Giugno 2024

Si stava meglio ai tempi della Lira

“Ai tempi della Lira costava tutto la metà!” L’abbiamo sentita tutti questa affermazione e probabilmente, in molte occasioni, l’abbiamo anche sostenuta ed avvallata.

Molti ancora oggi individuano nella scelta della moneta unica l’inizio della nostra “decrescita infelice”. Non ho la presunzione di trattare in poche righe una vicenda così annosa, che non ha, tra l’altro, una risposta univoca.

Più che demerito della moneta unica, parlerei piuttosto di incapacità da parte dell’Italia di adattarsi allavelocità di crociera” tenuta dai suoi nuovi compagni di viaggio, almeno da quando si è scelto di avere tutti la stessa moneta di riferimento.

Quando parlo di velocità di crociera intendo quel binomio composto da produttività e salari reali, che nella stragrande maggioranza degli altri Paesi area Euro è stato virtuoso e per noi decisamente vizioso.

Un passo indietro: per anni l’Italia è rimasta competitiva sui mercati internazionali grazie a una “svalutazione competitiva” della propria valuta. Semplifico e molto: non facevamo e vendevamo il prodotto migliore, ma spesso quello più economico. E più ci cullavamo dei nostri risultati straordinari di export e più la nostra produttività, le nostre imprese, peggioravano e perdevano competitività.

Poi è arrivato l’Euro e senza poter ricorrere a questo giochino, forti di un potere economico basato sulla capillare presenza di PMI “padronali” sui nostri territori, si è deciso che lo svantaggio della ridotta produttività si sarebbe recuperato con salari mediamente più bassi.

Alzate di scudi? Nulla di tutto ciò. Come mai?  Per un mix di fattori: la ridotta dimensione delle nostre PMI, un capitalismo familiare spesso mal conciliante con l’innovazione e il progresso tecnologico, un sistema di capitali gestito da alcuni poli di riferimento e per il resto piuttosto asfittico e infine una forza lavoro mediamente anziana, poco specializzata e poco istruita hanno contribuito, negli anni, a una forte resistenza all’incremento salariale.

Peccato che nel frattempo fossimo entrati in un mercato più grande, dove tutti gli attori (imprese e forza lavoro) erano e (continuano ad essere) pagati e valorizzati con la stessa moneta.

Ergo, mercati più produttivi tendono a pagare di più, ma soprattutto attraggono il personale più qualificato e/o talentuoso. I regimi fiscali agevolati introdotti (cosiddetto “rientro dei cervelli”) sono stati una risposta necessaria, ma tardiva e ancora blanda per recuperare il terreno perduto.

E così non meravigliamoci se anche quest’anno la classifica dell’Ocse su dati Eurostat ci consegna una fotografia impietosa sulla de-crescita dei nostri salari. E qui entra in gioco un convitato di pietra che è l’inflazione.  In virtù del balzo considerevole dell’inflazione nel 2022, i nostri redditi medi reali sono tornati ai livelli degli anni ’90. Gli anni delle Notte Magiche e Totò Schillaci per intenderci. Peccato che di magico ci sia ben poco.

I salari reali in Italia, secondo l’Ocse, erano già scesi del 2,9% dal 1990 al 2020. L’alta inflazione generata dalla guerra in Ucraina e della veloce ripresa post Covid ha solo aggravato la nostra situazione.

Ma i bassi salari hanno un impatto diretto anche sulla crescita demografica che impatta a sua volta sulla tenuta del welfare sociale, che a sua volta ha conseguenza sulla tenuta del debito pubblico…“che al mercato mio padre comprò” (cit.)

Insomma, nel campionato della produttività e della crescita salariale siamo ultimi in classifica in Europa.

Per fortuna che nelle cose che contano, come gli attuali europei di calcio in corso, ci prendiamo una sonora rivincita e siamo ancora i “Maestri” del bel giuoco!

Perché lo siamo ancora, vero?…

Nicola Ricciardi-A che punto è la notte: Art Basel e la temperatura del mercato dell’arte

A che punto è la notte? si sono chiesti per settimane gli operatori dell’arte man mano che si avvicinava Art Basel (11-16 giugno), la principale fiera d’arte al mondo e il momento dell’anno in cui è più facile registrare in diretta la temperatura del mercato. Dopo il generale raffreddamento del settore registrato negli ultimi mesi — con un sensibile rallentamento delle compravendite in galleria e con alcune recenti aste definite da più voci come “disastrose” — tutti guardavano alla fiera di Basilea come l’attimo in cui capire se la notte era destinata a farsi ancora più buia o se al contrario fosse possibile intravedere le prime luci dell’alba. E in un primo momento tutto lasciava intendere che lo scenario più plausibile fosse il secondo, il più positivo. Martedì sera, infatti, alla chiusura del primo dei giorni di anteprima dedicato ai top collectors, circolavano voci, rapidamente riprese dalla stampa di settore, di vendite importanti (tra tutte quella di un dipinto di Joan Mitchell del 1990, Sunflowers, presentato da David Zwirner e ceduto per una cifra intorno ai 20 milioni di dollari). Vendite a sei e sette cifre hanno continuato ad essere annunciate per tutto il corso della giornata successiva: 16 milioni di dollari per un Arshile Gorky (Untitled (Gray Drawing (Pastoral)), 1946–1947) da Hauser & Wirth, 6.75 milioni di dollari per Julie Mehretu (Untitled 2, 1999) da White Cube, 3.85 milioni di dollari per un bellissimo Robert Rauschenberg (Market Altar / ROCI MEXICO, 1985) da Thaddaeus Ropac, solo per citarne alcuni. Oltre alle cifre venivano riportate anche un discreto numero di transazioni, con numerose gallerie che hanno comunicato ai media una dozzina o più di vendite il giorno dell’inaugurazione (anche se è opportuno precisare che non essendoci possibilità di verificare le transizioni ogni numero è da prendere sulla fiducia, nella consapevolezza che i galleristi tendano a essere moderatamente ottimisti quando parlano con la stampa di settore). A rafforzare l’idea che le prime ore della fiera fossero incoraggianti ha contribuito anche un’insolita dichiarazione alla stampa da parte di Iwan Wirth, presidente di Hauser & Wirth, che recitava: “Nonostante il ‘doom porn’ che attualmente circola nella stampa artistica e tra gli addetti ai lavori, siamo molto fiduciosi nella resilienza del mercato dell’arte e il primo giorno di Art Basel ha confermato la nostra prospettiva. Il vantaggio del ritorno del mercato a un ritmo più umano è che i collezionisti internazionali più esigenti si stanno impegnando qui e ora per ottenere il meglio del meglio.” In molti hanno letto il buon avvio come una naturale risposta al ridimensionamento delle case d’asta e alla tradizionale alternanza che vede le vendite oscillare ciclicamente tra transazioni private e aste pubbliche. I prezzi delle opere nel primo mercato — nonostante la diffusa preoccupazione che possano essere diventati troppo alti — sono rimasti stabili o sono calati, e in questo scenario spesso è più facile per acquirenti e venditori effettuare transazioni per tramite delle gallerie (mentre quando il mercato è in crescita le opere vanno più velocemente in asta). Tuttavia, l’enfasi sulle vendite di grandi dimensioni ha solo in parte distolto l’attenzione dalle sempre più impegnative sfide che le gallerie si trovano oggi ad affrontare sul fronte delle trattative. Con il passare dei giorni l’atmosfera si è fatta rapidamente meno vivace e frizzante. Molte gallerie hanno iniziato a parlare di un “rallentamento” della fiera, complice il fatto che ad essere acquistate per prime erano state opere che i collezionisti stavano già cercando e sulle quali le gallerie avevano comunque lavorato con largo anticipo (o lavori spesso già venduti nelle settimane antecedenti alla fiera). Per tutte le altre trattative i tempi si sono dimostrati sensibilmente più lunghi, con l’acquisto d’impulso diventato ormai una rarità, specialmente per le opere con price point più elevati. Come raccontato alla stampa da un senior partner di Paula Cooper, “tutti stiamo lavorando il doppio più duramente per generare delle vendite”. I panni sporchi si lavano in casa, ed è difficile che le gallerie si espongano troppo quando le cose non girano al meglio. Tuttavia, muovendosi tra gli stand di Art Basel al terzo giorno della fiera era difficile non leggere una moderata preoccupazione sul volto di molti galleristi (ancora di più quando ci si spostava nelle fiere parallele, come ad esempio Liste, la manifestazione dedicata alle gallerie anagraficamente più giovani o emergenti, dove l’atmosfera era sensibilmente più cupa). A onor del vero, anche molte delle fiere che hanno preceduto Art Basel in questa prima metà del 2024 — inclusa miart, la fiera d’arte moderna e contemporanea organizzata da Fiera Milano, che dirigo da quattro anni — hanno fatto registrare trend simili. Anche ad aprile, la tradizionale finestra della manifestazione milanese, era infatti tangibile un grande entusiasmo il primo giorno di apertura, quello dedicato a VIP e selezionati collezionisti, con una flessione delle compravendite — e, di conseguenza, dell’umore — al trascorrere dei giorni. Interessante però riscontrare come molte gallerie con cui ho avuto la possibilità di confrontarmi proprio a Basilea abbiano confermato di aver chiuso trattative aperte in occasione miart solo a inizio giugno, a quasi due mesi di distanza dalla fiera, a testimonianza dell’attuale prudenza e rilassatezza del collezionismo. Se un tempo la cautela nel mercato dell’arte era l’eccezione, oggi possiamo considerarla quasi la norma. Parlando con gli addetti ai lavori, molti insistono sul fatto che il ritmo più lento abbia avuto come contraltare positivo un impegno più profondo, conversazioni più ponderate e legami più forti tra galleristi, artisti, collezionisti e curatori. Ma inevitabilmente questa lentezza genera a sua volta insicurezza, in quanto è sempre più complicato per una galleria pianificare con anticipo i propri investimenti. A fatti compiuti, questa Basilea non sembra comunque così diversa da quella del 2023 o dell’anno prima, e se consideriamo Art Basel un barometro della salute del mercato dell’arte, gli operatori del settore posono tirare un sospiro di sollievo per aver superato indenni o quasi l’ennesimo stress test: la notte non è buia come qualcuno temeva, anche se il sorgere del sole è ancora lontano. Resta tuttavia evidente che le fiere d’arte, da Art Basel a miart, non possono ignorare i mutamenti che stanno subendo anche solo le abitudini di acquisto. La risposta più scontata, ma anche più puntuale, a questa mutazione è senz’altro cercare di allargare il proprio pubblico di riferimento. È in tal senso che va letto il sempre maggior impegno di Fiera Milano nel costruire e far crescere — in misura e consapevolezza — una nuova classe di collezionisti, stimolando una domanda di arte ancora inespressa. Oltre a spronare la curiosità dei visitatori “tradizionali”, ad esempio la popolazione già solita frequentare miart, è sempre più fondamentale per una fiera allargare il proprio bacino di fruizione potenziale, includendovi comunità con alta capacità di spesa ma al momento meno partecipi, attraverso iniziative volte a comunicare come il collezionismo sia prima di tutto un esercizio di responsabilità. Chi compra arte seriamente deve farlo non solo per soddisfare un proprio desiderio personale ma anche con la consapevolezza di star supportando un sistema — quello delle gallerie, e di conseguenza degli artisti — che in questo momento storico ha bisogno più che mai di nuove energie e risorse per continuare a crescere in modo sano. Introdurre questi concetti in potenziali nuovi collezionisti non è banale, in quanto i meccanismi che muovono e regolano il mercato dell’arte sono, per loro natura, intrinsecamente opachi e stanno diventando sempre meno intellegibili negli anni post-Covid. Come ha dichiarato a The Art Newspaper Dominique Lévy, cofondatrice di Lévy Gorvy Dayan, in occasione di Art Basel, “Ciò che sta accadendo nel mercato dell’arte è difficile da descrivere, e ancor più difficile da decifrare. Il mondo ha dimenticato la parola ‘sfumatura’. Dal mercato dell’arte al mercato azionario fino alla situazione politica, tutto sembra essere un estremo o l’altro.” O è mezzanotte o è mezzogiorno, insomma. Tutto fa presagire però che dovremmo abituarci alle nuance e all’imprevedibilità del sole, senza scoraggiarci ma anche senza farci prendere troppo presto dall’entusiasmo, adattandoci e rispondendo a questo new normal con soluzioni concrete, nella speranza di trovare presto, per dirla con Battiato, “l’alba dentro l’imbrunire”.

 

 

Curatore, autore e manager culturale, vive e lavora tra Bergamo e Milano. Dal 2020 ricopre la carica di Direttore Artistico di miart, la fiera internazionale d’arte moderna e contemporanea di Milano. Dal 2016 al 2020, è stato Direttore Artistico delle OGR – Officine Grandi Riparazioni di Torino, dove ha organizzato oltre 20 mostre e più di 70 concerti di artisti internazionali, oltre a numerose rassegne musicali e cinematografiche. Tra il 2017 e il 2018 è stato membro del Consiglio di Amministrazione del Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato e nel corso degli ultimi dieci anni ha curato numerose mostre in Italia e all’estero. È autore di diverse pubblicazioni e testi critici e dal 2020 insegna regolarmente presso la NABA – Nuova Accademia di Belle Arti di Milano e presso l’Accademia di Belle Arti G. Carrara – Politecnico delle Arti di Bergamo.

“Presto che è tardi”

In questi mesi stanno uscendo numerosi studi sul livello di ricchezza raggiunto dalla generazione dei baby boomers (nati tra il 1946 e il 1964) e del travaso di ricchezza a cui (presto o tardi) assisteremo a favore delle generazioni appena successive, ovvero la generazione X o “di transizione” (nati tra il 1965 e il 1980) e Y o “Millenials” (1981-1996).

Nelle società occidentali il boom economico postguerra ha creato una ricchezza clamorosa: oggi è massima la percentuale di persone con abitazione di proprietà, come pure i diversi sistemi di welfare adottati nel dopoguerra hanno ridotto la povertà nella classe tradizionalmente più fragile (quella degli anziani).

Negli ultimi anni stiamo però assistendo ad un calo demografico pronunciato, che non solo metterà a repentaglio la tenuta dei sistemi pensionistici, ma determinerà anche grossi cambiamenti in termini di concentrazione della ricchezza. Un mio professore universitario sosteneva che il destino delle società occidentali sarebbe stato quello di assomigliare al Brasile, dove il divario sociale tra le classi è evidente da anni (auguriamoci per lo meno di riuscire a giocare a calcio altrettanto bene…).

È un aspetto che tocca tutte le società occidentali, anche se in Italia, complice il miracolo del boom economico degli anni ’60 e la successiva stagnazione della nostra economia nei decenni successivi, questo divario rischia di essere tragico.

Provo a spiegarmi meglio, facendo un confronto con l’economia americana.

Negli USA grazie ad una economia in salute da decenni, con una forte connotazione all’innovazione e allo sviluppo tecnologico si è sempre generata nuova ricchezza. Esemplare il caso Covid che ha favorito l’emergere di nuovi imprenditori digitali, divenuti estremamente ricchi nel giro di pochi mesi e mediamente giovani. Questo ha ancora una volta favorito una ridistribuzione della ricchezza complessiva.

In Italia invece, l’economia cresce da troppi anni ad un livello più basso della media europea e questo ha ancora di più cristallizzato la stratificazione sociale, con un grande squilibrio patrimoniale tra “benestanti” e il resto della popolazione.

Se ciò non bastasse, il Belpaese palesa anche allarmanti livelli di cultura finanziaria, ha mercati finanziari (e dunque opportunità) ridotte rispetto al livello assoluto di ricchezza detenuta e soffre di una burocrazia asfissiante che limita nuove iniziative imprenditoriali.

Il rischio che le nuove generazioni che si arricchiranno per via successoria si limitino ad un mero esercizio di amministrazione (nel migliore dei casi) e non di investimento è piuttosto evidente.

Non solo. Secondo recenti studi, la ricchezza media pro-capite di un over 65 in Italia si aggira sui 300 mila euro (valore degli immobili compreso), mentre quella dei giovani under 35 e già inseriti nel mondo del lavoro si aggira sui 150 mila euro (il picco è raggiunto nella fascia 45-54 anni, ovvero persone già da anni in attività con 330 mila euro pro-capite).

La sproporzione che si sta palesando nella generazione dei millenials tra (i pochi) che beneficeranno del passaggio generazionale e (i molti) che non riceveranno nulla, fa crescere enormemente la probabilità di spingere (nel tempo) una grossa parte di questi soggetti ai livelli di povertà.

E la cosa è particolarmente pericolosa perché il funzionamento dell’attuale sistema pensionistico, ad esempio, è basato sulla capacità reddituale delle classi lavorative: se i giovani non hanno la possibilità di mettersi in gioco perché non hanno capitali o hanno difficoltà di accesso perché chi li ha non li mette in circolo… beh, non serve una laurea in economia per capire dove voglio arrivare…

Se poi la base di lavoratori sta anche diminuendo per ragioni demografiche e la forza lavoro disponibile non è allineata ai nuovi standard di economia digitale richiesti… beh, non serve una laurea in sociologia per intuire la reazione di chi assisterà inerme al suo impoverimento.

Come se ne esce? Difficile prevederlo.

Una ricetta sicura di benessere non esiste, o meglio, quelle che potrebbero comportare una maggiore probabilità di ripartenza economica rischierebbero di essere molto impopolari: le “soluzioni patrimoniali” sono sempre state mal digerite in questo Paese e una prova di questo è anche rappresentato dall’attuale sistema successorio, particolarmente favorevole per gli eredi.

Personalmente, vedrei di buon occhio qualunque soluzione che faciliti e tuteli i giovani per entrare più velocemente nel mondo del lavoro, (allargheremmo subito la base dei contribuenti) e un ripensamento sull’attuale livello del nostro risparmio, che troppo spesso si cristallizza in giacenze e non crea valore in investimenti nell’economia reale.

Prendendo a prestito uno slogan televisivo di successo, direi però “presto che è tardi”. Il rischio di trovarci in un sistema completamente paralizzato tra qualche anno e affondare dunque tutti è evidente.

Cui prodest?