Luglio 2020

Ida Palombella-La digitalizzazione di moda e cultura ai tempi del Covid

L’emergenza sanitaria ha sconvolto la routine di tutti i settori economici, costringendo le aziende a immaginare nuove strategie per limitare inevitabili ripercussioni negative. In questo senso, settori tradizionalmente caratterizzati dall’offerta di “live experience”, come quello dell’arte e della moda, hanno dovuto accelerare il processo di digitalizzazione per far fronte ai nuovi limiti imposti dal distanziamento sociale. È stato proprio il settore della moda a rendersi conto, fin da subito, della necessità di ricorrere al digitale per gestire gli effetti dell’emergenza, ancor prima dell’inizio del lockdown imposto dalle misure di contenimento del contagio in Italia, per permettere ai giornalisti e ai buyer cinesi di partecipare da remoto a ben 54 sfilate della Milano Fashion Week dello scorso febbraio. Il progetto “China we are with you”, realizzato da Camera Nazionale della Moda Italiana, è stato visualizzato, attraverso le piattaforme web cinesi, da oltre 400 milioni di utenti. Pochi giorni dopo, con l’inizio dell’epidemia in Italia, alcune sfilate, tra cui quella di Giorgio Armani, sono state svolte a porte chiuse e trasmesse in streaming. L’opportunità rappresentata dal digital è stata quindi colta a ruota da altri operatori di settore: primo fra tutti, il British Fashion Council, che per non rinviare l’edizione maschile della London Fashion Week di giugno ha creato una piattaforma digitale dedicata agli addetti ai lavori e ai consumatori finali. Alla conversione digitale della settimana della moda di Londra, ha fatto seguito quella di Milano e di Parigi, che a loro volta svolgeranno nel mese di luglio le rispettive fashion week online. Allo stesso modo, sono anche numerosi i brand che hanno deciso di presentare le proprie collezioni online, si segnala tra tutti, Zegna che a luglio presenterà la collezione P/E 2021 con un format virtuale. Allo stesso modo, il settore dell’arte e della cultura, ha subito, forse in maniera ancora più incisiva, gli effetti del distanziamento sociale. Fin dall’inizio del lockdown numerosi musei, dal Museo Egizio di Torino, alla Pinacoteca di Brera e al Museo della Scienza di Milano, hanno creato contenuti originali digitali per rendere fruibili al pubblico i propri capolavori attraverso i social network. Analogamente, rappresentazioni teatrali e musicali di vario genere sono state rese disponibili via streaming o in diretta al pubblico a distanza, tramite le piattaforme online, portando così anche il mondo delle arti performative ad una forte svolta digitale, arrivando così ad un pubblico molto più vasto di quello raggiungibile fisicamente. Questa nuova modalità, dettata dall’emergenza, ha rivelato nonostante tutto anche qualche interessante vantaggio, quale quello di una maggiore possibilità di interazione con i consumatori, rivelandone i bisogni e i valori, e nel caso della moda, accrescendo la brand awareness e la brand loyalty. La digitalizzazione è anche un forte driver di sostenibilità: la possibilità di vivere determinate esperienze, sfilate o visite a musei e gallerie d’arte, senza la necessità di doversi spostare fisicamente, rende queste esperienze ad impatto ambientale zero (oltre che economicamente vantaggiose, in molti casi). I vantaggi della digitalizzazione del settore della moda, dell’arte e della cultura, non determineranno una sostituzione dell’esperienza fisica ma daranno la possibilità di integrarla e trasformarla per tenere conto della parallela dimensione digitale. Il risultato finale, sarà probabilmente un’accelerazione della fusione delle due dimensioni, fisica e digitale, in nuovi modelli di business che dovranno necessariamente tenere conto, dal punto di vista legale, di nuove e più ampie sfide sotto il profilo della protezione dei dati personali, della tutela della proprietà intellettuale, nonché della concorrenza sleale, di fronte alla messa a disposizione globale di dati e contenuti che tradizionalmente erano riservati ad un pubblico limitato.

 

Avvocato e Partner di Deloitte Legal, dove svolge il ruolo di Head of IP, Technology & Data Protection, fa parte della Fashion Luxury Service Line ed è Global Leader for Legal TMT Industry. Ha maturato una vasta esperienza nel diritto della proprietà intellettuale e information technology presso prestigiosi studi legali internazionali, dopo aver svolto l’attività di in house counsel nel settore del lusso presso Valentino S.p.A. E’ regolarmente speaker in occasione di eventi in materia di fashion law e IP in Italia e all’estero, coordina il master in Fashion Law dell’Alta Scuola Federico Stella dell’Università Cattolica di Milano ed è professore a contratto presso l’Università Cattolica. Ha assistito fondazioni, istituti bancari ed enti benefici nella gestione e tutela della proprietà intellettuale, sia nell’ambito di operazioni straordinarie sia nella gestione ordinaria e collabora regolarmente con la Camera Nazionale della Moda Italiana.

Ingot we trust!

Era il 1980 e il Time, celebre per le sue copertine iconiche, piazzava un lingotto d’oro nella sua prima pagina, con il titolo “Ingot we trust” , giocando sulla paronomasia tra “God” (Dio) e “Ingot” (lingotto d’oro). Sono passati 40 anni e la corsa del metallo giallo prosegue spedita segnando nuovi massimi dal 2012, (più del 10% da inizio gennaio) e consacrandosi come bene rifugio per eccellenza.

L’oro fisico, complice il corona virus che ne ha limitato l’estrazione è diventato merce rarissima.

Dalla maschere micenee al culto dei faraoni, dall’antico testamento alla Bibbia, dall’esser uno dei doni dei re Magi, al rappresentare uno dei sette tesori nel Buddishmo, l’oro non ha mai conosciuto né limiti territoriali, né storici, né religiosi che potessero limitare il suo mito.

Ma è stata la sua storica capacità di rappresentare la base per le valute di molti stati a consacrarne il valore. Dalle prime monete d’oro, coniate nell’Asia Minore nel 560 a.C. fino alla fine degli accordi di Bretton Woods (1971, con la fine della piena convertibilità dollaro in oro), la politica monetaria internazionale ha trovato nel metallo giallo il punto di equilibrio, da cui stabilire i rapporti di forza e valutari tra i singoli stati.

Fior fior di economisti sostennero che l’avvento della carta moneta scollegata dalle riserve auree, avrebbe ridotto l’investimento in oro drasticamente, limitandolo a quella porzione necessaria per realizzare monili di indubbio valore estetico. E in effetti all’inizio fu proprio così: negli anni ’70 il prezzo dell’oro collassò dagli 800 dollari per oncia ai 252 dollari nel 2001. Come ha fatto poi a risalire allora ai 1700 dollari e passa per oncia attuali? Gli economisti non avevano (probabilmente) fatto i conti con la paura che agita gli animi dell’uomo. Ogni volta che l’uomo teme gli effetti di una crisi economica, o peggio, una perdita di valore dei soldi che ha in tasca si rifugia in qualcosa di fisico che resista alla volatilità dei mercati.

Proprio come adesso, in cui l’uso di una politica economica estrema, sia nella componente monetaria che in quella fiscale spinge molti investitori a diffidare di cotanta generosità e diversificare se poi le cose dovessero naufragare di colpo. Una forma quindi di assicurazione più che un investimento speculativo, motivata dal fatto che l’oro è l’unico bene in grado di apprezzarsi quando tutto dovesse andare male.

Giusto? Sbagliato? Nessuno può dirlo. Però un tale disse “Dovete scegliere se avere fiducia nella atavica stabilità dell’oro oppure nella onestà dei membri del governo”. Quel tale era George Bernard Shaw, Nobel della Letteratura nel 1925. Parole del secolo scorso, davvero ancora attualissime.