Aprile 2023

Il vitello d’oro che prende la rincorsa

Riassunto dalla puntata precedente: nel 2022, anno che ricorderemo a lungo per il carico di notizie nefaste sia a livello politico, sia a livello sociale e sia a livello economico, c’è stato un piccolo mercato di nicchia che ha raggiunto i livelli più alti di sempre. No, non sto parlando del petrolio o di qualche altra “commodity” che si infiamma quando tutto va a rotoli, ma mi riferisco al piccolo mondo dell’arte da collezione, e più specificatamente, mi riferisco agli strabilianti risultati battuti (e quindi con una patente di ufficialità) dalle maggiori case d’asta internazionali. Risultati così clamorosi che hanno aggiornato molti nuovi record, sia in termini di fatturati assoluti, sia in termini di singole opere, pezzi iconici che ispirano il mutevole gusto del collezionismo internazionale.

Fine del prologo e (probabilmente) delle belle notizie. Il mercato dell’arte non è nuovo a questo genere di clamorose performance: il 15 settembre del 2008 molti telegiornali internazionali aprivano le top news della giornata con (l’allora) nuovo record per artista vivente (Damien Hirst) e con la sua opera chiamata “Il vitello d’oro” battuta per più di 200 milioni di $. Peccato che la stessa mattinata Lehman Brothers avesse annunciato più di 600 miliardi di $ di debiti, di fatto anche esso un record (ancora imbattuto) del peggior fallimento bancario della storia capitalistica e le immagini degli (ex) dipendenti che uscivano con le scatole di cartone dalla banca, avrebbero fatto in un battibaleno il giro del mondo e dato avvio alla recessione più dura di sempre, dopo quella del 1929. (Più di 200 milioni di persone disoccupate e 16 trilioni di $ di ricchezza bruciata nella sola America).

Inizialmente si pensò che il mercato dell’arte fosse immune alla grande recessione, anzi, nei primi mesi del 2009 il mercato continuò a crescere con la stessa intensità con cui gli altri mercati scendevano a capofitto, salvo poi essere travolto da una bolla speculativa che perdurò per tutto il 2010.

La domanda allora nasce spontanea: quanto di questa euforia palesata nel 2022 rimarrà anche nel 2023 e quanto le condizioni di avversità già presenti sui maggiori mercati regolamentati si riverseranno nel breve periodo anche sul mercato dei beni da collezione?

Premesso che nessuno ha la palla di cristallo e alcuni esiti geopolitici (su tutti la vicenda Taiwan) potrebbero di nuovo sparigliare le carte, “a bocce ferme”, è a mio avviso possibile aspettarsi una correzione nel corso dell’anno, ma non per forza un crollo.

Proverò a essere più chiaro. Il mercato dell’arte, per sua natura, consolida i suoi risultati con un ritardo temporale rispetto agli elementi che li determinano. Tra la fase della raccolta di una opera d’arte e la sua vendita c’è un lasso di tempo in cui c’è la catalogazione e il necessario marketing di promozione dell’opera stessa. E questo periodo di tempo può arrivare anche ad un anno. Pensiamo quante cose possono accadere in un tempo così dilatato. Questo “differimento nei risultati non è così pronunciato negli altri mercati: in tempo reale possiamo ad esempio sapere quanto quota un barile di petrolio o una oncia d’oro. I mercati finanziari, ancora di più, scommettono invece sulle aspettative future: l’anno scorso sono andati male perché hanno previsto un periodo immediatamente successivo di contrazione economica (recessione che infatti dovrebbe palesarsi quest’anno). Quindi, seguendo questo ragionamento, gli effetti negativi della contrazione economica dovrebbero ancora manifestarsi sul mercato dell’arte.

Non solo. Anche la struttura dell’offerta, nel mercato dell’arte ha sue peculiarità uniche, dipendendo dalle così dette 3 D (Death, Divorce, Debt). Fatto salvo che la prima D non possiamo noi determinarla e la seconda D sarebbe meglio evitarla, una abbondante offerta di opere d’arte si verrebbe a consolidare solo dopo un ciclo economico recessivo (debt). La faccio ancora più semplice: quando la crisi morde, chi è nella necessità, sarà più motivato a privarsi di opere d’arte per fare cassa.

E anche la domanda in questo mercato risente delle avversità economiche: se la mia azienda o la mia professione annaspa perché riscontro ritardi nei pagamenti dei miei clienti, una delle prime voci che potrei accantonare è quella del leisure&pleasure. Tornerò a comprare oggetti d’arte, viaggiare o “coccolarmi” in momenti di maggiore fiducia sul futuro economico.

E a giudicare dalle nubi grigie (non nere) che molti analisti economici prefigurano per il prossimo futuro, è logico attendersi che piovaschi intensi possano presto colpire anche il mercato dell’arte.

Sarà allora un crollo? No, non sarei neppure così tranchant. Lo sviluppo del digitale post pandemia ha accresciuto il numero di transazioni, ha allargato la base dei clienti e ha dato molto più spessore ai fatturati.

In altre parole: il mercato è cresciuto e si è diversificato a livello internazionale e sarà dunque più difficile che possa subire le speculazioni selvagge del 2010. Ma questo non significa che sia esente da ribassi. Ma anche fosse, ed è la storia di qualunque mercato destinato a durare nel tempo, quando un indice arretra dai suoi livelli di massimo è solo perché sta prendendo la rincorsa verso nuovi picchi.

Stefano Raimondi-A ogni fiera la sua arte, a ogni arte il suo collezionista.

Le fiere di arte contemporanea rappresentano un’importante occasione per gli artisti, i collezionisti e gli appassionati di arte di tutto il mondo per incontrarsi, esplorare le tendenze artistiche del momento, vedere opere di grandi maestri o scoprire nuovi talenti emergenti. Tuttavia possiamo evidenziare tre modelli di fiera che si rivolgono a target di gallerie, ma anche di collezionisti, diversi. Potremmo suddividere le fiere in tre categorie principali: locali, a cui come titolo di esempio in Italia possiamo riferirci ad ArtVerona; glocali, come per esempio Arco a Madrid e globali come ArtBasel, che si svolge in Svizzera, a Parigi a Miami e Hong Kong.

Le fiere d’arte locali presentano le ricerche più sperimentali o i maestri più consolidati del proprio territorio, di cui sono capaci di trasmetterne l’identità, la storia e la direzione. Rimanendo sull’esempio di ArtVerona, la manifestazione ha accolto spesso gallerie emergenti italiane e di qualità così come le gallerie più note dei maestri dell’arte moderna, rivolgendosi così sia a un collezionista più established, con un buon potere di spesa, sia a un collezionista appassionato di novità e desideroso di scoprire, valorizzare e comprendere l’arte della propria nazione nel momento in cui si sta formando, con investimenti inferiori rispetto agli artisti già storicizzati. L’importanza di questa manifestazione risiede nel creare e “mettere a sistema” una comunità con dei valori e interessi ben definiti.

Le fiere d’arte glocali sono una combinazione di eventi locali e globali. Sono organizzate per includere gli artisti e collezionisti locali ma anche per attirare visitatori e partecipanti da altre parti del mondo. Le fiere glocali possono essere utilizzate per aumentare la brand identity della galleria e ampliare la propria rete di collezionisti. Si svolgono in città la cui scena artistica è particolarmente vivace, con sostegno delle amministrazioni comunali e delle istituzioni culturali della città.

Le gallerie partecipano spesso a entrambe queste prime due tipologie di fiere, così come i collezionisti spesso coincidono a livello locale ma si diversificano a livello glocale.

Le fiere d’arte globali sono eventi di grande portata che propongono le opere più importanti e costose dei maestri storici e degli artisti storicizzati. Le gallerie che partecipano a questi eventi sono spesso le stesse, e queste fiere sono diventate un circus che si sposta di nazione e di continente, ma con i medesimi protagonisti. E’ difficile trovare in queste manifestazioni grandi novità ma sono delle occasioni importanti per investitori e collezionisti per trovare proposte estremamente consolidate e sicure.

A ogni fiera la sua arte, a ogni arte il suo collezionista.

 

Stefano Raimondi (1981) è un critico e curatore  d’arte. È direttore artistico di ArtVerona. Dal 2010 è direttore del network culturale The Blank Contemporary Art con cui organizza annualmente il Festival d’Arte Contemporanea ArtDate e con cui ha curato le mostre personali di Nathalie Djurberg & Hans Berg, Eva & Franco Mattes, Jonas Mekas e Deimantas Narkevičius. È stato Curatore alla GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo dal 2011 al 2017, istituzione per la quale ha curato mostre personali di artisti internazionali come Cory Arcangel, Rochelle Goldberg, Rashid Johnson, Andrea Mastrovito, Ryan McGinley e Pamela Rosenkranz. Dal 2013 al 2017 ha curato Qui. Enter Atlas – Simposio Internazionale di Curatori Emergenti. Nel 2011 ha co-ideato BACO – Base Arte Contemporanea per la quale ha curato le mostre di Francesco Arena, Riccardo Beretta, Filippo Berta, Ettore Favini, Oscar Giaconia, Daniel Knorr, Jacopo Miliani, Israel Lund, Navid Nuur, Adrian Paci, Dan Rees e Guido Van Der Werve. Dal 2015 al 2017 è stato docente all’Accademia di Belle Arti di Verona. È membro dell’IKT – International Association of Curators of Contemporary Art.

Fireworks e Opacity: mercato dell’arte scoppiettante, ma rimane una scia di fumo nero

Puntuale anche quest’anno, arriva l’appuntamento con il Report, relativo all’anno 2022, “Il mercato dell’arte e dei beni da collezione: una ricerca a cui tengo molto e che porto avanti da più di quindici anni (ahia…), pubblicata con gli amici di Deloitte Private. Ricordo che il primo report era nato durante la grande crisi del 2008, dove provavo a capire se “l’arte fosse davvero un bene rifugio” e se potesse salvarsi dal crollo dei mercati dell’economia reale e finanziaria, allora in atto.

Ci sono evidentemente alcune analogie tra il 2022 e il 2008, entrambi definibili come “annus horribilis”, ma andiamo con ordine.

Mi spiace subito dare una brutta notizia a tutti coloro che si avvicinano con animo perennemente romantico all’arte: l’arte non è tecnicamente un bene rifugio, in quanto se è vero che in epoche di grandi tensioni sui mercati regolamentati, potrebbe mantenere o addirittura incrementare il suo valore, non è vero che questo valore “intrinseco” tenda a mantenersi pressoché costante nel tempo (condizione imprescindibile per essere definito bene rifugio). Anzi, l’investimento in arte è assolutamente volatile. Nel bene e nel male.

E nel 2022 (spoiler della ricerca) è stato decisamente un bene: mentre tutti i mercati crollavano sotto il peso dell’inflazione e delle tensioni geopolitiche, il mercato dell’arte registrava il suo fatturato (in termini assoluti) più alto di sempre.

Certo, sul risultato eccezionale, hanno avuto un peso determinante alcuni elementi non ricorrenti, quali i sensazionali risultati di alcune “single owner collection” (collezioni appartenute a un solo collezionista), tra cui spicca quella del co-fondatore di Microsoft, Paul G. Allen (battuta per oltre 1,6 miliardi $), e che complessivamente sono state pari a circa 2,6 miliardi di $.

Ma non solo: il perfezionamento delle strategie ibride e digitali avviate nell’immediato post Covid da un lato ed il rafforzamento delle partnership con operatori locali nei mercati emergenti, nonché il ritorno alla piena normalità nei mercati più maturi dall’altro lato, hanno favorito il raggiungimento di questi risultati record.

Provo a dirlo in maniera più semplice: gli operatori del mercato hanno saputo “coccolare” i collezionisti più consolidati che popolano usualmente le aste di maggior rilievo internazionale con una offerta di assoluta qualità (c.d. museale) e al contempo “strizzare l’occhio” a tutta una platea di nuovi collezionisti “Millennial”, arricchiti dal boom della economia digitale e caratterizzati da un diverso gusto e interesse su elementi iconici, (borse, sneaker, orologi…). Questa nuova nicchia di collezionisti è molto sensibile all’uso della tecnologia (solitamente comprano nelle aste online) e costituisce, per gli operatori di mercato, il nuovo potenziale target da fidelizzare e sviluppare per il futuro.

Se l’arte contemporanea dopo anni di primato ha ceduto lo scettro all’arte moderna (largamente rappresentata nelle collezioni record dell’anno) è anche vero che si assiste a un boom del segmento “ultra-contemporaneo”, rappresentato da artisti giovanissimi, accomunati da una pittura figurativa molto colorata, di facile richiamo sui social e particolarmente ambita da acquirenti più giovani.

È tutto oro che luccica?

Non proprio, perché se con la co-autrice del Report (Roberta Ghilardi) abbiamo individuato nella parola “fireworks” (fuochi d’artificio) la vivacità che ha caratterizzato i risultati del 2022, abbiamo altresì definito nella parola opacity” l’altra faccia della medaglia.

Un po’ come il fumo rimasto dopo l’esplosione del fuoco d’artificio, così è avvenuto nel 2022 nel mercato dell’arte: già nelle ultime aste dell’anno sono affiorati elementi di criticità, sia nel lato dell’offerta con un sostenuto uso delle garanzie; sia nel lato della domanda, in termini di maggior prudenza dei collezionisti, una complessiva riduzione della propensione al rischio ed un brusco raffreddamento dei risultati.

Inoltre, molte dinamiche sociali ed economiche in atto sembrano, almeno al momento, solo aver sfiorato il mercato dell’arte, per cui si consiglia una lettura dei risultati 2022 meno enfatica e più cautelativa.

Si rischia infatti di assistere a un “dèjà vu”: nella crisi globale del biennio 2008-2009 il mondo dell’arte aveva inizialmente resistito alla crisi che aveva messo in ginocchio le economie internazionali, per poi registrare un clamoroso tonfo appena dopo.

È anche vero che ci sono oggi alcuni elementi di salvaguardia che potrebbero decisamente attutire (l’eventuale) contraccolpo, ma per questi e altri approfondimenti, mi riservo una analisi supplementare nel prossimo N&M, lasciando ovviamente aperta la possibilità, per chi vorrà, di scoprirlo già partecipando all’evento in presenza o in streaming la prossima settimana:

https://cloud.marcom.deloitte.it/ArtFinancePresenza

Non ci saranno magari i fuochi d’artificio, ma neppure il fumo “opaco” che ne deriva…

Don Franco Tassone- La bellezza più grande è restituire la dignità ai senza fissa dimora

Sono ormai trascorsi trent’ anni da quando l’incontro con un corpo devastato dalla miseria ha cambiato la mia vita. Arrivavo dalla festa di matrimonio di un amico e indossavo un abito chiaro, come si usava per i giorni di festa. Mentre camminavo vicino alla piazza del Castello, sotto una panchina ho visto una ‘cosa’ che rantolava. Mi ha raggiunto il suo odore prima ancora che il suo volto, la sua disperazione e le sue mani si sono appiccicate al mio vestito candido e mentre lo aiutavo a sollevarsi sentivo di sprofondare nel suo stesso abisso. Una volta seduti sulla panchina, mi ha chiesto se lo portavo a casa mia. Avevo diciotto anni e un grande desiderio di fare qualcosa di bello della mia vita, e mi sono trovato spiazzato davanti alle laceranti e contorte forme di vita subumana di tante persone che, in realtà, abitavano solo a due passi da me e dai miei interessi. Così maturai una mia contemplazione delle forme, osservando come le dipendenze potessero prendere i corpi e contorcerli e renderli sensibili, così per poco tempo e poi lasciarli inabitati e soli. Come accadde a Michelangelo con il marmo del Mosè, che si è nato dall’arte di levare, cominciai a credere che, togliendo i pregiudizi e la miseria dal volto e dal corpo delle persone, fosse possibile riscattare tanta umanità abbruttita. Quell’incontro mi turbò, mi lasciò annichilito e, a malincuore, proseguii sulla mia strada, sporco e carico di pensieri, segnato in modo indelebile e senza difese: come se davanti ai miei occhi, oltre alla ragazza che mi piaceva, passassero tutti i desideri e le scelte che dovevo fare per dare un senso alla mia vita.

Nello stesso anno dopo il diploma partii per il servizio civile e cominciai a fare tanto, spendevo i miei giorni nell’aiutare e quando, dopo venti mesi, tornai alle mie precedenti attività, qualcosa si era rotto in modo irreparabile. Cominciai a perdere il gusto di suonare, di animare e di condividere con i miei amici spazi di finta libertà. Lasciai la “morosa”, il lavoro, la vita mi sembrava inutile e non soddisfacente. Fu allora che chiesi di ritornare in comunità e iniziai un lungo percorso di formazione tra il teorico e il pratico che maturò fino all’ordinazione sacerdotale, e da lì a pochi mesi l’assunzione della responsabilità totale della comunità, che era stata fondata e condotta da Don Enzo Boschetti, in odore di santità e tassello indispensabile della vita di accoglienza di Pavia e della Lombardia e del Piemonte.

A trent’ anni fui caricato di grandi responsabilità e cominciai a temere di non farcela davanti alle sfide e alle necessità di tanti giovani in difficoltà. Fu in questo periodo che cominciai a rimarcare la necessità di aprire un nuovo dormitorio, più in sintonia con le norme di sicurezza e di igiene e capace di accogliere un numero sempre più vasto di persone in difficoltà. Il trauma delle umiliazioni inflitte a tanti uomini e donne, però, non finì con quella esperienza di responsabilità ma mi accompagnò ancora per lunghi anni. Così mi risolsi a costruire case di accoglienza cercando di creare, grazie all’aiuto di esperti, una Architettura solidale e bella, perché anche gli svantaggiati e i poveri godessero di spazi che potessero innalzare la loro dignità, per la cura dei particolari e la sostenibilità economica e ambientale. Nacque da questa ispirazione la costruzione di mattoni per i minori, chiamata “casa dei Puffi”, perché i tetti e le porte erano colorati di azzurro. Il progetto fu possibile grazie all’aiuto del mio amico Maurizio. Egli era della mia stessa città e fu portato in comunità dal suo fondatore, don Enzo Boschetti, che lo rincorse dieci volte per strada, perché sua mamma faceva il lavoro più antico del mondo e la sera non poteva mettere a letto i suoi figli o preparare loro la cena. Ecco questo mio amico con cui ho suonato, ho cantato, che ho accompagnato perché potesse ritrovare il proprio figliolo e riprendere in mano la sua vita, era un artista e nella sua arte c’era un dolore, una lacrima, qualcosa che assomigliava all’arte di Dalì, con il suo Crocifisso pendente, con questa umanità che scivola dalla Croce, verso l’abisso più profondo del nostro io, e il mio amico e stato capace di ergersi dalle sue molteplici dipendenze. Le sue ferite, solchi di saggezza profonda ciò che lui ha vissuto l’ha trasfuso nella sua arte. Ciò mi fa pensare che, se l’opera più bella di Dio è formare l’uomo a sua immagine e somiglianza, ridonare dignità è l’arte della speranza. Dentro di me è ancora vivo il desiderio di realizzare luoghi belli, dove si possono accogliere le ferite degli uomini, le loro lacrime, abbracciare i loro corpi, perché possano trovare rifugio e ripartire ancora più forti, sprigionando gesti di solidarietà e d’amore in un ambiente sostenibile e bello. L’esperienza fatta alla Casa del Giovane di Pavia mi ha lasciato una grande consapevolezza: c’è un grande disegno, una perfetta armonia, un desiderio che nelle forme umane, nella morale e nella cultura ci imbattiamo nella preziosa esperienza dell’uomo. Il privilegio di essere stato dai banchi dell’Università, ai luoghi più estremi della povertà: nei dormitori, nei luoghi in cui la gente in qualche modo era alla deriva e si aggrappava a quel relitto che veniva offerto dai volontari, mi ha messo nella condizione particolare di osservare e imparare una lezione di umanità. L’esercizio dell’ascolto, guardare e stupirmi di quanta bellezza alberghi tra i relitti della società, tra i malati e la gente semplice, mi ha costretto a non essere indifferente ai drammi che si svolgevano sotto i miei occhi, così mi sono lentamente innamorato delle forme più strane di uomini e donne contorti. Un’esperienza particolare ha sbloccato definitivamente la mia paralisi di fronte alle necessità dell’altro. Ricordo di essere stato una volta, con un gruppo di amici, in Val Vigezzo e con noi c’era una ragazza che aveva gli arti artificiali al posto delle braccia, ma non li poteva muovere perché c’era un difetto nell’impianto elettrico, così con un cacciavite mi sono messo ad aggiustarla. Oggi sono sempre più convinto di essere in un mondo in cui davvero, senza l’aiuto dell’altro, non si può vivere! Tutto ciò mi ha portato a scelte non conformiste, sono stato attirato dal fatto che non si può vivere senza avere questo grande desiderio di costruire qualcosa che possa essere un rifugio per gli altri, un aiuto, una possibilità per emergere dalle situazioni difficili e non rassegnarsi. Mi sono anche un po’ innamorato della pragmatica della comunicazione, per cui c’è una semantica che rappresenta la punteggiatura del linguaggio, ma c’è anche una pragmatica, dove osservi come uno si pone di fronte a te, si chiude o si apre, e tu osservando aspetti particolari dell’uomo e della donna che è di fronte a te capisci che atteggiamento hanno di fronte la vita. Ho imparato così, anche a mie spese, a fidarmi delle persone, a stare vicino, a sopportare le fragilità. Scoprivo gradualmente che quelle fragilità si riflettevano dentro di me e questa è stata una delle esperienze più mistiche che io abbia mai provato. Cioè mi sono trovato ad essere uomo tra gli uomini, solidale con tutte quelle ragazze e giovani che ho incontrato in comunità e che mi aprivano il loro cuore per tutte le violenze subite e i maltrattamenti sopportati, sentivo di passare da un abbraccio ad un l’altro.

Ripensando a quei sentimenti, ancora oggi vivi dentro di me, ricordo che ho un desiderio grande: aprire un dormitorio femminile. Un luogo bello dove le donne vittime della violenza, possano alloggiare, fermarsi un attimo, riprendersi, ritrovare il loro sguardo la bellezza del loro volto e frenare un po’ le loro lacrime, sentirsi accolte e accompagnate a riprendere in mano la loro vita e offrirla agli altri. La vita è un dono che non puoi tenere per te. Ecco perché desidero realizzare anche un dormitorio maschile e per famiglie, basato su tre livelli di accoglienza. Il primo livello è di pronto intervento per chi, a qualsiasi ora del giorno e della notte, avesse bisogno di trovare un rifugio. Mi piacerebbe un luogo dove poter offrire, senza barriere, un letto dove ci si possa riposare, una doccia, una lavanderia, un cambio d’abito, perché sempre di più mi accorgo che siamo tutti naufraghi. Un secondo livello di questa accoglienza sarebbe la disponibilità di stanze pensate per loro, accolti con colori e confort, con una dimensione di rispetto della dignità dove si può consumare qualche pasto, ma lo si può fare in armonia, nel desiderio di aiutarsi. E poi un terzo livello di accoglienza, per cui anche i senza fissa dimora possano accedere a una casa a prezzo calmierato, per rientrare nella vita e poter così cominciare a spiccare il volo.

Ritengo che sia la realizzazione del dormitorio femminile che quella del dormitorio maschile o per famiglie mi permetta di completare l’opera di redenzione e di crescita promozionale per cui ho vissuto in tutta la mia vita. Ho scoperto che l’umanità è il dono più prezioso, non riesco a pensare ad un’opera d’arte più bella, mi sembra una formulazione ancora più grande di quella che è stato il Leonardo con il suo uomo Vitruviano. Solo valorizzando i gesti, le microespressioni nelle facce, i pensieri e gli sguardi e soprattutto l’umanità scartata, è possibile mostrare in essa qualcosa di preziosissimo, a cui avvicinarsi con timore e tremore, per condividere una vita che valga la pena di essere vissuta. Anch’io ho provato la solitudine, a volte mi è parso di aver smarrito il senso e la meta, mi ha spaventato la malattia, ma mi sono sentito ben rappresentato nel mio desiderio di verità e di crescita dalle storie di tanti che avvicinandosi a me sono stati in grado di farmi uscire dalle mie comodità. I senza fissa dimora mi hanno costretto ad aprirmi alla realtà, ho trovato molte difficoltà, molti ostacoli, non solo quelli burocratici, sono stato messo all’angolo e respinto in maniera pesantissima.  Alle persone che in qualche modo si sono fidate ho potuto confidare questi miei desideri e il mio sogno di restituire una vita dignitosa a tanti fratelli e sorelle. Ma questo è progetto che possiamo realizzare solo insieme. Ecco non vorrei rimanere prigioniero dei miei sogni e dei miei desideri che sono nati soprattutto perché ho incontrato persone che ne avevano assoluto bisogno, mi piacerebbe condividere questa esperienza. Ecco perché ho bussato alle porte di Pietro Ripa, a cui sono grato, perché questo sogno prendesse forma con la scrittura e poi prendesse forma in qualcuno che entrasse nel progetto. Questa bella esperienza mi ha fatto bene, e, nonostante il male e l’indifferenza, cerco di vivere questo sogno come un appuntamento con tanti, che vorrei accogliere in nome della nostra ritrovata bellezza in questa umanità.

 

Nasce a Como nel 1962. Durante il servizio civile incontra Don Enzo Boschetti. E’ un incontro che gli cambia la vita e che lo porta ad imboccare la strada religiosa. Si laurea in Legge e diventa educatore professionale. Così, dopo la laurea in giurisprudenza, a soli trent’anni, è chiamato alla guida della “Casa del Giovane”, la struttura che Don Enzo ha creato per dare riparo e aiuto a giovani e adulti in difficoltà. Alla guida di questa importante casa di assistenza, don Franco è diventato uno stimolo di generosità e di solidarietà. Oggi è parroco della parrocchia Città SS. Salvatore di Pavia. Ha diretto il settimanale diocesano Il Ticino, ha fondato il Laboratorio di Nazareth per il lavoro dei Giovani, e oggi dirige la Caritas di Pavia. La sua la storia è quella di un esempio concreto di apostolato tra i bisognosi e punto di riferimento per la sua comunità