Giugno 2020

Recovery fund

Un pareggio annunciato nella partita del Recovery Fund

Si è tenuto il tanto atteso incontro tra i leader europei. Si è discusso del recovery fund da 750 miliardi (due terzi trasferimenti e un terzo prestiti) e del budget da 1.100 miliardi per i prossimi sette anni. Una partita virtuale (si era pur sempre collegati in webinar), dove netti fin da subito sono apparsi i due schieramenti: da una parte la squadra franco-tedesca-italiana-spagnola con un modulo d’attacco ispirato al mutualismo e supportato dalle dichiarazioni della commissione Europea. Dall’altra parte la compagine dei “frugali” (Danimarca, Austria, Svezia e Olanda) e in mediana la Finlandia, catenacciari ad oltranza e ispirati dal motto “qui non passa lo straniero, pardon.. l’europeo”.

In teoria, a calcio, non ci sarebbe partita, dati gli schieramenti. “Ma l’Europa ha ragioni, che la ragione non conosce” e poiché si è giocato con le regole della politica comunitaria, la partita è finita con uno scialbo 0-0, con “il ritorno”, che si disputerà “dal vivo” il prossimo mese a luglio.

Perché nessun goal? Perché sulle 4 questioni su cui si discuteva (1. le dimensioni del piano, 2. Il rapporto trasferimenti/prestiti, 3. La allocazione dei fondi per Paesi, 4. il nuovo calcolo sui contributi al bilancio UE per singolo Paese) è scattata una melina stomachevole. Da ambo i contendenti. Tutti però a ribadire che questa partita s’ha da fare e anche presto. Anche perché i fondi che verranno stanziati dipendono dalla conclusione di suddetta partita. Ad oggi, si parla (o almeno si spera) di poterli distribuire a inizio 2021. Più però la partita andrà ai tempi supplementari e più tardi questi fondi verranno stanziati. In altre parole: più tempo si perde e più dura sarà la recessione. Ma non sembra essere una gran preoccupazione dei giocatori in campo. Ancora troppo concentrati e innamorati del proprio noioso possesso palla o del proprio inespugnabile catenaccio. Non è di certo un gran spettacolo, il pubblico rumoreggia e cresce la paura, ma la politica si ostina a ricordarci che non è tenuta ad esprimere il bel gioco.. Purtroppo…

il futuro dell'arte

Ugo Nespolo – Per un’ecologia dell’arte

Siamo tormentati dall’idea di futuro, che prima della pandemia, immaginavamo più come un presente enormemente dilatato. Questa idea di presente assoluto ha da tanto tempo condotto il sistema dell’arte nelle sue subalterne componenti: una temporalità ansiosa e sprovvista di visione, schiava dell’assolutismo di questo presente e comodamente consegnata al possesso come convalida dell’essere. Ma poi, proprio come tutti gli ambiti della società e della economia, duramente provati dalla situazione attuale, anche il fantasmagorico mondo dell’arte e il suo luccicante bagliore ha conosciuto l’amarezza della realtà e la crudezza delle previsioni più nere. La pandemia lascerà su questo settore effetti devastanti e forse si salveranno in pochissimi: solo quegli artisti e quelle gallerie legati alle megastrutture commerciali, mentre la grande massa delle gallerie medie sparirà o dovrà necessariamente ridimensionarsi. (cit. J. Saltz). Al pari delle mondanissime fiere dell’arte, divenute appuntamenti troppo costosi e irrealizzabili. Qualcun altro (U. Obrist) propone la riscoperta di un grande progetto di arte pubblica come cura, sull’esempio di quello attuato dagli Usa durante la grande depressione: un new deal per tenere viva una vasta comunità creativa e contribuire alla scoperta e valorizzazione di nuovi talenti che inneschi un processo virtuoso anche in termini economici. Un suggerimento al momento inascoltato, mentre giorno dopo giorno assistiamo ad una situazione di stallo nelle dinamiche di incontri e vendite nelle gallerie e le prime chiusure di spazi divenuti sempre più costosi. La situazione, è vero, aguzza l’ingegno dei maggiori player del mercato verso soluzioni di avanguardia e di salvaguardia, con l’istituzione delle VOR (viewing Online Rooms), utili più a rassicurare i maggiori collezionisti nel non sentirsi abbandonati e smarriti dinnanzi alla decrescita diffusa dei (già) decantati “sicuri investimenti”. Anche lo scintillante, frenetico mondo delle fiere dell’arte che pareva fino a ieri il magico e sicuro meeting point planetario in grado di creare e consolidare valori e produrre ricchezza comincia a vacillare. Gli appuntamenti continui e incalzanti per ogni angolo del pianeta sono evaporati. E le stupefacenti gallerie di Milano, Londra e Hong Kong si trasformano in negozi virtuali, affidandosi all’online. Proprio come fanno anche i maggiori musei del pianeta, colpiti dalla profondità delle restrizioni adottate, dai tagli nei budget e dalle rescissioni dei contratti con il personale di ogni genere e grado. Proprio alcune istituzioni, da sempre specchio della opulenza museografica nel mondo, rivelano le maggiori contraddizioni e mettono in discussione il proprio ruolo e quindi l’opportunità della propria esistenza. È il caso del MoMa di New York che ha appena portato a termine una faraonica ristrutturazione da 500 milioni di dollari e che ha appena annunciato il taglio di 45 milioni di dollari su future mostre, dimezzando il budget del 2021, “un primo passo per eliminare ogni spesa possibile“, come ha spiegato il direttore Glenn Lowry. Mario Perniola nel suo “L’arte espansa” pochi anni fa scriveva di destabilizzazione del mondo dell’arte e prevedeva una bolla speculativa prossima allo scoppio, contestando la trasformazione degli artisti in divi dello spettacolo, l’annullamento della critica dell’arte, la scomparsa del pensiero sacrificato all’imperativo che vale solo tutto ciò che costa. Pete Peterson raccontava di come a New York ci siano montagne di soldi e ragazzi trentenni già milionari considerano le opere d’arte dei “beni posizionali, utili a dare prestigio e farli sentire gente che conta. Ma sono gli stessi trentenni di Londra, Hong Kong, Mosca: i super ricchi costituiscono da sempre una nazione a parte. Li si incontra nelle fiere d’arte di alto bordo: Art Basel Miami, Frieze, Dubai, con quella aria di superiorità ad ostentare opulenza, di stand in stand, di suite in suite, di Jet in Jet. Il mondo dell’arte è diventato allora un magnifico soufflé farcito di banconote (cit. Polveroni) e questa ingordigia speculativa è stata alimentata da tutti: mercanti, casa d’aste, musei e fiere. In attesa che il gigante dai piedi di argilla precipitasse (cit. Thomson). Accontentati tutti.

 

Ugo Nespolo – Artista

info@nespolo.com

Diplomato all’Accademia Albertina di Belle Arti a Torino, laurea in Lettere Moderne. La sua prima mostra milanese dal titolo “Macchine e Oggetti Condizionali” – in qualche modo – rappresenta il clima e le innovazioni del gruppo che Germano Celant chiamerà Arte Povera. Negli Anni Sessanta si trasferisce a New York dove subisce il fascino della nascente Pop Art, mentre negli Anni Settanta milita negli ambienti concettuali e poveristi. Nel 1967 è pioniere del Cinema Sperimentale Italiano sulla scia del New American Cinema. I suoi film sono stati proiettati e discussi in importanti musei tra i quali il Centre Pompidou a Parigi, la Tate Modern a Londra, la Biennale di Venezia. Con Baj, Nespolo fonda L’Istituto Patafisico Ticinese ed è, ad oggi, riconosciuto come una delle più alte autorità nel campo. Nella sua arte è molto marcata l’influenza di Depero, da cui trae il concetto di un’arte ludica che pervade ogni aspetto della vita quotidiana. Da qui anche il suo interesse per il design, l’arte applicata e la sperimentazione creativa in ambiti diversi, quali la grafica pubblicitaria, l’illustrazione, l’abbigliamento, scenografie e costumi di opere liriche. La sua ricerca spazia anche sui materiali e sui molteplici supporti, con tecniche differenti: legno, metallo, vetro, ceramica, stoffa, alabastro. Sicuro che la figura dell’artista non possa non essere quella di un intellettuale, studia e scrive con assiduità dei fatti e delle discipline che han da fare con l’estetica e il sistema dell’arte. Nel Gennaio 2019 l’Università di Torino gli conferisce la Laurea Honoris Causa in Filosofia.

futuro_Atlantia

Gabriele La Monica- Chi vincerà la partita di Atlantia

La partita relativa al futuro di Atlantia è destinata a finire ai tempi supplementari. Fondamentalmente perché uno dei giocatori, il Governo, ha cambiato le regole del gioco rendendo impossibile la fine della partita, in un’ottica di piena salvaguardia del diritto. L’articolo 35 del Milleproproghe rende più semplice e, soprattutto meno costoso (7 mld invece di 23) la revoca della concessione. Peccato che i decreti attuativi necessari per renderlo effettivo non siano mai stati realizzati. Perché? La spiegazione più accreditata è che il testo della Concessione è blindato e quindi non può essere revocata. D’altronde se fosse stato possibile, lo avrebbero già fatto. Entro il 30 giugno la Concessionaria, quindi Aspi, deve eccepire il peggioramento del quadro normativo e restituire la concessione in cambio di 23 miliardi di euro(cifra stabilita dall’ex ministro Antonio di Pietro quasi come una giuggiola per rendere meno amaro il no alla prima versione della fusione con Abertis voluta dal governo Prodi). Guardiamo i numeri sul tavolo. Atlantia capitalizza circa 11 mld di euro, ha 9 mld di bond e altrettanti ne ha Autostrade per l’Italia. Ha un piano di investimenti da 14,5 mld al 2018, di cui 2,9 mld nel solo 2020. Investimenti che non può finanziare perché il suo credito è stato declassato a Junk dopo l’arrivo del Milleproroghe. Atlantia ha le mani legate. Se il governo non cambia l’articolo 35, deve restituire la concessione. Aspi è già in ipossia di liquidità Come se ne esce? Il governo, in particolare i 5 Stelle, devono cambiare la legge e accettare che i Benetton, che nella loro narrazione sono diventati l’incarnazione del male, rimangano nell’azionariato di Aspi, anche se diluiti. Atlantia cederà quote Aspi accettando probabilmente di scendere sotto il 50% e facendo entrare F2i. Forse Cdp prenderà una quota nella stessa Atlantia. L’aspetto più delicato è quello delle tariffe. Il Governo vuole un taglio a doppia cifra. Aspi vuole che le tariffe siano tali da rendere sostenibili gli investimenti. Delle due una: o si allunga la concessione nel tempo, allungando anche le tempistiche degli investimenti, o si tagliano le tariffe meno del 10% chiesto dall’Esecutivo. Oggi, paradossalmente, sembra più plausibile la prima ipotesi. Una soluzione che ha una logica finanziaria ma che rischia di diventare una doppia beffa per i paladini della revoca della concessione senza se e senza ma. Perché Atlantia, e i Benetton di conseguenza, non solo non verrebbero cacciati ma rimarrebbero concessionari ancor più a lungo, seppur con una presa molto meno forte rispetto al passato. Ma, dicevamo all’inizio, la partita finirà ai supplementari, vista la difficoltà del Governo di trovare una quadra politica. Quindi, dopo il 30 giugno, partirà la battaglia legale. La speranza è che si consumino solo i preliminari di quella che altrimenti sarebbe una battaglia lunghissima. Una sorta di lunga esplosione di mortaretti che annuncino la fine delle ostilità e la nascita di un nuovo ordine autostradale. E tutto questo, ovviamente, in attesa dell’esito del processo relativo alla tragedia del Morandi che delineerà le responsabilità civili, penali e amministrative e, auspicabilmente, darà giustizia alle famiglie delle 43 vittime.

 

Gabriele La Monica, giornalista Mf-Dow Jones

Email: gabriele.lamonica@mfdowjones.it

Quarantanove anni, Laureato in Giurisprudenza. Giornalista dal 1994. Dal 2005 è il responsabile della sede di Milano dell’agenzia Mf-Dowjones. Fan compulsivo dei Rolling Stones, che segue ovunque nel mondo ogni volta che questo è possibile. Juventino oltre ogni limite.

Futuro dell'economia

Una recessione da non perderci la testa

Siamo all’inizio di una recessione di cui non conosciamo né la durata né la evoluzione. Qualcuno mi ha chiesto quanto possa durare questa crisi. Premettendo che nessuno ha la palla di cristallo, faccio qualche considerazione. Ogni recessione deriva da uno squilibrio. Facciamo 2 esempi “scolastici” e vicini nel tempo: nel 2007 l’origine di tutto fu una bolla speculativa immobiliare, che poi si propagò in tutti i settori dell’economia e soprattutto nel mercato finanziario (mutui subprime). Nel 2001 invece, fu la bolla tecnologica delle “dot.com” a “far saltare il banco”. Quanto tempo poi ci volle per tornare al punto pre-crisi? Un anno e mezzo nel primo caso e meno nel secondo (almeno sui mercati). Ma se è difficile prevedere i tempi, è più facile intuirne gli effetti. Il Covid-19  ha determinato una crisi di offerta ( per ordine governativo si è interrotta la produzione mondiale) e una crisi di domanda (minori salari e una ridotta mobilità hanno ridotto i consumi). Massicce iniezioni di stimolo fiscale stanno cercando di sostenere la domanda, inondando di liquidità il sistema e va detto che anche la politica monetaria (BCE per noi europei, FED, BoJ, BoE etc per gli altri ..) sta parecchio aiutando.

Il rischio che questo giro saltasse l’intero sistema è stato nitidamente avvertito da tutti (Stati, Governi e autorità monetarie). E i numeri aumentano ogni settimana. Ma che mondo sarà? Cito, a mio avviso, le evidenze più importanti. Convivremo tutti con debiti pubblici altissimi. Vabbè noi italiani siamo già abituati. Cambieranno i rapporti politici internazionali (e forse il nostro mondo occidentale, comincerà ad avere sfumature, almeno di controllo, sempre più orientali). Nel commercio globale le catene di valore si accorceranno. Dimentichiamoci la globalizzazione spinta e le produzioni “just in time”, anzi, su certi prodotti, soprattutto sanitari, le scorte saranno necessarie e le produzioni rilocalizzate. Ci abitueremo a convivere con economie nazionalizzate, e non solo specifiche aziende, ma anche settori ritenuti strategici.(Nuova IRI in arrivo per noi Italiani?).

Cambierà anche il sistema di welfare: da noi stanno parlando di “reddito di emergenza”, ma molti Paesi (Olanda e Finlandia ad esempio) sono molto più avanti nell’idea “del salario universale”. Aumenteranno gli investimenti in ricerca biologica e salute: i costi di una eventuale nuova pandemia sarebbero troppo alti rispetto a quelli per prevenirla. Ma soprattutto non torneremo indietro nel progresso digitale. In 3 mesi il mondo ha dovuto fare quanto era pianificato per i prossimi 5 o 7 anni. In Italia è esploso l’e-commerce, ma abbiamo scoperto che in molti casi, si può lavorare tanto e bene anche da casa. Stiamo assistendo ad una rivoluzione E magari tra un po’ ci accorgeremo che ci ha aiutato a progredire. Che poi, in una rivoluzione, l’importante è non farsi prendere dal panico e perdere la testa…

Giovanna Dossena – Covid-19 e i suoi riflessi sul sistema filiera

Covid è arrivato, come tutti i cigni neri , non atteso, non creduto e non capito. Senz’altro è importante capirne le cause, ma soprattutto è importante capirne le conseguenze e le direzioni che ha preso il futuro, e quelle che devono prendere i nostri sforzi di persone, di investitori, di pensatori e di decisori. In un mondo di risorse scarse, le due opportunità – ricostruire” il prima” o avventurarsi nel” nuovo” – devono trovare un giusto mix, in termini di efficienza e di efficacia.  Non si può  ignorare il passato, non si può ignorare il futuro. Anche se il primo è noto ed il secondo no: il nostro cammino deve  rappresentarsi con un piede nella certezza ed un piede nell’incertezza, ma questo implica una progressione verso il nuovo sulla base delle conoscenze, delle competenze, dell’esperienza e di quanto utile maturato nel percorso precedente. E qui serve una  “condivisione di valori”, quale modalità essenziale della interazione economica e sociale. Siamo tutti molto più interagenti di quanto possiamo immaginarci, niente va reputato lontano, nessuno può reputarsi soggetto “stand alone”. Declinando  tali condizioni a livello del  sistema micro economico delle imprese, il grande protagonista che emerge per il futuro è il bisogno di  ” fiducia di filiera “. Diverso dal concetto di distretto (che raggruppa le imprese che offrono un prodotto succedaneo operando  in un determinato territorio), la filiera è una catena verticale che lega tutti gli attori che contribuiscono all’approntamento di un determinato prodotto o servizio al mercato: parte dalla fornitura arriva alla produzione e infine alla distribuzione, dalla materia prima al consumatore finale. Ciascuno operatore nel contesto della filiera contribuisce alla determinazione del valore aggiunto, e perciò del valore, di tutte le unità che si trovano a monte e valle.

Imprese appartenenti a settori anche diversi appartengono ad una medesima filiera e perciò hanno un convergente interesse che la filiera prosperi. Gli operatori di una medesima filiera si conoscono ed interagiscono nel reciproco interesse, ancorché ciascuno motivato dalla tutela dei propri interessi, ancorché gli operatori siano in settori diversi, di dimensioni diverse, e geograficamente dispersi. Il concetto stesso  di sostenibilità non esiste ove non venga declinato lungo tutta la filiera. Non ci saranno mai imprese ESG se non ci saranno filiere ESG. La filiera diventa perciò un ecosistema capace di sprigionare una potenzialità self enforcing virtualmente idonea a rappresentare una leva del valore. Partendo proprio da questi assunti, strumenti efficaci a favorire la ripresa, potrebbero essere quelli rivolti a:

  • favorire la trasparenza delle informazioni all’interno della filiera, condividendo  informazioni afferenti la performance delle singole unità operative;
  • considerare la filiera come una potenziale “cash pool “all’interno della quale i vari soggetti riescono a darsi e a chiedersi credito in maniera strumentale alle rispettive necessità strategiche;
  • consentire un sistema di sostegno e di finanziamento  “tra privati” nel contesto della filiera per favorire capacità di finanziamento del circolante , investimenti, produttività e domanda all’interno della stessa;
  • attribuire  un rating alla filiera che si affianchi al rating delle imprese ad essa appartenenti ,progressivamente idoneo a meglio rappresentare l’affidabilità delle stesse.

La capacità di futuro del sistema economico si giocherà proprio nella sua capacità di trasformare gli obiettivi di performance in obiettivi di sostenibilità, l’interazione in condivisione, l’integrazione in un vantaggio comune.


Giovanna Dossena, manager nel private equity
Email: giovanna.dossena@unibg.it

Laureata in economia, professoressa ordinaria di Economia e Gestione delle imprese all’Università di Bergamo e in precedenza in Bocconi. Fondatrice e direttrice del Centro Ricerca Entrepreneurial Lab E-lab. Commissario del MIUR nel 2017. Ha istituito il corso di Filantropia strategica all’Università di Bergamo. E’ autrice di numerose pubblicazioni e monografie sul tema della imprenditorialità, relatrice in numerosi convegni nazionali e internazionali sul tema della finanza sostenibile e dell’inclusione economico-sociale. Svolge attività di investimento e di consulenza in campo economico finanziario con particolare focus sulle piccole e medie aziende. Si occupa di Private Equity. Nel 2016 ha fondato AVM gestioni sgr, di cui è presidente e amministratore delegato.
Ha rivestito numerosi incarichi istituzionali tra cui, consigliere di amministrazione del Gruppo Brembo.
È dottore commercialista e revisore contabile

Vivere il bello per apPREZZArlo

In attesa di capire cosa succederà nella fatidica data del 15 di giugno al Consiglio europeo, questa settimana mi prendo una pausa per “parlare del bello” e quanto oggi sia difficile stabilirne il suo valore. No, non è diventata una rubrica di filosofia. Rimane una rubrica di finanza, dove però parlerò di finanza dell’arte, un mio vecchio pallino , (lo ammetto), che porto avanti da più di dieci anni con varie pubblicazioni e monografie dedicate. Ho presentato (in modalità webinar con gli amici di Deloitte) la scorsa settimana l’ultima mia pubblicazione “I beni da collezione da investimento nel 2019”, (per chi vorrà sarò felice di inviarlo), ma il focus del mio intervento è stato capire quanto il post Covid impatterà sui mercati del lusso non regolamentati, come quello dei beni da collezione. Ci sono allora 3 aspetti salienti da mettere in luce e che contraddistinguono questa precisa fase storica a livello internazionale. Il primo riguarda la non correlazione esistente tra mercato dei beni da collezione e gli altri mercati regolamentati, alla stregua di quanto già visto negli anni scorsi. Negli ultimi quattro anni, le performance tra mercato dell’arte e mercati finanziari e delle materie prime sono state spesso di segno opposto, essendoci scarsa influenza reciproca, ma neanche un rapporto di correlazione inversa. In secondo luogo, in questo momento di grande incertezza economica, dove è difficile intuire dove sia più opportuno investire i propri danari, l’arte si conferma non essere un bene rifugio, (e io sorrido, per essere diplomatico, quando leggo questi titoli sui giornali..), in quanto vengono meno alcune caratteristiche alla base di questa tipologia di beni, come mantenere inalterato il proprio valore nel tempo e avere modesti rendimenti reali. La volatilità (nel bene e nel male) è caratteristica insita al mercato dell’arte e non la si potrà evitare, a meno di riuscire a regolamentare in maniera più stringente il mercato stesso.

Tuttavia, e arrivo al terzo punto, volendo fare un confronto con la crisi finanziaria del 2007-2008, ritengo che da allora il mercato dell’arte sia diventato meno “sottile” e quindi meno soggetto alla speculazione tout court che ha contraddistinto quel periodo. Oggi il mercato è più maturo, e il fatturato delle aste online rappresenta un buon  livello di supporto. Ma non è una soluzione definitiva e neppure sostenibile. Mia nonna diceva che “i problemi vengono in carrozza e vanno via a piedi”.(saggezza contadina). Riusciremo presto a scacciare il virus, ma non immediatamente anche la sua psicosi. Ecco perché,  il mercato dell’arte ( ma si può estendere anche a molti mercati esclusivi del lusso) soffrirà la mancanza di tutto quell’universo di eventi collaterali alle grandi aste e dedicati ai collezionisti elitari e/o ai top spenders, che permettono a questi di vivere collettivamente l’aspetto più emozionale della vendita e agli operatori di tornare ad avere robusti fatturati. Il bello per poter esser valorizzato, va vissuto, sperimentato, toccato. Stiamo parlando di arte.. non fraintendiamo.. O no?…

Mirko Belliato – Covid-19: cosa ci ha lasciato

Sembrava così lontano e, invece, a febbraio anche l’Italia ha avuto i primi casi di coronavirus. Io ero all’estero, in Sudafrica, per un convegno cui avevo aggiunto qualche giorno di ferie. Ma la mia testa, dopo il 21 febbraio era a Pavia: desideravo solo tornare a casa per dare il mio contributo nella cura dei pazienti affetti da Covid-19. Il nostro Ospedale, il Policlinico San Matteo di Pavia, ha avuto un grande ruolo nella gestione della pandemia, con la guida pronta e decisa della Direzione Strategica. Ed è proprio grazie a questa determinazione e all’impegno di tutto il personale che siamo stati, tra i primi, ad aprire un’unità di terapia sub-intensiva; un reparto definito “first responder” in grado di accogliere i pazienti in peggioramento rapido e che necessitavano di immediate cure e supporto respiratorio specialistico. Con i miei colleghi ne ho coordinato l’apertura, avvenuta ai primi di marzo. Poi, una seconda rianimazione per i pazienti Covid19 gravissimi, fino al trattamento di cinque pazienti contemporaneamente in supporto ECMO.

Il nostro lavoro ci porta ad avere a che fare con pazienti difficili, gravi, ma questo virus ha rappresentato qualcosa di nuovo anche per noi rianimatori. Professionalmente è stata un’esperienza unica. Personalmente, come altri miei colleghi, ho vissuto l’emergenza del 2009: anno in cui abbiamo attivato l’ECMO team mobile per andare a prendere i pazienti negli altri ospedali e che necessitavano di un supporto respiratorio in ECMO. Anche in quel caso una pandemia, ma è stato completamente diverso. Anche dal punto di vista umano: con il coronavirus è venuto meno lo scambio empatico con i familiari dei pazienti che per noi rianimatori e medici di emergenza è fondamentale.

Quello che più ci è pesato è stato l’isolamento nei confronti della famiglia; non poter trasmettere le nostre emozioni e il nostro essere partecipi del loro dolore con la gestualità e la vicinanza fisica. Ci è mancato il nostro far parte della “cura”, anche delle famiglie.

Per questo umanamente è stata un’esperienza devastante: nella fase di picco vedevamo fino a 60 pazienti al giorno, alcuni incurabili. Lì si è visto non solo l’integrità medica ma anche l’aspetto psicologico. Per questo ringrazio il Policlinico San Matteo che insieme alla Fondazione Soleterre ci ha fornito un supporto psicologico che ha aiutato tanti di noi.

Per questa ragione sto vivendo con grande ansia questa fase 2. Temo una seconda ondata, non solo come medico. Dal punto di vista tecnico professionale abbiamo risorse, capacità e una maggiore conoscenza per affrontare un eventuale contagio.

La temo umanamente: pensare di rivivere i mesi passati, soprattutto il mese di marzo, fa davvero paura. Per questo chiedo a tutti noi di usare la mascherina, i guanti e l’igiene delle mani ma chiedo grande senso di responsabilità e di rispetto verso sé stessi e verso il prossimo.


Mirko Belliato, Primario ospedaliero
Email: m.belliato@smatteo.pv.it

Biografia
Dirigente medico, specialista in Anestesiologia e Rianimazione, e responsabile della UOS Assistenza Respiratoria Avanzata, sezione della UOC di Anestesia e Rianimazione 1 della Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo di Pavia.

Si occupa dei casi di più gravi di insufficienza respiratoria acuta. Attualmente è anche Professore a contratto di Anestesiologia per i Corsi di Laurea delle Professioni Sanitarie della Riabilitazione, Università degli Studi di Pavia.

Alunno dell’Almo Collegio Borromeo, ha ricevuto riconoscimenti nazionali ed internazionali, e ha pubblicato su prestigiose riviste scientifiche internazionali. È membro attivo nella società internazionale ELSO di cui è stato eletto membro del comitato direttivo EuroELSO (branca europea di ELSO).

Habemus Recovery, gaudeaumus igitur?

E alla fine è arrivata la notizia tanto attesa: la commissione europea ha presentato il Recovery Fund per 750 miliardi di euro (più della proposta di Francia e Germania), di cui 500 sarebbero i grants (trasferimenti a fondo perduto) e 250 i loans (prestiti). E l’Italia? Fa la parte de leone con (fino a) 82 miliardi di trasferimenti e (fino a) 91 miliardi di prestiti. Dunque all’Italia andrebbero fino a 173 miliardi dei 750 previsti (alla Spagna seconda 140).  Soldi che si aggiungono ai 1.100 miliardi del finanziamento pluriennale 2021-2027.  Gaudeaumus igitur?.. Macchè, ci sarà tempo per alzare i bicchieri. Primo perché è una proposta e come tale deve essere discussa e magari rimodellata in Consiglio europeo del 19 giugno (i 4 Paesi frugali e i Paesi dell’est promettono già battaglia..). Secondo perché i sussidi arriveranno in 3 o 4 anni, ma la necessità è ora. Inoltre, solo su di essi, calcolatrice alla mano, il saldo netto è di circa 26 miliardi, (poiché il nostro attuale contributo alla UE è di 56 miliardi). Diventiamo quindi prenditori netti e non più contributori netti, ma pur sempre di una quota esigua (ovvero l’1,5% circa del PIL italiano 2019). Terzo aspetto: il mix sovvenzioni/prestiti è un rapporto dato o discrezionale? Si possono rifiutare i prestiti? E quale condizionalità (tassi interesse, durata e monitoraggio su riforme) nel caso, comportano?

Sono negativo? No, realista forse. La proposta è (a mio avviso) buona: aiuta i Paesi più colpiti da un fenomeno (il Covid-19) simmetrico nella sua manifestazione, ma profondamente asimmetrico nei suoi effetti. Ma al momento è una (beautiful) “big picture” di cui non conosciamo i tutti i dettagli.  È di certo un primo passo verso una autorità fiscale centralizzata, ma soprattutto dimostra che l’Europa esiste e vuole giocare un ruolo come mercato unico. La proposta sta dando una boccata di ossigeno agli spread di questi Paesi, pensiamo ad esempio il  nostro, finalmente sotto i 200 bps. Però “pasti gratis non esistono”: l’Europa ci aiuta ma non è una paghetta: sovvenzioni e finanziamenti verranno divisi in tranche e serviranno per sostenere alcuni settori strategici per lo sviluppo dell’Europa (digitale, sanità, energia, trasporti..). Ma se poi non si utilizzano i soldi in tal direzione? Finiscono i flussi. Quindi… Non per contraddire alcuni nostri rappresentanti dello stato che esultanti stanno promettendo immediate riduzioni delle tasse, ma temo che non si sia letta bene la informativa… i soldi ci sono, ma verranno spesi “sotto un minimo di sorveglianza”. Dimenticavo: i soldi non si creano dal nulla, il Recovery fund si basa sulla emissione di una obbligazione comune, con un rating AAA (c’è la garanzia della comunità), quindi migliore  rispetto a quelli dei singoli Paesi. Qualcuno (BCE e/o investitori istituzionali e/o privati, non sappiamo ancora bene i dettagli)  la comprerà di certo. Ma poi questi soldi andranno restituiti. Come? Non abbiamo ancora troppi dettagli, ma potrebbe essere anche con nuove tasse comuni (di quella sulla plastic tax, se ne parla già). E magari saranno a carico soprattutto dei Paesi che saranno meno virtuosi. Siamo (finalmente) pronti ad accettare la sfida?