È possibile sintetizzare l’andamento di un’economia nel tempo dentro un solo indicatore come il PIL (prodotto interno lordo)? Come giustamente rilevato dall’amico Pietro Ripa nelle settimane scorse, è davvero eroico ritenere che una singola variabile sia sufficiente per catturare elementi cruciali che vanno considerati congiuntamente con il valore totale della produzione e del reddito, come la disuguaglianza e l’inquinamento, per non parlare della connessione tra andamento dell’economia e “felicità” dei cittadini.
Tuttavia, parafrasando la famosa battuta di Churchill sulla democrazia, la mia tesi sul PIL è che il PIL è la peggior forma di misurazione dell’andamento dell’economia, eccezion fatta per tutte quelle altre misure che sono state proposte finora. Per intenderci: se dobbiamo scegliere UNA SOLA misura, allora il PIL, e in particolare il PIL pro capite, va bene, perché le altre misure proposte (ad esempio il reddito netto disponibile delle famiglie, oppure un indice composito come lo Human Development Index, che mette insieme Pil pro capite, speranza di vita e anni di istruzione) aggiungono informazioni ma confondono le acque perché mettono insieme fattori diversi (sanità e istruzione) oppure ne tolgono una parte (le imposte tolte al reddito lordo per arrivare al reddito netto servono per finanziare i servizi pubblici e il welfare state).
Parentesi tecnica su che cosa è esattamente il PIL: esso rappresenta il valore totale di tutti i beni e servizi finali prodotti in un dato periodo di tempo in un certo paese, di solito in un anno o in un trimestre. Chi sono i soggetti che comprano tali beni e servizi? Le famiglie li acquistano per i propri consumi, mentre le imprese acquistano beni di investimento come impianti e macchinari per rimpiazzare la propria dotazione di “capitale” (pensate a macchinari ormai obsoleti o non funzionanti) oppure per aggiungerne di nuovi. Dal momento che l’economia è aperta ai rapporti con l’estero, dal lato della domanda (chi acquista la produzione nazionale?) vanno aggiunte le esportazioni, cioè gli acquisti di beni e servizi prodotti all’interno del paese ed acquistati da imprese o famiglie che stanno all’estero. Per essere coerenti bisogna però togliere dal valore delle esportazioni il valore delle importazioni, cioè dei beni e servizi finali acquistati all’estero: si tratta infatti di domanda che non va a comprare la produzione nazionale ma quella fatta all’estero. Dunque il concetto rilevante è quello delle esportazioni nette, cioè il valore delle esportazioni a cui si sottrae il valore delle importazioni.
E come entra in questo schema la parte pubblica dell’economia? Se il settore pubblico acquista beni e servizi questi fanno parte della domanda che acquista beni prodotti all’interno, e lo stesso vale per gli investimenti pubblici, cioè l’acquisto di beni che danno utilità per più di un periodo, come un ponte o un’autostrada. Anche gli stipendi pubblici entrano nel calcolo della spesa pubblica che acquista la produzione interna perché sono una misura del valore dei servizi pubblici prestati alla cittadinanza, quando non esiste un prezzo (come in questo caso) che definisce la quantità di moneta totale necessaria per acquistare quei servizi. Ad esempio nel settore sanitario, le imposte, cioè un prelievo coercitivo di risorse, finanziano l’acquisto di farmaci, il pagamento di medici e infermieri, mentre il paziente -a parte il pagamento aggiuntivo del ticket- usufruisce gratuitamente e universalmente di questi servizi di prevenzione, diagnosi e cura. Di fatto non esiste un prezzo per i servizi sanitari utilizzati dai consumatori finali, ma il suo valore è rappresentato dagli stipendi del personale, dall’acquisto di beni intermedi da parte della pubblica amministrazione eccetera.
Se prendiamo il PIL totale e lo dividiamo per la popolazione otteniamo il PIL pro capite, cioè una misura media della produzione e del reddito in un dato paese in un dato periodo di tempo. E da dove spunta il concetto di reddito? Un elemento contabile che qualcuno potrebbe persino definire “intrigante” è che a ogni acquisto di beni e servizi finali corrisponde un ricavo per i soggetti che li vendono, tipicamente imprese che utilizzano queste risorse incassate per pagare gli stipendi, i propri fornitori, gli interessi alle banche e i dividendi agli azionisti: da qui nasce l’uguaglianza tra spesa, valore della produzione e reddito (potere d’acquisto) che viene corrisposto a chi fornisce fattori produttivi (cioè lavoro e capitale) alle imprese che producono. E un concetto ancora più prezioso è quello di circuito del reddito, che a mio parere permette di comprendere abbastanza bene la forza teorica ed empirica del concetto di PIL: come sintetizzato nella Legge di Say (che -come ben argomentato dall’economista William Baumol- fu colposamente o dolosamente presentata in maniera caricaturale dal fondatore della macroeconomia, cioè John Maynard Keynes) la domanda di beni nasce dal lato dell’offerta, cioè dal lato delle imprese e degli altri soggetti che producono beni e servizi. Le imprese che vendono con successo beni e servizi danno risorse monetarie a lavoratori e capitalisti come reddito, il quale viene utilizzato da costoro per comprare beni e servizi finali, in un circolo virtuoso che diventa più ampio in termini assoluti se il PIL totale cresce, e in termini medi se il PIL pro capite cresce. E che succede se non tutto il reddito viene speso in consumi? La differenza positiva tra reddito e consumo è ovviamente il risparmio: esso è costituito da risorse monetarie che possono essere prestate alle imprese e allo stato per finanziare le proprie spese, in particolare quelle di investimento (ma non solo). Se poi si bada a non farci confondere le idee dall’inflazione (se da un anno all’altro si producono le stesse quantità di beni e servizi e i prezzi raddoppiano il PIL nominale raddoppia, mentre quello reale è inalterato), il PIL reale pro capite diventa una buona approssimazione del benessere economico medio dei cittadini in un dato paese in un dato periodo di tempo. Se si calcola il tasso di crescita percentuale del PIL reale pro capite si passa a una buona misura dello sviluppo economico pro capite nel tempo, ovviamente analizzando la cosa in un orizzonte temporale ragionevolmente lungo come un decennio o una generazione, cioè un quarto di secolo.
Vogliamo giustamente prestare attenzione alla disuguaglianza, all’inquinamento, alle condizioni sanitarie e dell’istruzione? Facciamolo pure, anzi dobbiamo farlo, ma consideriamole come indicatori separati e aggiuntivi rispetto al PIL, indaghiamone la correlazione con il PIL stesso, ma non rigettiamo il PIL come indicatore inutile perché non al passo con la moda dei tempi. Il passo della storia umana -dalla Rivoluzione Industriale in avanti, ma anche prima, e anche nel futuro- lo decidono di fatto il PIL e il PIL pro capite.
Riccardo Puglisi è professore ordinario di scienza delle finanze all’Università degli Studi di Pavia. Alunno del Collegio Ghislieri; ha studiato a Pavia (laurea in economia e dottorato in finanza pubblica) e alla London School of Economics (Master e PhD in economia).
Si occupa principalmente del ruolo politico dei mass media, di finanza pubblica, e del ruolo economico delle istituzioni politiche. Ha pubblicato su riviste internazionali in economia e scienze politiche come il Journal of the European Economic Association, Journal of Politics e Journal of Public Economics. È redattore de lavoce.info.
Insegna scienza delle finanze a Pavia e in Bocconi e political economy a Pavia. Nel 2013-14 ha fatto parte di uno dei gruppi di lavoro nell’ambito della spending review condotta da Carlo Cottarelli; nel 2015 ha ottenuto il Premio Ghislieri con Virginio Rognoni, e nel 2016 ha vinto con James M. Snyder, Jr. la Hicks-Tinbergen Medal per il miglior articolo pubblicato nel biennio precedente sul Journal of the European Economic Association.
È ragionevolmente attivo sui social network, in particolare su Twitter.