L’anno scorso, a novembre, si era già parlato in questa rubrica della generazione Yolo, ovvero una nuova generazione di lavoratori che ispirati dal motto (You Live Only Once) aveva deciso di fare un passo indietro dal frenetico mondo del lavoro, per dedicarsi ad attività che meglio conciliassero con la vita privata. (https://nuvolemercati.it/2021/11/15/meglio-yolo-che-mal-accompagnati/). In America la chiamarono “The Great Resignation”: un fuggi fuggi dal mondo del lavoro senza precedenti. E il fenomeno interessò tutti i Paesi più economicamente sviluppati, con un tasso di licenziamenti volontari che oscillò tra il 2% e il 3% della forza lavoro. A distanza di un anno esatto dall’esplosione di questo fenomeno e con statistiche più aggiornate alla mano, si può tracciare allora un quadro più definito. Più che di Great Resignation, sarebbe opportuno parlare di Big Turnover : non si rinuncia a lavorare, ma semplicemente si cambia il lavoro più spesso. L’esplosione della economia digitale ha determinato una maggiore flessibilità nei ritmi e anche nei contratti di lavoro. Lavorando da remoto, si ampliano le opportunità e si compilano più application, anche per aziende fisicamente distanti. Inoltre, con il lavoro ibrido, anche le relazioni tra colleghi tendono a sfilacciarsi molto più rapidamente: la pausa caffè, momento clou per confrontarsi con i colleghi sembra preistoria; la mensa aziendale non è più la roccaforte di segreti inconfessabili o il teatro ideale per rinsaldare lo spirito di squadra. L’azienda è sempre meno una seconda famiglia, anzi, una recente ricerca della società di consulenza Gartner evidenzia come lo smart working sia, per il 70% dei candidati, la conditio sine qua non per cambiare il posto di lavoro. E dall’altro lato, le aziende non sembrano più particolarmente soprese da questa cultura delle dimissioni: la flessibilità introdotta in molti nuovi contratti di lavoro a tempo determinato è un vantaggio reciproco, in quanto il dipendente ha più libertà di cambiamento e alle aziende rimane solo l’onere di prevedere in tempo le eventuali scoperture dei ruoli chiave. Tutto bene dunque? Non proprio. Da anni le società più evolute avevano incentrato la capacità di attrarre e trattenere i migliori talenti sulla progettazione di uffici che offrissero i più alti standard di servizi, vivibilità e accoglienza. Oggi si deve necessariamente passare da una progettazione incentrata sul luogo di lavoro ad una incentrata sul dipendente, attuando politiche che massimizzino il suo benessere psicofisico, anche se lontano dall’azienda e con il rischio di “formare la persona, ma non il dipendente”. La lontananza del dipendente dal sito di lavoro, le nuove logiche di misurazione degli obiettivi, la mancanza di team working, diventano temi spinosi anche per i responsabili aziendali, che in questa epoca di grande trasformazione digitale, non sempre sanno interpretare il nuovo ruolo a cui sono delegati. La leadership a distanza prevede un rapporto gerarchico più orizzontale e basato sulla delega e sulla fiducia tra responsabile e collaboratore. E sempre secondo la ricerca citata, il 94% dei dirigenti il cui lavoro può essere svolto da remoto vorrebbe continuare a lavorare in remoto almeno un giorno alla settimana e ben il 24% di quei dirigenti vorrebbe poter esser sempre da remoto. E fa riflettere che il controverso e visionario imprenditore Elon Musk, 50 anni, abbia proprio la settimana scorsa richiamato ufficialmente il proprio personale (circa 122.000 dipendenti), invitandolo ad essere più visibile in azienda, luogo dove sono pregati di passare almeno 40 ore a settimana. “Se non vi presenterete, dedurremo che vi siete licenziati”, chiosava nella missiva finale. Come potrebbe allora andare a finire e cosa sta succedendo in Italia, lo vediamo invece la prossima settimana: ora devo chiudere perché ho un incontro con un cliente. In presenza…