Sono ormai trascorsi trent’ anni da quando l’incontro con un corpo devastato dalla miseria ha cambiato la mia vita. Arrivavo dalla festa di matrimonio di un amico e indossavo un abito chiaro, come si usava per i giorni di festa. Mentre camminavo vicino alla piazza del Castello, sotto una panchina ho visto una ‘cosa’ che rantolava. Mi ha raggiunto il suo odore prima ancora che il suo volto, la sua disperazione e le sue mani si sono appiccicate al mio vestito candido e mentre lo aiutavo a sollevarsi sentivo di sprofondare nel suo stesso abisso. Una volta seduti sulla panchina, mi ha chiesto se lo portavo a casa mia. Avevo diciotto anni e un grande desiderio di fare qualcosa di bello della mia vita, e mi sono trovato spiazzato davanti alle laceranti e contorte forme di vita subumana di tante persone che, in realtà, abitavano solo a due passi da me e dai miei interessi. Così maturai una mia contemplazione delle forme, osservando come le dipendenze potessero prendere i corpi e contorcerli e renderli sensibili, così per poco tempo e poi lasciarli inabitati e soli. Come accadde a Michelangelo con il marmo del Mosè, che si è nato dall’arte di levare, cominciai a credere che, togliendo i pregiudizi e la miseria dal volto e dal corpo delle persone, fosse possibile riscattare tanta umanità abbruttita. Quell’incontro mi turbò, mi lasciò annichilito e, a malincuore, proseguii sulla mia strada, sporco e carico di pensieri, segnato in modo indelebile e senza difese: come se davanti ai miei occhi, oltre alla ragazza che mi piaceva, passassero tutti i desideri e le scelte che dovevo fare per dare un senso alla mia vita.
Nello stesso anno dopo il diploma partii per il servizio civile e cominciai a fare tanto, spendevo i miei giorni nell’aiutare e quando, dopo venti mesi, tornai alle mie precedenti attività, qualcosa si era rotto in modo irreparabile. Cominciai a perdere il gusto di suonare, di animare e di condividere con i miei amici spazi di finta libertà. Lasciai la “morosa”, il lavoro, la vita mi sembrava inutile e non soddisfacente. Fu allora che chiesi di ritornare in comunità e iniziai un lungo percorso di formazione tra il teorico e il pratico che maturò fino all’ordinazione sacerdotale, e da lì a pochi mesi l’assunzione della responsabilità totale della comunità, che era stata fondata e condotta da Don Enzo Boschetti, in odore di santità e tassello indispensabile della vita di accoglienza di Pavia e della Lombardia e del Piemonte.
A trent’ anni fui caricato di grandi responsabilità e cominciai a temere di non farcela davanti alle sfide e alle necessità di tanti giovani in difficoltà. Fu in questo periodo che cominciai a rimarcare la necessità di aprire un nuovo dormitorio, più in sintonia con le norme di sicurezza e di igiene e capace di accogliere un numero sempre più vasto di persone in difficoltà. Il trauma delle umiliazioni inflitte a tanti uomini e donne, però, non finì con quella esperienza di responsabilità ma mi accompagnò ancora per lunghi anni. Così mi risolsi a costruire case di accoglienza cercando di creare, grazie all’aiuto di esperti, una Architettura solidale e bella, perché anche gli svantaggiati e i poveri godessero di spazi che potessero innalzare la loro dignità, per la cura dei particolari e la sostenibilità economica e ambientale. Nacque da questa ispirazione la costruzione di mattoni per i minori, chiamata “casa dei Puffi”, perché i tetti e le porte erano colorati di azzurro. Il progetto fu possibile grazie all’aiuto del mio amico Maurizio. Egli era della mia stessa città e fu portato in comunità dal suo fondatore, don Enzo Boschetti, che lo rincorse dieci volte per strada, perché sua mamma faceva il lavoro più antico del mondo e la sera non poteva mettere a letto i suoi figli o preparare loro la cena. Ecco questo mio amico con cui ho suonato, ho cantato, che ho accompagnato perché potesse ritrovare il proprio figliolo e riprendere in mano la sua vita, era un artista e nella sua arte c’era un dolore, una lacrima, qualcosa che assomigliava all’arte di Dalì, con il suo Crocifisso pendente, con questa umanità che scivola dalla Croce, verso l’abisso più profondo del nostro io, e il mio amico e stato capace di ergersi dalle sue molteplici dipendenze. Le sue ferite, solchi di saggezza profonda ciò che lui ha vissuto l’ha trasfuso nella sua arte. Ciò mi fa pensare che, se l’opera più bella di Dio è formare l’uomo a sua immagine e somiglianza, ridonare dignità è l’arte della speranza. Dentro di me è ancora vivo il desiderio di realizzare luoghi belli, dove si possono accogliere le ferite degli uomini, le loro lacrime, abbracciare i loro corpi, perché possano trovare rifugio e ripartire ancora più forti, sprigionando gesti di solidarietà e d’amore in un ambiente sostenibile e bello. L’esperienza fatta alla Casa del Giovane di Pavia mi ha lasciato una grande consapevolezza: c’è un grande disegno, una perfetta armonia, un desiderio che nelle forme umane, nella morale e nella cultura ci imbattiamo nella preziosa esperienza dell’uomo. Il privilegio di essere stato dai banchi dell’Università, ai luoghi più estremi della povertà: nei dormitori, nei luoghi in cui la gente in qualche modo era alla deriva e si aggrappava a quel relitto che veniva offerto dai volontari, mi ha messo nella condizione particolare di osservare e imparare una lezione di umanità. L’esercizio dell’ascolto, guardare e stupirmi di quanta bellezza alberghi tra i relitti della società, tra i malati e la gente semplice, mi ha costretto a non essere indifferente ai drammi che si svolgevano sotto i miei occhi, così mi sono lentamente innamorato delle forme più strane di uomini e donne contorti. Un’esperienza particolare ha sbloccato definitivamente la mia paralisi di fronte alle necessità dell’altro. Ricordo di essere stato una volta, con un gruppo di amici, in Val Vigezzo e con noi c’era una ragazza che aveva gli arti artificiali al posto delle braccia, ma non li poteva muovere perché c’era un difetto nell’impianto elettrico, così con un cacciavite mi sono messo ad aggiustarla. Oggi sono sempre più convinto di essere in un mondo in cui davvero, senza l’aiuto dell’altro, non si può vivere! Tutto ciò mi ha portato a scelte non conformiste, sono stato attirato dal fatto che non si può vivere senza avere questo grande desiderio di costruire qualcosa che possa essere un rifugio per gli altri, un aiuto, una possibilità per emergere dalle situazioni difficili e non rassegnarsi. Mi sono anche un po’ innamorato della pragmatica della comunicazione, per cui c’è una semantica che rappresenta la punteggiatura del linguaggio, ma c’è anche una pragmatica, dove osservi come uno si pone di fronte a te, si chiude o si apre, e tu osservando aspetti particolari dell’uomo e della donna che è di fronte a te capisci che atteggiamento hanno di fronte la vita. Ho imparato così, anche a mie spese, a fidarmi delle persone, a stare vicino, a sopportare le fragilità. Scoprivo gradualmente che quelle fragilità si riflettevano dentro di me e questa è stata una delle esperienze più mistiche che io abbia mai provato. Cioè mi sono trovato ad essere uomo tra gli uomini, solidale con tutte quelle ragazze e giovani che ho incontrato in comunità e che mi aprivano il loro cuore per tutte le violenze subite e i maltrattamenti sopportati, sentivo di passare da un abbraccio ad un l’altro.
Ripensando a quei sentimenti, ancora oggi vivi dentro di me, ricordo che ho un desiderio grande: aprire un dormitorio femminile. Un luogo bello dove le donne vittime della violenza, possano alloggiare, fermarsi un attimo, riprendersi, ritrovare il loro sguardo la bellezza del loro volto e frenare un po’ le loro lacrime, sentirsi accolte e accompagnate a riprendere in mano la loro vita e offrirla agli altri. La vita è un dono che non puoi tenere per te. Ecco perché desidero realizzare anche un dormitorio maschile e per famiglie, basato su tre livelli di accoglienza. Il primo livello è di pronto intervento per chi, a qualsiasi ora del giorno e della notte, avesse bisogno di trovare un rifugio. Mi piacerebbe un luogo dove poter offrire, senza barriere, un letto dove ci si possa riposare, una doccia, una lavanderia, un cambio d’abito, perché sempre di più mi accorgo che siamo tutti naufraghi. Un secondo livello di questa accoglienza sarebbe la disponibilità di stanze pensate per loro, accolti con colori e confort, con una dimensione di rispetto della dignità dove si può consumare qualche pasto, ma lo si può fare in armonia, nel desiderio di aiutarsi. E poi un terzo livello di accoglienza, per cui anche i senza fissa dimora possano accedere a una casa a prezzo calmierato, per rientrare nella vita e poter così cominciare a spiccare il volo.
Ritengo che sia la realizzazione del dormitorio femminile che quella del dormitorio maschile o per famiglie mi permetta di completare l’opera di redenzione e di crescita promozionale per cui ho vissuto in tutta la mia vita. Ho scoperto che l’umanità è il dono più prezioso, non riesco a pensare ad un’opera d’arte più bella, mi sembra una formulazione ancora più grande di quella che è stato il Leonardo con il suo uomo Vitruviano. Solo valorizzando i gesti, le microespressioni nelle facce, i pensieri e gli sguardi e soprattutto l’umanità scartata, è possibile mostrare in essa qualcosa di preziosissimo, a cui avvicinarsi con timore e tremore, per condividere una vita che valga la pena di essere vissuta. Anch’io ho provato la solitudine, a volte mi è parso di aver smarrito il senso e la meta, mi ha spaventato la malattia, ma mi sono sentito ben rappresentato nel mio desiderio di verità e di crescita dalle storie di tanti che avvicinandosi a me sono stati in grado di farmi uscire dalle mie comodità. I senza fissa dimora mi hanno costretto ad aprirmi alla realtà, ho trovato molte difficoltà, molti ostacoli, non solo quelli burocratici, sono stato messo all’angolo e respinto in maniera pesantissima. Alle persone che in qualche modo si sono fidate ho potuto confidare questi miei desideri e il mio sogno di restituire una vita dignitosa a tanti fratelli e sorelle. Ma questo è progetto che possiamo realizzare solo insieme. Ecco non vorrei rimanere prigioniero dei miei sogni e dei miei desideri che sono nati soprattutto perché ho incontrato persone che ne avevano assoluto bisogno, mi piacerebbe condividere questa esperienza. Ecco perché ho bussato alle porte di Pietro Ripa, a cui sono grato, perché questo sogno prendesse forma con la scrittura e poi prendesse forma in qualcuno che entrasse nel progetto. Questa bella esperienza mi ha fatto bene, e, nonostante il male e l’indifferenza, cerco di vivere questo sogno come un appuntamento con tanti, che vorrei accogliere in nome della nostra ritrovata bellezza in questa umanità.
Nasce a Como nel 1962. Durante il servizio civile incontra Don Enzo Boschetti. E’ un incontro che gli cambia la vita e che lo porta ad imboccare la strada religiosa. Si laurea in Legge e diventa educatore professionale. Così, dopo la laurea in giurisprudenza, a soli trent’anni, è chiamato alla guida della “Casa del Giovane”, la struttura che Don Enzo ha creato per dare riparo e aiuto a giovani e adulti in difficoltà. Alla guida di questa importante casa di assistenza, don Franco è diventato uno stimolo di generosità e di solidarietà. Oggi è parroco della parrocchia Città SS. Salvatore di Pavia. Ha diretto il settimanale diocesano Il Ticino, ha fondato il Laboratorio di Nazareth per il lavoro dei Giovani, e oggi dirige la Caritas di Pavia. La sua la storia è quella di un esempio concreto di apostolato tra i bisognosi e punto di riferimento per la sua comunità