ma questo potrebbe non essere abbastanza, visto che la Russia aveva già previsto la reazione e aveva già accumulato grosse scorte di valuta americana. Che essendo però “scorte” finiscono presto. C’è tuttavia una altra opzione in mano al fronte occidentale, che è tuttavia un’arma di distruzione economica globale: bandire il Cremlino dal principale sistema internazionale di pagamento Swift. Opzione tuttavia dolorosissima per tutti. La Russia economicamente si schianterebbe, il Pil tracollerebbe e assisteremmo a una massiccia fuga di capitali (svalutati per di più). Ma c’è un però. L’Europa ha prestato miliardi di dollari ai russi per la costruzione delle infrastrutture energetiche e tutto l’interscambio commerciale tra Ue e Russia verrebbe congelato. Anche le forniture di gas ad esempio, costringendo noi e la Germania, (le due nazioni più esposte al gas russo) ad una austerity energetica dolorosissima e a una inflazione duratura. Nella letteratura russa c’è un termine di difficile traduzione che è “passionarnost”, secondo cui ogni popolo possiede una energia di gruppo che gli permetterebbe di reggere qualunque sofferenza per conseguire un ideale più alto. Putin lo intende declinandolo sul suo folle nazionalismo, ma noi occidentali sapremmo declinarlo per la difesa dei nostri valori di pace e democrazia?

Stagflazione o una diversa comunicazione?

Ha un suono così sinistro, è la unione di due parole che già da sole mettono i brividi, figurarsi insieme. Si chiama “stagflazione” ed è data dall’unione di “stagnazione” e (alta) “inflazione”. Venendo da anni di “deflazione”, ossia costante riduzione dei prezzi per scarsa produzione, pensavamo di poterci dimenticare questa parola così fastidiosa e confinarla alle economie occidentali degli anni 70, quando la crisi petrolifera aveva determinato anche tensioni sulle retribuzioni e sul risparmio dei cittadini. E a giudicare dall’andamento dei mercati finanziari da inizio anno, con un repentino calo dei livelli di prezzi su tutti i comparti e settori, qualche dubbio potrebbe anche venire. Siamo dunque all’inizio di un periodo così preoccupante? Difficile rispondere in poche righe e fior fior di economisti potrebbero motivare meglio di me la fotografia attuale. Mi limiterò a segnalare le analogie e le profonde differenze esistenti tra la situazione attuale e l’economia di allora. Partiamo dalle cause: la stagflazione si determina in presenza di aumenti dei prezzi dell’energia, che rendono di conseguenza meno profittevoli alcune produzioni. Ma si determina anche come conseguenza di una massa eccessiva di liquidità disponibile (data da politiche monetarie e/o fiscali generose) che comportano una crescita dei prezzi. (Nel caso italiano pensiamo ad esempio alla politica dei super bonus e l’effetto avuto sui materiali impiegati nelle costruzioni). E in effetti questa è la situazione di ora, come di allora. Siamo spacciati, allora?

No, perché a differenza di allora la ripresa esiste e addirittura l’offerta non sta dietro alla domanda, come pure esiste un gap di occupazione ancora da recuperare: tutti elementi che confermerebbero l’esistenza di una inflazione provvisoria e non strutturale. E poi c’è il “trucco”, ovvero l’esistenza di un debito pubblico monstre per tutti i paesi più industrializzati, (scherzando potremmo dire che ci hanno preso a modello) per cui l’esistenza di una alta inflazione non può che fare molto comodo ai singoli Paesi.

È fuor di dubbio che ci sia un po’ di imbarazzo da parte delle banche centrali nell’adottare politiche monetarie troppo restrittive (forti rialzi dei tassi) per contrastare l’inflazione, ma che al contempo ostacolerebbero la piena ripresa economica degli stessi Stati (che ricordiamo essere fortemente indebitati e dovrebbero così pagare di più). Conviene allora “essere più realisti del re”, o rialzare i tassi con moderazione? Ai posteri…

Una cosa però è certa: questo continuo battibeccare tra “falchi” e “colombe” (come amano descriversi i vari tecnici favorevoli o meno al rialzo dei tassi), non sta aiutando di certo il mercato finanziario a capire come riposizionarsi e ripartire, ma alimenta solo la speculazione. Che a gennaio è stata feroce. Con buona pace della salute degli operatori che da anni frequentano il mercato finanziario, ma con grosso disagio anche per le arterie dei piccoli risparmiatori…

Nudi al Meta

La notizia ha travalicato i confini dei mercati finanziari per arrivare sulle prime pagine dei giornali.

Il titolo Facebook (ora rinominato Meta, per l’interesse nei confronti della nuova dimensione della realtà virtuale), ha perso nella sola giornata di giovedì scorso un quarto della propria capitalizzazione e da inizio anno 270 miliardi di dollari circa.

Apriti cielo. Uno dei tonfi più clamorosi di sempre, almeno per le aziende di grandi dimensioni, sul mercato tecnologico americano.

Ma questa è la cronaca borsistica. Una analisi più sociologica metterebbe l’accento sul fatto che, probabilmente, l’era di Facebook, per come l’abbiamo conosciuta, è, o sta tramontando.

La necessità di cambiare il nome e il business di riferimento (la realtà virtuale) ne sarebbe una parziale ammissione.

Di esempi di aziende storiche nel proprio settore e poi scomparse nel corso della storia è pieno il mondo: Kodak, Blockbuster, BlackBerry, Lehman Brothers, Atari e per non andare lontani la nostra Alitalia sono esempi di marchi scomparsi o per crack finanziari, o per scelte sbagliate del management, oppure per non essersi adeguati al progresso tecnologico.

Non è forse (ancora) il caso di Facebook, anche se appare evidente che la piattaforma social sia rimasta un punto di riferimento per la “generazione di mezzo”: ovvero utenti adulti che possono collegarsi nei soli ritagli di tempo giornalieri e non certo assidui frequentatori, come ad esempio i teen-ager, che invece sembrano del tutto snobbare questa piattaforma e popolare in massa la rivale TikTok.

E poiché la attrattività di ogni mercato è rappresentata dalla numerosità dei suoi clienti, anche in questo caso, la forza di una piattaforma social si misura nella numerosità degli accessi giornalieri. E’ lì dove le aziende intendono investire. TikTok è cresciuto del 325% solo nel 2020, (seppur su una base più ristretta), Facebook perde invece utenti (dopo 18 anni di crescita continua).

Si prospettano insomma tempi duri per il Signor Zuckerberg, che nella classifica (real time di Forbes) sulle persone più ricche del pianeta, ha perso in un solo giorno circa 32 miliardi di dollari, uscendo dalla top ten.

Se continua così è un attimo trovarsi nudi alla meta, pardon.. al Meta.

Chi si mangia il maialino

Il salvadanaio a forma di maialino deriva da credenze antichissime e lontanissime: chi dice che provenga da una usanza cinese del XV secolo, dove il maiale è simbolo di abbondanza e di prosperità, chi invece sostiene che in occidente tra il XVII e il XIX secolo i salvadanai prendessero questa forma, perché al pari dell’animale, era qualcosa da sacrificare alla bisogna.

Fatto sta che il popolo italiano si è sempre contraddistinto per una sorta di sacro rispetto nei confronti del maiale, testimoniato sia dai nostri eccellenti salumi e sia dalla nostra innata propensione al risparmio.

Nel 2022 dovremo tuttavia abituarci all’idea di perdere mediamente circa 900 euro a testa, senza aver deliberatamente aperto o praticato dolorose rotture del nostro “prezioso maialino”.

Fermi tutti. Per una volta non c’entrano tasse, imposte o costi strani applicati dalle banche: il colpevole di questo “taglieggio” si chiama inflazione, che se continuerà a crescere ad un ritmo di circa il 3,5%, (coraggio, negli USA è già al 7%) impatterà sul nostro costo della vita, ma soprattutto su quella enorme massa di 1.814 miliardi di euro ferma sui conti correnti degli italiani.

Ma l’impatto sarà uguale per tutti? In termini nominali sì, ma in termini reali no.

In parole più semplici: la crisi economica scatenata dalla pandemia ha inevitabilmente dilatato le differenze esistenti tra le classi sociali, ma anche creato nette distinzioni nel popolo dei risparmiatori.

Da una parte tutti coloro che compongono il popolo delle partite IVA (imprenditori, liberi professionisti, artigiani e precari) che hanno generalmente visto ridursi il proprio giro d’affari in maniera più marcata, rispetto alla riduzione dei consumi da lock down. Dall’altra parte i rappresentanti del posto fisso, che hanno beneficiato, al contrario, di una extra liquidità, dovuta ai minori consumi e alla stabilità delle entrate.

E così nei conti correnti italiani (o nel maialino per rimanere nella metafora) per tutto il 2020 e 2021 è aumentato il cosiddetto “risparmio involontario”, (studio Einaudi-Intesa San Paolo) derivante dai minori consumi da lock down e che ha determinato un aumento di 110 miliardi di euro sui conti correnti nel 2020.

Peccato che la maggioranza degli italiani sembrerebbe propensa ad attendere tempi migliori per immettere questo risparmio extra nel circuito economico.

E a differenza di quanto accada nella vita reale, “il maialino-salvadanaio” non ingrassa stando fermo, ma al contrario si assottiglia sempre di più (inflazione). Speriamo di accorgerci in tempo quale sia il momento più adatto per aprire il maialino ed investire parte della liquidità in attività più redditizie, almeno eviteremo il rischio di rimanere colpevolmente “a bocca asciutta”…

L’anno che verrà non è quello della marmotta

“L’anno vecchio è finito, ormai, ma qualcosa ancora qui non va” (cit. Dalla).

Già.. Abbiano salutato il 2021 pieni di aspettative per il 2022 e invece a confrontare le prime pagine dei giornali dei rispettivi anni, sembrerebbe di essere nella stessa identica situazione. Come nel celebre film “Il giorno della marmotta”, la vita sembrerebbe essersi fossilizzata nella sua noiosa e spaventosa routine.

Ma sarebbe di certo una lettura particolarmente ingenerosa del 2021. Perché in questo anno di transizione sono successi eventi epocali.

Il primo è che il 50% della popolazione mondiale si è vaccinata (a scanso di equivoci, buona parte di quel 50% ancora non vaccinato non l’ha fatto per ideologie proprie, ma per impossibilità) confermando che il mondo corre ancora a due velocità (sanitarie) diverse. Tuttavia, l’efficacia dei nuovi vaccini e i progressi farmacologici in atto farebbero ben sperare per un sensibile avvicinamento già nel corso dell’anno. E se il Covid-19 presto o tardi diverrà endemico (ce lo auguriamo tutti), gli effetti che questa pandemia ha scatenato a livello globale rimarranno forse il miglior esempio di cooperazione mondiale della nostra storia.

La globalizzazione tanto avversata dai nazionalisti romantici è stata finora la migliore soluzione alla pandemia e ci ha confermato che da soli non si va da nessuna parte: solo cooperando, sia in campo medico, biologico, economico, tecnologico e sociale si può sopravvivere.

Lo sviluppo della tecnologia è stato proprio un altro fattore determinante: abbiamo scoperto che si può lavorare anche da casa e che la efficienza non è per forza sinonimo di presenza.

Anche dal punto di vista economico abbiamo assistito a una crescita insperata e inesplorata da decenni: i consumi sono ripartiti, le aziende abbondano di liquidità, il livello occupazionale si mantiene stabile e non in collasso come molti sostenevano. Semmai la pandemia ha fatto esplodere nel 2021 il fenomeno della generazione Yolo (You only live once) e la consapevolezza che la vita non si può ridurre a lavorare e basta.

Certo, la crescita economica ha lasciato anche delle scorie, riassumibile nella impennata inflazionistica, ma dopo un decennio in cui le banche centrali hanno cercato di far salire a tutti i costi l’inflazione, oggi la necessità di ridurla appare un accetabile contrappasso.

Non c’è ancora dato sapere se val la pena “d’esser contento, di essere qui in questo momento” (cit.), ma di certo il 2021 ci ha portato una “grande trasformazione”, da cui potremo uscirne tutti e insieme più forti. “E questa è la novità” (cit.)

Fitch (ri)portaci in Europa

Che fosse un anno particolarmente favorevole per lo stellone italico lo avevamo già capito nella magica notte di Wembley del luglio scorso e poi ancora di più, nelle tante notti di gloria dell’olimpiade giapponese. Se a questi successi aggiungiamo quelli ottenuti nella musica e nelle altre competizioni internazionali, il quadro che emerge nel corso dell’anno, è di assoluto primato storico.  Vittorie tanto prestigiose, quanto inattese (almeno alla vigilia) e per questo ancora più gratificanti. Ma che arrivasse persino la promozione da parte della agenzia di rating Fitch (per intenderci è la stessa che ci aveva bocciato in piena emergenza sanitaria nel 2020, mostrando un discutibile approccio di analisi finanziaria) vale quanto le paratone di Donnarumma o lo scatto di Jacobs. Più precisamente si è tornati a un livello di rating BBB (due gradini sopra l’abisso chiamato in finanza romanticamente “junk”, ovvero “spazzatura”) e questo ha una serie di implicazioni notevoli e tutte bellissime.

La prima, forse più ovvia, è che lo stato italiano risparmia un sacco di soldi e di conseguenza non li chiede a noi sotto forma di tasse: migliorando il merito creditizio, il titolo di stato diventa più affidabile e non si è costretti a collocare nuovi titoli a rendimenti alti altrimenti nessuno li compra.

La seconda è che oggi più che mai, conta il futuro e non il presente: il debito si è issato al 154% del valore del PIL (mai stato così alto), ma questo non spaventa il mercato, che anzi crede in una crescita del PIL italico del 6,3% nel 2021 e del 4,7% nel 2022 (a fronte di un -9% registrato nel 2020). Il mercato ci dà dunque fiducia. Abbiamo dimostrato (finora) di essere i migliori nella gestione della campagna vaccinale nel continente e ora si aspetta un livello di eccellenza anche nei livelli di crescita economica.

Infine c’è un probabile “endorsement” sull’attuale rappresentatività politica del Belpaese (“e questa è la vera novità”, cit.) e una assoluta fiducia che le prime riforme annunciate, siano solo l’inizio di una stagione ritenuta cruciale per il futuro di questo Paese.

Il gap da colmare con gli altri Paesi guida (Germania, Francia, e Regno Unito per stare nel continente) è ancora ampio, almeno a livello di rating, sono tutte con livelli di doppia se non tripla A. Ma questo non può certo spaventare un Paese che deve correre, ma che quando lo fa, lo sa fare meglio degli altri. Almeno così è stato nelle ultime Olimpiadi e (si spera) anche alle prossime rilevazioni statistiche sul PIL.

L’insostenibile leggerezza del cigno grigio

In finanza si è soliti sintetizzare il verificarsi di eventi rari, imprevedibili e inaspettati, ma con impatti devastanti sull’andamento dei mercati, con la metafora del “cigno nero”. Il Covid, (ventun mesi fa oramai) ne è stato un clamoroso esempio: dal 19 febbraio 2020 e per una ventina di giorni circa, tutte le borse sono andate al tappeto, perdendo dal 35% al 45% del loro valore, volatilità alle stelle monitorata dall’ indice Vix (o della paura) e investitori frastornati sul da farsi. Mai si era visto nulla di simile, neppure nella famigerata crisi del 1929. Poi sappiamo come sono le andate le cose: i mercati hanno recuperato in maniera clamorosa, è tornato il sereno tra gli investitori e l’entusiasmo per una economia mondiale in netta ripresa. Venerdì scorso in America era il Black Friday, (il giorno successivo alla festività del Ringraziamento), conosciuto in tutto il mondo per le generose offerte e sconti sui prodotti. Anche il mercato borsistico americano non ha voluto essere da meno, con prezzi dei corsi in deciso calo, seguendo quanto l’Europa aveva appena fatto nel corso della giornata. Euforia da Black Friday?.. Mica tanto. I mercati finanziari rispetto a noi consumatori sono meno emotivi nelle intenzioni, ma molto di più nelle determinazioni. L’incertezza sulla pericolosità della nuova variante sudafricana ha fatto rivivere i fantasmi del febbraio 2020, quando il Covid-19 si presentò come un autentico cigno nero. E i mercati, si sa, odiano l’incertezza e amano portarsi avanti, nel bene e nel male (le determinazioni di cui scrivevo prima).

E così da lontano hanno avvistato un cigno, il cui colore è ancora indefinito. Non può essere nero poiché il Covid l’abbiamo già scoperto, ma potrebbe essere grigio (ovvero, posso determinarne il potenziale impatto, ma non sono certo che si manifesterà).  E in attesa che l’OMS riesca a darci delle informazioni più precise sulla nuova variante, i mercati nel dubbio, tendono a dargli il colore più scuro possibile. Mal che vada diranno che c’era poca visibilità. Auguriamoci che l’OMS possa fare chiarezza al più presto, magari dotandoci di potenti cannocchiali e scoprire che è davvero un meraviglioso esemplare di cigno. Bianco.

Se all’ufficio anagrafe mi sentirò finalmente Yolo

Si è scritto la scorsa settimana degli effetti del Covid sul mercato del lavoro, individuando nella generazione “Yolo” un gruppo di persone sempre più numeroso, fuoriuscite dal mondo dell’impiego, e proiettate alla ricerca di una migliore qualità di vita. Ma la rivoluzione pandemica continua a determinare cambiamenti epocali anche per chi, nel mondo del lavoro, ci è rimasto. Lo smart working generalizzato è già entrato nella sua fase discendente (recrudescenza del virus permettendo): si sente il bisogno di riappropriarsi della dimensione umana che solo il lavoro in presenza permette, anche se un margine di elasticità in tal senso, verrà sempre garantito e anzi favorito dal datore di lavoro, sia esso privato o una amministrazione pubblica. E se il mondo dei privati ha modificato tutto sommato alla svelta l’organizzazione delle imprese, riconfermando dove possibile una gestione “smart” del carico di lavoro e generando un win-win che fa felice tutti (aumento del benessere collettivo, risparmio sui trasporti, minore traffico, minore inquinamento, minor stress, maggior risparmio sui consumi etc etc…) è sulla famigerata riforma della pubblica amministrazione che ci giochiamo, almeno in Italia,  il nostro futuro e benessere collettivo. La digitalizzazione è una parola che già esprime di suo una metrica melodiosa e l’annuncio della anagrafe digitale con i primi 14 certificati online che i cittadini possono avere in maniera autonoma e gratuita può comportare legittime scene di commozione al ricordo delle tante ore passate in coda allo sportello, scandite dal saltuario bisillabo “dica”. Immaginare, a tendere, di poter dialogare con la pubblica amministrazione su ergonomiche sedie d’ufficio (se impresa), o più comodamente sprofondati sul sofà del salotto (se privato) ci consentirà di ripensare non solo a come impiegare in maniera opportuna il tanto tempo risparmiato, (magari dedicandoci finalmente ad attività salubri e all’aria aperta), ma anche a una nuova lirica nelle favole da raccontare ai nostri bambini. Salveremo il “c’era una volta” che crea sempre pathos e curiosità, ma anziché mortificare necessariamente il povero lupo, avremo la possibilità di ricordare angusti, disadorni e chiassosi corridoi di edifici pubblici, dove la gente entrava e non sapeva mai come, quando e come ne usciva.

Meglio “Yolo” che mal accompagnato

In America l’hanno già chiamata “the Great Resignation”: un fuggi fuggi dal mondo del lavoro che non ha precedenti. E il fenomeno, in grande espansione, non risparmia nemmeno i paesi economicamente più sviluppati, con la stessa Italia a giocare un ruolo da protagonista. Un range che oscilla dal 2% al 3% di persone che di colpo e con motivazioni diverse, decide spontaneamente di licenziarsi.

Paghe troppo basse, la paura di contrarre il virus, la volontà di godersi maggiormente la vita dopo aver riscoperto nei vari lock down il piacere di alcune passioni sopite, o meno poeticamente una politica particolarmente generosa di sussidi governativi sono le ragioni che spingono molte persone a un radicale cambiamento di vita.

In USA la chiamano generazione YOLO (you live only once e non penso serva la traduzione), ovvero coloro che dopo aver sperimentato le ferree restrizioni dei lock down in certi settori oppure i carichi dello smart working in altri settori in cui la digitalizzazione è dilagata senza regole, hanno detto: “basta, grazie, non fa per me”.

È sicuramente un punto di rottura, come altri fenomeni, che magari vedremo la prossima settimana circa gli effetti della pandemia sul mercato del lavoro.

È ancora presto per capire se questo sia un fenomeno transitorio o duraturo, soprattutto perché non abbiamo memoria di una così forte ripresa economica a seguito di una pandemia mondiale.

Guardando ai soli dati italiani, per fare un esempio, poco meno di mezzo milione di persone tra aprile e giugno si è dimessa, un dato del +37% rispetto allo stesso periodo dell’anno prima e comunque superiore anche al dato “normale” del mercato 2019.

E mentre sempre più aziende faticano a trovare manodopera qualificata e personale per coprire i picchi di domanda di una economia in forte ripresa, (si narra) che ci sia mezzo milione di persone (almeno da noi), che suggerisce con fare flemmatico e rilassato di prendersela con più calma: del resto si vive una volta sola…

Il gioco dell’oca dell’economia italiana

L’Italia sembra aver imboccato definitivamente la strada della ripresa economica: l’anno prossimo (e quindi in soli 2 anni) l’Italia ritoccherà il livello di produttività pre Covid.

Un successo? Sì, se consideriamo che dopo la crisi del 2008, l’Italia ci aveva messo ben 11 anni per tornare ai livelli precedenti.

Potremmo scrivere per ore ed ore sulla differente (e più illuminata) visione economica adottata per fronteggiare questa crisi pandemica, rispetto a quella finanziaria del 2008: politiche monetarie ultra espansive e massicce politiche fiscali hanno favorito questa ripresa internazionale. Il modello dell’austerity adottato nel passato si era rivelato un clamoroso errore.

Gaudeamus igitur? Dipende. Perché tornando a guardare nei nostri confini, l’Italia torna esattamente nel punto in cui si era già impantanata due anni fa. Qualcuno la chiamava soddisfatto “decrescita felice”, ma a mio modesto avviso, una economia che non è cresciuta negli ultimi 40 anni (dal grande boom industriale durato fino agli anni 70), di felice ha ben poco.

Le cause di questo colossale flop sono numerose e ben conosciute: burocrazia, sistema scolastico poco focalizzato alla eccellenza, pubblica amministrazione, giustizia lenta e farraginosa, etc etc.. e su queste ha una responsabilità diretta la nostra classe dirigente.

Ma c’è anche una responsabilità degli stessi attori economici, che in alcuni casi hanno preferito fossilizzarsi su un modello di capitalismo familista, che da tempo sembra affetto dalla sindrome di Peter Pan (non vuole più crescere) e in altri casi hanno ricercato il raggiungimento della dimensione, come salvaguardia della futura esistenza.

Per carità, abbiamo anche casi virtuosi di giovani rampolli dell’industria italiana che hanno capito che è meglio fare l’azionista che il manager, affidando il ruolo a gente, (presumibilmente) più competente, (visto che anche in economia, uno non vale uno), ma la maggior parte delle imprese italiane sceglie ancora la successione in famiglia.

E ora abbiamo tutti una splendida occasione, che è rappresentata dalla dote miliardaria garantita dall’Europa, purchè si traduca nel coraggio di fare riforme da parte dello Stato e di fare impresa da parte degli imprenditori.

Non possiamo più trovarci tra 10 anni con una crescita a zero. Il mercato non ce lo consentirebbe: non si fa credito a chi non ha reddito e il nostro spread alle stelle sarebbe il testimone del nostro inabissamento.

O ora o mai più. Che poi significherebbe sostenere le imprese meritevoli e le nuove iniziative, garantire il salvataggio alle sole aziende con concrete possibilità di recupero ed espellere quelle aziende che drenano risorse dal mercato, senza restituirle.

L’alternativa è come sempre imbarcare tutti sulla nave dell’economia italiana. Speriamo allora di non incontrare sulla rotta nessuno scoglio…

 

Lo strabismo sociale del Covid

Debelleremo il Covid a livello internazionale, ma gli strascichi e le cicatrici che ci lascerà, rimarranno visibili per lunghi anni e comporteranno un aumento dei divari sociali già esistenti tra economie avanzate e resto del mondo. Questo in estrema sintesi le conclusioni a cui perviene il FMI nel suo ultimo rapporto della scorsa settimana. Ma andiamo con ordine con qualche numero.

La variante Delta sta “azzoppando la ripresa” e impedisce ancora un “ritorno alla normalità”, causando anche una marginale correzione delle previsioni di crescita del Pil globale per il 2021 (dal 6,0% stimato a luglio, al 5,9% di ora), mentre resta confermata la stima del +4,9% per il 2022. La ripresa globale continuerà ad essere guidata dagli USA (+6% a fine anno, rispetto al precedente +7%, per i timori inflazionistici) e dalla Cina (+8% stabile). L’Eurozona migliora più del previsto, trainata non tanto dalla Germania (in calo a un “modesto” +3,1%, ma dalla Francia (+6,3%) e (rullo di tamburi…) dall’Italia (+5,8%). Bene anche il Regno Unito (+ 6,8%) e l’India tra i paesi emergenti (+9,5%).

E questo è quello che dicono “le stime numeriche”. “Le stime d’impatto sociale” sono però più preoccupanti di qualsiasi scostamento numerico al ribasso. Perché se le economie più sviluppate potranno sperare (in termini di PIL) in un ritorno ai livelli pre-Covid nel 2022 e superarli di slancio già nel 2024, nei Paesi emergenti (e peggio in quelli a basso reddito) nel 2024 il loro PIL sarà più basso dal -5,5% fino al -7,0% delle stime annunciate in tempi pre-Covid. La differenza sostanziale tra questi due mondi dipende dall’accesso alle politiche di vaccinazione di massa della popolazione: nelle economie sviluppate (in media) il 60% è stato già vaccinato, nei Paesi più poveri questa media si inabissa al 5%, con tutti i costi sanitari e sociali che una pandemia, ancora nel vivo, comporta.

La fiammata inflattiva sulle materie prime e sui prezzi in generale comporterà soprattutto nei Paesi a basso reddito, un disordinato rialzo delle derrate alimentari, con un esponenziale rischio di disordini sociali e con tutte le ripercussioni di carattere immigratorio che potrebbero derivarne. L’Fmi stima che circa 65-75 milioni di persone in più entreranno in condizioni di estrema povertà già nel 2021 (una popolazione numericamente superiore a quella italiana, per intenderci).

Conviene allora (a tutti) che i Paesi più ricchi possano diffondere il più possibile i vaccini a livello globale; comprando massicce dosi da distribuire nelle economie più povere. Parafrasando un vecchio slogan in voga qualche tempo fa, è forse davvero ora di “vaccinarli a casa loro”: in fondo, questi Paesi non stanno chiedendo di meglio.

Il costo della transizione energetica ( 2 di 2)

La scorsa settimana si è parlato dei costi della transizione energetica e si è ribadito che i sacrosanti desiderata di riduzione dell’inquinamento avranno inevitabilmente un costo economico importante sulle nostre tasche.

Più prosaicamente e forse difettando di romanticismo: è bello immaginare un mondo ad emissioni zero, ma è un po’ utopico, le soluzioni adottate da qualsiasi potenza economica non saranno mai efficaci, se non prevedono un totale coinvolgimento in termini di tempo, sensibilizzazione e restrizioni economiche per la popolazione.

Qualche dato a sostegno. Entro il 2050 le maggiori potenze mondiali si sono impegnate a ridurre del 80%-95% il fabbisogno dei combustibili fossili (petrolio, carbone, gas). Ad oggi questi combustibili soddisfano ancora quattro quinti del totale fabbisogno energetico.

Il passaggio alle energie rinnovabili sarà di certo una rivoluzione e ammesso e non concesso che avvenga nei tempi prospettati, come tutte le rivoluzioni determinerà vincitori e vinti, soprattutto a livello industriale, con una serie di filiere produttive che tenderanno a scomparire.

E questo è un primo impatto di carattere sociale. Negli ultimi 15 anni, l’investimento globale nelle energie rinnovabili (solare ed eolico) è costato 3.800 miliardi di dollari circa, per coprire circa il 10%-15% del fabbisogno complessivo. Guardiamo solo in casa nostra: in Italia negli ultimi anni sono stati erogati numerosi sussidi (130 miliardi di euro) per la promozione delle rinnovabili, ma la riduzione delle emissioni di CO2 è stato solo del 20% circa. (Ultimi 10 anni). Ergo, per rispettare quanto scritto nel PNRR, dovremmo aumentare in maniera strepitosa il ritmo di inserimento di nuovi impianti di energia rinnovabile e il ritmo di riduzione di gas inquinanti.

Ci riusciremo? Per carità, dopo aver stravinto ogni competizione questa estate, è giusto non porci dei limiti, ma forse, l’unica possibilità per accelerare in maniera così clamorosa nel percorso prefissato è ridurre le polemiche sull’impatto paesaggistico degli impianti (sciùscià e sorbi no se peu.. per la traduzione chiedere a qualche ligure), o, meno utopisticamente, accettare forme energetiche alternative. Valutando anche il nucleare di nuova generazione.

Per finire, anche acquistare una auto elettrica non salva il pianeta e forse neppure la coscienza.

Il pianeta lo salveremo se e solo se rivedremo le nostre esigenze energetiche e le nostre abitudini di cattivi consumatori, anche quelle più scontate, come riciclare per bene i rifiuti, evitare gli sprechi alimentari e il consumo di acqua, ridurre o abolire diete carnivore etc etc: tutti altri impatti sociali che (speriamo) ci attendono a breve.

Questo non è un manifesto ambientalista. Ma quello che (a mio avviso) dovrebbero insegnarci subito a scuola. E non, come comune tendenza, che a spiegarci come salvare il pianeta, sia fatto da chi va a scuola per imparare (o almeno dovrebbe…).

Il Costo della Transizione energetica (1 di 2)

Abbiamo tutti ancora negli occhi le accuse (in parte fondate) di Greta Thunberg sulla scarsa attenzione all’ambiente e la provocazione del blablabla che ha rivolto ai “potenti” del Pianeta, durante l’ultimo Yoyth4Climate di Milano. Tema spinosissimo da affrontare, ne sono conscio, ma chi si occupa di economia dovrebbe (a mio avviso) cercare di spiegare che qualunque obiettivo si può raggiungere, ma sempre pagando un determinato prezzo e i cosiddetti “win win” sono situazioni ideali, quanto spesso distanti dalla realtà.

Andiamo on ordine: il mondo industriale sta cercando di coniugare sviluppo economico e transizione ecologica, ma una crisi di approvvigionamento energetico è esplosa a livello internazionale. L’epicentro di questo terremoto è ancora una volta la Cina, che ha un problema di sviluppo economico (e quindi un fabbisogno energetico) superiore alle altre potenze industriali, ma ha preso seriamente le direttive di riduzione dei gas serra. (Ad oggi i 2/3 del fabbisogno energetico in Cina è soddisfatto dal carbone).

Conseguenze? Acciaierie, fonderie di alluminio, cementifici e impianti metallurgici, in quanto energivori, sono stati tra i primi a rallentare o sospendere la loro produzione. Insomma: le industrie si fermano, le città spengono le luci, black-out estesi e prolungati colpiscono le famiglie cinesi.

Ma le conseguenze del rallentamento cinese si sentono già e si sentiranno presto ancora di più anche in Europa e in Usa.

Come? Dovendo limitare il consumo dei combustili fossili più impattanti in termini ambientali, ma in un contesto produttivo post pandemico estremamente sostenuto, crescono i prezzi per tutte le altre fonti energetiche, che si trasferiscono direttamente sul costo della produzione.

Il petrolio Brent ha superato 80 dollari al barile, il gas ha toccato un nuovo record storico, la Cina dovendo rifornirsi di gas liquefatto (gnl) lo prende dalla Russia, sottraendolo dunque all’Europa, che da mesi riceve forniture ridotte, provocando così un aggravio in termini di prezzo.

Non ci sono le rinnovabili? Certo, ma la loro produzione è ancora troppo ad intermittenza (eolico), ma in generale c’è ancora un problema di conservazione.

Procurarsi dunque il combustibile è diventato difficile per tutti e così cresce anche il prezzo del carbone (già.. il nemico giurato di Greta), oltre ai prezzi dei metalli, dell’acciaio e di tutte le altre materie prime in generale.

Con il paradosso che la Ue ha anche appena aumentato i costi per la produzione di CO2: tutti costi che si scaricheranno inevitabilmente a valle, in una spirale inflattiva molto pericolosa.

Ovviamente non c’è nessuna presunzione, (da parte mia), di voler suggerire strade alternative da percorrere, ma solo la necessità di ricordare che presto arriverà l’inverno e dunque la necessità di riscaldare abitazioni e luoghi di lavoro.

Speriamo che sia un inverno climaticamente mite, perché i primi freddi comporteranno inevitabilmente (e scongiurando scenari di razionamento del consumo energetico) bollette decisamente bollenti che ci toglieranno il respiro. Anche quello per un semplice blablabla.

(Continua la prossima settimana..).

Ombre Cinesi

Nella scorsa settimana la volatilità dei mercati internazionali è aumentata in maniera consistente, certificata dall’indice Vix (o indice della paura) e amplificata dall’origine geografica della preoccupazione: la Cina.

Già. Ancora la Cina. “Ancora tu”, per dirla alla Battisti. E un altro N&M ( “Una patrimoniale in salsa cinese”) era stato appena dedicato sulle recenti riforme avviate in Cina e i loro effetti sui mercati globali.

Ma cosa sta succedendo? Brevemente: la seconda maggiore società immobiliari cinese (Evergrande) sta fallendo e la banca centrale cinese, è già intervenuta immettendo liquidità per circa 110 miliardi di $, per impedire che l’intero settore immobiliare cinese possa cadere nel marasma. (Curiosità: il nome scelto dal fondatore fu mezzo italiano e mezzo inglese perché fosse di buon auspicio.: “Grande per sempre”… non è andata esattamente così).

Una crisi come tante altre? Non proprio, perché la crisi della società è deflagrata anche per l’atteggiamento più severo delle autorità cinesi in tema di regolamentazione dell’attività economica: è stato dato un giro di vite sui debiti societari e sull’utilizzo della leva finanziaria da parte delle imprese. Non potendo più facilmente finanziarsi sul mercato domestico, la società in questione è dovuta andare a cercare soldi fuori, con condizioni molto più impegnative e questi debiti sono i primi ad essere “saltati”. Stiamo assistendo a una crisi tipo Lehman Brothers?

Probabilmente (e per fortuna) no e per una serie di motivi. Primo perché il governo cinese ha da poco avviato un sistema di regole molto più severe in termini di indebitamento societario, mettendo già in conto anche qualche problema di tenuta finanziaria. Si ballerà di certo, ma la turbolenza di mercato dovrebbe rientrare e in ogni modo il sistema bancario cinese ha spalle grosse per assorbire la perdita senza eccessivi traumi e permettere al partito comunista di rispettare gli obiettivi strategici e di crescita di lungo periodo (raddoppio PIL al 2035). Secondo, perché l’indebitamento di Lehman Brothers era stato comprato dalle maggiori economie mondiali, mentre per Evergrande (almeno per i dati ad oggi noti) i creditori sono in grandissima parte domestici (banche cinesi e altre istituzioni) e il debito sembra essere molto parcellizzato.

Di certo, bisognerà però capire se questo sia un caso isolato, o la recente svolta attuata dal governo centrale per raggiungere quella “prosperità sociale” tanto ricercata, non comporti, per paradosso, una diffusa instabilità finanziaria e/o una distruzione permanente di ricchezza.

“Con la ricchezza aumentano le preoccupazioni, con la povertà non diminuiscono”. Lo diceva Socrate, ma forse sarebbe stato meglio se fosse diventato anche un proverbio cinese.

Rimmel italiano

Prologo. Se l’Italia confermasse la crescita sperimentata nel primo semestre 2021, a fine anno il PIL si assesterebbe a circa il +6% rispetto all’anno prima, in altre parole, l’economia del Paese tornerebbe quasi ai livelli (in termini di produzione e occupazione) pre Covid, con buona speranza di poterli finalmente toccare e anzi superare nel 2022. Fine del prologo.

Se avessimo esordito così in qualunque teatro italiano fino a due anni fa, ci sarebbe stato il silenzio generale, o peggio, qualche risatina di sottofondo.

Abituati a una crescita del “zero e qualcosina” da ormai anni, un enunciato di tale portata sarebbe stato poco credibile. Certo, di mezzo c’è stato il Covid, ma a confermare l’incredibile dato, per ora si sono già espressi numerosi istituti di ricerca, sia nazionali che internazionali, in attesa della ufficialità di fine mese con la Nota di aggiornamento al PNRR del governo.

Sul dato hanno inciso (e non poco) i 25 miliardi incassati dall’Europa sui quasi 49 miliardi erogati in totale (non possiamo di certo lamentarci), ma è ora che dobbiam giocare “bene ancora i quattro assi, bada bene, di un colore solo” (cit.) per aggiudicarci l’altra tranche da 25 miliardi.

Come fare allora per incassare l’intero jackpot?  Solo una cosa, che è poi quella più difficile: attuare le riforme promesse e consegnate nel PNRR, ovvero giustizia, concorrenza, pubblica amministrazione e fisco. In un Paese abituato alla stagnazione e a una decrescita (in)felice negli ultimi vent’anni, scommettere tutto sull’aumento della produttività grazie all’effettiva capacità di realizzazione delle misure programmate, potrebbe sembrare un azzardo.

Ma non abbiamo altre carte da giocare. E per un Paese che sta per toccare il picco massimo del suo debito pubblico (160% nel rapporto tra debito e Pil), dovrebbe essere a tutti chiaro che l’esito della partita dipenderà dalle capacità di intervenire sul “denominatore” e non più su “soluzioni fantasiose” del numeratore, come fatto in passato.

O forseChi (ci) ha fatto le carte, (ci) ha chiamato vincenti, ma uno zingaro è un trucco e un futuro invadente, fossi stato un po’ più giovane, l’avremmo distrutto con la fantasia”? (semi cit.)

Una patrimoniale in salsa cinese

Il presidente cinese Xi Jinping approfittando della scarsa attenzione internazionale incentrata sulla crisi afgana o più semplicemente dalla pausa agostana, ha deciso di aprire una stagione di riforme epocali, volta a riequilibrare le differenze tra i super ricchi e l’ancora enorme massa di poveri del suo Paese. “E’ giunto il momento che i ricchi restituiscano parte della propria fortuna” ha detto tranchant alle tv nazionali, nel suo primo discorso dopo le vacanze.

Un cambio di rotta sostanziale dopo quaranta anni, almeno, di riforme incentrate sulla ricerca del successo personale. Un ciclo di riforme che ha colpito prima i grandi gruppi tecnologici, poi l’afflusso di nuovi capitali esteri, poi il settore dell’istruzione privata e da ultimo i redditi più elevati. Due sono i nuovi obiettivi dichiarati: “benessere collettivo” e “prosperità condivisa”.

Una nuova era in cui si sente la necessità di “ragionevolmente regolamentare i redditi eccessivamente alti” e “incoraggiare le imprese più ricche a restituire di più alla società”. Il benessere collettivo è “un requisito essenziale per una economia di mercato socialista, con caratteristiche cinesi”, ha ribadito il Presidente.

E per i super ricchi locali e (i mercati finanziari cinesi) è stata davvero una doccia fredda: la patrimoniale “alla cinese” ha pesantemente impattato sui corsi azionari delle maggiori società quotate in loco, ma anche sulle maggiori aziende internazionali del lusso.

In effetti le disparità sociali presenti in Cina sono ancora enormi rispetto a qualsiasi altra nazione di comparabile importanza economica: il 10% più ricco della popolazione pesa circa il 41% del reddito nazionale e la differenza di tenore di vita assume sproporzioni colossali tra città/campagna e tra province costiere/province periferiche. E questo potrebbe spiegare il crollo dei corsi azionari cinesi e il malumore locale per i più abbienti.

Ma perché la patrimoniale cinese ha impattato anche il mercato del lusso interazionale? (per dare una idea, il colosso francese LVMH ha bruciato circa 40 miliardi di euro nei giorni immediatamente dopo l’annuncio di Xi Jinping).

Perché il mercato dei consumi è unico: il rischio che le nuove riforme limitino i livelli di spesa dei ricchi cinesi (tra i maggiori consumatori mondiali del prodotto lusso) nell’acquisto compulsivo della (ennesima) borsetta griffata francese o del piumino esclusivo Made in Italy è altissimo. E qui le lacrime non solo cinesi, ma anche francesi, italiane e di molti altri Paesi che esportano il lusso nel mondo. C’est la vie o per citare il titolo di una vecchia telenovela: anche i ricchi piangono

Imposta di successione: “il rigore” desiderato

Alla luce dell’interesse suscitato dall’ultimo Nuvole e Mercati (“Niente tasse siamo Italiani”), proverò a dare un contributo sulla famigerata imposta di successione, così invisa da molti e denominata dai suoi detrattori “tassa sulla morte” (ogni gesto scaramantico nella lettura del presente articolo è accettato e anzi incoraggiato).

C’è probabilmente una diatriba a monte da risolvere, tra chi ritiene ingiusta l’applicazione di imposte su un patrimonio che, in vita, era stato già tassato durante la sua formazione e chi invece vorrebbe l’imposizione di aliquote ben più alte e/o abbassare le attuali franchigie per i beneficiari, per favorire così una ridistribuzione della ricchezza tra le classi sociali.

Ognuna delle due fazioni ha le sue legittime ragioni, ma forse partire da una fotografia può aiutare: in Italia l’imposta di successione varia da un 4% a un 8% (a seconda del grado di parentela con il de cuius, il defunto per intenderci), fatta salva una franchigia di 1 milione di euro per ciascuno dei parenti più stretti (coniuge e discendenti), che si abbassa a 100.000 € per i fratelli e le sorelle o non è neppure prevista per gli altri beneficiari. Si paga anche (su ogni singolo immobile ereditato) le imposte ipotecaria(2%) e catastale (1%), che non godono di alcuna franchigia. Per la quantificazione dell’attivo ereditario c’è poi un 10% in più (presuntivamente rappresentato da beni mobili quali gioielli e opere d’arte et similia) da considerare.

Tanto? Poco? La vivacità del dibattito in essere dipende proprio dalla grossa differenza ad oggi esistente nel confronto con gli altri Paesi, dove, per intenderci, i livelli di franchigie sono molto più bassi e le imposte molto più alte. Qualche numero di massima sul range di imposte minime-massime (anche se sono previste numerose deroghe), altrove: Francia (min 5%-max 45%), Germania (min 7%-max 30%), Belgio (min 8%- max 60%), Regno Unito (40% aliquota fissa), mentre in Spagna dipende molto dalle normative regionali.

Ma c’è chi fa meglio dell’Italia: il Portogallo, dove i coniugi, i discendenti e gli ascendenti sono totalmente esenti da imposta.

Insomma, nell’attesa di vedere come finiranno gli europei di calcio, “negli europei delle tasse di successione” siamo sicuramente tra i semifinalisti, se non già in finale.

Ma nel conteggio di questo “torneo delle successioni” non ho considerato i Paesi minori, che al pari delle loro nazionali di calcio, offrono sempre qualche sorpresa.

Mi auguro per lo meno che il “rigore” che l’Europa tanto ci impone sia in questo caso più verso una porta che verso un’imposta…

 

Nuvole e Mercati tornerà il 13 settembre. Grazie per i tanti suggerimenti, le numerose idee e i preziosi consigli ricevuti da molti lettori in questi mesi. Buone ferie.

Niente tasse, siamo Italiani!

Niente tasse, siamo Italiani!

Ha destato clamore la proposta di un noto politico di qualche giorno fa, sulla revisione delle imposte di successione, per creare una dote a favore dei giovani. Rimandando ad altra occasione un approfondimento in materia, è stata quasi unanime la reazione, con una alzata di scudi (quasi) bi-partisan all’urlo: “basta tasse”!

E in effetti il carico fiscale rimane uno dei problemi più gravi del nostro sistema tributario, che scoraggia la partecipazione al lavoro, soprattutto femminile e giovanile. Certo, il fisco non è una scienza esatta e probabilmente una riforma sostanziale su tutto l’impianto è preferibile ad interventi su specifiche imposte, che danno più la sensazione di boutade politiche volte a creare solo mero consenso nel breve termine.

Ma “l’elefante va fatto a fette”, per cui da dove partire? Da una fotografia. L’Italia ha la tassazione più alta sul lavoro in Europa, (prevalentemente Irpef) preceduta solo da Slovacchia e Grecia. Una assurdità. Ma anche la tassazione sul capitale (imposte su utili societari e capital gain), ci vede (ahimè) in primissime posizioni (settimi). Sulle imposte sui consumi, (prevalentemente IVA) siamo invece piuttosto fortunati.

Quindi il famigerato “taglio del cuneo fiscale” (sul reddito da lavoro) dovrà determinare fette ancora più consistenti (per restare in metafora). Sono troppi coloro che preferiscono accedere a generose quanto discutibili politiche di welfare, rinunciando alla occupazione e innescando così un circolo vizioso: meno gente che lavora, più tasse su chi produce.

Di proposte di revisione delle imposte ne sono state già fatte tante, e altrettante ne verranno fatte ancora, alcune chiedono di rivedere anche il sistema a scaglioni, che con la introduzione dei regimi sostitutivi ha prodotto delle distorsioni devastanti sulla progressività, con un carico fiscale che risulta particolarmente urticante sui redditi medio e medio bassi (la classe media per intenderci, sempre più povera).

Il premier ha ricordato che «va studiata una revisione profonda dell’Irpef con il duplice obiettivo di semplificare e razionalizzare la struttura del prelievo, riducendo gradualmente il carico fiscale e preservando la progressività».

Winston Churchill diceva: “una nazione che tassa sé stessa per cercare di favorire il benessere è come un uomo in piedi in un secchio che tenta di sollevarsi per il manico”.

La riforma del fisco potrebbe davvero dare quel minimo di respiro necessario ad un Paese che si deve affrettare a correre, crescere e prosperare. Ma prima sarà più opportuno uscire coi piedi dal secchio…

Di denatalità si muore

«Un’Italia senza figli è un’Italia che non crede e non progetta. È un’Italia destinata lentamente a invecchiare e scomparire», ha detto il premier Mario Draghi due settimane fa agli Stati generali della natalità.

E in effetti l’anno della pandemia ha determinato il record negativo di 404 mila nuovi nati, (dato più basso dall’unità di Italia ad oggi e il 30% in meno rispetto a 10 anni fa), con una proiezione per il 2021 ancora più drammatica. Il saldo nati-morti è pericolosamente negativo: ogni anno è come se perdessimo una città di medie dimensioni di 200 mila abitanti, (come Padova o Taranto per intenderci), ma nell’anno della pandemia abbiamo perso una città come Firenze. Siamo il paese “più di vecchi del vecchio continente”, con una età mediana di 47 anni.

Non si tratta solo di avere un Paese meno popoloso e le conseguenze sono molteplici e tutte estremamente pericolose. Quali gli effetti in termini economici?

Con una popolazione attiva in costante calo sarà ad esempio più difficile ripagare il nostro debito pubblico.

Con quello che ne consegue in termini di merito del credito. Ma non solo. Minor teste significa anche minor consumi. In media, ogni italiano spende all’anno 17.000 euro, negli ultimi 6 anni abbiamo perso 1,1 milione di popolazione: la moltiplicazione in termini di minor domanda aggregata è piuttosto facile…

La quota di over novantenni cresce sempre di più: è di certo un bene se non fossimo in recessione demografica: tra poco immaginare una sanità essenziale garantita a tutti e ancora gratuita sarà sempre più difficile.

Anche il sistema pensionistico è in forte tensione: negli anni ’90 i pensionati rappresentavano il 26%. Oggi sono già il 39% e nel 2050, agli attuali livelli demografici, il rapporto sarà del 60%. Impossibile pensare che i contributi versati dai lavoratori possano garantire la pensione a una fetta di anziani così elevata.

Stiamo assistendo a primi casi di spopolamento in numerosi piccoli comuni: garantire lì i servizi essenziali sarà sempre più difficile e anti-economico per qualsiasi governo che guiderà il Paese.

C’è urgenza dunque di invertire la rotta. Prima che il Paese si accasci su sé stesso in una morsa letale. Serve equilibrio intergenerazionale: le politiche demografiche sono investimenti, non costi.

In Italia c’è una media di 1,2 figli per donna e il Covid ha fortemente impattato sull’avvio di nuove gravidanze, effetti che continueranno a manifestarsi anche nel prossimo futuro.

Serviranno allora di certo investimenti su asili nido/scuola e aiuti in generale alle giovani coppie per l’acquisto della casa, come pure misure per sostenere l’imprenditoria giovanile e femminile.

Ben vengano anche sussidi, assegni unici per ogni nuovo nato e bonus bebè. Stiamo parlando del nostro futuro: è nell’interesse di tutti, a prescindere dall’età. E poi… fortunatamente la televisione di oggi ci sta già aiutando con tuttiquei programmi demenziali con tribune elettorali” (cit. Maestro Battiato). Sicuri che non ci sia altro di meglio da fare?…

 

 

Tanto, statisticamente piove

Ripresa” d’intorno, brilla nell’aria, e per li campi esulta, sí ch’a mirarla intenerisce il core. (semicit.).

Non me ne vorranno gli estimatori di Leopardi (mi auguro) se prendo a prestito una sua celebre poesia dedicata alla primavera, riveduta e corretta. Ma è innegabile che come tutti noi, costretti in casa da più di un anno e smaniosi di respirare questi scorci di primavera finalmente fuori, alla stessa maniera i mercati vogliono poter festeggiare i primi scampoli di ripresa economica.

L’economia mondiale torna a correre, trainata dagli Usa, ma anche dall’economia europea (persino quella italiana!) date in forte rialzo: le previsioni UE hanno rivisto all’insù le stime fatte nello scorso inverno, e se tutto andrà bene a fine 2022 si tornerà ai livelli pre-crisi (ma di questo ne parliamo magari la prossima settimana).

Si festeggia? Macchè… non si fa nemmeno tempo ad aspettarsi che i mercati schizzino all’insù, che invece collassano tramortiti dalla notizia dell’inflazione galoppante.

Insomma, i mercati hanno preferito vedere il bicchiere mezzo vuoto, rispetto a quello mezzo pieno.

Ma cosa è successo veramente?

L’inflazione americana (vero termometro internazionale) si è infiammata lo scorso aprile: prezzi al consumo saliti del 4,2% sull’anno scorso, (maggior balzo dal settembre 2008) e ben oltre le già spaventose previsioni del +3,6%. E poiché l’andamento dei mercati finanziari è strettamente legato al tema dell’inflazione, i mercati hanno sperimentato un forte sell off (vendita massiva) in settimana. Un po’ come se decidessimo di uscire a fare un picnic con la famiglia sul prato verde e sotto il cielo azzurro e un improvviso quanto violento temporale ci cogliesse completamente di sorpresa.

Ma dopo la tempesta spesso viene il sereno. E questo potrebbe essere appunto anche il caso dei mercati, anche se dovremo aspettare un po’ di tempo per capire se è stato solo un violento temporale o l’inizio di una grandinata.

Guardiamo la situazione specifica, i prezzi in America sono saliti un po’ in tutti i settori: materie prime, energia, combustibili, auto usate (che negli USA è un barometro particolarmente affidabile sull’inflazione).

Il problema è che il dato di oggi si confronta con quello di aprile dell’anno scorso, dove l’inflazione era collassata a causa degli effetti dei lockdown. Insomma, è ovviamente una distorsione statistica. (o almeno dovrebbe essere). Il problema è che il mercato vive su dati statistici e la maggior parte di movimenti in acquisto e in vendita di titoli e/o strumenti finanziari avviene sulla lettura del freddo numero.

Le autorità monetarie (Fed in primis, ma anche la nostra BCE) hanno invitato a mantenere i nervi saldi e che probabilmente si tratta di una lettura sbagliata del dato.

Il mio vecchio amministratore delegato, (uomo molto pragmatico), mi ripeteva spesso una frase divenuta cult, quando ero io in azienda l’addetto della comunicazione finanziaria e dovevo ingegnarmi per spiegargli le bizzarrie dei mercati finanziari. Mi ascoltava, mi guardava serioso e mi diceva: “Tutto chiaro. I mercati finanziari si affidano alla fredda lettura dei dati statistici. Peccato che un uomo con la testa nel forno e i piedi nel congelatore, solo per la statistica sta mediamente bene…”.

A distanza di anni, la trovo ancora una frase illuminante.

Toglieteci tutto, ma non il costume

Ricordo ancora quando anni fa si entrata in ristoranti chiassosi, avvolti (e travolti) da una nube di fumo: nella sala centrale, più o meno ordinatamente seduti (il budget del resto era quello che era..), una moltitudine di persone consumava amabilmente lauti pasti, mentre il compagno di tavolo, o peggio ancora il suo vicino, si concedeva una sigaretta digestiva.

Poi si fece una legge che bandiva dai locali pubblici il fumo.

Molti scommisero su una pronta e costante disapplicazione della norma, invece, 16 anni dopo, gli Italiani si son dimostrati non solo particolarmente virtuosi nell’osservanza della legge, ma hanno ridotto di circa 1 milione la popolazione dei fumatori ( con contestuale riduzione della spesa sanitaria associata, vero obiettivo della legge).

Ora lo stato insegue un altro sogno (qualcuno pensa tuttavia che sia una chimera): diventare un Paese totalmente cashless (senza contate) in 5 anni e a dire il vero, numerosi incentivi sono stati già promossi: cash back, lotteria degli scontrini e detrazioni fiscali su operazioni tracciabili, su tutti.

Quale è l’obiettivo?

Ovviamente contrastare l’evasione fiscale e abbattere quel “nero” che sfugge ancora al Fisco.

Il cashback e la lotteria degli scontrini sono ancora in fase sperimentale, ma i primi numeri sono interessanti: fino ad adesso 6,5 milioni di italiani si sono iscritti al cashback, di cui la metà è già attiva, sono state già effettuate mezzo miliardo di transazioni e i rimborsi effettuati sono stati pari a 223 milioni di euro (il governo aveva stanziato 227 milioni). Si sono già segnalati anche casi di “furbetti del cash back”, ma correttivi alla manovra sono già in atto.

Un recente studio di Intrum (società nel mercato dei servizi finanziari) dichiara che ancora 1 italiano su 2 (52% per l’esattezza) considera temerario, per non dire risibile il progetto cashless.

Però l’altra metà ci crede e bel il 22% del campione è ottimista che la trasformazione avvenga addirittura in due anni.

E se oggi per comprare un giornale o bere un caffè risulta quasi sinistra la richiesta di pagare con carta elettronica, nell’era degli smartphone e dei “wearable payments” ci abitueremo presto a completare i nostri acquisti, anche per importi ridotti, per via elettronica.

Un po’ come la pubblicità di qualche anno fa di un tizio che girava solo con un costume addosso e una portentosa carta di credito in mano che gli permetteva di soddisfare tutti i suoi impulsi d’acquisto. Mi auguro che per allora, se ci avremo guadagnato per facilità di pagamento, non ci perderemo in eleganza e buon costume. Appunto, per restare in tema…

Allegro ma non troppo: forse c’è speranza

Sono certo che l’onestà, l’intelligenza, il gusto del futuro prevarranno sulla corruzione, la stupidità, gli interessi costituiti. Questa certezza non è sconsiderato ottimismo, ma fiducia negli italiani, nel mio popolo, nella nostra capacità di lavorare insieme quando l’emergenza ci chiama alla solidarietà, alla responsabilità”.

Così il premier Draghi ha concluso la presentazione del PNRR alle Camere, il piano per intenderci su cui si sta giocando il futuro del Paese.

Abbiamo 248 miliardi di motivi perché l’Italia possa sconfiggere i suoi mali storici, i suoi ritardi e le sue inefficienze, il clientelismo e le sue storture burocratiche. Il Piano è stato iper-dettagliato in obiettivi e tempi di realizzo: un obiettivo di Pil del 3,6% in più per anno, quasi 50 miliardi destinati alla digitalizzazione, all’innovazione, alla competitività e alla cultura, circa 70 miliardi per la transizione ecologica, 31 miliardi per infrastrutture e trasporti, quasi 32 miliardi per l’istruzione, 22 miliardi per il lavoro, 18,5 miliardi per la nuova sanità, 1,8 miliardi per il turismo e infine 4,6 miliardi per costruire nuovi asili nido e scuole materne.

Ma questi sono solo numeri. Il premier è consapevole che oltre a tabelle, grafici, iperboli e algoritmi, “l’opera di rinnovamento fallirà, se in tutte le categorie, in tutti i centri, non sorgeranno degli uomini disinteressati, pronti a faticare e a sacrificarsi per il bene comune».

E forse volontariamente ha sdoganato una parola di senso dispregiativo in un contesto così istituzionale come quello del Parlamento: “stupidità”.

Vinceremo, se sapremo imporci sulla nostra balordaggine e ottusità nel considerare e vivere la “res publica”.

Mi viene mente allora un saggio suggeritomi poco tempo fa da un amico, di un fine economista (Carlo Cipolla) che alla stupidità ha dedicato un libro (Allegro ma non troppo), arrivando ad enunciarne persino le sue leggi fondamentali.

Per farla breve, delle cinque leggi postulate, due meritano a mio avviso attenzione:

3° legge della stupidità (detta anche aurea): “una persona stupida è una persona che causa un danno a un’altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo una perdita”.

5°legge della stupidità: “la persona stupida è il tipo di persona più pericoloso che esista. Lo stupido è più pericoloso del bandito”.

Cipolla conclude scrivendo. «Lo stupido non sa di essere stupido. Ciò contribuisce potentemente a dare maggior forza, incidenza ed efficacia alla sua azione devastatrice. Lo stupido non è inibito da quel sentimento che gli anglosassoni chiamano self-consciousness. Col sorriso sulle labbra, come se compisse la cosa più naturale del mondo lo stupido comparirà improvvisamente a scatafasciare i tuoi piani, distruggere la tua pace, complicarti la vita e il lavoro, farti perdere denaro, tempo, buonumore, appetito, produttività. E tutto questo senza malizia, senza rimorso, e senza ragione. Stupidamente».

Siamo davvero disposti a giocarci il futuro del nostro Paese per una stupidata?

È morto il calcio, anzi no è risorto. Evviva il calcio!

Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci” ( Pierpaolo Pasolini, 1963).

Chissà cosa avrebbe detto il poeta dinnanzi alla iniziativa temeraria nella sua comunicazione e disastrosa nella sua evoluzione di una Super Lega tra potenti: di certo sarebbe suonata come un vero sacrilegio. Bontà sua (e forse anche nostra) che la rivoluzione annunciata in pompa magna sia evaporata nel giro di una notte. I 12 ribelli sono riusciti a compattare, di colpo, i governi europei, come neanche la più terribile pandemia del nostro secolo era riuscita a fare: un coro di no, un tifo istituzionale di protesta (come quello da stadio) per abolire il progetto di chi, dello stadio, farebbe anche a meno, a loro basterebbe uno schermo, meglio se il più grande possibile. Una battaglia veloce, ma cruenta, che ha lasciato sul campo vinti e vincitori e strascichi che dureranno per anni. Tanto rumore per nulla? Mica tanto. Forse l’errore dei 12 promotori è stato concentrarsi solo sull’attuale scenario: il calcio si è globalizzato (allargamento ai mercati nord americani prima e asiatici poi) e questo ha determinato negli ultimi anni la esplosione dei fatturati, decuplicati nell’ultimo decennio. Ma per alimentare una giostra sempre più veloce ed esclusiva, sono servite energie (ricavi) sempre più consistenti. E allora nel tempo oltre ai ”primitivi” incassi da biglietti (sempre meno redditizi con stadi sempre meno capienti), si è puntato decisi sui diritti tv, sugli sponsors, sul merchandising. Niente, neppure questo bastava. Si è raffinato allora il sistema delle ricche plusvalenze (sia per giocatori in rosa, sia per quelli creati dal vivaio, ma nessuno ha ancora capito come mai tutti guadagnino a scambiarsi giocatori dalle valutazioni simili…) : bisognava “creare” nuovi ricavi per coprire costi sempre più esorbitanti. Ma la giostra girava ancora più forte ed era ancora più attrattiva: i tifosi sognavano i colpi milionari fatti da un novero sempre più ristretto di squadre, le uniche, del resto, ammesse a salire su questa giostra. E qui, forse, ci sono stati anche errori a catena da parte della UEFA, che per paura di perdere i suoi “clienti privilegiati” e intimargli di scendere dalla giostra, (non avendo più abbastanza i soldi), ha favorito e permesso l’introduzione del formato di una Lega, (una giostra per stare in metafora) sempre meno meritocratica, derogando anche il Finacial Fair Play: spendi (quasi) quanto vuoi, purché rimani sulla giostra. Nel frattempo, le squadre top avevano individuato nei “followers digitali”, meglio se d’oltre oceano e smoderatamente ricchi (definirli tifosi mi parrebbe brutto) il target ideale a cui vendere magliettine, gadgets e prodotti vari di lifestyle nelle varie tournée “circensi” organizzate in posti così strambi e nelle finali di competizioni nazionali disputate in loco. E con buona pace del tifoso dell’hinterland milanese, magari da generazioni innamorato di Milan o Inter: la sua passione valeva necessariamente di meno dinnanzi al “like” svogliato sulla pagina ufficiale del club, di qualche ricco follower di Doha o Shangai.

Ma poi è arrivato il Covid. E questa gigantesca giostra non ha avuto più energie. Di colpo sono mancati i ricavi: i cinesi, i mediorientali, gli americani hanno avuto altro a cui pensare, che seguire le gesta di squadrette europee dalle graziose maglie a strisce. I ricavi latitano, i debiti scoppiano (ben 7 squadre della annunciata Super Lega, sono tra le 8 più indebitate del continente) e sostenuti da una nota banca mondiale,  si arriva alla notte del grande strappo: “l’unico modo per sopravvivere è creare nuovi ricavi!” (tuona Perez, presidente del Real Madrid, lunedì scorso).

Come sia andata a finire è sotto gli occhi di tutti: le comunicazioni ufficiali dei “pentiti del giorno dopo” oltre ad essere in alcuni casi grottesche, sarebbero di certo fonte di grande ispirazione nella nostra cinematografia di commedie all’italiana.

C’è un proverbio di saggezza popolare che potrebbe tuttavia aiutarci: “se hai avuto 100 lire e le hai spese male, quando ne avrai 1.000 non le spenderai meglio”.

Più che concentrarsi sui ricavi, allora, basterebbe concentrarsi sui costi, ormai insostenibili, introducendo “salary cap e limiti alle iperboliche valutazioni dei giocatori e alle spropositate commissioni dei loro procuratori. Riduciamo i costi, anziché gonfiare i ricavi. Ma ci vuole coraggio per questo. La giostra sarebbe bella comunque e forse sarebbe persino più democratica, premiando i club “poveri di mezzi, ma ricchi di ingegno (cit. Cardinale Carlo Borromeo, ) e confermando la sacralità del gioco più bello al mondo, come espresso proprio da Pasolini in apertura. Mal che vada, il ricco follower di Shangai o Doha di prima, tra poco tempo comincerà a seguire qualche nuovo sport, o qualche nuova serie televisiva reclamizzata con dovuta enfasi sulle tv. Ce ne faremo tutti una ragione: non è mica un sacrilegio.

Italia: una musica per ripartire

Andamento lento” era il titolo di una celebre hit del 1988, cantata da uno “spettinato” Tullio de Piscopo.

L’Italia era sconvolta dallo scandalo delle carceri d’oro, la disoccupazione toccava il 12,3%, il PIL si attestava a circa 1.400 miliardi di euro e gli italiani cercavano nei supermercati il “cacao meravigliao”, convinti della sua esistenza grazie a una trasmissione televisiva del momento, particolarmente in voga.

23 anni dopo, in Italia “le carceri d’oro chi le ha mai viste chissà?” ( cit.), la disoccupazione si attesta al 9,0% e il PIL 2020 (post Covid) ha raggiunto i 1.650 miliardi di euro circa e nei supermercati, purtroppo, non abbiamo più cercato cacao meravigliao, ma mascherine.

In ogni caso, in termini economici, nell’ultimo ventennio si è palesato (e non solo più cantato) un “andamento lento”. Appunto.

E dello stesso avviso sembra essere anche il Fondo Monetario Internazionale (FMI), che nel suo ultimo rapporto si dice speranzoso in una ripresa da parte del Belpaese, ma per ora vede ancora tante, troppe ombre.

In particolare, sostiene: “Le spese necessarie per affrontare lo shock pandemico e assicurare la ripresa dovrebbero essere accompagnate da un piano credibile per ancorare una significativa, sebbene graduale, riduzione del debito, una volta che la ripresa stessa sarà consolidata”.

Non è il momento di risparmiare, ma quello di spendere bene: c’è una economia da rilanciare, aveva detto il nostro premier nel suo discorso di insediamento alle Camere, ed in effetti i tempi e la forza della ripresa economica dipenderanno dall’utilizzo efficiente delle risorse del Next Generation EU.

Ora c’è un programma di vaccinazione da consolidare entro la fine dell’estate ed è corretto che il sostegno economico ai più bisognosi sia mantenuto finchè rimarrà la crisi sanitaria, ma serve anche avere un occhio alla crescita. Secondo il FMI, il PIL crescerà il 4,3% circa nel 2021, con un inizio debole seguito da un’accelerazione nell’ultima parte dell’anno. A gennaio, il FMI aveva previsto una crescita del 3%, dopo il crollo di quasi il 9% nel 2020. Ma rimane ancora una crescita lenta, rispetto alle stime degli altri paesi europei e soprattutto, prima o poi,  Il rapporto debito/PIL ( vero macigno di questo Paese) emergerà con tutte le sue conseguenze.

Nel breve-medio periodo ci ritroveremo dunque a dover ridurre il debito e nel frattempo aver avviato le riforme strutturali mirate alla crescita economica, all’efficienza ( riducendo la iper-burocrazia) alla ridistribuzione della spesa pubblica e all’alleggerimento del carico fiscale, oggi necessarie per tornare a prosperare.

E in più avremo prima o poi uno sgradito “convitato di pietra” che si paleserà e complicherà e non di poco la situazione: il rischio di un aumento dei tassi di interesse a lungo termine, che oltre oceano sta già dando fiammate importanti.

Accelerare il processo di riforme e contestualmente la costituzione di un solido e concentrato sistema bancario che possa assicurare futuri flussi di credito per le imprese è allora fondamentale per farci trovare pronti all’appuntamento.

Si, perché tra poco si ballerà, ma di sicuro non sarà permesso un “andamento lento”.

 

Chi non lavora non fa consumi

Si vabbè, la citazione vera sarebbe un’altra, ma siamo pur sempre in orario da fascia protetta.

Tuttavia questo enunciato non è poi così campato in aria e lo rimarca anche l’Istat, con l’ultimo rapporto sul reddito disponibile delle famiglie consumatrici italiane. In soldoni e per arrivare al punto, il reddito disponibile delle famiglie è diminuito nel quarto trimestre 2020 dell’1,8% sul trimestre precedente, con una serie di conseguenze a catena, quali ad esempio una contestuale perdita del potere d’acquisto (-2,1%) e un leggero aumento della propensione al risparmio (+0,5% e pari al 15,2%).

Questo significa che se uno diventa più povero, allora tende a risparmiare di più? Non è una contraddizione?

No. E questo vale sia come fenomeno sociale, che come fenomeno statistico. Provo a spiegarmi meglio. Si risparmia di più perché si ha più incertezza sul futuro e questo determina un calo nei consumi (banalmente, aspetto a comprarmi un bene o un servizio tanto desiderato, perché poi ho paura di non avere abbastanza disponibilità economica per beni di prima necessità). Ma così calano anche gli investimenti, e di ultima istanza…il reddito complessivo. È un circolo vizioso che abbiamo (ahimè) già sperimentato nelle recenti crisi passate (2008 e 2011 per non andare troppo lontani).

C’è tuttavia un convitato di pietra di cui bisogna tener conto: la pressione fiscale, che è aumentata rispetto ai livelli di un anno fa. Ma come? Hanno introdotto nuove tasse? No. Semplicemente il calo della pressione fiscale (dovuto a minor entrate fiscali e contributive) è stato meno accentuato del calo del reddito globale ( PIL). E così la pressione fiscale media complessiva in Italia è stata del 43,1% nel 2020, (ma ben 52,0% nel solo ultimo trimestre) rispetto al 42,4% dell’intero 2019.

Qualcosa evidentemente non ha funzionato. E se il Covid è stata la causa del problema, le soluzioni adottate fino ad adesso non hanno dato i risultati sperati: le politiche di bonus a pioggia e del sostegno a fondo perduto hanno solo (probabilmente) rimandato l’adozione di una terapia d’urto fatta di riforme strutturali, da cui non possiamo più sottrarci.

(E per chi mi segue su questa rubrica, sa che il tema è stato già da tempo e plurime volte affrontato).

Anche perché senza terapia d’urto, non so mica se torneremo a “far consumi da Trieste in giù” ( semicit).

L’arte del cambiamento

Si è già scritto durante la scorsa “puntata” di come il mercato dell’arte abbia saputo reagire alle innumerevoli e imprevedibili incognite che la pandemia in atto ha causato.

Nel giro di pochi giorni un mercato digitalmente arretrato e fondato su solidi network relazionali ha dovuto riorganizzarsi radicalmente e inventarsi nuove modalità di dialogo, proposta e vendita tra operatori e mondo del collezionismo.

Il massiccio investimento in piattaforme on-line ha allargato il panorama dei potenziali collezionisti a tutta una fascia di nuovi compratori, più giovani e spesso “già nativi digitali”, molto interessati anche ad alcuni segmenti dei Passion Assets e a discapito di un collezionismo anagraficamente più maturo e abituato alle consolidate liturgie dell’acquisto in presenza.

Poiché sembra ancora lontano il ritorno alla normalità anche per il 2021, come già palesato dallo stravolgimento dell’usuale calendario fieristico, è plausibile attendersi allora un ulteriore sviluppo del canale digitale anche nel mercato delle aste, che determinerà almeno due conseguenze dirette: 1) diventerà del tutto marginale la location dove si svolgerà l’asta, 2) la esplosione delle aste online favorirà soprattutto quei beni che non necessitano di essere visionati prima dell’acquisto o quelli che si sono già rivelati particolarmente adatti alle piattaforme digitali, (arte contemporanea emergente, fotografia, orologi e molti altri Passion Assets).  

Digitale è la parola d’ordine.

E così il digitale non sta variando soltanto le modalità d’offerta dei beni da collezione, ma anche la tipologia di lotti offerti: sempre più collezionisti si interessano alla Digital Art e Crypto Art. Non è proprio una novità assoluta, ma il 2021 è partito con il “botto”, attirando la curiosità generale sul fenomeno.

Il record della opera “Everydays -The First 5000 Days”, di Beeple, venduta da Christie’s pochi giorni fa ha attirato la curiosità mediatica sul fenomeno. Del resto, con i suoi $69,3 Mln, Beeple è diventato il terzo artista vivente più caro al mondo. Non male per uno che fino a quattro mesi fa non aveva mai venduto un’opera a più di 100 dollari. E si è trattato della prima vendita all’incanto di un “Not Fungible Token” (ossia immagini o video o anche testi in formato digitale che possono essere scambiati, ma non riprodotti perché criptati su una blockchain) realizzata da una grande casa d’aste, evento che crea un potenziale precedente nel futuro sviluppo del mercato dell’arte digitale. Anche in Italia, nel nostro piccolo si stanno affermando esponenti della Crypto Art, come nel caso di DotPigeon, artista già presente in note collezioni e attivo nell’utilizzo di NFT.

È dunque l’alba di una nuova arte?

È difficile dirlo. Di certo l’esplosione del fenomeno ha trovato impreparati legislatori e molti tra i tradizionali operatori che gravitano sul mercato dell’arte (assicurazioni ad esempio) e un consolidamento di questa arte è lecito aspettarselo nel prossimo futuro.

Una tecnologia nata per assicurare la tracciabilità e la autenticità di una opera d’arte si è trasformata essa stessa in opera d’arte.

Rimango però ancora della idea che l’arte e l’artista debbano esprimere prima dei contenuti, da amplificare poi affidandosi al canale più idoneo per aumentarne la desiderabilità ( e dunque il valore) sul mercato.

Ho la sensazione che in questo caso siamo più concentrati sul canale che sul contenuto e siano molti, forse troppi gli artisti (o sedicenti tali) che affidino al glamour e alla esaltazione per la nuova tecnologia, il loro atteso (e presunto) successo sul mercato. Se dovesse succedere questo, sarà il mercato stesso a scremare i tanti pretendenti alla gloria e riequilibrare i valori in essere. Per ora godiamoci questa tempesta in atto. Ci sarà da divertirsi.

Una reazione ad Arte

Come il mercato dell’arte internazionale abbia reagito allo “tsunami” del Covid-19 e quali siano stati i cambiamenti più significativi e i presumibili effetti durevoli in futuro, sono stato oggetto di analisi della ricerca che ho presentato con gli amici di Deloitte la scorsa settimana. Qui per scaricare il report: https://www2.deloitte.com/content/dam/Deloitte/it/Documents/strategy/PrivateBrochure/Art&Finance_Report2021_Deloitte.pdf

Ammetto che il tema del mercato dell’arte mi appassiona ormai da numerosi anni ed è oggetto di mie periodiche pubblicazioni: lo studio dei “luxury goods” offre infatti sempre interessanti chiavi di lettura soprattutto in periodi economici recessivi.

Arrivo subito alle conclusioni. La crisi socio-economica da pandemia ha accentuato le difficoltà di un mercato che già nel 2019 si era contraddistinto per alcuni tangibili segnali di rallentamento: nel mercato delle aste si era palesata una ridotta disponibilità di opere “top quality” e una contestuale cautela dei collezionisti nelle fasi d’acquisto. Il combinato di questi due elementi aveva già determinato un rallentamento nei fatturati dell’arte figurativa (segmento che oggi pesa quasi i ¾ dell’intero mercato delle aste), ma anche del mercato degli altri passion assets (gioielli&orologi, fotografia, design, vini pregiati etc..). Un trend in controtendenza rispetto agli altri mercati regolamentati che avevano invece brillato nel 2019. Questa situazione, sommata alla estrema volatilità insita del mercato stesso, hanno determinano due conclusioni che amo rimarcare spesso: il mercato dell’arte non risente (ovvero non è correlato) all’andamento degli altri mercati e soprattutto…no, l’arte non è un bene rifugio, non avendo la caratteristica di mantenere il proprio rendimento pressoché costante nei momenti di grande trambusto (volatilità per essere più tecnici) dell’economia.

Lo scoppio della pandemia ha però messo in pausa la realtà nel settore dell’arte e della cultura: gallerie chiuse, fiere cancellate, aste posticipate, network relazionali tra collezionisti azzerati. Un mondo che basa il suo successo sulla presenza fisica e tradizionalmente non è mai stato troppo votato all’innovazione, si è scoperto di colpo fragile. E i numeri sono piuttosto impietosi, nel mercato delle aste, rispetto al 2019, il calo del fatturato complessivo (aste online + aste live comprese nel campione di ricerca) è stato del -34,1% per il settore della pittura e -22,5% a/a per il comparto degli altri Passion Assets. Ma ad azione corrisponde reazione. E il mercato ha saputo reagire.

La prima novità è stato il ricorso (obbligato) alle aste online, cresciute del +204,8% nell’anno e concentrate soprattutto nel secondo semestre. Le piattaforme virtuali, nonostante l’importanza che hanno rivestito e tuttora rivestono, si sono tuttavia rivelate solo parzialmente in grado di sostenere il mercato: la componente fisica nell’esperienza artistica, ivi inclusa la partecipazione a mostre, fiere e aste di settore, è spesso imprescindibile. 

La seconda novità è stato il ricorso a nuove strategie e nuovi strumenti per stimolare la domanda di beni da collezione: le case d’asta hanno stravolto il tradizionale calendario d’asta, alcune hanno riorganizzato interi dipartimenti, altre hanno accresciuto la eterogeneità dei beni proposti in asta.

Tra le novità più efficaci, è giusto citare l’asta ibrida”, che prevedendo la presenza di un banditore (collegato in remoto) è stata capace di ricreare il clima di una normale asta, con molti specialisti collegati da altre sedi internazionali della casa d’aste e i collezionisti connessi in streaming. E i numeri, soprattutto del secondo semestre, hanno fatto tirare un sospiro di sollievo agli operatori e hanno mostrato una grande capacità di resistenza da parte del mercato. Anche in situazioni di grande stress.

Non sono mancate neppure le trovate di marketing: oltre ad aver proposto svariati oggetti appartenenti a noti personaggi del mondo della musica o dello sport, una casa d’asta ha battuto un Tyrannosaurus Rex South Dakota, (asta di arte contemporanea di Christie’s di inizio ottobre), per 31,9 mln di $.

Già. Un dinosauro: poco in carne, ma molto in ossa.

Qualcuno ha visto nella operazione un tentativo di tornare ai fasti di un mercato che nel solo 2017, (4 anni che sembrano un secolo fa) applaudiva meravigliato o forse sbigottito per l’aggiudicazione record di un dipinto di Leonardo (Salvator Mundi). La giustificazione dell’allora direttore generale di Christie’s sulla ragione di inserire un dipinto antico in un’asta di contemporaneo fu che “come Leonardo influenzava gli artisti del tempo, oggi continua ad influenzare gli artisti contemporanei”. Mutatis mutandis, sarebbe interessante capire che ascendente abbia allora lo scheletro di un dinosauro sull’arte contemporanea e sul fenomeno recentissimo della crypto-art.

Ma questo lo scopriremo, (se vorrete), nella prossima puntata…

Un “sakè” di aziende zombie

Ricordo con nostalgia l’esame di economia aziendale all’università (troppi anni fa ormai…). Ricordo soprattutto un insegnamento ricevuto: le aziende si valutano per la loro solvibilità, liquidità e redditività, ma se la prima diventa insolvenza (ovvero tecnicamente il suo indice di riferimento va sotto il livello di 1), non parleremo più nel breve termine di liquidità e neanche di redditività. Non parleremo proprio più di quella azienda. Lapalissiano. La pandemia, come noto, oltre alla tremenda eredità sanitaria, ha comportato anche una voragine di carattere economico: molte aziende spendono più di quanto guadagnano, per far fronte al pagamento di interessi passivi (per l’appunto un problema di solvibilità).

Uno sconosciuto (ai più) economista cileno (Caballero) era già balzato agli onori della cronaca economica con uno studio in cui, per farla breve, aveva teorizzato che in un contesto economico di scarsa produttività, bassa inflazione e ridotti investimenti e l’utilizzo di  politiche monetarie ultra-espansive (esattamente le condizioni di oggi) ci sarebbero state una moltitudine di “aziende zombie”, che sarebbero sopravvissute solo per il contesto di favore garantito dalle banche centrali ( politica monetaria) e dai governi ( politica fiscale).

Aveva Caballero intuito che ci sarebbe stata una pandemia mondiale? No, non credo, semplicemente aveva studiato la economia giapponese, che si trovò per condizioni similari e per un decennio almeno in una fase di grave stagnazione, atipica rispetto allo stato di salute delle altre maggiori economie mondiali e che aveva ispirato numerosi studi in materia (se ne era già parlato anche in un Nuvole e Mercati del 09/12/2019).

Un recente studio dell’Istituto della finanza internazionale ha messo in luce che nel 2020 il numero di aziende manifatturiere con gravi problemi di solvibilità è cresciuto del 160% sul 2019. Stiamo parlando di aziende sane fino al 2019 che hanno avuto un crollo del fatturato a causa della pandemia.

Saranno dunque destinate a diventare tutte “aziende zombie” e avremo una giapponesizzazione della economia mondiale? Non per forza. Il drastico peggioramento economico a causa della crisi non si è ancora accompagnato ad un aumento del tasso di insolvenza (grazie alle pronte risposte di politica monetaria e soprattutto fiscale), non c’è stata la stretta creditizia paventata (come nella crisi del 2008) e le aziende hanno attinto nuova liquidità anche attraverso emissioni obbligazionarie record (2.100 miliardi di dollari circa di nuove emissioni).

La fase più acuta della crisi sembra dunque essere passata.

L’incognita semmai riguarda il prossimo futuro in cui verranno (presto o tardi) allentati gli aiuti pubblici (sussidi, cassa integrazione..) e molte aziende si troveranno da “digerire un sacco di debito”. Basandoci sull’esempio di successo giapponese, auguriamoci che per questo “sacco“, possa bastare un buon “sakè”..

Una crisi da “solcare”

Crisi: improvvisa modificazione nella vita di un individuo o di una collettività, con effetti più o meno gravi e duraturi. (Devoto-Oli). Ma il significato di questo termine l’abbiamo imparato bene nell’ultimo anno, pur senza dizionario. Pochi però sanno che crisi deriva dal greco, (κρίσις) e veniva usato per indicare un solco agricolo (tecnicamente era il solco agricolo che si crea nella trebbiatura del grano). Chi, come me, viene dalla bassa padana, impara a riconoscerlo fin da bambino. Col tempo c’è stato un cambiamento semantico del termine verso una sua accezione specifica: quella medica o sociale.

E in effetti il Covid ha creato un bel solco, con conseguenze del tutto imprevedibili nel mondo del lavoro che sarà.  Siamo nel bel mezzo di questo limbo, con un blocco dei licenziamenti e una continua estensione della cassa integrazione che ci tengono nella condizione di “tra color che son sospesi”.

Ma cosa attenderci allora al di là del solco? Partiamo dalla fotografia attuale. Il Covid ha distinto due mondi economici: quello essenziale e quello complementare, con livelli di protezione ben diversi per chi ci lavora.

Il mondo essenziale è rappresentato ad esempio dall’alimentare, la salute, i servizi pubblici. Ovvero quei settori imprescindibili per sopravvivere e di cui non possono esistere surrogati digitali.

Il mondo “complementare” è invece (oggi) rappresentato dal mondo del leisure&entertainment (turismo, ristorazione, palestre) dell’abbigliamento, dei servizi per la persona e di tutte le altre catene che producono o forniscono beni o servizi ad alto valore aggiunto. Il Covid ha distrutto il mondo complementare, impedendone l’offerta.

Tuttavia, lo shock dell’offerta di questo mondo si è tramutata per molti in un aumento del risparmio, (non vado più al ristorante, non spendo, ma non muoio di fame perché mangio a casa), tanto più per quei percettori di reddito del settore pubblico o di grandi aziende che hanno resistito meglio allo shock. C’è stato quindi una classe protetta di lavoratori che ha acquisito potere d’acquisto, e una, non-protetta che l’ha perso, che ha anzi visto il proprio reddito scendere a zero e ha anche una capacità di resistenza minore (non recupererà mai il fatturato perso). Per farla più semplice, c’è una quota significativa della forza lavoro del settore complementare che rimarrà inattiva o perderà il lavoro.

Come se ne esce allora?

Le politiche attuali di welfare (sussidi, ristori, redditi di cittadinanza, etc…) tamponano la ferita, non la curano. Inoltre anche durante la futura ripresa economica, la domanda potrebbe rimanere bassa nel mondo complementare per 2 fattori: 1) psicosi (preferisco evitare luoghi affollati come centri commerciali, teatri o cinema), 2) digitalizzazione dell’offerta (non compro più nel negozietto sotto casa perché mi sono abituato all’e-commerce).

Quindi se ne esce se e solo se capiremo per tempo che il Covid ha già generato una nuova tipologia di mansioni, che per abitudine, per prestigio sociale, o peggio per rigidità dell’attuale assetto del mercato del lavoro non vogliamo o possiamo prendere in considerazione. Mi riferisco ad esempio a mansioni che prevedono l’assistenza agli anziani (consegna cibo o aiuto in altri servizi di base) o i “vigili sanitari” che opererebbero già nelle zone affollate (zone della movida ad esempio), garantendo il mantenimento del distanziamento sociale. 

In Svezia il settore pubblico ha favorito prontamente la riqualificazione del personale aereo verso il settore sanitario. In Italia siamo ancora fermi al dibattito su come riformare gli uffici di collocamento.  Da circa 35 anni. Siamo talmente concentrati a difendere mansioni che non serviranno più tra poco in un mondo digitalizzato, da dimenticarci di formare e riallocare personale verso i settori essenziali e in espansione.

Peccato. È un po’ come in agricoltura chi spera di avere copiose messi nei solchi già sfruttati. Senza accorgersi che la nuova semina andrebbe fatta proprio appena dopo il solco…

Il Recovery Fund è il nuovo piano Marshall?

Sono molti quelli che pensano che il Recovery Fund sia la panacea dei nostri problemi e ancora di più sono quelli che lo definiscono un nuovo Piano Marshall. Ma siamo sicuri che è corretto l’accostamento? Ci sono di certo molte analogie. Ad esempio, in entrambi i casi è stata una decisione politica (dell’America allora e dell’Europa oggi) a determinare un mix di aiuti economici e prestiti per risollevare il continente europeo da una guerra allora e da una pandemia oggi. Allora come oggi ci furono un sacco di polemiche prima di accettarlo, e allora come oggi si chiedeva ai singoli Stati di utilizzare le risorse ricevute per sviluppare al massimo gli investimenti. Allora, in Italia, l’IRI avrebbe dovuto svolgere un ruolo di propulsore rispetto alla “pigrizia” del capitale privato, oggi lo Stato deve farsi da garante per aumentare la capacità produttiva e occupazionale e modernizzare il Paese.

Allora l’America si muoveva per opportunità di carattere politico: faceva paura il fronte comunista, ora l’Europa si muove per limitare il fronte dei sovranisti, giustificando un intervento collettivo per “non tornare sovrani nella propria solitudine” (cit.).

Ma qui finiscono probabilmente le analogie e cominciano le differenze.

Allora l’intervento americano fu in gran parte a fondo perduto, (10 miliardi di dollari di aiuti e 1,3 miliardi di prestiti), ma con una serie di implicazioni che Enaudi prima di diventare presidente Repubblica definì “una medaglia a due facce”; oggi il Recovery ( 750 miliardi di euro complessivi, di cui 390 di sovvenzioni e 360 di prestiti) è tutto debito che l’Europa si fa in casa.

Allora i Paesi interessati furono 16 (oggi 27), tutti all’interno del perimetro europeo, ad eccezione della Turchia. La quota italiana di allora fu pari ad 1,5 miliardi di dollari, (terza quota più grande dopo Gran Bretagna e Francia e più della Germania Ovest), in proporzione minore rispetto alla quota del Recovery Fund (207 miliardi di euro), tenendo anche conto della rivalutazione storica e rappresentando la quota più alta in assoluto).

L’Italia di allora scontava una forte inflazione, dovuta alla scarsità dei beni produttivi (c’era il mercato nero e la tessera annonaria), alta disoccupazione che spingeva a migrare altrove e una valuta (la lira, ma anche la am-lira pochi anni prima) molto debole; oggi l’inflazione è un ricordo lontano, abbiamo a dire il vero il problema opposto, e possiamo contare su una valuta unica, forte e condivisa. Semmai è la disoccupazione a essere simile: presto avremo numeri simili a quella emergenza storica.

Il Piano Mashall si attuò in 4 anni, Il Recovery in 6 anni. Il Piano fu impostato su 3 urgenze: 1) opere infrastrutturali, 2) crescita della occupazione e del reddito medio nazionale, 3) sostegno delle aree depresse. Furono fatti degli errori, ma complessivamente fu un successo. Il Piano favorì le basi per la creazione del c.d. triangolo industriale, venne creato il porto di Genova e le grandi aziende private, (su tutte la Fiat), ne uscirono rafforzate. I soldi non furono sprecati in salvataggi improbabili. Il Piano fu il preludio al successivo boom economico. Nessuno può sapere cosa saremmo diventati senza quell’aiuto, di certo i piani sono fatti e realizzati dagli uomini. E l’Italia trovò nei suoi imprenditori e nella sua classe dirigente gli artefici di un miracolo che ancora all’estero ci invidiano. Ma questa è storia. Dobbiamo decidere il nostro futuro, riscrivendo un nuovo piano che verrà realizzato, ancora una volta da uomini. Auguriamoci allora che nel presente, il nuovo esecutivo sappia ritrovare quell’intuito e quel coraggio per essere ancora nel mondo invidiati e non rimpianti.   

L’anno che verrà

“..L’anno vecchio è finito ormai, ma qualcosa ancora qui non va…” cantava Dalla, nella sua celebre canzone.

E in effetti se la settimana scorsa ci si era soffermati sul perché il 2020 sia stato inaspettatamente un anno eccezionale sui mercati finanziari, si era anche detto che (almeno in economia) “qualcosa ancora qui non va e non si tornerà mai più ad una piena normalità, ma si distinguerà invece tra un’economia pre-Covid e una post-Covid.

Bene. Vediamo allora esattamente cosa ci aspetta. Limitandoci all’anno in corso, continueremo a scrivere che “si esce poco la sera, compreso quando è festa”. Fino a che le vaccinazioni non saranno a regime, le limitazioni per l’ondata di turno freneranno il ritorno a un flusso di scambi e di consumi tradizionali. Eventuali complicazioni nell’efficacia vaccinale, o peggio, ritardi sulla loro distribuzione, (Europa docet), determineranno pesanti effetti sulle economie nazionali.

Rimarrà allora confermato il supporto delle principali Banche Centrali con misure di politiche monetaria decisamente espansive, (anche per contrastare un livello di inflazione molto depresso) e politiche fiscali super aggressive dei singoli Paesi a costo di creare livelli di debito inaccettabili fino a poco tempo fa. La spesa pubblica continuerà ad aumentare nell’anno e probabilmente anche in futuro: persino il Fondo monetario internazionale ha invocato l’adozione di ampie misure di sostegno fiscale (la stessa organizzazione che predicava austerità nella crisi finanziaria nel 2008…). Per dirla come Dalla: “Vedi caro amico, cosa si deve inventare per poter riderci sopra, per continuare a sperare”.

Ma la televisione ha detto che il nuovo anno porterà una trasformazione”. E sarà finalmente quella dell’ambiente: il nuovo presidente americano, l’Unione Europea, la Cina si sono impegnati a raggiungere emissioni nette di carbonio pari a zero. Anche noi italiani con la creazione “ex novo” del nuovo “Ministero della Transizione ecologica” per una volta sembriamo essere della partita già nell’undici titolare.

Più che una trasformazione questa appare davvero una rivoluzione: non so se sarà anche il preludio a “tre volte Natale e festa tutto il giorno”, ma probabilmente ci basterebbe che tutto questo periodo di pandemia  “poi passasse in un istante, e che l’anno che sta arrivando tra un anno passerà”.

Accetteremmo di buon grado gli effetti economici e li sapremmo di certo affrontare, purché portino via anche tutte le bruttezze che la pandemia ha comportato. E sì che allora potremmo finalmente cantare: “e questa è la novità”.

Il mercato finanziario e l’economia : fratelli, non gemelli

Alcune persone mi hanno chiesto perché mentre la pandemia sta ancora sconvolgendo l’economia mondiale, i mercati finanziari, (almeno dopo un iniziale shock), continuino a crescere. Proverò a rispondere in poche righe. Partiamo dalla evidenza più scontata: l’economia mondiale è stata colpita da una pandemia globale inaspettata e non torneremo mai più “alla piena normalità”. Le risposte di politiche monetarie e fiscali a livello internazionale sono state rapide e incisive e gli effetti della pandemia sull’economia reale sono stati (finora) controllati. Un dato può aiutare: nel pieno della pandemia, (aprile 2020) negli USA si è registrato il peggiore calo in termini di occupazione di sempre dai tempi della 2° guerra mondiale, ben peggiore della grande crisi del 2008. Immediate reazioni straordinarie di “blocco dei licenziamenti”, o sussidi con casse integrazioni specifiche hanno limitato i danni . L’elevata incertezza derivante da uno scenario senza precedenti ha determinato anche una elevata inaffidabilità dei consueti modelli previsionali: si è passati da previsioni di contrazione PIL 2020 catastrofici a livelli via via più contenuti e già (in parte) ufficialmente comunicati. Le economie hanno recuperato terreno dopo la prima ondata di Covid, per poi rallentare nella parte finale dell’anno. Solo la Cina è stata l’unica potenza mondiale ad essersi rafforzata (relativamente) nella crisi: già a partire dal secondo trimestre la sua economia era tornata alla crescita. La situazione di grave collasso della economia mondiale non si è invece del tutto trasferita ai mercati finanziari. Seppur possa sembrare paradossale, la pandemia ha fatto da volano per avviare processi di integrazione finanziaria, monetaria e fiscale e i mercati finanziari hanno apprezzato tutte queste novità. A differenza di quanto avvenuto con la crisi dei sub-prime, (quando il mercato del credito era collassato), si è fatto tesoro degli errori del passato e attuato politiche fiscali e monetarie rapide e incisive. La pandemia ha determinato anche un clamoroso sviluppo della tecnologia, (digitalizzazione su tutto) con una forte crescita della capitalizzazione di borsa e degli utili delle società di questo settore. L’ indice azionario americano (fortemente influenzato da tali titoli, basti pensare alle società di piattaforme digitali) e quello cinese hanno performato in modo straordinario.

Ecco le principali ragioni per spiegare reazioni così contrastanti tra gli effetti dell’economia reale e quella finanziaria.

Qualcuno sostiene che il Covid sia stato sui mercati e sull’economia in generale una “tempesta perfetta” e parleremo di un’economia pre Covid e di una economia post Covid: non si tornerà mai più a quella che molti chiamano inconsciamente “normalità”. Sono anche io di questa idea e nel prossimo N&M si parlerà di queste conseguenze epocali, per ora mi limito a rimarcare quanto la pandemia Covid-19 ci abbia insegnato come la realtà possa ancora sfuggire alla lettura più evoluta di qualsiasi modello economico previsionale e come l’unica risposta efficace in questi casi così estremi sia la cooperazione politica, sanitaria e finanziaria tra Stati a livello internazionale. Serviva proprio una pandemia internazionale per arrivarci?

Campioni del Mondo

Erano belli quei tempi in cui potevamo urlare il nostro orgoglio di essere italiani, quando le gesta dei nostri attaccanti, il talento dei nostri centrocampisti e la tenacia dei nostri difensori ci risarcivano dei comuni stereotipi che noi, gente italica, siamo soliti subire, un po’ per invidia (va detto) e un po’ per nostre scelte (va ammesso). Abituati a riempire le cronache internazionali dei giornali altrui per i nostri limiti politici, fa specie, per una volta, trovarsi per la stessa ragione così attenzionati e benvoluti nei corsivi dei giornali stranieri. Senza addentrarmi in giudizi di merito (questa rubrica cerca di essere super partes, ma si sa, l’uomo è fragile), la notizia della formazione di un nuovo “governo di alto profilo” ha messo le ali alla borsa nostrana (+7% nella settimana e best performer tra i principali listini mondiali) e ha fatto collassare il tanto vituperato spread, sceso al livello 93, al minimo dal 2015. C’è tanta voglia di Italia. Era ora. Ma passata questa sbornia da euforia, ricordiamoci da dove veniamo. Veniamo da un rapporto debito/ Pil che chiuderà a 160% circa e solo quest’anno abbiamo creato 430 miliardi di euro di deficit aggiuntivo per fronteggiare la pandemia. Più che un esercito di draghi (minuscolo), ci vorrebbe un Salvatore (maiuscolo). Sfida quindi persa in partenza? No. Ma servirà tanta capacità di soffrire insieme e portare a casa la vittoria. Proprio come quando siamo arrivati sul tetto del mondo calcistico. Abbiamo un prezioso aiuto dall’Europa: 200 e più miliardi da spendere, abbiamo il nostro tessuto industriale che è ancora un vanto a livello internazionale e abbiamo una forte rete di relazioni internazionali di chi è stato incaricato a guidare il Paese. Servirà però avere coraggio. Il coraggio di fare delle riforme epocali (lavoro, giustizia, pubblica amministrazione, previdenza…) senza guardare solo al nostro orticello. Questa voglia di comprare Italia potrebbe continuare ancora: fior di analisti stanno azzardando che il nostro spread si restringerà ulteriormente collocandosi a un livello di 70 punti (per essere più diretti: lo stesso livello della Spagna) e questo significherebbe pagare meno interessi sul debito, ma soprattutto, alla luce degli accordi con l’Europa, emettere nuovo debito pubblico ad un livello vicino allo 0%, rispetto al costo medio del nostro debito in essere del 2,5% circa.

È una occasione unica. Come già successo nella nostra storia, siamo in finale e abbiamo da tirare il rigore decisivo. Auguriamoci allora di rivivere il rigore di Berlino… (ognuno la legga come vuole…)

Salire a bordo, caspita!

Mentre il Paese annaspa tra una pandemia sanitaria, una crisi economica e una frattura politica (per non farci mancare nulla), due moniti severi, (ma tempestivi) da parte delle società di rating Moody’s e Fitch sulla stabilità del Paese sono passati del tutto inosservati dai nostri governanti, “in altre faccende di poltrone affaccendati”.

Il problema è che la nostra fragilità politica, soprattutto ora, rischia di compromettere la generosa dotazione di risorse (alcune a fondo perduto) che l’Europa ci ha offerto.  Alle agenzie di rating poco importa chi salirà a bordo del nuovo esecutivo, ma solo che qualcuno “salga a bordo, caspita!”  (semi cit. e parafrasando un monito di “responsabilità”).

Moody’s soprattutto nella sua ultima nota ci ricorda che Il nuovo esecutivo dovrà gestire l’attuale fase della pandemia, e garantire un utilizzo tempestivo ed efficace dei fondi (Recovery Fund) dell’UE, fondamentali per migliorare il basso potenziale di crescita dell’Italia». E ancora rincara: «l’Italia riceverà più di 200 miliardi di euro, (il 12% del PIl atteso nel 2021), in sovvenzioni e prestiti dal piano Next Generation EU entro il 2026 e sarà il principale destinatario di detti fondi all’interno dell’UE. Questi fondi equivalgono a più di cinque anni di spesa pubblica e nelle intenzioni dovrebbero promuovere la crescita economica dell’Italia, se spesi in modo produttivo, […] e se il governo italiano saprà ridurre le tempistiche e le procedure di assegnazione degli appalti della pubblica amministrazione». Semplificando: se e solo se sapremo fare la riforma della pubblica amministrazione e le altre riforme che l’Europa e la maggior parte dei cittadini esausti chiedono da tempo, vedremo “cammello”.

E questo è un problema non da poco, visto che nella nota, l’agenzia di rating ci ricorda che nell’ultimo quinquennio, l’Italia ha sfruttato solo il 39% delle risorse a lei assegnate dall’Europa (di cui spesi solo il 30,7%). Forse, a conti fatti, qualche problema di credibilità è anche legittimo averlo.

Cosa rischiamo se decidessimo di andare dritti per la nostra rotta, incuranti dei moniti della “capitaneria di porto europea”? Potremmo trovare la via del mare aperto e navigare senza dover sentire di continuo le sirene fastidiose di chi vorrebbe accoglierci in un porto già affollato, è vero… Ma di certo, chi è uscito da questo porto recentemente non se la sta passando benissimo (Mr. Johnson, is it true?) e comunque dovremmo affrontare i marosi spaventosi di un declassamento del rating (siamo sempre a un passo dall’essere considerati Junk, spazzatura) con tutto quello che ne consegue in termini di tenuta dello spread e con un debito pubblico, mai così alto.

Possibile che ci siamo già dimenticati di quanto successo nel 2011? Ad oggi sembrerebbe di sì. O forse stiamo solo assistendo a questa pantomima perché è interesse politico che venga individuato, nel breve, un temporaneo traghettatore e non un comandante dell’imbarcazione. Ma così rischiamo di ricadere nello stesso errore di sempre. Peccato. Non si definiscono nuove rotte, preoccupandosi di volta in volta di evitare solo secche e scogli, ma individuando la meta e definendo l’equipaggiamento migliore, soprattutto per chi si fregia di esser popolo di navigatori…

Smart Working, ma con moderazione

Dopo un anno da forzati “smart workers” in casa, l’aneddotica su situazioni di imbarazzo causate da rumori molesti (chi ha bambini piccoli sa di cosa parlo), spazi angusti trasformati in postazioni di lavoro, connessioni che vanno e vengono, incapacità di alcuni utenti nell’utilizzo del mezzo tecnologico e riunioni on line con abbigliamenti stravaganti, si arricchisce ogni giorno che passa e possiamo finalmente fare qualche primo bilancio.

A dir la verità sono già numerosi gli studi di prestigiosi atenei, società di ricerche specializzate, fino ad arrivare agli Istituti di vigilanza nazionale redatti per capire gli effetti dello smart working e immaginare come sarà il mondo del lavoro del futuro, una volta che torneremo (finalmente) alla “normalità”. Ma andiamo con ordine. Lo smart working piace. Solo nel nostro Paese, più di 8 milioni di lavoratori hanno potuto stabilmente lavorare da casa (oltre il 40% del totale degli occupati). Anche dopo la prima fase dell’emergenza molte imprese tricolori hanno incoraggiato i propri dipendenti a lavorare alcuni giorni da remoto e sembrerebbero intenzionate anche per il futuro a proporre questa modalità di lavoro. Benissimo.

I maggiori vantaggi percepiti dai lavoratori riguarderebbero la contrazione del faticoso pendolarismo del passato, una maggior tutela della propria salute, un maggior tempo per la propria persona e per la propria famiglia.

I maggiori vantaggi invece percepiti dalle imprese sono soprattutto relativi all’abbattimento di costi di consumo (energia, manutenzione) e quelli (evitati) relativi agli interventi di riprogettazione degli spazi fisici, resi necessari dalle nuove disposizioni di legge.

È un win-win quindi? A vederlo così sì, ma passata la fase di iniziale euforia per la novità epocale che ha comportato e gli inevitabili imbarazzi della partenza, oggi affiorano i primi lamenti. Stiamo vivendo un abuso di calls, videocalls, meetings: il telefono e i vari dispostivi mobili suonano quotidianamente all’impazzata avvertendoci di riunioni e impegni digitali che si sovrappongono, si confondono, ci rispondono.

Qualcuno parla di “disturbo da eccesso di connessione”. Il pendolarismo giornaliero è stato sostituito da valanghe di mail e call a distanza. Non c’è più stacco tra lavoro e vita privata. Qualunque cliente o capo si sente legittimato a chiamarti nelle ore più strambe della giornata: la assenza di risposta per essere andati a prendere il figlio in piscina o la bambina a scuola non regge. La maggiore flessibilità invocata con il lavoro da casa è già diventata una prigione dorata: ai tempi della pandemia si lavora di più, con giornate che cominciano prima e non hanno mai un termine. Il rischio di arrivare “dopati da iperconnesisone” durante i residui momenti di svago, confinati solitamente nel dopocena, sta già incrinando vecchie e consolidate amicizie: personalmente ho cominciato a declinare questi inviti, il rischio di far fraintendere il fastidio per l’uso del mezzo tecnologico con quello della persona è altissimo.

Sarà tutto materiale per abili psicologi, di sicuro una professione che uscirà rafforzata da questa crisi pandemica, con una lista di potenziale clienti infinita. Arriveremo a rimpiangere gli usi e costumi della vita in azienda, anche se per anni sostenevamo che fosse la ragione principale del nostro malessere. Ora che nel comfort di casa possiamo avere la migliore tecnologia a disposizione, che potrebbe selezionare anche con chi interagire, rimpiangiamo il rischio di imbatterci nel collega sgradito alla pausa caffè alla macchinetta: del resto lamentarsi di un caffè scadente con qualcuno “dal vivo” ha sempre un gusto superiore rispetto ad assaporare la migliore qualità di “arabica” da soli. 

L’elefante va fatto a fette

L’elefante va fatto a fette”. Era l’espressione tipica e salomonica con cui il mio grande capo soleva liquidarmi, ogni volta che mi presentavo al suo cospetto con un problema, a mio avviso troppo grosso, su cui non sapevo neppure dove cominciare e per cui chiedevo un consulto.

L’eredità più grossa che la pandemia ci ha lasciato e con cui dovremo imparare a convivere per anni, oltre alle conseguenze di carattere sociale e sanitario, almeno a livello economico si chiama debito pubblico: un elefante ingombrante e di dimensioni massicce che graverà sui bilanci economici di tutti i governi internazionali per anni.

Prima o poi una politica consapevole e coraggiosa dovrà tenerne conto e metterci mano. Appunto. Ma non penso che sarà una operazione di breve termine. Siamo ancora troppo alle prese con gli effetti economici della pandemia: la politica fiscale in primis e la politica monetaria (parzialmente) hanno svolto un ruolo chiave nel promuovere il rimbalzo del sistema economico e limitare i danni derivanti dalla perdita di domanda.

Rispetto agli errori della crisi finanziaria globale del 2008 abbiamo fatto passi da gigante, allora ci affidammo alla sola politica monetaria, questa volta, i governi dei mercati più sviluppati hanno rapidamente risposto con misure di sostegno per i privati (sotto forma di versamenti diretti) e per le aziende (sotto forma di garanzie creditizie e prestiti diretti), mentre l’economia globale crollava pesantemente.

In sintesi, già grande parte delle risorse dei bilanci pubblici sono state utilizzate per ridurre la probabilità di danni economici permanenti e per salvaguardare i posti di lavoro. E ulteriori misure verranno annunciate per fronteggiare eventuali nuove ondate di pandemia (almeno fino a che la campagna vaccinale darà risultati definitivi).

L’austerità tanto proclamata nel passato nella crisi del 2008 da organismi quali il Fondo Monetario Internazionale, oggi è assolutamente bandita: l’FMI ha anzi raccomandato di incentivare i consumi collettivi e rafforzare i programmi d’investimento per sostenere la ripresa con un frenetico ricorso alla spesa pubblica. Il rapporto debito pubblico/PIL dei paesi sviluppati ha raggiunto livelli che si erano toccati solo durante la seconda guerra mondiale.

Ma non c’è tempo ora di fermarsi: l’elevato debito pubblico sarà uno dei fattori macroeconomici principali che influirà sull’evoluzione dell’economia globale e sul ciclo politico dei prossimi anni. Forse decenni.

Se (nel caso) mio figlio tra qualche anno verrà a chiedermi suggerimenti su come abbassarlo, saprò già come rispondergli.

La ruota quadrata non gira

Così si è espresso il Censis nell’ultimo rapporto sul nostro Paese. E la fotografia che emerge è piuttosto preoccupante ed impietosa. Gli Italiani hanno paura. La tutela del lavoro è la preoccupazione maggiore: il 53,7% dei dipendenti nelle piccole imprese teme la disoccupazione, rispetto a un più contenuto 28,6% di chi lavora nella grande industria. C’è una frattura sempre più netta tra chi ha la sicurezza del posto di lavoro e chi no: da una parte i 3,2 milioni dipendenti pubblici a cui si sommano i 16 milioni di percettori di una pensione, dall’altra parte il popolo delle partite Iva, dei commercianti, degli artigiani, dei professionisti rimasti a corto di incassi e fatturati che rappresentano quella parte di Italia che si è schiantata durante il Covid.

Ma c’è anche un gruppo di “invisibili” che si è inabissato senza far rumore e stimato in 5 milioni di persone: lavoratori in nero e i saltuari dei “lavoretti”. Ma se la fotografia attuale è drammatica, spaventa ancora di più il futuro: quasi il 40% degli italiani ritiene che anche nel post Covid, avviare un’impresa, aprire un negozio o uno studio professionale rimarrà un azzardo. Di più, Il 73,4% degli italiani indica nella paura dell’ignoto il sentimento prevalente: nel Paese dell’autoimprenditorialità e delle fabbrichette sotto casa è un segnale spaventoso.

Lo Stato diventa quindi il salvagente sociale a cui aggrapparsi: già ad ottobre l’Inps ha erogato sussidi per un quarto della popolazione con una spesa complessiva di 26 miliardi di euro, ovvero un “sussidio medio” di quasi 2.000 euro a testa. Il meccanismo rischierà di generare dipendenza, oltre che mandare il nostro debito pubblico fuori controllo, ma “privi di un Churchill a fare da guida nell’ora più buia”, (cit.) capace di essere il collante delle comunità, l’Italia si affida alle sue individualità e al suo individualismo.

Nel passato l’Italia è sempre riuscita a riemergere dai suoi momenti più bui, con l’eccezionale exploit del primo dopoguerra, il boom economico, dove il Paese è divenuto in pochi anni una potenza economica mondiale, dando origine alla generazione dei baby boomers, che ancora oggi rappresentano la quasi totalità di quel 3% di italiani adulti che detengono il 34% della ricchezza del Paese.

Speriamo di non aver smarrito in tutti questi anni la voglia di stupire e di stupirci.

Una patrimoniale non salverà l’Italia

Era scontato: come il dibattito sul MES sarebbe entrato nel vivo, o peggio, l’Italia avrebbe dovuto dare una risposta definitiva all’Europa, qualche nostro politico se ne sarebbe venuto fuori con una “patrimoniale” come panacea di tutti i mali. Questa volta sono già 3 i partiti che, a titolo diverso, hanno promosso la ‘balzana‘ iniziativa. Come già ampiamente illustrato in un N&M del 12 ottobre, il problema vero di questo Paese è l’evasione fiscale e non aumentare la pressione fiscale, poiché il nostro ordinamento è già “ricco” di prelievi, sia sul patrimonio mobiliare che su quello immobiliare, sia di bolli sugli investimenti finanziari, che di tasse sul mattone, che rappresenta ancora il vero bene rifugio per eccellenza.

Senza entrare nel merito delle proposte, che in entrambi i casi, a detta dei proponenti, si applicherebbero ai “super ricchi”, senza neppure specificare bene i criteri oggettivi per poterli immediatamente individuare, il teorico vantaggio che si avrebbe (a detta sempre di 2 dei 3 portavoce della iniziativa) sarebbe di circa 18 miliardi di euro, da ridistribuire a beneficio della popolazione. Fa (sor)ridere che gli stessi proponenti appartengano proprio a quei partiti che rinunciando al MES, rinunciano ad un vantaggio certo e immediato di 35-36 miliardi di euro. Ma così rischio di entrare in diatribe politiche, che personalmente non mi entusiasmano. Chiunque avesse sfogliato qualche pagina di economia politica ai tempi dell’università, saprebbe tuttavia che aumentare la pressione fiscale in un momento di diffusa crisi economica è un grosso azzardo (per non essere scurrile), inoltre il rischio di “punire” i maggiori contribuenti e favorire invece i maggiori evasori (che sarebbero incentivati a continuare nella loro azione) sarebbe un clamoroso autogoal in termini di equità fiscale, che anche i peggiori governi della nostra storia repubblicana si sono sempre vantati di perseguire. Se è vero infatti che oggi il governo si può far forte che non esista più il segreto bancario come nel passato, (per contrastare eventuali fughe di capitali tassabili), è anche vero che un intervento sul patrimonio (sia mobiliare o immobiliare) farebbe del tutto cadere il rapporto già vacillante di rappresentatività verso questa classe politica.

Lo abbiamo già visto nel passato, sia con il prelievo forzoso del 1992, sia con la introduzione dell’IMU nel 2011: il rapporto cittadini-Stato è stato messo a dura prova, dando origine alla nascita di movimenti populisti che non hanno di certo risolto la situazione.

Chiuderemo con un calo del PIL di circa il 12% sul 2019, gli investimenti in immobili commerciali nel 1° semestre sono già crollati del 25% con stime in peggioramento, anche l’immobiliare residenziale è in contrazione, mentre cresce in maniera importante la propensione a mantenere i propri risparmi in liquidità (+8% sul 2019), per il sentimento di grande incertezza che impedisce di sostenere l’economia di questo Paese.

Bisognerebbe allora essere proprio degli sprovveduti per pensare che una eventuale patrimoniale possa risolvere i problemi causati dalla cattiva politica. Anche perché se applicata su livelli reddituali, (come ad oggi proposta), la attuale fascia di reddito più alta, (censita dalla agenzia delle entrate), è quella di chi guadagna più di 300.000 euro, ovvero lo 0,1% della popolazione.  Lo 0,1% dovrebbe “salvare” 60 milioni di persone.

Temo che il problema allora non sia più solo saper sfogliare dei libri, ma anche saper fare un minimo di conto: confidiamo che la nuova ‘didattica a distanza‘ possa aiutare in tal senso a migliorare la futura classe politica. Anche perché fare peggio è davvero difficile.

Il Made in Italy (forse) da non imitare

Con un annuncio sobrio ma efficace, nel telegiornale nazionale del 23 novembre, la Cina ha annunciato di aver sconfitto la povertà. Per carità, niente di paragonabile rispetto a quanto siano riusciti a fare i nostri amministratori, niente balconi e pugni roteanti in aria, ma apprezziamo lo sforzo cinese di copiare le nostre gesta.

La Cina aveva promesso nel 2012 di sradicare la miseria entro la fine del 2020. Nel 2019, 52 contee del Paese figuravano ancora nella lista delle aree indigenti, oggi, un mese prima della scadenza anche la ultima provincia del Guizhou è uscita dalla lista nera, con un tasso di soddisfazione tra i residenti locali superiore al 99% e un reddito medio pro capite medio di 1700 dollari circa.Ma questa è propaganda, sui cui è legittimo avere qualche dubbio. Vediamo qualche dato più realistico. Esistono tante Cine, che vanno dalle sterminate e poverissime zone rurali, fino a quelle hi-tech ed abbaglianti delle metropoli della “fascia costiera”: è ovvio che esistano due economie che marciano a velocità e con risultati totalmente in contrasto l’una rispetto all’altra.

È però vero che ci sia una riduzione sostanziale, anno per anno, del numero di persone che vivono in miseria, inoltre, la situazione dell’economia cinese, in generale, è decisamente positiva. Anche in questo anno drammatico, le previsioni di PIL cinese sono date da tutte le organizzazioni mondiali (e da tutte le banche d’affari internazionali) positive (in media +2% circa sul 2019) e in controtendenza assoluta con il baratro nel quale sono fiondate le principali economie del mondo occidentale.

Rimangono tuttavia dei fattori di base, soprattutto sulla disponibilità di materie prime, che, personalmente, mi fanno sorgere il dubbio che il miracolo economico cinese e il loro modello sociale delle “3 rappresentanze” non possano rimanere eterni. Infatti, la Cina ha solo il 6% delle risorse idriche mondiali e il 9% delle terre coltivabili, ma deve alimentare il 21% della popolazione mondiale, come pure non ha petrolio e gas naturale per sostenere la produzione delle sue industrie e li deve importare (soprattutto dall’Africa). E la lunga guerra commerciale del 2019 con gli USA ha determinato soluzioni autarchiche che hanno solo maggiormente affamato chi aveva già fame. Insomma, ho la sensazione che presto le reazioni di una quota di popolazione sempre più esasperata travalicheranno di colpo le severe maglie della censura governativa. Solo allora capiremo cosa riuscirà ad essere realmente il dragone cinese: il ruolo di leader internazionale che vorrebbe ricoprire, per essere duraturo, prevede il sostegno di economie meno sviluppate (o più rallentate), ma soprattutto l’ascolto prima e la dotazione poi, di valide soluzioni di welfare per la propria popolazione. Tutta. Chissà se (per allora) vorranno affidarsi ancora a slogan di italica memoria o decideranno che forse, per una volta, il Made in Italy non è da copiare..

Ci vorrebbe Qelo

C’è grossa crisi!” urlava sconsolato Qelo, un improbabile personaggio di fantasia, interpretato dal genio comico di Corrado Guzzanti molti anni fa. Ora, io non so quanto la attuale Unione Europea sia preparata sulle puntate del “Pippo Chennedy show”, ma di certo la attuale scenetta dell’approvazione del budget 2021-2027 e Recovery fund ha qualcosa di surreale, a tratti grottesco e potrebbe di certo ispirare nuovi personaggi di fantasia al comico romano. Facciamo un piccolo sunto. Dopo mesi di comuni dichiarazioni di intenti sulla necessità di distribuire al più presto i fondi, (distinti fra sussidi e prestiti), che finanzieranno gli interventi aggiuntivi rispetto al bilancio comunitario ai singoli Paesi membri della UE, Ungheria e Polonia (ora sostenute informalmente anche dalla Slovenia) si sono sfilate. Una spaccatura inattesa che impedisce, allo stato attuale delle cose, di distribuire i fondi del famoso Recovey Fund, resosi necessario per lo scoppio della pandemia: 1800 miliardi di euro chiusi in un cassetto e lasciati lì. La motivazione del veto dei 2 Paesi risiede nella contrarietà (per entrambi) alla accettazione dello stato di diritto imposto dalla Ue. Facciamola più semplice: i leader dei Paesi Ue chiedono che vengano rispettati i principi fondativi della Comunità, (quali l’indipendenza della magistratura o il rispetto dei diritti civili). Chi non si adegua, non ottiene i fondi erogati per fronteggiare questa crisi di eccezionale portata. Peccato però che i due Paesi in questione non vogliono affatto assecondare la Ue e vorrebbero continuare a governare i loro Paesi come pare e piace ai loro leader autocratici. C’è anche un problema a monte: la distribuzione di questi fondi straordinari passa(attualmente) per un accordo all’unanimità tra i vari Stati. E la cosa surreale e appunto grottesca di questa vicenda kafkiana è che la Polonia sarebbe persino il terzo Paese a beneficiare maggiormente di questi fondi (dietro a Italia e Spagna).

Insomma, la soluzione non è proprio dietro l’angolo: da una parte l’intransigente Francia ha già dichiarato di spingere per un bilancio ad hoc per i soli paesi dell’Eurozona: un club di 19 economie che escluderebbe Budapest e Varsavia de iure, qualcun altro invece vorrebbe un Recovery Fund a 25 (anziché i 27 Paesi della Unione) proprio per escludere i 2 paesi riottosi. Altri Paesi cercano invece un accordo politico di compromesso. Qualunque cosa succederà, (se succederà) si sarà comunque perso tempo preziosissimo e i ritardi accumulati peseranno come macigni per far ripartire le nostre economie. Di certo Qelo saprebbe trovare succosissimi spunti da questa vicenda, purtroppo però le sue interpretazioni rimarrebbero divertente commedia, la nostra vicenda è invece assurda realtà.

Se il Presidente perde la corona

I giornali e i media di tutto il mondo stanno celebrando la vittoria di Joe Biden, indicato come il Presidente più “adatto” per permettere agli USA di mantenere la leadership economica e politica mondiale.

Probabilmente non si fa i conti con il convitato di pietra, che per un beffardo volere del destino, non è più spregiudicato leader politico di qualche potenza in crescita o un sanguinario terrorista che vuol sovvertire l’ordine costituito. In quelle occasioni, gli USA avevano sempre trovato soluzioni efficaci. Questa volta il nemico è invisibile e diffuso (parrebbe) in quasi tutte le regioni del mondo: si tratta di un virus che ha determinato una pandemia mondiale. E se (come tutti ci auguriamo) un vaccino debellerà presto e per sempre la diffusione di questo maledetto virus, gli effetti che in un solo anno, a livello economico e sociale ha comportato, rimarranno per anni.

Partiamo allora dagli effetti economici più evidenti a livello globale: il virus ha ancora maggiormente ampliato le diseguaglianze tra ricchi e poveri di un singolo Paese, ma anche tra singoli Paesi. Questo virus non è affatto democratico. Come conseguenza, questo virus comporterà delle reazioni aggregate (o di sistema) ancora più marcate che nel passato. L’Europa e le sue reazioni di politica monetaria e fiscale “concertate” sono un buon esempio. Ma resistere (economicamente) per l’Europa sarà sempre più difficile. La revisione dell’attuale modello di globalizzazione determinerà produzioni sempre più locali, soprattutto in settori strategici, come quello della sanità, che si allargheranno presto ad altri settori ritenuti via via strategici. Sopravviverà dunque chi avrà mercati interni di consumo molto grandi o chi troverà alleanza efficaci. La “Perfida Albione” che orgogliosamente voleva far tutto da sola con Brexit, temo che sarà l’esempio più eclatante di una scelta politica davvero infausta. Oh damn! E sperare che il nuovo Presidente americano rilanci un Piano Marshall che riavvicini le due sponde dell’Atlantico è molto romantico, ma di difficile esecuzione.

C’è invece un forte rischio che per sanare la situazione sociale americana sempre più drammatica, il Presidente USA debba rafforzare le politiche protezionistiche già sperimentate dal suo predecessore, inasprendo così le tensioni con l’Europa, ma soprattutto con la Cina, questa ultima che, invece, continua a viaggiare come se nulla fosse ed è oggi è stabilmente il primo produttore manifatturiero e agricolo al mondo. Per usare una metafora: “il re è nudo” e senza più corona (con la c minuscola). E in mezzo a un Re (o Presidente) nudo senza corona e un Principe in ascesa che se la vorrebbe mettere in testa, ci siamo noi: Italia e/o Europa dir si voglia. Preparate i pop corn (pardon, gli involtini primavera): sarà un film inedito per tutti.

La “Blue wave” e altre storie di navigazione

Biden ha vinto. Il rivale non la sta prendendo proprio benissimo, o almeno non sembra ispirato al motto decoubertiniano e promette battaglie legali. Ma questa rubrica non si occupa di politica, ma di finanza. L’elezione del Presidente della maggiore economia mondiale determina tuttavia conseguenze a livello economico a livello internazionale. Ma facciamo un passo indietro. Già la settimana scorsa le borse avevano sprintato in maniera commovente visti gli ultimi andazzi (+6% il Dow Jones e +8,5% il Nasdaq) sull’ipotesi di una vittoria “zoppa” dei democratici: andava bene avere una “Blue Wave, purchè fosse una ondina e non un cavallone. Fuor di metafora: è cosa buona e giusta avere un partito vincente alla Casa Bianca e perdente in una delle due Camere. Perché? Perché il controllo del Congresso ha almeno la stessa importanza della Presidenza: è il Congresso che approva i provvedimenti di spesa e gettito fiscale e li manda all’approvazione del Presidente. In tal senso, la campagna elettorale di Biden si è incentrata su un ampio utilizzo della spesa pubblica, finanziata con un significativo aumento della tassazione su imprese e redditi molto elevati. Ahia.. Non proprio il miglior scenario auspicato dalle società hi tech e farmaceutiche che rappresentano il maggior peso sui listini americani.

E così la vittoria zoppa va bene a tutti. Va bene ai mercati, che probabilmente vedranno in parte inattuabile la politica di Biden basata su inasprimento fiscale sulle maggiori aziende e una nuova regolamentazione nel settore hi tech. Ma va bene anche alla politica, che avendo armi spuntate di politica fiscale, dovrà confidare in una reazione della Federal Reserve per aumentare gli stimoli monetari per compensare la mancanza di quelli fiscali. (In parole povere: meglio far fare il lavoro sporco ad altri). Scenario tutto sommato positivo, o per lo meno gradito ai mercati. Bisogna solo capire cosa farà il Presidente uscente Trump. Che potrebbe anche sparigliare le carte, impuntandosi sul verdetto e cercando di paralizzare la vita politica del Paese, almeno fino all’insediamento del nuovo Presidente (gennaio). E questo ai mercati non piacerebbe di certo. Oppure… potrebbe perdere anche il Senato. (I ballottaggi saranno anche qui a gennaio). E in tal caso “l’ondina blu” diventerebbe un cavallone. E si sa.. sui mercati, per una buona navigazione, è sempre meglio preferire il mare piatto al marinaio eccezionale.

Basta un po’ di coraggio

Per chi, come me, si occupa di consulenza patrimoniale, un periodo così difficile come quello attuale, nonostante alcune caratteristiche assolutamente uniche legate alla pandemia, è un film già visto. Premetto, (prima di essere travisato), mi riferirò ai soli effetti finanziari ed economici. Perché ogni crisi, per quanto unica e diversa dalle altre, provoca, sempre, identiche reazioni: paura e ricerca di protezione patrimoniale. E spesso, la via più scontata e immediata è sempre la stessa: tenere tutto sul conto corrente. Non è solo un atteggiamento solo italico, però da noi, probabilmente scontando ancora un retaggio culturale di tassi attivi alti (che ci trasciniamo da quando avevamo ancora la lira) è molto più evidente. Ai quei tempi avevamo alti tassi nominali, ma una inflazione ancora più alta, che vanificava il vantaggio economico, ma non è questo il punto. Non intendo dilungarmi neppure sulle scontate opportunità di investimento perse nel lasciare tutto in liquidità: lo dimostra già la storia dei mercati finanziari e rischierei di essere fazioso, e poi ci sono colleghi sicuramente più bravi di me nel farlo. No. Mi riferirò allora alla situazione attuale in Italia, dove, durante il lock down è aumentata significativamente la liquidità sui nostri conti correnti. Cresce il risparmio perché consumiamo di meno (effetto rinvio dei progetti) e perché si teme il futuro (effetto paura). Banca d’Italia stima la attuale ricchezza complessiva delle famiglie italiane (esclusa la componente immobiliare) in 4,4 miliardi di euro circa, di cui 1.400 miliardi circa è ferma sui conti correnti e/o depositi vincolati. (Prima del Covid erano poco più di 1 miliardo). Risorse dunque che non producono alcun valore aggiunto all’economia reale e che se solo fossero in parte investite, potrebbero dare un forte impulso alla crescita del Paese. Ma forse proprio questo è il punto. Per investire serve coraggio e il coraggio viene se c’è una opportunità. Una classe politica preparata e un minimo lungimirante, (soprattutto nelle fasi di stress), dovrebbe volere solo una cosa: creare le condizioni di fiducia nel futuro. E questo passa inevitabilmente per passaggi talvolta dolorosi (nel breve), ma assai preziosi nel lungo periodo: avviare un processo di riforme. Altrimenti il rischio che la mancata visione diventi una svista e che una riserva di liquidità diventi una “riserva di pesca″ è proprio la conseguenza di chi alla politica del coraggio ha preferito quella del miraggio.

Spendi, spandi, ma con giudizio

Il Fondo Monetario internazionale (FMI) ha aggiornato le stime della (de)crescita internazionale nel mondo post Covid. Situazione ancora grave, seppur in leggero miglioramento: il Pil globale subirà una contrazione del 4,4% nel 2020, (rispetto al -5,2% stimato quattro mesi fa). Analogamente, il rimbalzo previsto nel 2021, (+ 5,2%) si attenua proprio perché meno profondo dovrebbe essere il crollo del 2020. Nonostante la difficoltà di fare stime sensate in un contesto storico così magmatico e seppur sarà ancora una economia di distanziamento sociale per tutto il 2021, il FMI stima che già nel 2022 il mondo dovrebbe tornare a livelli superiori a quelli del Pre covid: (+0,3% sul PIL 2019). Anche l’Italia è prevista nel 2020 in leggero miglioramento: PIL in contrazione del 10,6% nel 2020, (rispetto al -12,8% stimato a giugno) con un rimbalzo del 5,2% nel 2021. Deficit pubblico previsto al 13% e debito pubblico che si issa al 162% del PIL per fine anno. In questa Europa che ha messo la marcia indietro, non si salva neppure la Germania (-6,1% PIL) e la Francia (-9,8%). Nell’Eurozona il crollo sarà dell’8,3%, rispetto al -10,2% di giugno, con un rimbalzo del 5,2% previsto l’anno prossimo. Abbiamo lasciato l’ultimo posto alla Spagna. Caspita, che soddisfazioni… L’unica grande economia che dovrebbe salvarsi invece sarà la Cina (+1,9% nel 2020), mentre gli USA rimarranno in contrazione del -4,3% (con buona pace dell’America first dell’attuale presidente), e i paesi emergenti saranno pesantemente sfavoriti dalla pandemia (India in primis). Ma questa è la fotografia. Interessante invece cosa dice il FMI per uscire dalla crisi: “i Governi dovranno continuare nelle politiche di welfare sostenendo la popolazione con sussidi salariali e indennità di disoccupazione, purché mirati, come pure sarà necessario continuare ad aiutare le imprese vulnerabili (ma vitali) tramite un sostegno al credito, proroghe fiscali e moratorie sul debito”. Spendere sì, ma con giudizio insomma. Il FMI si dichiara favorevole a sospendere i vincoli di bilancio a livello di singolo Stato purché ci sia un impegno rigoroso e credibile di risanamento, eliminando la spesa pubblica improduttiva e i sussidi a pioggia, «non mirati».(che abbiano letto la N&M della scorsa settimana?..). Infine il FMI suggerisce anche modifiche di carattere fiscale: nuove imposte sulle imprese, ma anche nuove forme di prelievo sugli individui più ricchi e/o quelli relativamente meno colpiti dalla crisi. (con una parolaccia, si chiama patrimoniale). Non proprio una bella notizia per noi Italiani da sempre alle prese con un carico fiscale più alto dell’Eurozona. Forse anche per questo che il FMI termina la ricerca suggerendo che i Paesi dovrebbero trovare il più possibile uniformità nella tassazione sui privati e sulle aziende. Il sospetto che stessero proprio pensando a noi, diventa a questo punto sempre più una certezza…

Pesa più un chilo di evasione o uno di cattiva gestione?

È da sempre il mantra di ogni forza politica che si affaccia alla ribalta: sconfiggeremo la evasione fiscale! E negli ultimi anni si è cercato una spettacolarizzazione dello slogan, assumendo pose plastiche su balconi o comunicazioni in diretta streaming. La fedeltà fiscale dunque come panacea di tutti i mali: basterebbe dire basta all’economia sommersa e il nostro Paese tornerebbe leader a livello mondiale.

Ma temo che questo sia pura mitologia. La realtà infatti è un po’ più complessa. Partiamo da qualche dato (stimato dal Ministero delle finanze): la evasione fiscale peserebbe circa 110 miliardi all’anno (IRPEF, IVA, IRES, IRAP.. c’è tutto un mondo di evasione). E’ tanto? Si, tantissimo. Il nostro PIL (dato ufficiale 2019) è di 1,8 trilioni di euro circa. L’evasione fiscale annua sarebbe dunque il 6% del nostro fatturato ufficiale. (Ma altri uffici studi stimano molto di più). Di certo servirebbe un balcone grande per urlare tutto il nostro sdegno!

Un recente studio della Cgia ha tuttavia stimato anche l’impatto delle inefficienze della nostra pubblica amministrazione: disservizi che gravano sul nostro tessuto produttivo o sul semplice cittadino. Anche qui si va dai debiti commerciali con la pubblica amministrazione, alla lentezza della giustizia civile, dal deficit infrastrutture, alla corruzione (soprattutto nella sanità) o alla ricchezza detenuta in paradisi fiscali… Bene, anzi male.. l’impatto economico stimato da Cgia sarebbe di circa 200 miliardi di euro, dunque più del doppio dell’evasione fiscale. Caspita, qui più che un balcone, servirebbe un terrazzo per sfogare tutta la nostra rabbia!

E il grosso problema che la classe politica (forse) non capisce è che la somma di tutti questi sprechi di spesa pubblica non ci consente di abbassare la nostra pressione fiscale. Più tieni alte le tasse e maggiormente qualcuno cercherà di trovare soluzioni “fai da te”. Un circolo vizioso insomma. Lo capirebbe anche un bambino.

O tempora! O Mores!” Esclamava Cicerone duemila anni fa per denunciare il malaffare dei costumi di allora.

Da allora sembra che non sia cambiato molto. O forse, sarebbe bastato (allora) annunciarlo da un balcone abbastanza grande per convincere da subito e spontaneamente il popolo ad assumere comportamenti più virtuosi. Chissà..

Prendi questa mano, Italia! (semicit.)

Andando a spulciare i risultati dell’asta del BTP a 10 anni sul sito del Ministero dell’economia e delle finanze (lo so, ci sarebbero passatempi più divertenti..), anche i non addetti ai lavori potrebbero arrivare a qualche considerazione interessante sul futuro del nostro Paese.

Primo: c’è tanta voglia di debito pubblico italiano ( la domanda è stata ampiamente superiore all’offerta di 4,5 miliardi di euro in collocamento).

Secondo: il rendimento dei nostri titoli di stato è in continua discesa. È un fatto negativo? Tutt’altro. oggi lo stato paga 89 centesimi per farsi sottoscrivere un debito a 10 anni, un mese fa pagava 22 centesimi in più. Siamo tornati al livello di un anno fa (manca 1 centesimo per essere pignoli), ma in mezzo c’è stato il Covid-19. E l’obiettivo è tornare ai livelli del 2016, in cui si era riusciti ad avere un costo dell’emissione a 55 centesimi.

Terzo: l’Europa non ci sta dando una mano, ma una manona. Di quelle che servono proprio per schiacciare il nostro spread a livelli bassissimi,(ora a 132 bps), evitando che salti dove non conviene che arrivi (più). Lo sta facendo attraverso un piano di acquisti dal nome un po’ politichese (PEPP), ma poco importa, meglio guardare più ai fatti che alle sigle.

Quali sono i vantaggi di questi tre punti? Innumerevoli. Soprattutto per lo Stato Italiano, che risparmia molto di più e (ci si augura) potrebbe utilizzare questo risparmio per fronteggiare meglio la emergenza pandemica in atto. Ma ci sono evidentemente dei vantaggi anche per i cittadini, favoriti (in generale) da uno spread sotto controllo.

Siamo alla fine di un anno balordo e lo Stato italiano ha in programma emissioni ancora per 40 miliardi circa. Non ci sono al momento segnali di preoccupazione e l’obiettivo potrebbe essere raggiunto senza affanno. Semmai il problema sarà quando l’Europa dovrà togliere la “manona” di sostegno, cosa che avverrà ad esempio nel 2023, con una mole di debito da rifinanziare piuttosto pesante (più di 300 miliardi).

Per allora, ce la dovremo cavare sulle nostre gambe.. O sulle nostre mani, dir si voglia..

Niente serietà siamo inglesi (semicit.)

Interrogato in parlamento sul perché la Gran Bretagna avesse ancora così numerosi casi di Covid rispetto a Italia e Germania , Boris Johnson ha replicato che questo dipendesse unicamente dalla loro mentalità più liberale rispetto a Italia e Germania, paesi che non hanno dovuto (per ora) adottare le misure restrittive londinesi. Apriti cielo! Anche il nostro (sempre mite) Presidente ha puntualizzato che anche noi amiamo la libertà, ma al tempo stesso anche la serietà e che le due cose non si escludono. E la risposta italiana è probabilmente anche piaciuta (e confermato) i mille dubbi sulla incoerenza della politica inglese degli ultimi tempi. Mi riferisco alla celeberrima saga chiamata Brexit, che più che una vicenda politica sta diventando una soap-opera. Ricapitoliamo un attimo: seppur il referendum di giugno 2016 avesse sancito la uscita inderogabile dall’Europa, la Gran Bretagna sembrerebbe ora non avere particolare fretta di assecondare il volere popolare.

Si era infatti deciso che prima di “lasciare il continente” (31 dicembre 2020), sarebbero stati concordati singoli accordi (soprattutto commerciali) bilaterali tra la Gran Bretagna e i vari Paesi della Unione Europea. Ma poi si sa, è arrivato il Covid e la Gran Bretagna si è trovata a dovere definire una nuova scala di priorità, prima tra tutte quella (purtroppo) di riconoscere per tempo che nessuna immunità di gregge avrebbe salvato l’Isola dal naufragio (sanitario). Così di colpo gli anglosassoni si sono accorti che rimanere nel Mercato Unico non è così male, purché non fossero costretti ad osservare quelle anacronistiche condizioni dettate dal “Trattato” che vieta ai singoli Stati di aiutare con sussidi statali le aziende nazionali. (ma non si era appena detto che erano liberali?). Sul temporeggiamento britannico, potrebbe aver avuto un ruolo anche il sostegno di Trump, da sempre infastidito dall’attivismo comunitario europeo e dall’agire economico disinvolto cinese. Un’Europa che perdesse via via i pezzi può averlo spinto a promettere favorevoli condizioni commerciali ai britannici, se avessero cominciato a sgretolare “il muro di Berlino”, ma sia la inaspettata reazione di forza della Commissione Europea con il suo Recovery Fund, sia il suo drastico calo nei consensi devono aver scombussolato (e di molto) i piani iniziali. Ma siamo ormai a ottobre e arrivano gli allarmi di numerosi uffici Studi: una uscita senza accordo sarà cinque volte più dannosa per la Gran Bretagna che per i Paesi Ue e sul lungo termine l’impatto sarà molto più devastante dell’epidemia di Covid-19. (Banca di Inghilterra lo stima in circa l’8% del Pil, ovvero 2.400 sterline per ogni cittadino, mentre il costo di Covid sarà dell’1,7%circa o 600 sterline per cittadino).

I latini avrebbero sintetizzato la vicenda con il detto “Sub lege libertas(solo sotto la legge c’è libertà). Ma si sa, lo studio del latino è faccenda che richiede molta serietà.

Toglietemi tutto, ma non il mio mutuo

“Pasta, pizza, mandolino” è un tipico stereotipo per rappresentare noi Italiani all’estero. Ma non mi stupirei se qualche spiritosone straniero (un po’ più colto) ci aggiungesse anche “casa”.

Eh si perché l’italiano, a differenza degli altri popoli, è molto più legato alla città natale (abbiamo una mobilità sociale piuttosto ridotta) e molto legato al mattone, da sempre considerato bene rifugio delle famiglie italiane.

Ma seppur negli ultimi anni, i prezzi delle abitazioni (salvo rare eccezioni in Italia) si siano generalmente ridotti, lo strumento finanziario principe utilizzato per l’acquisto degli immobili (il mutuo) conosce ultimamente una vivacità indiscussa.

La pandemia del Covid-19 ha comportato interventi significativi di politica monetaria da parte della BCE. Il costo del denaro è un livello mai così basso e il programma PEPP della BCE ci dà ampia garanzia che tale livello rimarrà tale per un bel po’. Ma se il costo del denaro (la scorsa settimana l’Euribor 3 mesi è sceso a -0,48%) influenza il costo dei mutui a tasso variabile, il livello dei mutui a tassi fissi è definito invece dalle prospettive di inflazione (tassi Eurirs, di medio lungo periodo). Bene, oggi, a conti fatti, il TAEG (che tutti sappiamo cosa significhi) per un mutuo oscilla dal 0,35% (variabile) allo 0,5% (fisso) come migliore proposta del mercato(fatta dai vari istituti bancari nazionali) e nel rispetto di alcune condizioni in capo al prenditore. Tanto? Poco? Diciamo che storicamente i tassi non sono mai stati così bassi (con buona pace per chi rimpiange una valuta nazionale) e seppur ci sia ancora una minima differenza tra i due tassi considerati, oggi molte persone preferiscono orientarsi verso un mutuo fisso, nell’ottica di bloccare un costo certo nel lungo periodo e proteggendosi anche dagli effetti che il Recovery fund europeo dovrebbe comportare in termini di inflazione. Gli stessi concetti valgono anche per chi decide di rottamare il proprio mutuo surrogandolo con uno nuovo. Tutto chiaro?

Insomma, rifacendomi a uno slogan di una vecchia pubblicità: toglietemi tutto, ma non il mio euribor..

Una “melina” al giorno, toglie il super Euro di torno

Si è tenuta la scorsa settimana la riunione della BCE e c’erano grandi attese che in qualche modo uscisse qualche soluzione che rassicurasse i mercati, ma soprattutto la parte produttiva del vecchio continente, messa all’angolo da un Euro così forte.

Ma le grandi aspettative si sono dissolte subito in apertura. Di fatto la riunione si è conclusa in quello che in gergo finanziario si chiama “wait and see”, o “melina” in gergo calcistico.

Toni molto misurati ed equilibrati, in cui la Presidente Lagarde ha sì detto che l’Europa chiuderà l’anno “meno peggio” di quanto previsto: PIL -8,0% dall’iniziale -8,7% di qualche mese fa, con una ripresa del +5%, rispetto al +3,2% sul 2021. Ma venti gelidi e nubi nere si addensano sulla ripresa, portati da questa recrudescenza dei contagi nei mesi estivi; per cui ha ribadito che la BCE intende utilizzare interamente i soldi destinati al programma PEPP ( e sono ben 1350 miliardi di euro).

Lagarde ha inoltre chiosato sulla necessaria attenzione che un euro così forte comporta sulla stabilità dell’eurozona, utilizzando l’espressione “we are carefully monitoring the situation”, che non penso necessiti traduzione. Per dare una idea, dall’inizio della pandemia (20 febbraio) l’Euro è cresciuto +9,7% sul dollaro. E anche le previsioni sull’inflazione rimangono eccezionalmente basse, con un livello di 1,0% sul 2021 e 1,3% al 2022 (del resto se non hai domanda, le risorse prodotte non si apprezzano e anche la valuta forte non aiuta).

Ma si vede che sono preoccupazioni di fatto gestibili o si è forse ritenuto di rimandare eventuali interventi di politica monetaria più avanti. Forse la Presidente Lagarde è stata ispirata anche dal motto di italica tradizione calcistica, “catenaccio schierato, palla avanti e speriamo in bene”. Del resto noi così ci abbiamo vinto quattro mondiali, mentre altre nazioni ispirate da filosofie di gioco più spettacolari hanno ancora un cielo terribilmente “povero di stelle”. Sì, auguriamoci che sia così anche stavolta..

 

 

 

Non ce n’è Coviddi e altre metafore per stare a galla

“Non ce n’è Coviddi” e altre metafore per stare a galla

In questa estate di bulimia calcistica e prostatiti acute dovute a un cattivo utilizzo delle mascherine, è passato un po’ sottotono il messaggio del discorso di Draghi a Rimini. Ed è un peccato. Perché la forza di una leadership culturale si misura dalla sua capacità di generare lessico. E dopo il “whatever it takes” che ha già salvato l’Europa nel passato, Draghi ci ha regalato un’altra “sciabolata metaforica”, distinguendo tra “debito buono e debito cattivo”.

Aspetto solo che l’autunno arrivi e con esso “sugli alberi le foglie” (semicit) per assistere nei prossimi e numerosi dibattiti televisivi a nuovi scontri epici tra chi urlerà che “non ce n’è Coviddi” e una sparuta minoranza che risponderà con le parole di Draghi. Non vi dico già come finirà (lascio un po’ di suspance), ma il vero punto è che in un’Italia in cui (fonte Bankit) è aumentato da inizio anno il livello di risparmio delle famiglie dal 13% al 17% (no, non è una cosa buona, significa che è percepito un livello maggiore di incertezza economica) servirebbe una politica con pochi clamorosi proclami, ma tante e piccole certezze. Lo ha ricordato anche il Presidente della Repubblica al forum Ambrosetti, invitando a fare buon uso dei circa 300 miliardi di debito, di cui l’Italia potrà disporre nei prossimi anni. Espliciterò allora il concetto con la usuale metafora.

Non si può vivere in perenne emergenza e non si impara a nuotare nel mare agitato, ma di certo, una società che si affida ai soli salvagenti dei sussidi e di politiche sociali assistenzialiste (debito cattivo) non formerà mai bravi nuotatori. Insegniamo allora a chi ha più forze (i giovani) a nuotare (debito buono), allenandoli con corsi e in corsie riservate : magari non vinceranno comunque le Olimpiadi, ma di certo sapranno tirare fuori dalle acque agitate chi nel tempo avrà smarrito le forze, o peggio, non ha mai imparato a nuotare e si è trovato di colpo con l’acqua alla gola…

Forse così ho reso maggiormente le idee?

Ingot we trust!

Era il 1980 e il Time, celebre per le sue copertine iconiche, piazzava un lingotto d’oro nella sua prima pagina, con il titolo “Ingot we trust” , giocando sulla paronomasia tra “God” (Dio) e “Ingot” (lingotto d’oro). Sono passati 40 anni e la corsa del metallo giallo prosegue spedita segnando nuovi massimi dal 2012, (più del 10% da inizio gennaio) e consacrandosi come bene rifugio per eccellenza.

L’oro fisico, complice il corona virus che ne ha limitato l’estrazione è diventato merce rarissima.

Dalla maschere micenee al culto dei faraoni, dall’antico testamento alla Bibbia, dall’esser uno dei doni dei re Magi, al rappresentare uno dei sette tesori nel Buddishmo, l’oro non ha mai conosciuto né limiti territoriali, né storici, né religiosi che potessero limitare il suo mito.

Ma è stata la sua storica capacità di rappresentare la base per le valute di molti stati a consacrarne il valore. Dalle prime monete d’oro, coniate nell’Asia Minore nel 560 a.C. fino alla fine degli accordi di Bretton Woods (1971, con la fine della piena convertibilità dollaro in oro), la politica monetaria internazionale ha trovato nel metallo giallo il punto di equilibrio, da cui stabilire i rapporti di forza e valutari tra i singoli stati.

Fior fior di economisti sostennero che l’avvento della carta moneta scollegata dalle riserve auree, avrebbe ridotto l’investimento in oro drasticamente, limitandolo a quella porzione necessaria per realizzare monili di indubbio valore estetico. E in effetti all’inizio fu proprio così: negli anni ’70 il prezzo dell’oro collassò dagli 800 dollari per oncia ai 252 dollari nel 2001. Come ha fatto poi a risalire allora ai 1700 dollari e passa per oncia attuali? Gli economisti non avevano (probabilmente) fatto i conti con la paura che agita gli animi dell’uomo. Ogni volta che l’uomo teme gli effetti di una crisi economica, o peggio, una perdita di valore dei soldi che ha in tasca si rifugia in qualcosa di fisico che resista alla volatilità dei mercati.

Proprio come adesso, in cui l’uso di una politica economica estrema, sia nella componente monetaria che in quella fiscale spinge molti investitori a diffidare di cotanta generosità e diversificare se poi le cose dovessero naufragare di colpo. Una forma quindi di assicurazione più che un investimento speculativo, motivata dal fatto che l’oro è l’unico bene in grado di apprezzarsi quando tutto dovesse andare male.

Giusto? Sbagliato? Nessuno può dirlo. Però un tale disse “Dovete scegliere se avere fiducia nella atavica stabilità dell’oro oppure nella onestà dei membri del governo”. Quel tale era George Bernard Shaw, Nobel della Letteratura nel 1925. Parole del secolo scorso, davvero ancora attualissime.

Recovery fund

Un pareggio annunciato nella partita del Recovery Fund

Si è tenuto il tanto atteso incontro tra i leader europei. Si è discusso del recovery fund da 750 miliardi (due terzi trasferimenti e un terzo prestiti) e del budget da 1.100 miliardi per i prossimi sette anni. Una partita virtuale (si era pur sempre collegati in webinar), dove netti fin da subito sono apparsi i due schieramenti: da una parte la squadra franco-tedesca-italiana-spagnola con un modulo d’attacco ispirato al mutualismo e supportato dalle dichiarazioni della commissione Europea. Dall’altra parte la compagine dei “frugali” (Danimarca, Austria, Svezia e Olanda) e in mediana la Finlandia, catenacciari ad oltranza e ispirati dal motto “qui non passa lo straniero, pardon.. l’europeo”.

In teoria, a calcio, non ci sarebbe partita, dati gli schieramenti. “Ma l’Europa ha ragioni, che la ragione non conosce” e poiché si è giocato con le regole della politica comunitaria, la partita è finita con uno scialbo 0-0, con “il ritorno”, che si disputerà “dal vivo” il prossimo mese a luglio.

Perché nessun goal? Perché sulle 4 questioni su cui si discuteva (1. le dimensioni del piano, 2. Il rapporto trasferimenti/prestiti, 3. La allocazione dei fondi per Paesi, 4. il nuovo calcolo sui contributi al bilancio UE per singolo Paese) è scattata una melina stomachevole. Da ambo i contendenti. Tutti però a ribadire che questa partita s’ha da fare e anche presto. Anche perché i fondi che verranno stanziati dipendono dalla conclusione di suddetta partita. Ad oggi, si parla (o almeno si spera) di poterli distribuire a inizio 2021. Più però la partita andrà ai tempi supplementari e più tardi questi fondi verranno stanziati. In altre parole: più tempo si perde e più dura sarà la recessione. Ma non sembra essere una gran preoccupazione dei giocatori in campo. Ancora troppo concentrati e innamorati del proprio noioso possesso palla o del proprio inespugnabile catenaccio. Non è di certo un gran spettacolo, il pubblico rumoreggia e cresce la paura, ma la politica si ostina a ricordarci che non è tenuta ad esprimere il bel gioco.. Purtroppo…

Futuro dell'economia

Una recessione da non perderci la testa

Siamo all’inizio di una recessione di cui non conosciamo né la durata né la evoluzione. Qualcuno mi ha chiesto quanto possa durare questa crisi. Premettendo che nessuno ha la palla di cristallo, faccio qualche considerazione. Ogni recessione deriva da uno squilibrio. Facciamo 2 esempi “scolastici” e vicini nel tempo: nel 2007 l’origine di tutto fu una bolla speculativa immobiliare, che poi si propagò in tutti i settori dell’economia e soprattutto nel mercato finanziario (mutui subprime). Nel 2001 invece, fu la bolla tecnologica delle “dot.com” a “far saltare il banco”. Quanto tempo poi ci volle per tornare al punto pre-crisi? Un anno e mezzo nel primo caso e meno nel secondo (almeno sui mercati). Ma se è difficile prevedere i tempi, è più facile intuirne gli effetti. Il Covid-19  ha determinato una crisi di offerta ( per ordine governativo si è interrotta la produzione mondiale) e una crisi di domanda (minori salari e una ridotta mobilità hanno ridotto i consumi). Massicce iniezioni di stimolo fiscale stanno cercando di sostenere la domanda, inondando di liquidità il sistema e va detto che anche la politica monetaria (BCE per noi europei, FED, BoJ, BoE etc per gli altri ..) sta parecchio aiutando.

Il rischio che questo giro saltasse l’intero sistema è stato nitidamente avvertito da tutti (Stati, Governi e autorità monetarie). E i numeri aumentano ogni settimana. Ma che mondo sarà? Cito, a mio avviso, le evidenze più importanti. Convivremo tutti con debiti pubblici altissimi. Vabbè noi italiani siamo già abituati. Cambieranno i rapporti politici internazionali (e forse il nostro mondo occidentale, comincerà ad avere sfumature, almeno di controllo, sempre più orientali). Nel commercio globale le catene di valore si accorceranno. Dimentichiamoci la globalizzazione spinta e le produzioni “just in time”, anzi, su certi prodotti, soprattutto sanitari, le scorte saranno necessarie e le produzioni rilocalizzate. Ci abitueremo a convivere con economie nazionalizzate, e non solo specifiche aziende, ma anche settori ritenuti strategici.(Nuova IRI in arrivo per noi Italiani?).

Cambierà anche il sistema di welfare: da noi stanno parlando di “reddito di emergenza”, ma molti Paesi (Olanda e Finlandia ad esempio) sono molto più avanti nell’idea “del salario universale”. Aumenteranno gli investimenti in ricerca biologica e salute: i costi di una eventuale nuova pandemia sarebbero troppo alti rispetto a quelli per prevenirla. Ma soprattutto non torneremo indietro nel progresso digitale. In 3 mesi il mondo ha dovuto fare quanto era pianificato per i prossimi 5 o 7 anni. In Italia è esploso l’e-commerce, ma abbiamo scoperto che in molti casi, si può lavorare tanto e bene anche da casa. Stiamo assistendo ad una rivoluzione E magari tra un po’ ci accorgeremo che ci ha aiutato a progredire. Che poi, in una rivoluzione, l’importante è non farsi prendere dal panico e perdere la testa…

Vivere il bello per apPREZZArlo

In attesa di capire cosa succederà nella fatidica data del 15 di giugno al Consiglio europeo, questa settimana mi prendo una pausa per “parlare del bello” e quanto oggi sia difficile stabilirne il suo valore. No, non è diventata una rubrica di filosofia. Rimane una rubrica di finanza, dove però parlerò di finanza dell’arte, un mio vecchio pallino , (lo ammetto), che porto avanti da più di dieci anni con varie pubblicazioni e monografie dedicate. Ho presentato (in modalità webinar con gli amici di Deloitte) la scorsa settimana l’ultima mia pubblicazione “I beni da collezione da investimento nel 2019”, (per chi vorrà sarò felice di inviarlo), ma il focus del mio intervento è stato capire quanto il post Covid impatterà sui mercati del lusso non regolamentati, come quello dei beni da collezione. Ci sono allora 3 aspetti salienti da mettere in luce e che contraddistinguono questa precisa fase storica a livello internazionale. Il primo riguarda la non correlazione esistente tra mercato dei beni da collezione e gli altri mercati regolamentati, alla stregua di quanto già visto negli anni scorsi. Negli ultimi quattro anni, le performance tra mercato dell’arte e mercati finanziari e delle materie prime sono state spesso di segno opposto, essendoci scarsa influenza reciproca, ma neanche un rapporto di correlazione inversa. In secondo luogo, in questo momento di grande incertezza economica, dove è difficile intuire dove sia più opportuno investire i propri danari, l’arte si conferma non essere un bene rifugio, (e io sorrido, per essere diplomatico, quando leggo questi titoli sui giornali..), in quanto vengono meno alcune caratteristiche alla base di questa tipologia di beni, come mantenere inalterato il proprio valore nel tempo e avere modesti rendimenti reali. La volatilità (nel bene e nel male) è caratteristica insita al mercato dell’arte e non la si potrà evitare, a meno di riuscire a regolamentare in maniera più stringente il mercato stesso.

Tuttavia, e arrivo al terzo punto, volendo fare un confronto con la crisi finanziaria del 2007-2008, ritengo che da allora il mercato dell’arte sia diventato meno “sottile” e quindi meno soggetto alla speculazione tout court che ha contraddistinto quel periodo. Oggi il mercato è più maturo, e il fatturato delle aste online rappresenta un buon  livello di supporto. Ma non è una soluzione definitiva e neppure sostenibile. Mia nonna diceva che “i problemi vengono in carrozza e vanno via a piedi”.(saggezza contadina). Riusciremo presto a scacciare il virus, ma non immediatamente anche la sua psicosi. Ecco perché,  il mercato dell’arte ( ma si può estendere anche a molti mercati esclusivi del lusso) soffrirà la mancanza di tutto quell’universo di eventi collaterali alle grandi aste e dedicati ai collezionisti elitari e/o ai top spenders, che permettono a questi di vivere collettivamente l’aspetto più emozionale della vendita e agli operatori di tornare ad avere robusti fatturati. Il bello per poter esser valorizzato, va vissuto, sperimentato, toccato. Stiamo parlando di arte.. non fraintendiamo.. O no?…

Habemus Recovery, gaudeaumus igitur?

E alla fine è arrivata la notizia tanto attesa: la commissione europea ha presentato il Recovery Fund per 750 miliardi di euro (più della proposta di Francia e Germania), di cui 500 sarebbero i grants (trasferimenti a fondo perduto) e 250 i loans (prestiti). E l’Italia? Fa la parte de leone con (fino a) 82 miliardi di trasferimenti e (fino a) 91 miliardi di prestiti. Dunque all’Italia andrebbero fino a 173 miliardi dei 750 previsti (alla Spagna seconda 140).  Soldi che si aggiungono ai 1.100 miliardi del finanziamento pluriennale 2021-2027.  Gaudeaumus igitur?.. Macchè, ci sarà tempo per alzare i bicchieri. Primo perché è una proposta e come tale deve essere discussa e magari rimodellata in Consiglio europeo del 19 giugno (i 4 Paesi frugali e i Paesi dell’est promettono già battaglia..). Secondo perché i sussidi arriveranno in 3 o 4 anni, ma la necessità è ora. Inoltre, solo su di essi, calcolatrice alla mano, il saldo netto è di circa 26 miliardi, (poiché il nostro attuale contributo alla UE è di 56 miliardi). Diventiamo quindi prenditori netti e non più contributori netti, ma pur sempre di una quota esigua (ovvero l’1,5% circa del PIL italiano 2019). Terzo aspetto: il mix sovvenzioni/prestiti è un rapporto dato o discrezionale? Si possono rifiutare i prestiti? E quale condizionalità (tassi interesse, durata e monitoraggio su riforme) nel caso, comportano?

Sono negativo? No, realista forse. La proposta è (a mio avviso) buona: aiuta i Paesi più colpiti da un fenomeno (il Covid-19) simmetrico nella sua manifestazione, ma profondamente asimmetrico nei suoi effetti. Ma al momento è una (beautiful) “big picture” di cui non conosciamo i tutti i dettagli.  È di certo un primo passo verso una autorità fiscale centralizzata, ma soprattutto dimostra che l’Europa esiste e vuole giocare un ruolo come mercato unico. La proposta sta dando una boccata di ossigeno agli spread di questi Paesi, pensiamo ad esempio il  nostro, finalmente sotto i 200 bps. Però “pasti gratis non esistono”: l’Europa ci aiuta ma non è una paghetta: sovvenzioni e finanziamenti verranno divisi in tranche e serviranno per sostenere alcuni settori strategici per lo sviluppo dell’Europa (digitale, sanità, energia, trasporti..). Ma se poi non si utilizzano i soldi in tal direzione? Finiscono i flussi. Quindi… Non per contraddire alcuni nostri rappresentanti dello stato che esultanti stanno promettendo immediate riduzioni delle tasse, ma temo che non si sia letta bene la informativa… i soldi ci sono, ma verranno spesi “sotto un minimo di sorveglianza”. Dimenticavo: i soldi non si creano dal nulla, il Recovery fund si basa sulla emissione di una obbligazione comune, con un rating AAA (c’è la garanzia della comunità), quindi migliore  rispetto a quelli dei singoli Paesi. Qualcuno (BCE e/o investitori istituzionali e/o privati, non sappiamo ancora bene i dettagli)  la comprerà di certo. Ma poi questi soldi andranno restituiti. Come? Non abbiamo ancora troppi dettagli, ma potrebbe essere anche con nuove tasse comuni (di quella sulla plastic tax, se ne parla già). E magari saranno a carico soprattutto dei Paesi che saranno meno virtuosi. Siamo (finalmente) pronti ad accettare la sfida?

MES: quali vantaggi?

Dove eravamo rimasti? Ah già. Si era vista la convenienza (economica) di aderire al MES.

Ma sul MES si sa, girano brutte storie. Si dice ad esempio che se lo chiediamo, finiremo come la Grecia.

Ma cosa è successo realmente? Premessa importante: il MES sanitario ha una struttura diversa e soprattutto condizionalità del tutto diverse dal Fondo salva Stati attivo dal 2012, che prevedeva l’accettazione di un piano di riforme sotto il controllo della “Troika”, (Commissione Europea, BCE e FMI). Seconda premessa: ad accedere al MES (per ora) sono stati: Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda e Cipro, tra il 2010 e il 2013, quando erano vicino al default e andare sul mercato era per loro diventato impraticabile. Come si valuta l’efficacia di un strumento? Ad esempio cercando di analizzare gli andamenti dei principali indicatori sociali ed economici. E qui il verdetto è abbastanza unanime: tutti i Paesi  (post Fondo salva Stati) hanno aumentato il PIL, diminuito la disoccupazione e hanno avuto mercati finanziari in grande spolvero. Tutti, almeno, meglio dell’Italia, che non l’ha mai utilizzato, ma la cui economia è rimasta “mediamente immobile”. Qualche numero, può essere d’aiuto (intervallo 2012-2019). Il PIL dell’eurozona è cresciuto del 22% circa (dati cumulati) in Spagna del 21% circa, in Portogallo del 26% e in Italia del 10%. La Grecia invece è calata del -2% (ma nell’ultimo triennio è stato positivo). E la disoccupazione? Dopo un iniziale sbandamento, la Spagna, il Portogallo, la Grecia sono passati rispettivamente dal (circa) 25%, 16% e 25% al 14%, 7% e 17% di fine 2019. L’Italia nello stesso intervallo dall’11% al 10%, mentre l’eurozona dall’11% al 8%. I dati sul rapporto debito/Pil mostrano una crescita per tutti e minore per l’Italia: Spagna da 53% a 96%, Grecia da 127% a 177%, Portogallo da 88% a 118% e Italia da 117% a 135%, (area Euro da 80% a 84%). Anche lo spread (sul bund) è calato: quello greco è passato dai 3600 bps del 2012 a 164 bps di fine 2019, quello spagnolo dai 635 bps ai 65 bps, in Italia dai 500 bps del 2012 ai 161 di fine 2019. Riassumendo e nella difficoltà di una analisi causa-effetti più precisa: generalmente chi ha aderito al MES ha beneficiato in termini economici, L’Italia invece, ha voluto/dovuto contenere di più il debito pubblico e non è cresciuta. In Grecia tuttavia, i benefici del MES hanno avuto un prezzo sociale: la politica di austerità ha colpito duramente e sono aumentate le diseguaglianze sociali. Ora i dati sono però in miglioramento. Faremo allora la fine della Grecia? Dipende. La Grecia ha pagato lo scotto perché i dati greci erano palesemente falsati. (per anni) Inoltre, la sua economia è caratterizzata da alta evasione fiscale e da un sistema di pubblica amministrazione inefficiente. Il debito è pur sempre un debito. L’Europa e IL FMI l’hanno aiutata, ma hanno preteso delle riforme. Sicuramente dolorose. Negli altri 4 paesi non abbiamo invece questa situazione. Dipende quindi da noi. Cosa decidiamo di fare e chi prendere come modello. Stare fermi e aspettare, può essere una soluzione «di mezzo», ma non è una scelta. Soprattutto, temo, non sia una soluzione sostenibile nel tempo. Il mio (ormai famoso) capo (che cito sempre) diceva di diffidare dalle scelte di mezzo: “Un uomo con la testa nel forno e i piedi nel freezer sta mediamente bene”.

abaco

MES tua, vita mea

Ahia.. so benissimo che si entra in un tema spinoso e fonte di continue polemiche di carattere politico.

Ma proviamo a rappresentare la situazione, scollegandola dai colori politici. L’Europa ci ha fatto una offerta: tutti i paesi che intendono aderire al “MES sanitario” possono ricevere fino al  2% del proprio PIL ad un tasso dello 0,105% più una commissione iniziale dello 0,25%. Con l’unica condizionalità che i soldi vengano spesi nel settore sanitario, sia per costi diretti che per costi indiretti. Facciamo un attimo di conto per capire meglio. Il 2% del PIL italiano è circa 36 miliardi di euro.

Oggi un BTP decennale costa (per chi lo emette, cioè lo Stato Italiano) 1,83%. Facciamo finta di emettere 10 miliardi. Il costo complessivo per l’Italia è di 183 milioni di euro ogni anno. Ovvero, in 10 anni (durata del titolo), lo Stato spende (di interessi) 1 miliardo e 830 milioni di euro.

Sempre lo stato italiano decide invece di aderire al MES per lo stesso importo e per la stessa durata (10 anni). Il costo complessivo, nei 10 anni,  sarebbe di 10,5 milioni (all’anno)+ la commissione iniziale di 25 milioni, ovvero 130 milioni nei 10 anni.

Dunque il risparmio che ne deriverebbe, sarebbe di 1,7 miliardi di euro (sui 10 anni e per una emissione di 10 miliardi).

Ammettiamo che l’Italia ingolosita da cotanta opportunità, decida allora di collocare tutti i 36 miliardi a disposizione. In questo caso il risparmio diventerebbe di 1,7 *3,6= 6 miliardi circa, o se si preferisce 600 milioni all’anno. Tutti i calcoli sono fatti sull’ attuale livello di spread,  se poi lo spread dovesse salire il vantaggio aumenterebbe ulteriormente.

Tanti? Pochi?

Ognuno ha ovviamente la sua scala di riferimento. Però 6 miliardi di euro di risparmio, su 10 anni, significano minor tasse, ad esempio. O maggiori inserimenti di personale medico e sanitario.  E in tempi di crisi (sanitaria o meno) non fa male. O servizi migliori (si spera).

«Eh, ma Il MES ha fatto disastri in Grecia!».. Vero? Non vero? Per ora fermiamoci qui. Nella prossima puntata vediamo se è così vero che il MES abbia portato danni… mica posso raccontare tutti i pro e i contro del MES proprio oggi…

Tu quoque Bundesverfassungsgericht!

Bundesverfassungsgericht. No, non è una parolaccia, anche se l’onomatopea lo farebbe supporre. Letteralmente significa Corte costituzionale in tedesco, ma in pratica si usa anche per “grosso problema all’orizzonte”. Andiamo al sodo. La corte costituzionale tedesca ha “richiamato “ la Bce, sostenendo che l’acquisto massiccio di titoli di stato è di per sé legale, ma non è stato fatto in maniera appropriata.

Sarò ancora più diretto, traducendo e un po’ interpretando il pensiero dei 7 giudici tedeschi (su 8 sigh): “Cari europei che avete beneficiato negli anni dei piani della BCE, noi non ce l’abbiamo con voi, anzi crediamo in una Europa unita e solidale, dove il forte aiuta il debole, il grande aiuta il piccolo, ma non è colpa nostra se siamo noi quelli grandi e forti e la BCE ha esagerato nell’aiutarvi, (spendendo 2.600 miliardi tra il 2015 e il 2018, ndr), per cui la Banca di Germania non ci metterà più un quattrino”.

Da “aiutamoli a casa loro”, ad aiutatevi a casa vostra”.. in fondo tutto il mondo è paese.

Un dubbio sorge spontaneo: può un organo nazionale giudicare la presunta illegittimità di una autorità monetaria sovranazionale? I tedeschi non si sono posti il problema, anche se la sfumatura (giuridica) è capziosa: alla BCE  vengono contestate le operazioni svolte al di fuori della semplice politica monetaria,(cui essa è delegata). Per essere più chiari: cara BCE ti sto mettendo un paletto, o meglio, mando un messaggio a tutti i beneficiari del PEPP (750 miliardi di euro che fanno gola a Italia, Spagna e Francia), che se vogliono essere aiutati, poi dovranno seguire delle regole, che tu (BCE) avrai fissato e io (Germania) avrò deciso. Insomma.. Sgrido Francoforte (Bce) perché Roma e Parigi intendano..

È una reazione legittima quella tedesca? Dipende dai punti di vista. Se ragioniamo con la sola logica dei numeri, si. La Bundesbank è il maggior contribuente della BCE e prima del virus la BCE comprava titoli nella proporzione di 27% titoli tedeschi, 19 %titoli francesi e 14% titoli italiani e poi tutti gli altri. Solo a marzo la Bce ha comprato sei volte tanto titoli italiani rispetto a quelli tedeschi.

Se invece ragioniamo con un minimo di visione strategica, la posizione oltranzista tedesca è pericolosa: se l’Italia dovesse collassare, tutta la grande industria tedesca sarebbe parimenti travolta.

Come diceva un mio vecchio capo: “ e poi, quando mezza Europa sarà in crisi, i tedeschi cosa faranno delle loro auto? Se le mangiano?”..

Se Roma piange, Parigi non ride

Mi spiace per i sovranisti (da una parte) ed europeisti (dall’altra parte) locali, ma gli echi delle loro disfide arrivano deboli e sfumati in Europa, rispetto ai bisbigli francesi e tedeschi che
decideranno (probabilmente) le sorti del nostro Paese. Sarò più diretto. Il Covid ha lasciato una pesante eredità di distruzione economica. E siamo solo all’inizio. Il prossimo trimestre sarà peggio. L’Istat e gli omologhi Istituti di statistica nazionale europei l’hanno già certificano nei primi numeri: PIL trimestrale italiano (sui 3 trimestri precedenti) -4,7%, quello francese -5,8%, quello spagnolo -5,2% e in attesa di quello tedesco…
Mal comune mezzo gaudio? Mica tanto. Perché per uscire dalla crisi bisognerà allora investire tanto (politica fiscale) e sostenere contemporaneamente il debito pubblico già esistente (politica monetaria). E qui la Lagarde, malcapitata Presidente della BCE nell’ora più buia dell’Europa, nel suo ruolo istituzionale di dover sostenere il debito pubblico italiano (ricordate il whathever it takes?.. che bei ricordi..) si trova come il conduttore dei tanti talk shows tv a cui la quarantena ci ha confinato, a cercare di dirimere (senza successo) la lite in diretta dei due ospiti. Da una parte l’ospite tedesco, che vuole rigore e applicazione come da statuto del MES, dall’altra parte quello francese, che invoca uno spirito comunitario di intervento, commovente quanto sospetto: basta vedere il livello che ha raggiunto (e raggiungerà) il suo debito pubblico per capire che è una battaglia di barricata, per non essere poi costretto a cedere il suo avamposto appena dopo.
In mezzo c’è il virus, ovvero il nostro debito pubblico. Speriamo che nella Babele di voci, ne arrivi presto una autorevole ed italiana a tranquillizzare i bisbigli foresti…

20200503

Benzina gratis per tutti

Come slogan politico farebbe il suo effetto.
La cosa vera e (preoccupante) però è che per la prima volta nella sua storia, lunedì scorso, il petrolio WtI (ci sono due indici di riferimento che misurano il suo prezzo) è andato sotto zero. Ha registrato un prezzo negativo di -37,63 $. Ovvero, teoricamente, i produttori di petrolio dopo aver sostenuto i costi della estrazione, sarebbero disposti a pagare qualcuno che se lo porti via. Sembra una favola: ci fanno il pieno alla macchina, ci pagano profumatamente e per i più fortunati, ti lavano anche la macchina. No, i servizi di carrozzeria sono a parte. Fine della favola.
Torniamo alla realtà. La benzina continueremo a pagarla, sicuramente di meno, ma pagheremo. Il prezzo finale al distributore è dato dal prezzo della materia prima (in calo), il margine del distributore e il carico fiscale sul bene (imposte e accise). E in Italia sono piuttosto alte. Il crollo invece della materia prima (quotazione WTI) è invece una anomalia di origine “finanziaria”. Siamo in presenza di un calo drastico della domanda (le imprese consumano meno combustile per le produzioni), ma il prezzo negativo è dipeso dalla esistenza di numerosi operatori finanziari sul mercato, che avevano accettato di ricevere un determinato quantitativo di petrolio, in una certa data e ad un determinato prezzo (attraverso un contratto di nome future). Alla data della scadenza (ovvero della consegna fisica del bene), non potendolo ritirare “il sottostante” e non avendo neppure luoghi di stoccaggio disponibili, non solo non hanno ritirato le quantità comprate, ma anzi, si sono dette disponibili di cederlo a terzi, pagando il disturbo.
Ma il crollo del petrolio comporta forti squilibri su tutti gli altri mercati, quello finanziario in primis, poiché (semplifico per ragioni di spazio),tra le altre ragioni, le società petrolifere sono tradizionalmente fortemente indebitate e se non incassi.. non ripaghi i debiti, con tutta la catena di conseguenze già viste, purtroppo, nel biennio 2008-2009.
Insomma, per concludere, il mio consiglio è di diffidare da chi vi prometterà benzina gratis. Tutto sommato conviene (a tutti) pagarla. E poi dal mio distributore c’è la raccolta punti. Che non cambierei per nessuna ragione al mondo. Manco se mi dovessero dare benzina gratis..

L’importanza di un corso di guida sicura

Sta tecnicamente finendo la più lunga fase di espansione economica della storia, una recessione profonda (per definizione servono due trimestri consecutivi negativi) bussa alle nostre porte. Sarà di certo violenta e la prima decretata per ordine governativo a livello mondiale, ma potrebbe essere anche una delle più brevi dei tempi moderni.

Purtroppo la storia dei cicli economici può darci scarse informazioni sulla sua evoluzione e sono state ribaltate le usuali regole di ingresso nella fase recessiva: deriva da un collasso della produzione e non da uno squilibrio economico-finanziario, venivamo già da una fase monetaria espansiva e non restrittiva, le quotazioni del petrolio erano già in calo e non in aumento, i mercati immobiliari erano lontani dai massimi e l’inflazione sotto sotto controllo.

Le reazioni di politica economiche (politica monetaria e politica fiscale) sono state immediate: Le Banche Centrali mondiali hanno diminuito i tassi di interesse (per chi aveva ancora spazio) o inondato di liquidità i mercati, mentre le politiche fiscali, (prese a livello di singolo Stato dunque) sono ancora in via di definizione (in attesa di capire cosa succederà giovedì in Europa). Complessivamente si parla di 3.200 miliardi di $ circa tra Usa, Europa, Uk e Cina. Mai visto nella storia un carico di munizioni così importante (nel 2009, per avere una idea, furono di circa 2000 miliardi $).

Avremo una ripresa. Certo. Ma sarà probabilmente più a U che a V come qualcuno insiste: una macchina tenuta ferma per un po’ in garage ci mette un po’ più di tempo per tornare alle massime performance di prima. Ma oltre alla macchina, molto dipenderà anche dai piloti e dalle condizioni atmosferiche. Dovremo dunque guidare su un percorso del tutto nuovo e senza andare fuori strada (e qui ci serviranno dei bravi piloti della politica internazionale) e augurarci anche che le condizioni “atmosferiche” migliorino (e qui dipenderà dal coronavirus). Basterebbe persino una attenuazione della attuale tempesta in atto, purché i piloti si dimostrino all’altezza. E se allora li cercassimo tra chi ha già superato più corsi di guida sicura?..

L’economia che previene i terremoti

Un economista dal nome un po’ ostico (Marschak) fu pioniere delle teorie economiche sulle decisioni prese in situazione di emergenza e stabilì, anche, una curiosa correlazione tra economia e le altre scienze. Per farla breve, postulò ad esempio che nella sismologia, i progressi migliori derivassero da innovativi strumenti di rilevazione utilizzati durante i grandi terremoti e così, anche in economia, le teorie più innovative, necessitassero, per essere validate, di altrettanti sconvolgimenti.
Ovvero, fuor di metafora, l’economia si rinnova, quando un terremoto spazza via i modelli che ne hanno costituito le fondamenta in precedenza.
E Marschak teorizzava i suoi modelli sulla esperienza della grande recessione (1929), che aveva frantumato quelle aspettative di crescita economica infinita che avevano contraddistinto il primo dopoguerra.
Ci sono tristi analogie con i giorni di oggi, purtroppo.
Ma Marschak ricordava anche che i grandi cambiamenti economici, comportano anche profondi risvolti sociali. “Quando la gente non ritrova quella bussola che dava il senso e significato al proprio vivere, si rifugia in modelli ed ideologie rappresentate da leader autorevoli, che celebrano il mito di un passato glorioso”. Gli ultimi avvenimenti europei qualche spia di attenzione dovrebbero accenderla.
Oggi, come allora allora, stanno aumentando le diseguaglianze sociali, sale la disoccupazione e l’economia rallenta. Ecco perché l’Europa, oggi, ha oggi una responsabilità sociale, prima che economica. Ci stiamo focalizzando unicamente sulla adozione dello strumento (economico) da adottare, un po’ come chi abita in una zona sismica e perde tempo con il vicino di casa a litigare se è meglio mettere i sacchi di sabbia sui muri o decidere chi ha più diritto ad andare negli appartamenti ai piani più bassi.
Nessuno si sta preoccupando di vedere se la abitazione è stata costruita secondo regole antisismiche e se queste regole sono ancora attuali.
Che peccato. Anche perché se un terremoto arrivasse davvero, non vedo nessun Marschak all’orizzonte..