Maggio 2022

Sereno variabile sui beni da collezione- speciale mercato dell’arte 2 di 2

Si è scritto la scorsa settimana di un mercato dei beni da collezione effervescente, con fatturati tornati non solo ai livelli dell’epoca pre-COVID, ma addirittura superiori. Un mercato completamente stravolto sia dal lato della domanda, sia in quella della offerta, caratterizzato da nuove tipologie d’arte e da una nuova geografia del collezionismo. Un mercato sempre più globale dove la tecnologia ha permesso di interconnettere le piazze di Hong Kong, Londra, Parigi e New York in simultanea, favorendo così una partecipazione senza precedenti e costituendo un cambiamento epocale. Un mercato che strizza l’occhio ai nuovi top spenders, spesso figli di una nuova economia, soprattutto digitale, con l’ingresso in scena di nuovi protagonisti: i millennial. Un mercato dove le case d’aste devono necessariamente rinnovarsi, per rispondere alle esigenze tecnologiche e al gusto estetico di questi nuovi giovani compratori. Un mercato, infine, dominato dai big spenders asiatici (cinesi soprattutto), sempre più attratti dall’estetica occidentale, ma parimenti corteggiati dalle majors occidentali. Queste sviluppano sempre più partnership con gli operatori locali, per potenziare l’offerta di arte orientale in loco e favorire l’interazione con le loro istituzioni artistiche. Ma qui finiscono probabilmente le belle notizie. La domanda che molti si pongono è capire come la nuova situazione internazionale possa impattare sul mercato dei beni da collezione. Stiamo assistendo a livello mondiale alla esplosione di dinamiche inflattive, a cui le varie Banche centrali stanno cercando di tenere testa con politiche monetarie sempre più restrittive, come pure stiamo vivendo, sulla nostra pelle, rallentamenti economici che non si sono (ancora) trasformati in fasi recessive. La guerra e le conseguenze che essa genera, sia in termini diretti sul livello dei prezzi, sia in termini indiretti sul sistema di sanzioni che inibiscono il commercio internazionale, hanno già determinato una pesante correzione dei mercati dell’economia reale e soprattutto di quelli finanziari. Il mercato dell’arte, ad oggi, sembrerebbe ancora non direttamente toccato da questa dinamica così negativa. I due record registrati negli ultimi giorni (l’iconica Shot Sage Bleu Marylin di Andy Warhol venduta per $ 195 Mln e il nuovo record mondiale per una fotografia con le Violon d’Ingres di Man Ray venduta per $ 12,4 Mln) e in generale la vivacità delle ultime aste farebbero pensare a un mercato al di fuori dei cicli di storno. Guardando al passato, tuttavia, si è già assistito ad un fenomeno simile (mi riferisco alla grossa crisi del 2008) che con un ritardo di circa 1 anno si è poi trasferita anche sul mercato dei beni da collezione, causando un clamoroso sboom. Va detto che allora c’erano condizioni di partenza diverse e il mercato dei beni da collezione di allora era molto “sottile” (per usare un termine finanziario) e quindi più soggetto alla speculazione. Le condizioni macroeconomiche attuali, rispetto a quelle del 2008 non incorporano almeno al momento, una crisi di liquidità e neppure di solvibilità. Tuttavia, una considerazione generale va fatta: qualsiasi mercato, a prescindere dal bene trattato, basa il suo successo sul livello di fiducia nel futuro e sulle capacità di dinamismo dei suoi attori. Sul secondo punto gli operatori hanno dato ampie garanzie di adattamento alle mutate condizioni della domanda causa pandemia, sul primo punto invece, se le condizioni macroeconomiche dovessero ulteriormente peggiorare e intaccare il ciclo produzione-occupazione-consumo, è logico supporre che anche il mercato dell’arte non riesca a rimanerne del tutto esente. Come nelle giornate di sole, si avvistano cirri minacciosi all’orizzonte ed è opportuno avere un ombrello alla bisogna, così forse converrà scrutare con attenzione le evoluzioni nel cielo del mercato dell’arte. Consapevoli però di una grande certezza: anche nel caso di rovesci importanti, non potrà piovere per sempre. Ma questa è la storia non solo del clima, ma anche dei mercati. Qualsiasi mercato.

Giovanni Gasparini- L’Arte divisa fra passione e finanza

I numeri decisamente positivi che emergono dalle aste di Maggio a New York suggeriscono un mercato dell’arte forte e de-correlato ai mercati tradizionali, quindi ideale per investimenti alternativi in questo frangente di incertezza ed elevata inflazione. Ci si deve chiedere quanto rappresentative siano queste aste rispetto al mercato in generale: il livello di prezzi elevatissimo le rende il territorio di caccia dei multimilionari che hanno visto la loro disponibilità di liquidi incrementare nel corso della pandemia.  Questo stato di salute sembra divaricarsi sempre di più dalla realtà delle gallerie che non trattano lavori milionari. Il mercato dell’arte si sta cristallizzando in due parti: da un lato investitori e speculatori serviti dalle poche grandi case d’asta sempre più simili ad intermediari finanziari ma non ancora regolamentati come tali, dall’altra quei (pochi?) oramai rimasti che si interessano agli aspetti storici, culturali ed estetici dell’arte, sostenendo un sistema di gallerie d’arte sotto pressione. E’ la domanda a determinare i cambiamenti strutturali del mercato. Il ventennio di spinte da parte della finanza per appropriarsi del mercato dell’arte e renderlo compatibile alle logiche di investimento speculativo è giunto al suo apice con l’esperimento degli NFT. Poiché le opere d’arte esistenti continuano ostinatamente a rimanere fisicamente non uniformi, nonostante i tentativi di artisti venduti al mercato come Damien Hirst e la sequela dei suoi dipinti ‘Spot’ e ‘Spin’, si è costituito un mercato paralleloderivato” in cui si scambiano contratti di possesso di ‘cose’ che all’occasione possono anche essere immagini. C’è voluto l’atto di prostituzione di un fondatore del mercato per sostenere la finzione che un NFT potesse aver a che fare con l’arte e quindi raggiungerne i prezzi intangibilmente assurdi raggiunti di recente. L’apporto essenziale delle case d’asta è stato offrire la loro vetrina pubblica e ‘prestigiosa’ vendendo la propria credibilità pluricentenaria per il famoso piatto di lenticchie, poco meno di 10 milioni di dollari in questo caso, per coprire una transazione di insider trading che sarebbe verosimilmente vietata in qualunque mercato regolamentato. In ogni caso stiamo perdendo tempo: il mercato NFT (anche di quello che alcuni si ostinano a porre sotto l’etichetta arte) è un mass market di scommesse su prodotti derivati in un mercato senza margin calls, in cui il venditore non può che vincere e il compratore sperare che ci sia qualcuno meno cosciente cui rivendere in fretta. E si sta già squagliando come neve al sole, poiché è funzionale al reimpiego di ‘monopoly money’ che a loro volta stanno inevitabilmente crollando, ovvero i crypto-oggetti piramidali nati per trovare sfogo ad una tecnologia di cui francamente non sappiamo che farcene: soluzione a problemi inesistenti. Ma non sono solo gli NFT a rappresentare il cancro della finanziarizzazione del mercato dell’arte. Nella parte alta del mercato l’utilizzo indiscriminato delle garanzie di parte terza manipolano i prezzi delle opere evitando che possano svalutarsi, mentre nel mercato ‘emergente’ le case d’asta rinforzano l’azione di speculatori che compiono operazioni “pump and dump” inammissibili in qualsiasi mercato minimamente regolamentato. Le garanzie riguardano il mercato delle ‘blue chip’, i titoli affermati in cui a contare è quasi esclusivamente il nome dell’artista e la volontà delle controparti di strutturare un derivato sotto forma di opzione. E i garanti solitamente hanno posizione come ‘market maker’ di alcuni artisti da loro garantiti, inflazionando artificialmente i prezzi senza che ciò risulti pubblicamente. La speculazione invece si focalizza su giovanissimi artiste/i che rispondono a determinati criteri di marketing ‘alla moda’ del momento spingendo artificialmente i loro prezzi con moltiplicatori anche di 100 volte nel giro di un anno; quale sia il lavoro in vendita è sostanzialmente irrilevante, complice anche un lunghissimo processo della critica postmoderna concettuale che ha ridicolizzato l’aspetto materiale ed estetico dell’opera d’arte. Si va verso la separazione e malvissuta convivenza fra due mercati, uno ancora definibile ‘dell’arte’ e dominato da gallerie e case d’asta medio-piccole, in cui valgono i criteri di valutazione del valore basati sull’opera, e l’altro dedicato a chi desidera un prodotto finanziario denominato ‘arte’, finalmente addomesticato ai criteri cari alla finanza.

 

Consulente nomade nel mondo dell’arte, a seguito di un decennio speso basato a Londra nel mondo delle case d’asta internazionali. Collabora da 12 anni con ArtEconomy24 del Sole 24 Ore e, dopo aver fondato e diretto per 7 anni il miglior corso di Master sul mercato dell’arte a livello internazionale, continua la sua missione educativa sporadica presso la SDA dell’Universita Bocconi, ove ha ottenuto la Laurea in Economia Politica. Più recentemente, ha conseguito un MA presso l’Universita di Manchester. Fra i suoi interessi oltre ovviamente all’arte, le auto d’epoca e la nautica, in particolare a vela, e l’aeronautica. E’ moderato collezionista di libri, arte, orologi e francobolli.

L’arte diventa “Phygital”

Anche quest’anno ho avuto l’onore di redigere la ricerca annuale sullo stato di salute del mercato dell’arte internazionale, con gli amici di Deloitte. Il tema della finanza dell’arte è del resto un tema che mi appassiona ormai da circa quindici anni (tempus fugit): capire come i mercati dei “luxury goods” reagiscano in tempi di instabilità economica, offre sempre interessanti spunti anche per capire meglio le implicazioni con le dinamiche finanziarie e dell’economia reale. Ma bando alle ciance e vediamo cosa è successo e cosa potrebbe ancora accadere. Il biennio pandemico ha determinato una profonda trasformazione del mercato, che si è affidato all’innovazione e a nuove forme di partnership tra gli operatori. Del resto, è quanto accaduto anche in altri mercati più ampi e più regolamentati. La digitalizzazione è stata l’unica via per mantenere vive le relazioni con il proprio pubblico di riferimento per le case d’asta e, se possibile, sviluppare anche nuove relazioni: si parla infatti di Phygital, il cui mix virtuale e presenza in sala è basato sulla cosiddetta asta ibrida.Primum vivere deinde philosophari” amava ripetere la mia professoressa di latino. E in effetti la svolta tecnologica effettuata “per limitare i danni”, si è presto invece trasformata in una formidabile via d’accesso a nuovi mercati e nuovi clienti. Il problema era semmai intercettare una domanda fortemente trasformata, sempre più dominata dal digitale e dalle giovani generazioni, che hanno portato sul mercato nuove esigenze, nuove abitudini d’acquisto e un nuovo gusto. E così le case d’aste (i cui battuti sono stati alla base dell’analisi) hanno saputo sviluppare nuovi clienti (mediamente il 40% per le più grandi case d’asta internazionali), educando invece i già clienti e meno avvezzi alla tecnologia, all’uso del digitale. Il 2021 è stato un anno di fatturati record, non solo rispetto al 2020 (ça va sans dire, con un +67,4%), ma persino rispetto ai livelli pre-Covid del 2019 (+17,7%). Il tutto impreziosito dal fatto che l’offerta ha annoverato numerosi lotti di qualità, senza avere però il pezzo straordinario (come è stato il Salvator Mundi nel 2017, ad esempio), anche se una collezione soprattutto (quella Macklowe) ha sicuramente aiutato sul fatturato complessivo. L’attenzione per autori meno quotati, contemporanei storicizzati e/o emergenti, ma dal solido background artistico, ha trascinato al rialzo il mercato, ma anche opere di indiscusso valore, come un “old masters” di Botticelli (terzo miglior top lot dell’anno) hanno contribuito al fatturato record.  Stiamo parlando di opere che erano già pronte per il mercato anche l’anno prima, ma che il contesto di incertezza ha consigliato di attendere momenti più propizi per una più consona valorizzazione. E’ boom dei compratori asiatici, sempre più interessati ai modelli di estetica occidentale, ma anche molto sensibili all’acquisto dei cosiddetti Passion Assets (gioielli, orologi, vini pregiati…) che complessivamente sono cresciuti nel fatturato del +44,2% sul 2020 e del +11,8% sul 2019. Ci sono poi dei fenomeni in ascesa che è opportuno segnalare, in attesa di un definitivo consolidamento. Il primo è sicuramente l’esplosione delle aste “online-only”, dove vengono offerti lotti di minor qualità, ma che richiamano l’interesse di una platea sempre più giovane, economicamente solida e propensa alla diversificazione. In tal senso si inserisce l’esplosione dell’arte digitale, con particolare riferimento alla crypto art, con gli NFT che attraggono nuovi potenziali acquirenti, soprattutto Millennial. La presenza degli NFT è stata celebrata dalla vendita per oltre $69,3 Mln dell’opera dell’artista Beeple, divenuta la prima opera d’arte digitale mai venduta ad un’asta. Continua a crescere l’attenzione nei confronti di diversità e inclusione anche nel mondo dell’arte: la sola Christie’s ha registrato 66 nuovi record d’asta per artiste donne e 47 nuovi record per artisti BIPOC (black, indigenous and people of color). Cresce anche la sensibilità per la sostenibilità e sempre di più sono state le aste organizzate dalle majors per beneficienza. Insomma, è stato un anno luminosissimo per il mercato dell’arte, ma nubi cariche di inflazione, rallentamenti economici, forse recessioni e fragili equilibri geopolitici si avvicinano sempre più. Come reagirà il mercato dell’arte? Questo lo vedremo la prossima puntata…

Marco Trevisan-Il processo produttivo artistico e una nuova economia dell’arte

Nell’ultima Biennale Arte di Venezia, la curatrice Alemanni ha annunciato che “solo l’arte racconta l’attualità in modo innovativo”, parlando poi dei tre temi cardine della presente edizione: la rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi; la relazione tra gli individui e le tecnologie; i legami che si intrecciano tra i corpi e la terra che abitiamo. Se prendiamo in esame il secondo di questi temi, è evidente come l’innovazione stia non solo nel modo di raccontare dell’arte, ma anche nel processo produttivo che la riguarda. Quello che spesso si dimentica è che il vero ambito nel quale si fa ricerca e innovazione, con un impatto anche sul lato economico non solo del sistema arte, è quello della produzione artistica. E che soprattutto ci aiuta ad avere una idea di futuro. La società contemporanea ha difficoltà nel definire una idea di futuro, ma ne conserva un imprescindibile bisogno. La crisi in epoca di pandemia non è solo economica, ma ha a che fare con l’identità e la visione. I concetti di progresso e di innovazione sono da sempre il motore che fa evolvere la società e scrive la storia dell’uomo. Per creare una idea di futuro, però, è necessaria la narrazione, dobbiamo essere in grado di raccontarcelo e immaginarcelo, ed è qui che le arti entrano in gioco. L’arte non può avere solo un ruolo consolatorio – come è avvenuto spesso nella fase di lockdown dell’epoca pandemica – o di ricerca di investimento o di status symbol con il mercato. Tutto ciò è ben presente nel progetto Futurelab di Ars Electronica di Linz, che da anni focalizza la sua ricerca sull’interazione dell’uomo con la tecnologia, utilizzando l’arte per rendere visibili e tangibili le implicazioni per la società. È un luogo dove scienziati, tecnici, manager d’azienda e artisti costituiscono gruppi di lavoro creando una sintesi di linguaggio, lavorando su temi e in tempi concreti e definiti. Futurelab si avvale sia di contributi pubblici e sia di grandi aziende, che sanno che la vera innovazione risiede nella creatività e nella collaborazione di più tipologie di menti. Succede così che BMW e Mercedes finanzino progetti sulla mobilità senza autista, che Intel lo faccia per il volo senza pilota, che SAP indaghi nuove formule di distribuzione del cibo, che gli ospedali collaborino con aziende, scienziati e artisti per formulare nuove idee di protesi più umanamente accettabili. Deve essere, tuttavia, ricerca che abbia un impatto per lo sviluppo della società nel suo complesso. Questo fa parte anche di una filosofia – di apprendimento prima e di lavoro poi – che si chiama STEAM, dove la A di Arts si è aggiunta a Science, Technology, Engineering and Mathematics. All’inizio del XXI secolo si è cominciato a parlare di STEAM, perchè si è scoperto che anche le professioni più apparentemente tecniche, come quelle dei programmatori, venivano svolte con più efficacia, ingegno e produttività se associate ad un approccio più umanistico e creativo. D’altronde lo stesso Einstein, oltre ad essere un leggendario matematico, era anche un appassionato violinista. Ed Alan Kay, uno dei padri della programmazione moderna e uno degli inventori del computer portatile e delle interfacce grafiche, ha lauree in matematica e biologia molecolare, ma è stato anche pittore e chitarrista jazz professionista. Per non parlare del rapporto tra arte e big data. La Data Art – l’arte prodotta elaborando o utilizzando i “big data” – sfida il mito dell’artista romantico, offrendo nel contempo un approccio artistico fondamentale nell’era digitale in cui viviamo. Molti artisti usano come materiale i dati grezzi che sono un prodotto delle nostre società (in primis, tramite i nostri telefoni e i social media) per “rendere visibile l’invisibile”, creando un ponte diretto tra macroeconomia ed individuo. Uno dei primi dipartimenti di Data Art è stato creato da Google e dato in mano ad Aaron Koblin, un artista. Nel 1995 Negroponte previde che la multimedialità avrebbe colmato la dicotomia tra tecnologia e arte. Citava l’esempio, già allora in atto, dell’industria dei videogiochi, con apparecchi più potenti di quelli usati per compiti professionali, sostenendo addirittura che l’industria dei videogiochi era più avanti della NASA: la qualità dell’hardware per giocare è sempre superiore a quella dei PC utilizzati per altre attività. Le sue previsioni si sono confermate esatte, ed oggi la gamification è forse il settore più evoluto che interfaccia arte ed economia. L’arte oggi può avere una sua funzione pratica nella società, senza negare quella di tensione verso la perfezione e il bello, o di creazione di pensiero. Questo ruolo eventuale dell’arte è cresciuto con il crescere dello sviluppo scientifico e tecnologico, ed oggi diventa uno dei punti cruciali del nostro sviluppo di esseri umani. Chi scrive, in un recente libro, l’ha chiamata “ars factiva”, riferendosi ad essa come ad arte efficace, produttiva, ma ars factiva significa anche, letteralmente, produzione artistica. È arte che dialoga con il mondo delle imprese, della tecnologia, dell’educazione, della società nel suo complesso, ma che sa produrre se stessa in maniera creativa e innovativa. Che non si basta. Che cerca dialoghi. E che viene cercata. Molti artisti lavorano in un ambito di sperimentazione e le aziende sono sempre più interessate a collaborazioni. Il processo di produzione dell’arte è cambiato, ed è sempre più sostenuto sia da istituzioni che da fondi privati, interessati a lavorare con artisti e designer che utilizzano le tecnologie o fenomeni scientifici che essi stessi utilizzano in chiave creativa e critica. Già negli anni ’60 la Bell (telecomunicazioni) forniva mezzi e ricerche per la sperimentazione ad artisti come Rauschenberg e John Cage, ed è stato uno dei primi esempi di un modello che negli anni, seppur lentamente, si è sviluppato. Ma nell’ultimo decennio, complice una espansione decisa dell’arte digitale, ha avuto un incremento netto.  I finanziatori mettono a disposizione i mezzi per la ricerca, la tecnologia e anche i professionisti, ma allo stesso tempo possono interferire sulla libertà del processo artistico, e scongiurare tutto ciò è oggi uno dei compiti dei curatori coinvolti, il cui profilo sta cambiando parallelamente.  Quello che è certo è che siamo già dentro ad una nuova era nella quale economia, tecnologia, scienza e arte, ognuno con i propri obiettivi, collaborano in vista di un progresso che ha nuovi parametri ed eccitanti opportunità.

 

Padovano, classe 1970, è stato responsabile relazioni corporate per il Guggenheim di Venezia, Communication Manager per FMR Art’è Usa da New York, direttore di Affordable Art Fair Italia (dopo aver importato il progetto internazionale) e Direttore di Christie’s Italia. Oggi è art advisor e direttore della Fondazione Alberto Peruzzo, oltre che socio fondatore di One Stop Art (servizi di consulenza nel mondo dell’arte). Nel 2021 ha pubblicato con Scheiwiller-24 Ore Cultura il libro “Ars Factiva. La bellezza utile dell’arte”, sul rapporto tra arte contemporanea e società, e tra arte e tecnologia.

Le bombe del caos

Ha stupito inizialmente alcuni commentatori il fatto che campi, silos e magazzini ucraini venissero bombardati dai missili russi fin dai primi giorni di guerra. Dietro all’azione militare, si nasconde tuttavia una strategia ben precisa, che mira a scatenare una serie di effetti relativi all’aumento dei prezzi del cibo e dell’energia a livello mondiale. Partiamo dall’ effetto più immediato: l’Ucraina è un paese essenzialmente agricolo, non a caso chiamato il granaio d’Europa e distruggere i suoi raccolti, significa distruggere la sua fonte principale di reddito. Il grano invernale (in raccolta a maggio) è coltivato in alcuni casi fino al 80% delle pianure delle province del sud. Non solo. L’Ucraina rappresenta il 9% (30% con la Russia) delle esportazioni globali di grano (ma anche il 16% di quelle di mais, e il 42% di quelle di olio di girasole). A marzo, il grano ucraino esportato è stato solo un quarto di quello normalmente venduto nei periodi anteguerra. Con i porti ucraini chiusi e gli accordi sui cereali russi in pausa, a causa delle note sanzioni, 13 milioni e mezzo di tonnellate di grano (16 milioni di mais) sono attualmente congelati nei porti del Mar Nero, senza contare che i premi assicurativi di spedizione di questi carichi sono sensibilmente aumentati. La combinazione nefasta di minor offerta di materie prime alimentari, cattivi raccolti causa siccità (avvenuto a livello globale) e costi dei fertilizzanti alle stelle, ha determinato un livello di prezzi mai visto sui cereali e suoi derivati. La dinamica inflattiva alimentare ha scatenato anche e in parte quella energetica: grano, mais, bietola, canna da zucchero, sono alla base dei biocarburanti (in tutta l’Unione europea c’è l’obbligo ad esempio di aggiungere a benzina, gasolio e metano una quota di circa il 10% di biocarburanti) e di necessità, queste coltivazioni sono state (o stanno per essere) riconvertite ad uso alimentare, con un inevitabile aggravio del prezzo finale del combustibile energetico. Da ultimo, c’è un possibile effetto geopolitico, dietro a questa azione militare: numerosi Paesi, tra cui Somalia, Senegal, Egitto, Yemen, Afghanistan, Etiopia, Siria dipendono da Russia e/o Ucraina per i rifornimenti di grano. Se la guerra continuerà a lungo, queste nazioni, già gravate dai debiti da pandemia, chiederanno nuovi aiuti al Fondo Monetario Internazionale. Il rischio che deflagri una fame mondiale, soprattutto in questi Paesi più poveri e a più alta instabilità politica è molto concreto: il WFP (programma alimentare mondiale) in uno studio di due settimane fa, ha dichiarato che il 2022 potrebbe essere un anno “di fame catastrofica, con 323 milioni di persone nella morsa della fame in 38 Stati sull’orlo della carestia”. Il che comporterebbe una nuova stagione di disordini sociali, visto che le spese per l’alimentazione sono ancora quelle principali in molte economie in via di sviluppo , come già paventato in un Nuvole e Mercati di due mesi fa: https://nuvolemercati.it/2022/03/11/a-pane-e-gas/. È attribuita ad Einstein una frase che recita “Uno stomaco vuoto non è mai un buon consigliere politico”. Speriamo allora di non fare presto indigestione di cattive idee politiche.

Luca Giacopuzzi-Che fine fa il patrimonio digitale di un individuo

Con una pronuncia del 10/02/21 il Tribunale di Milano ha accolto il ricorso promosso, in via d’urgenza, dai genitori di un ragazzo deceduto un anno prima per ottenere, di fronte al diniego di Apple, i contenuti digitali del proprio figlio, coinvolto in un incidente stradale. Nel sinistro il telefono cellulare era andato completamente distrutto, con ciò precludendo la possibilità di recuperare i dati presenti in locale sul dispositivo. Non però i dati in sè (o, meglio, la copia degli stessi), che, archiviati nella “nuvola” della mela, risultavano sincronizzati e facilmente accessibili. I tentativi stragiudiziali dei genitori di ottenere il vissuto digitale del proprio figlio sono tuttavia risultati vani, attesa la chiusura di Apple Italia S.r.l. (che condizionava la riconsegna dei dati al possesso di requisiti del tutto estranei al nostro ordinamento). Di qui l’inevitabile contenzioso giudiziario, conclusosi con l’esito di cui sopra. Va detto subito che il provvedimento meneghino è ineccepibile, e poggia su una norma giuridica (l’art. 2-terdecies del D.Lgs. 196/03, più noto come Codice in materia di protezione dei dati) il cui tenore letterale è inequivocabile. Il primo comma così recita: “i diritti (…) del Regolamento (il Reg. 2016/19, c.d. GDPR) riferiti ai dati personali concernenti persone decedute possono essere esercitati da chi ha un interesse proprio, o agisce a tutela dell’interessato, in qualità di suo mandatario, o per ragioni familiari meritevoli di protezione“. Di fronte alle allegazioni di parte ricorrente (la cancellazione dei dati ove l’inattività dell’account si fosse protratta e la necessità di avere i dati dell’ultimo periodo di vita del figlio per realizzare un progetto che ne eternasse la memoria) e considerato il legame tra genitori e figli, le “ragioni familiari meritevoli di protezione” che consentono ai genitori l’esercizio, post mortem, di quei diritti che in vita avrebbe avuto sui propri dati l’interessato,  non potevano non essere ravvisate. Scontata, quindi, la condanna della società resistente. Complice la novità della questione – mai affrontata prima d’ora in un’aula di giustizia italiana – la pronuncia ha fatto notizia e molti media non hanno perso tempo ad etichettarla come una “sentenza storica”. Imprecisione giuridica a parte (il provvedimento, infatti, non è una sentenza), anche l’aggettivo “storica” mi sembra fuori luogo: si appellano così, normalmente, le sentenze che hanno mutato un precedente, e radicato, orientamento giurisprudenziale o che comunque, nell’incertezza di norme difficili da interpretare, hanno “sposato” una tesi, aprendo la via ad una tutela prima negata. Senza nulla togliere al provvedimento in questione (che è eccellente, anche sotto l’aspetto della chiarezza espositiva), nulla di quanto precede è accaduto nel caso in esame, laddove una fattispecie (per quanto “un novum“) è stata decisa applicando la norma che ad essa si riferisce. La novità risiede, piu correttamente, nella singolarità della materia che viene in rilievo: l’eredità digitale. Una tematica di strettissima attualità e che molto farà parlare di sè, in quanto il patrimonio digitale di un individuo non ha, post mortem, solo un valore affettivo, ma anche economico: si pensi, per fare un esempio, alla rilevanza di un conto corrente “online only, ai depositi correlati ai servizi digitali di pagamento o alle piattaforme di trading online o, ancora, ai wallet che custodiscono le criptovalute. La regola generale (tracciata dal primo comma dell’art. 2-terdecies del D.Lgs. 196/03) è quella della persistenza dei diritti che l’interessato ha sui propri dati personali oltre la morte e della possibilità del loro esercizio, post mortem, da parte di determinati soggetti, a ciò legittimati. Questo principio soffre però di diverse eccezioni che ne temperano la portata. Il secondo comma della norma in esame, infatti, precisa che l’esercizio dei diritti non è ammesso nei casi previsti dalla legge o quando, “limitatamente all’offerta diretta di servizi della società dell’informazione”, l’interessato lo ha espressamente vietato con dichiarazione scritta: per esempio, un testamento. Non tragga in inganno il fatto che il diritto di veto dell’interessato (perché di questo, a ben vedere, si tratta) sia circoscritto al perimetro dei servizi prestati dai provider. Come ognuno ben sa, i social o i servizi digitali offerti in rete costituiscono un territorio vastissimo, il cui governo è, in via di principio, demandato al soggetto cui i dati personali si riferiscono. Un territorio in cui, più o meno ordinatamente, coabitano profili social, corrispondenza telematica, documenti, immagini, dati finanziari e altro ancora (basti pensare al metaverso): dati che compongono la proiezione virtuale della dimensione fisica della persona e dei quali il legislatore ha affidato la cabina di regia alla persona stessa, che può decidere la sorte dei dati medesimi. Ciascuno dovrebbe prenderne coscienza e di ciò ricordarsi se e quando faccia testamento. Come la legge 219/17 consente ad ogni persona – maggiorenne e capace di intendere e di volere – di “esprimere le proprie volontà in termini di trattamenti sanitari“, condizionando accertamenti diagnostici e scelte terapeutiche, così in questo caso il legislatore, abbracciando sempre il dogma dell’autodeterminazione dell’individuo, permette a quest’ultimo di essere padrone non solo dei propri beni fisici, ma anche degli asset digitali e dei dati personali.  Est modus in rebus, si diceva un tempo: in un’evidente ottica di bilanciamento, il quinto comma della norma precisa che il veto in oggetto “non può produrre effetti pregiudizievoli per l’esercizio da parte dei terzi dei diritti patrimoniali che derivano dalla morte dell’interessato, nonchè del diritto di difendere in giudizio i propri interessi”. Più che un limite, l’indiretta conferma del valore – anche economico – che al giorno d’oggi assumono l’identità digitale dell’individuo e gli asset ad essa relativi.

 

 

Veronese, classe 1972, è menzionato da Forbes nel 2022 tra i 100 professionals italiani. È specializzato in diritto delle nuove tecnologie, nonché di diritto dell’arte, settori che tuttora segue in prima persona unitamente al diritto d’impresa, core dello studio (citato da Il Sole 24 Ore tra “gli studi legali dell’anno” tanto nel 2020 quanto nel 2021). Apprezzato relatore in talk organizzati da primarie realtà, riserva particolare attenzione all’attività pubblicistica, fornendo con sistematicità contributi su quotidiani e riviste italiane.

Ulteriori informazioni online al sito www.studiogiacopuzzi.it