Febbraio 2023

La Trappola di Tucidide

Dopo un anno di assuefazione agli orrori di questa assurda guerra e non avendo velleità da statista, provo a mettere un po’ di ordine (senza la presunzione di riuscirci) nella ridda di informazioni che giornalmente leggiamo o sentiamo sugli effetti economici del conflitto.

Degli effetti sulle economie occidentali se ne è già ampiamente parlato, con i casi limite di Germania e Italia, emblemi di una pessima politica che ha preferito affidarsi  completamente al gas russo, soffrendo poi di una inflazione da offerta devastante e dovendo andare a reperire e strapagare il poco gas disponibile, in giro per il mondo.

Spesso però leggiamo che l’economia russa sia vicino al tracollo. È davvero così? Limitandoci alla mera analisi numerica, la risposta è no. Il Pil russo è in affanno, ma non è agonizzante. Dopo un 2021 molto vivace (+4,7%), il PIL russo chiuderà negativo di circa il -2,0% e il -2,5%, un risultato allineato al -2,7% del periodo Covid del 2020.

E le previsioni per il 2023 dei maggiori organismi internazionali (FMI, Banca Mondiale, Banca di Russia) oscillano tra il -0,5% e il -4%, ovvero, una situazione difficile, ma non impossibile per un Paese che è in guerra e in un contesto internazionale pre-recessivo.

Allora le sanzioni occidentali non hanno funzionato? No, neppure sostenere questo sembrerebbe corretto. La Russia non è l’Iran, la Libia o l’Iraq, ovvero, rimane il Paese con la maggiore dotazione di risorse naturali al mondo (petrolio, carbone, gas, oro, terre rare…), per cui è difficile falcidiare un gigante del genere. Molti analisti sostengono che la Russia potrebbe continuare a cannoneggiare per altri 3 anni, senza avere grossi problemi economici.

Tuttavia… tuttavia l’insieme dei pacchetti di sanzioni messi in atto dall’Occidente ( più Giappone e Corea) stanno fiaccando l’economia russa e nel lungo termine, le difficoltà non potranno che aumentare, determinando una possibile instabilità sociale e quindi politica.

È vero che i Paesi che stanno crescendo più velocemente nel mondo non sono, almeno attualmente, contro lo Zar (Cina, Turchia, Paesi Arabi e India su tutti), ma è anche vero che stanno sfruttando a loro vantaggio la debolezza della Russia, che ha perso il suo principale mercato europeo e che è costretta a svendere l’oil&gas a prezzi scontati e con contratti di fornitura a volumi ridotti.  Qualche numero: la Cina è diventata il primo partner commerciale russo e ha annunciato un obiettivo di approvvigionamento di circa 88 miliardi di metri cubi di gas nel 2030. Peccato che solo nel 2021 la fornitura con l’UE fu di 154 miliardi di metri cubi. Un bel divario insomma.  Bisogna poi re-inventare la logistica: la differenza la fa ancora una volta la presenza di infrastrutture, ad oggi tutte orientate verso l’Europa (pensiamo al North Stream ad esempio).

Ma sono soprattutto gli embarghi occidentali sulla lavorazione dell’oil a minacciare il futuro russo: il tetto di 60 $ sul prezzo del barile imposto alla Russia costa circa 170 milioni di $ al giorno. Considerando che il prezzo (nonostante il taglio annunciato a Putin della produzione) si sta assestando sotto i 50 $, è chiaro che così diminuiscono anche le entrate fiscali legate all’energia (già -46% rispetto a gennaio 2022). Non il massimo per un Paese che deve sostenere gli ingenti costi della guerra.

Infine, la Russia si ritrova nell’impossibilità di accedere alle riserve in oro e valuta detenute presso le banche centrali di Europa e Stati Uniti. E la Banca centrale Russa deve dare fondo alle sue riserve valutarie per sostenere l’economia locale. Ma si arriva anche a un paradosso: la quota in yuan del Fondo sovrano Russo è stata portata al 60% e anche i futuri pagamenti di petrolio e gas saranno fatti in valuta cinese. Bene. Peccato che la de-dollarizzazione dell’economia russa, di cui Putin si mostra orgoglioso, si traduca in una sostanziale yuanizzazione, ovvero, un asservimento valutario verso la Cina. Lo yuan costituisce ad oggi il 3% circa delle riserve valutarie globali, mentre il dollaro il 60% e l’Euro il 20%. La Russia è già diventata il quarto più grande centro offshore dello yuan, ma la Cina ha bisogno di un dollaro forte per sostenere la propria bilancia commerciale, in tempi duri anche per il dragone. Un corto circuito insomma dove la domanda di yuan come valuta di riserva non indebolisce, allo stato attuale, la forza relativa del dollaro. Insomma, anche da un punto di vista economica sembra che siamo finiti in un pantano che non avvantaggia né le economie occidentali, né tanto meno quella russa. A voler pensare male, sembrerebbe che le sole due potenze che ne escono avvantaggiate da questo conflitto, sia per ragioni economiche, che di prestigio internazionale siano la Cina e gli USA.

Ma come scrisse Tucidide, storico del V secolo A.C., nella sua famosa “trappola”,  una potenza dominante tende a ricorrere alla forza per contenere una potenza emergente e la paura di perdere il primato, porta inevitabilmente allo scontro. Lo scriveva riferito a Sparta ed Atene. Auguriamoci che non sia così. O la trappola sarebbe letale. Per tutta l’umanità.

Federico Diomeda- L’ambiente di lavoro nella composizione della Crisi di Impresa

Con l’entrata in vigore delle ultime modifiche al Codice della Crisi e dell’Insolvenza, il tema dell’ambiente di lavoro e dei doveri delle parti che era divenuto di notevole attualità al momento della partenza della Composizione Negoziata, diventa parte integrante e sostanziale del codice stesso.  Il legislatore ha confermato pienamente il desiderio di investire sulla più consapevole gestione (possibilmente anticipata) della crisi di impresa ed a tal fine ha specificamente normato quello che a me piace definire “l’ambiente di lavoro professionale” per tutti i soggetti coinvolti in ogni strumento di regolazione della crisi. Per tale motivo il nuovo articolo 4 del riformato CCI è rubricato “Doveri delle parti” e illustra in generale quale comportamento attivo il legislatore si aspetta che le parti (imprenditore e creditori da un lato, esperto della Composizione Negoziata e organi delle procedure, ove azionate) assumano durante ogni fase della regolazione della crisi. Al primo comma si richiama in generale il dovere di comportamento secondo buona fede e correttezza a valere su tutti gli strumenti di regolazione della crisi quindi non solo la composizione negoziata. Tale richiamo pertanto va inteso come monito generale sovrastante le specifiche ulteriori obbligazioni comportamentali e di trasparenza di volta in volta inserite negli specifici strumenti di regolazione. Il secondo comma illustra i doveri del debitore in termini: di piena disclosure della propria situazione “fornendo tutte le informazioni necessarie ed appropriate alle trattative avviate, anche nella composizione negoziata, e allo strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza prescelto” – di adozione tempestiva delle azioni idonee alla concreta realizzazione dello strumento prescelto – di gestione del patrimonio e dell’impresa nell’interesse prioritario dei creditori. Con riferimento ai creditori, il quarto comma impone il dovere per costoro di collaborare lealmente con il debitore, con l’esperto della composizione negoziata e con gli organi nominati dalla autorità giudiziaria e amministrativa e di rispettare l’obbligo di riservatezza sulla situazione del debitore. I richiami comportamentali sono invece contenuti nell’articolo 16 del CCI creando un virtuoso collegamento con le norme generali di cui al ridetto articolo 4. Come ormai noto, la Composizione Negoziata si basa sulla nomina di un esperto indipendente che faciliti il perseguimento del risanamento dell’impresa attraverso la disamina di adeguata informativa finanziaria ed industriale prodotta da parte dell’imprenditore che dovrà dotarsi di un controllo interno efficiente ed essere assistito da consulenti preparati che possono aiutarlo nella preparazione del set informativo di base. Scopo evidente della Composizione Negoziata è quello di aiutare la prevenzione e gestione della crisi di impresa con modalità più, oserei dire, flessibili rispetto all’impianto delle procedure di allerta di cui alla parte seconda del titolo primo del Codice della crisi e della insolvenza che viene definitivamente eliminata. A tale fine il legislatore propone un metodo di composizione negoziata basato su tre presupposti di “buon ambiente di lavoro”:1) la nomina di un esperto indipendente; 2) il ragionevole perseguimento del risanamento dell’impresa; 3) la immediata produzione, fra molti altri documenti richiesti, di adeguata informativa finanziaria ed industriale da parte dell’imprenditore. Lo schema operativo si snoda pertanto con un meccanismo di indubbio carattere aziendalistico, in linea con il già vigente obbligo in capo a tutti gli imprenditori di possedere un adeguato assetto organizzativo atto alla misurazione della persistenza della continuità aziendale. Occorre segnalare una novità rispetto al precedente art. 5 del DL 118 del 2019. Infatti  fra i documenti da allegare alla domanda è necessario non solo: “una situazione patrimoniale e finanziaria aggiornata a non oltre sessanta giorni prima della presentazione dell’istanza” e “una relazione tecnica chiara e sintetica sull’attività in concreto esercitata recante un piano finanziario per i successivi sei mesi e le iniziative industriali che l’imprenditore intende adottare”, ma anche “un progetto di piano di risanamento redatto secondo le indicazioni della lista di controllo, di cui all’art.13, comma 2”. L’inserimento di questo documento già in sede di domanda di accesso alla Composizione Negoziata chiude il dibattito sorto proprio in relazione alla capacità, specialmente delle piccole imprese, di essere in grado di produrre sin da subito un piano di risanamento. Al tempo il legislatore aveva optato per una soluzione più morbida di fatto obbligando l’esperto nominato a sovrintendere alla fase di preparazione del piano. La attuale formulazione non lascia dubbi ed obbliga l’imprenditore ed i suoi consulenti a presentare sin dall’inizio un progetto di piano di risanamento avvalendosi delle indicazioni operative della lista di controllo. Personalmente non mi sento di considerare questa “novità” come un irrigidimento a danno dell’impresa – piuttosto mi pare un richiamo a dotarsi di strumenti di controllo e misurazione di performance. E siccome l’esperto “agevola le trattative tra l’imprenditore, i creditori ed eventuali altri soggetti interessati” la creazione di un set informativo di base più idoneo a tale arduo compito va salutato con favore anche perché aiuta l’esperto a rimanere il più indipendente possibile”. A tale riguardo l’art.  16 del CCI conferma l’afflato aziendalistico della composizione negoziata della crisi e disciplina il cosiddetto “ambiente di lavoro”. L’esperto deve operare “in modo professionale, riservato, imparziale e indipendente“. Egli può chiedere all’imprenditore e ai creditori tutte le informazioni utili o necessarie e può avvalersi di soggetti dotati di specifica competenza, anche nel settore economico in cui opera l’imprenditore, e di un revisore legale. Si conferma dunque il ben ampio il potere di azione dell’esperto che deve poter effettivamente agevolare le trattative, cui le parti non possono sottrarsi per i doveri di buona fede e correttezza. Corrispondentemente, l’imprenditore ha il dovere di rappresentare la propria situazione a tutti in modo completo e trasparente e deve gestire l’impresa senza recare pregiudizio. Ancora, “tutte le parti coinvolte nelle trattative hanno il dovere di collaborare lealmente ed in modo sollecito con l’imprenditore e con l’esperto” – “le medesime parti danno riscontro alle proposte e alle richieste che ricevono durante le trattative con risposta tempestiva e motivata“.

Da segnalare inoltre il comma specificamente dedicato al mondo della finanza:le banche e gli intermediari finanziari, i loro mandatari e i cessionari dei loro crediti sono tenuti a partecipare alle trattative in modo attivo e informato“. L’obbligo di responsabilità comportamentale delle parti della crisi diventa la base del successo della risoluzione della crisi stessa, cui deve associarsi la capacità degli imprenditori di essere efficaci nel controllo di gestione e nella misurazione dei loro KPI. In tal senso la lista di controllo che aiuta la preparazione del progetto di piano contiene certamente le istruzioni minimamente necessarie per avvicinarsi alla composizione negoziata ed al contempo costituiscono un set operativo che consente di “leggere” la continuità aziendale in un modo costante a evitare un eccesso di “sorprese”. La crisi d’impresa, infatti, non è solo un problema dell’imprenditore, ma di tutti i soggetti coinvolti.

 

Dottore Commercialista e revisore contabile con specializzazione aziendalistica in adeguati assetti organizzativi, controllo di gestione e finanza aziendale, Financial reporting e Sustainability reporting e materie ESG, valutazioni di aziende. Amministratore e liquidatore di aziende commerciali. Esperto di prevenzione e gestione della crisi di impresa. Esperto nella composizione negoziata. Curatore Fallimentare, Commissario Giudiziale e Liquidatore Giudiziale.

E’ stato Presidente (dal 2006 al 2009) quindi CEO (dal 2009 al 2014) di E.F.A.A European Federation of Accountants and Auditors for SMEs (www.efaa.com), svolgendo attività politico-tecnica per la professione con il Parlamento Europeo e la Commissione Europea, IFAC, AE, EFRAG, Banca Mondiale, OECD, UNCTAD ed altre istituzioni internazionali che si occupano di principi contabili e di revisione.

Per un pugno di PIL

Ci si è interrogati la volta scorsa se davvero il PIL rappresenti la misura selettiva e sintetica più opportuna per descrivere lo stato di benessere economico e sociale di un Paese.

E in effetti il dibattito ha già coinvolto, nei decenni, voci autorevoli di economisti e statisti. (Il Pil è nato nel 1934).

Già Kennedy sottolineava le contraddizioni del sistema economico basato su indicatori puramente numerici: “Il Pil misura tutto, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani”.

Ma ancora di più, lo stesso “inventore” (Simon Kuznets) già negli anni ’30 avvertiva della rischiosità di affidarsi ad una sola unità di misura di sintesi economica: il PIL non poteva riconoscere gli elementi qualitativi della crescita, ma soprattutto, non poteva individuare le diseguaglianze sociali che si creano nella distribuzione della ricchezza. Il Paese che in termini assoluti cresce, ma aumentando contestualmente il numero di poveri, non può essere considerato un Paese ricco.

Di politiche e indici alternativi ne sono stati proposti molti e tutti con una buona dose di ragione. Dalla well-being economy con il paradosso di Easterlin e il livello di assuefazione al benessere, all’Indicatore MEW di Tobin del 1972, dall’Indicatore ISEW, fino allo Human Development Index delle Nazioni Unite del 1990, e infine gli indicatori dell’OCSE, della Commissione Europea o di Eurostat…

Insomma, si rischierebbe di fare solo un elenco non esaustivo e solo mnemonico.

Rimane tuttavia un problema di fondo: qualunque sia il concetto di benessere individuale e sociale che si prediliga, sarà comunque e sempre più un fenomeno multidimensionale, che contempla aspetti economici e sociali.

Sebbene gli indicatori sintetici avranno sempre un grande impatto mediatico, per loro capacità di semplificare la realtà e stereotipizzare fenomeni complessi, va comunque rilevato che il nostro concetto di “qualità della vita” si sostanzia di sempre più aspetti che esulano dalla nostra capacità di contribuire alla formazione di un reddito nazionale.

Se è vero che “ciò che si misura influisce su ciò che si fa” (Stiglitz), è anche vero che “…non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow Jones, né i successi del Paese sulla base del prodotto interno lordo. Il Pil comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine settimana. […] Nel Pil ci sono gli armamenti, le carceri, […] le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle, […] i programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti pericolosi ai nostri bambini”.

Lo diceva Kennedy nel 1968, in un intervento all’università del Kansas.

Sono passati 55 anni da allora. Ho la sensazione che siamo rimasti solo “con un pugno di Pil in mano”.

Federico Vasoli-Il Vietnam e il suo boom economico come opportunità per le nostre imprese

Chi tra i dodici lettori di questo mio breve scritto è stato in Vietnam o ne ha viste immagini recenti delle principali città, sarà rimasto senza dubbio colpito dal traffico caotico, composto soprattutto da orde di motorini che sovente sfrecciano contromano e sui marciapiedi.

Milioni di persone tutti i giorni trasportano altre persone, oggetti e animali incessantemente da un angolo all’altro del paese, convinte che domani staranno meglio di oggi. In questo caos, fu facile per me, all’epoca, 2007, ironizzare sulla legge che avrebbe reso il casco obbligatorio dal 2008. Ebbene, il 1 gennaio seguente praticamente tutti indossavano il casco, magari non conforme agli standard europei, ma comunque una protezione c’era ed era stata attuata con rigore e rapidità.

Qualche anno dopo, un paese la cui economia era quasi esclusivamente basata sul contante, passò al mondo fintech in un batter d’occhio. I bonifici eseguiti online sono pressoché immediati e i punti accumulati – un po’ come le miglia aeree – possono essere convertiti in corse, consegne e acquisti presso i partner affiliati gratuiti o scontati.

In tutto questo, nonostante dazi, tasse speciali e noti problemi di logistica post pandemia e nonostante il reddito pro capite si attesti attorno ai 4.000,00 USD (dato da depurare, poiché solo il 36% della giovane popolazione di quasi cento milioni di vietnamiti vive in città), la domanda di prodotti di lusso, dal marmo di Carrara alle Bentley, dai grandi vini e alle cucine iper tecnologiche, non conosce flessione.

Dati noti, ma che giova ripetere: il Vietnam dal 1997, dopo tre guerre d’Indocina di cui una d’indipendenza e una civile in soli quarant’anni, cresce ogni anno a ritmi simili a quelli dell’ingombrante vicino cinese e nel 2022 ha registrato un aumento record, il maggiore in Asia, pari all’8,02%.

Inoltre, il Paese ha importato beni e servizi per poco più di 360 miliardi di dollari e ne ha esportati per oltre 381 (l’interscambio commerciale con l’Italia si assesta sui 6 miliardi), diventando così il maggior trader dell’area ASEAN dopo Singapore e prima della Thailandia. Ancorché vi siano talvolta alcuni sommovimenti interni al partito comunista che tangono anche il settore privato, il paese è alquanto stabile, non solo sul piano politico-governativo, ma anche su quello sociale: al netto delle differenze regionali facilmente riscontrabili nell’accento e nella cucina (in questi aspetti e in tanti altri il Vietnam è una specie di Italia del sud est asiatico) e di sperequazioni economiche peraltro non esagerate, non si registrano tensioni sociali, religiose, etniche. I giovani, che magari hanno vissuto la povertà, ma non la miseria, studiano e lavorano, desiderosi di mantenere e migliorare il proprio status. Il COVID è stato gestito in maniera quasi impeccabile: nel 2020, memori della SARS, i vietnamiti hanno chiuso i confini ben prima di altri e nel 2021, dopo qualche tentennamento, hanno vaccinato, anche grazie all’aiuto dei Paesi dell’UE e degli USA, il grosso della popolazione con AstraZeneca, Pfizer e Moderna.

Innumerevoli imprese hanno ampliato o spostato tout-court la propria base produttiva dalla Cina al Vietnam, in considerazione di molteplici fattori: diversificazione delle fonti produttive, appartenenza all’ASEAN, accordi di libero scambio con economie vicine e lontane, costi e qualità della manodopera, posizione geografica strategica, prossimità ai popolosi e relativamente giovani mercati di sbocco nella regione.

Nel solo 2022 sono entrati quasi 28 miliardi di dollari di investimenti diretti esteri, un dato simile a quello del 2020, con Singapore, Corea del Sud, Giappone, Cina e Hong Kong ai primi posti per territori di provenienza.

Se il Vietnam è un Paese eminentemente manifatturiero, da qualche anno la quota di servizi sul PIL ha superato il settore secondario.

Quanto all’interscambio, gli USA primeggiano come primo partner importatore. Ancora più interessanti sono i principali prodotti dell’export vietnamita: non solo calzature e abbigliamento (al quinto e quarto posto, rispettivamente), ma anche e soprattutto macchinari e componenti (quasi 42 miliardi di dollari di export), computer e accessori (oltre 50 miliardi), smartphone e accessori (quasi 55 miliardi).

Il Vietnam non è più solamente un Paese esportatore di prodotti semplici e altamente labour-intensive, ma anche di oggetti con un contenuto tecnologico piuttosto elevato, sul quale i giganti del settore hanno puntato con convinzione. Un’inflazione che appare sotto controllo attorno al 5%, aiuta.

A questo quadro del tutto positivo, con previsioni di crescita sostenuta anche per il 2023, va aggiunta l’enucleazione delle principali criticità che un Paese non ancora pienamente sviluppato come questo si trova ad affrontare e che impattano anche sugli investitori stranieri.

A mio personale giudizio, memore dei fattori che scoraggiano gli investimenti stranieri nella mia Italia, pongo l’incertezza del diritto e del funzionamento dei tribunali civili al primo posto. Il Vietnam è un paese di Civil Law, con un codice civile di derivazione napoleonica, che ha fatto straordinari passi avanti nell’adeguare il proprio ordinamento alle sfide contemporanee. Le significative riforme del diritto societario varate nel 2020 vanno in questa direzione. Ma non basta: permangono lacune e contraddizioni, e soprattutto, il sistema è imbevuto di norme non scritte che hanno a che fare con i complessi meccanismi gerarchici, familiari e familistici, che compongono l’ossatura della società e del modo di condurre gli affari in questo Paese. Va ricordato che il vietnamita è di fatto una lingua che si parla in… terza persona, per cui i pronomi personali variano al variare del rapporto di età e di gerarchia politica e famigliare (donna più giovane legge articolo di uomo più anziano; donna più giovane sposata con uomo più anziano diventa suo parigrado rispetto ai di lui fratelli più piccoli, ancorché anagraficamente più grandi di lei). Resistono al tempo le tradizioni, al limite della superstizione, per cui non è così infrequente attendere il giorno fortunato prima di concludere un affare, o consultare l’oroscopo della controparte prima di lanciarsi in una joint-venture, o ancora pagare i debiti prima del capodanno lunare. Il capitalismo è eminentemente di relazione e “i loro” vengono “prima”. Il riconoscimento di atti e titoli stranieri è arduo e le corti sono di un formalismo estremo, per cui la triste pratica di condurre affari anche importati con messaggini, senza contratti ben redatti, tradotti, semplici da comprendere da parte dell’interprete giudice, rende vano qualunque tentativo di soddisfacimento giudiziale delle proprie pur fondate e legittime pretese.

Vi sono poi sfide intrinseche a un Paese che ha comprensibilmente dato la priorità alla crescita economica rispetto a tutto il resto: inquinamento, sicurezza alimentare, sicurezza ambientale, tutela dei diritti dei lavoratori, sanità pubblica, qualità delle costruzioni e delle infrastrutture, per citare solo le principali, senza contare il difficile ma inevitabile rapporto con la Cina.

In tutto questo l’Italia potrebbe fare molto: possiamo fornire al Vietnam soluzioni ecosostenibili in cui siamo campioni, vendere macchinari, prodotti per il settore petrolchimico, arredamento a elevato contenuto tecnologico, e poi espandere la produzione anche in Vietnam significa non solo presidiare un’economia in pieno boom, ma anche servire più da vicino la clientela di tutta la regione, realizzare sul posto le linee non necessariamente di alta gamma ed evitare che la concorrenza prenda il sopravvento anche alle latitudini nostre. E torniamo ai motorini con cui abbiamo esordito. VinFast, car-maker locale nato solo pochi anni fa dal gigante VinGroup, ha già sviluppato il proprio scooter, non così dissimile dalla Vespa. Piaggio presidia da quindici anni il mercato locale e regionale con, tra l’altro, un intelligente posizionamento del proprio brand nel segmento elevato. Ma, così come le case degli italiani sono ora piene di elettrodomestici giapponesi, coreani e anche cinesi di qualità, non è potenzialmente lontano il momento in cui, per inazione dei nostri, i produttori vietnamiti scalzeranno anche quelli italiani.

Il 2023 segna il cinquantesimo anniversario delle relazioni diplomatiche tra Italia e Vietnam. Se tali relazioni sono eccellenti da anni, non altrettanto si può dire degli investimenti italiani in Vietnam. L’auspicio è che business e cultura marcino di pari passo con politica e diplomazia, con slancio.

 

Avvocato, opera in molteplici ordinamenti e culture. Managing partner dello studio di consulenza legale e tributaria dMTV Global, con uffici a Singapore, Malta e Vietnam, dopo avere lavorato in studi legali a Pechino, Bruxelles, Barcellona e Milano. È stato socio dello studio legale de Masi Taddei Vasoli, di Milano. Da oltre vent’anni assiste i propri clienti principalmente su contratti nazionali e internazionali e diritto societario, investimenti diretti esteri, asset protection, immigrazione, trust, questioni fiscali internazionali, in una molteplicità di settori. Ha fornito assistenza legale in numerosi casi inerenti i rapporti d’affari tra Europa e Asia e oltre 200 progetti blockchain, principalmente a Singapore e Malta, e più recentemente ad Antigua e Barbuda e in altri ordinamenti caraibici. L’essere stato esposto alle culture e ai mercati europei e asiatici già in giovane età, e a fianco di grandi maestri del diritto, come gli avvocati Daniel Vedovatto a Bruxelles nel 2004, Carles Moner a Barcellona nel 2011 e Gianfranco Negri-Clementi a Milano, gli ha permesso di sviluppare la capacità di lavorare su casi multi-ordinamento e di forgiare una mentalità orientata al risultato. È stato vicepresidente dell’Associazione Giovani Avvocati di Milano (AGAM), riveste svariate posizioni in consigli direttivi, anche di organizzazioni no-profit, ed è general counsel indipendente di nextAI Ltd e general counsel e managing partner Singapore e Asia-Pacific di Spektral USA LLC, entrambi spin-off di Harvard Medical School e MIT Sloan Alumni. E’ relatore al MIP – Politecnico di Milano, alla National Economic University di Hanoi e mentore di studenti MBA all’Università Cattolica di Milano e autore di pubblicazioni giuridiche e di business. È socio di Finance Malta, della Malta Chamber of Commerce, del Malta Business Network, della Camera di Commercio Italia-Vietnam (CCIV), dell’Italian Chamber of Commerce in Vietnam (Icham), della Vietnam Private Business Association, della Singapore Business Association in Vietnam, della Italian Chamber of Commerce in Singapore (ICCS) e di EuroCham in Vietnam e a Singapore. Ha fatto parte della delegazione del Gruppo Giovani Imprenditori di Confindustria al G20 Young Entrepreneurs’ Alliance. Laureato all’Università Bocconi di Milano, ha frequentato corsi post-laurea all’Università di Vienna, all’ISPI di Milano, all’Università di Strasburgo, all’ESADE di Barcellona, all’IFSP di Malta e all’Università di Edimburgo