Ottobre 2022

Gloria Gatti-Autenticazione di opere d’arte: siamo sulla strada giusta?

Il 2021 può essere considerato un anno epocale per il diritto dell’arte e, forse, anche per il mercato stesso. In un articolo pubblicato sul Giornale dell’Arte, mi chiedevo se «in caso di sospetta contraffazione di un’opera d’arte la sola opinione dell’Archivio intitolato all’artista fosse sufficiente per una condanna» a proposito della sentenza emessa dal Tribunale di Milano, n. 6004 del 28 ottobre 2020 relativa ad un’opera di Josef Albers. Sottolineavo in particolare che «la credibilità e attendibilità delle dichiarazioni rese della parte civile nel processo penale, quand’anche autorevole, è in genere circondata da molte cautele e ancora più rigore dovrebbe essere richiesto quando l’archivio che ha anche “il monopolio” sul rilascio dei certificati di autenticità è proprietario di opere e, quindi, inevitabilmente portatore di interessi economici sul mercato ed esposto al rischio di versare in situazioni di potenziale conflitto d’interesse>>. Per quanto la rarità non sia che uno dei fattori di accrescimento del valore, in astratto, infatti, il “potere” di ridurre il numero delle opere di un artista disponibili per la vendita, negandone l’archiviazione, potrebbe produrre come effetto l’incremento di valore delle opere di proprietà che l’archivio immette sul mercato. Nel caso di specie sul sito web della Josef and Anni Albers Foundation è espressamente dichiarato che “la Fondazione vende un piccolo e selezionato gruppo di dipinti e stampe attraverso i suoi rappresentanti autorizzati” e che “la Fondazione ha nominato la David Zwirner Gallery di New York e Londra come suo rappresentante esclusivo in tutto il mondo”», e, per le opere di grafica in edizione, dalla Cristea Roberts Gallery di Londra. Quelle mie argomentazioni, condivise da molti collezionisti, sono state fatte proprie dalla Corte d’Appello di Milano n. 7148 del 3 novembre 2021 che ha assolto il gallerista Gabriele Seno perché il fatto non costituisce reato e ha motivato che «il vaglio di attendibilità doveva essere ancora più penetrante in considerazione del fatto che l’Archivio, che possiede il monopolio sul rilascio dei certificati di autenticità, risulta altresì proprietario di opere e, quindi, inevitabilmente portatore di interessi economici sul mercato, dovendosi ipotizzare anche un potenziale conflitto d’interesse>>. La Fondazione Albers, infatti, si occupa anche di “vendere al pubblico un limitato numero di opere attraverso i suoi rappresentanti autorizzati”. Gli archivi a memoria d’artista si pongono il fine statutario di “incentivare gli studi e favorire la conoscenza della figura e dell’opera di un Artista, promuovendo ricerche e iniziative direttamente o in collaborazione con altri organismi pubblici e privati; catalogarne la produzione autentica nella massima trasparenza di metodo e rapporti”, o più semplicemente sono ”la struttura più o meno formale creata per assicurare, in accordo con l’artista o dopo la sua morte, la difesa e la promozione della sua opera”, a cui è stata riconosciuta iure proprio la titolarità a titolo originario alla propria identità personale ed alla «immagine», quale ente collettivo, per statuto preposto alla protezione e promozione della figura, della memoria e dell’opera di un determinato artista, come chiarito dalla Cassazione Civile, Sez. 1 n. 2039 Anno 2018.
Ma quella degli Archivi d’artista, al pari di qualunque altro soggetto che ritenga di averne le competenze, è  una expertise su una determinata opera, che nulla vale più di un’opinione tra tante, quale estrinsecazione della libertà di pensiero e non ha, né può avere, alcuna fede privilegiata né nel processo civile, né tanto meno in quello penale, vieppiù quando l’archivio è portatore di un interesse economico proprio nel mercato e quando detiene una quota rilevante di opere, il cui valore può potenzialmente accrescere attraverso piani strategici di valorizzazione che potrebbero essere addirittura anticoncorrenziali. Proprio per compensare il «piano strategico (…) di ritirare l’arte di Rauschenberg dal mercato, al fine di evitare un calo di valore da parte di speculatori o collezionisti che inondavano il mercato con la sua arte», ai tre componenti del Robert Rauschenberg Trust, avente come beneficiaria la Rauschenberg Foundation, è stato giudizialmente riconosciuto il diritto al compenso di 24 milioni di dollari, da dividersi equamente (Robert Rauschenberg Foundation, v. Bennet Grutman, Bill Goldston, and Darryl Pottorf, 2016). Ed è anche ben noto che molti comitati americani per l’autenticazione (Pollock-Krasner Foundation, Andy Warhol Foundation for the Visual Arts, Roy Lichtenstein Foundation), non potendo beneficiare del salvacondotto concesso agli eredi dal diritto morale d’autore, sono stati sciolti o hanno cessato di «erogare tale servizio», per preservare il patrimonio della Fondazione dalle richieste di risarcimento dei collezionisti che si erano visti cassare le loro opere. E proprio per un asserito conflitto d’interessi Brian Clarke, uno dei due esecutori testamentari di Francis Bacon, deceduto lasciando come unico erede il compagno John Edwards, è riuscito ad ottenere una declaratoria di decadenza dalla nomina dell’altro esecutore, poiché si trattava di dirigente della Marlborough Gallery, che aveva sempre rappresentato l’artista ed era titolare di interessi propri. Dopo la morte di John Edwards, anche Brian Clarke è, però, caduto in un palese conflitto di interessi quando ha assunto la direzione del Bacon Estate, una LTD, che gestisce il monopolio sul vero e sul falso del pittore inglese, che ha recentemente “dannato” le opere della Collezione Barry Jaule donate alla Tate e tutti i disegni italiani di Ravarino.

 

Avvocato, iscritto all’Ordine di Milano, patrocinante in Cassazione.

Assiste abitualmente, sia in sede giudiziale che stragiudiziale, imprese multinazionali ed imprese italiane leader di settore, nonché prestigiose istituzioni culturali italiane e straniere, case d’asta, archivi d’artista, privati collezionisti e artisti nei diversi ambiti (civile, penale e amministrativo) del diritto dell’arte e dei beni culturali in Italia e all’estero.

È sovente chiamata come docente in corsi di formazione specialistica, come relatore in convegni, seminari e webinar.

È giornalista pubblicista dal 2012 e collabora con diverse testate specializzate nel diritto dell’arte e dei beni culturali in particolare con Il Giornale dell’Arte.

Trento libera nos a malo (1 di 2)

339.431. No, non sto dando i numeri, ma sono stati i nuovi nati in Italia nel 2021 (fonte Istat). Ogni numero va spiegato però, se vogliamo capirne gli effetti. Spoiler: abbiamo un grosso problema in Italia, le nascite continuano a diminuire (-12% sul 2020), si vive sempre di più (e questa è una buona notizia) e si assiste ad un crollo della popolazione in età lavorativa. “Beh, si lavora di meno e si vive di più, cosa volere di meglio?”, potrebbe obiettare qualcuno. Ma la situazione non è esattamente favorevole. Nel 2021 si è toccato il numero più basso di sempre di nuovi nati della nostra storia Repubblicana. Se i nuovi nati continueranno a diminuire (e contestualmente aumenterà la componente anziana), qualunque flusso migratorio, seppur rilevante, non potrà mai compensare il numero in diminuzione dei lavoratori attivi, ovvero, coloro che permettono agli anziani di ricevere la pensione, allo Stato di erogare i servizi e in generale, alla comunità di fruire del benessere sociale ed economico. Si sperava che durante il Covid, nella costrizione delle mura domestiche, le giovani coppie italiane trovassero più tempo per un po’ più di intimità, ma purtroppo, un anno dopo, sembra che la ricca offerta delle numerose pay-tv abbia prevalso. Il neo-costituito Ministero della famiglia e della natalità dovrà presto invertire la rotta e probabilmente dovrà cominciare favorendo l’occupazione giovanile e soprattutto quella femminile. Non è una scelta ideologica. La natalità non potrà aumentare fino a che rimarrà bassa l’occupazione femminile. In altri termini, fin quando prevarrà la sensazione di incertezza economica e di precarietà, le donne e i giovani in generale ritarderanno scelte genitoriali. Serve anche un nuovo patto scuola-lavoro: devono aumentare le opportunità di immediato inserimento. Se i giovani conquistano prima e in maniera stabile l’autonomia economica, formeranno prima la famiglia e si sentiranno più responsabilizzati all’interno della società. Quando divenni padre, qualcuno mi disse che avrei lavorato di più, perché investito da una nuova responsabilità. Aveva ragione. La vitalità demografica è il più importante indice del dinamismo sociale ed economico di un Paese. Altro che PIL!… Le conseguenze, altrimenti, e nel caso italico sono scontate: con una popolazione attiva in costante calo sarà più difficile ripagare il nostro debito pubblico. E minor teste significa anche minori consumi, dunque minori investimenti, dunque minore produzione, dunque minor occupazione. Un circolo vizioso da cui non se ne esce. Con l’aggravante che non solo il sistema pensionistico andrebbe in forte tensione, ma anche il sistema sanitario non potrebbe più erogare una assistenza essenziale garantita a tutti. Le politiche demografiche sono investimenti, non costi. Abbiamo l’opportunità di utilizzare le risorse di Next Generation EU in asili nido/scuole, in aiuti per le giovani coppie per l’acquisto della casa, in finanziamenti per l’imprenditoria giovanile e femminile, o bonus bebè. Se non lo faremo, l’auspicato aumento del numero medio di figli per donna non compenserebbe comunque la minor natalità dovuta alla riduzione delle potenziali madri. È statistica, purtroppo. Nella desolante fotografia appena rappresentata, c’è tuttavia un punto di luce rappresentata dalla piccola Provincia di Trento, dove invece il saldo di natalità è in costante crescita negli anni. Bollenti ardori, o programmazione? La seconda. Come il 3 novembre del 1918 Trento fu “liberata” dagli Italiani, a distanza di 104 anni potrebbe essere proprio l’esempio di Trento a salvare l’Italia. Come? Beh, lo vediamo la prossima volta…

Adda passà a nuttata (2 di 2)

Ci eravamo lasciati due settimane fa con l’interrogativo che un po’ sta attanagliando tutti: “ma quanto durerà questo caro bollette?”, l’inflazione sarà un nostro sgradito ospite, come nell’ economia italiana degli anni ’80?”. Spoiler: è solo una questione di tempo, non di risultato. Qualche serie statistica ci può aiutare. Da inizio secolo ad oggi, la maggiore economia mondiale (USA) ha affrontato ben 16 periodi recessivi. Con quello che sta per sopraggiungere saranno 17. La Banca centrale americana (FED) ha mediamente impiegato dai 16 ai 24 mesi per riportare l’inflazione ad oscillare nel range desiderato (nel passato era il 3%, negli ultimi anni è il 2%). C’è un caso che ha molte analogie con il presente: nel 1974, l’inflazione arrivò al 12,3%, (ora è circa al 8,2% in USA e tra il 7% e il 10% nei Paesi leader in Europa), sospinta da una crisi energetica che fece impennare il prezzo del petrolio. In quel caso ci vollero 24 mesi per riportarla sotto controllo. Come allora, anche oggi l’inflazione da offerta si è innescata con lo shock energetico. Fine delle “buone” notizie. Ci sono tuttavia anche forti differenze con allora. 2 principali. La prima è che la tanta liquidità immessa nel sistema da generose politiche monetarie (quantitative easing) e fiscali (per fronteggiare l’epidemia da Covid) degli ultimi anni, ha gonfiato gli asset finanziari: il loro repentino calo testimonierebbe allora un riallineamento tra i valori dell’economia reale e quella finanziaria. La seconda è che l’impazzimento del prezzo del gas, soprattutto in Europa potrebbe essere mitigato solo da scelte condivise tra i vari Paesi sul price cap, ma se non si dovesse arrivare a tale accordo, la situazione è destinata a peggiorare e anche drammaticamente. Come se ne esce? Temo, almeno nel breve, male. Purtroppo, le banche centrali di riferimento (in generale) possono fare ben poco su una inflazione da shock energetico. Però sono/saranno costrette ad usare il bazooka dei tassi, per raffreddare l’economia e abbattere l’inflazione. Qualcuno sostiene che sarebbe bastato alle banche centrali saper “andare di fioretto”, l’anno scorso, alle prime avvisaglie di inflazione. E, con il senno di poi, è vero. Ma nessuno ha la macchina del tempo per tornare indietro nei tanti episodi nefasti di questo anno balordo. “Adda passà a nuttata”. Per quanto potrà essere lunga e fredda, poi arriva sempre la luce calda del sole e ricomincia un nuovo giorno.

Amedeo Lepore-Strategie economiche per battere la crisi

Lo scenario prossimo venturo dell’economia delineato dalle analisi più recenti induce a serie preoccupazioni e a una maggiore consapevolezza degli interventi di fondo necessari. Il contesto odierno è caratterizzato da un insieme di focolai di crisi, che vanno dall’impennata dei prezzi dell’energia, alla scarsità di molte materie prime e al rincaro smisurato del carrello della spesa e delle bollette. Il combinato disposto di queste circostanze annuncia l’avvento di un anno tormentato, segnato, con ogni probabilità, da una recessione di non breve durata, a meno di un cambiamento significativo dello scenario generale. Il Rapporto del Centro Studi di Confindustria, pur mostrando finora un ottimo andamento delle esportazioni (con un aumento del 7,9% a prezzi costanti, rispetto alla media dello scorso anno) e un recupero più accentuato dell’economia italiana in confronto a quella degli altri Paesi europei (con una crescita acquisita del Pil pari al 3,6% per il 2022, contro il 3,2% dell’eurozona), prevede una “crescita zeroper il 2023. L’Italia, quindi, si troverà al centro di un’elevata inflazione e una dolorosa stagnazione produttiva. Per Christophe Morel, capo economista di Groupama Asset Management, nei Paesi sviluppati non si tratterebbe di una stagflazione, poiché la riattivazione delle attività economiche ai livelli precedenti al Covid-19 sembra rendere la condizione attuale simile a un fenomeno di reflazione. Inoltre, sta prendendo piede la cosiddetta “shrinkflation” da parte delle multinazionali, che riducono la quantità di prodotto contenuta nelle confezioni, senza diminuire i prezzi al pubblico, creando, in questo modo, un’inflazione occulta. Dal canto suo, in un articolo sulla “grande stagflazione” in arrivo, un economista come Nouriel Roubini ha colto il pericolo di una recessione “grave e prolungata, con diffuse difficoltà finanziarie e crisi del debito”, che non permette affatto un atterraggio morbido e rischia di provocare addirittura un crollo dell’economia. Il Fondo Monetario Internazionale ha nuovamente rivisto al ribasso le sue previsioni di crescita, ipotizzando che un terzo dell’economia mondiale entrerà in recessione tra il 2022 e il 2023. Il “Global economic outlook” per il quarto trimestre 2022 descrive un’economia mondiale in preda a “forti venti contrari”, a causa del conflitto in Ucraina, dell’inasprimento monetario globale e del rallentamento della crescita cinese. Questo frangente dovrebbe proseguire per il prossimo anno, con perduranti interruzioni delle catene di fornitura e innalzamenti dei prezzi dell’energia, accompagnati da un’intensificazione degli sforzi delle principali banche centrali per mettere sotto controllo l’inflazione. Secondo l’EIU, il razionamento del gas e l’ulteriore rialzo dei prezzi dell’elettricità porteranno l’eurozona a patire una recessione per l’intero 2023. Insieme a Germania e Austria, che dipendono decisamente dal gas russo e non hanno fonti di approvvigionamento alternative, anche l’Italia sarà duramente colpita dalla crisi energetica. La stima di crescita per l’anno venturo, in questo documento, è negativa per Francia (-0,3%), Germania (-1%) e Italia (-1,3%). Completano il quadro europeo, standard ancora elevati di inflazione, cali di fiducia nelle possibilità di ripresa e riduzioni del commercio estero, che contribuiscono all’estrema debolezza della performance economica globale nel 2023. The Economist ha pubblicato un rapporto speciale sull’economia mondiale, nel quale indica le sfide da sostenere nel breve e nel lungo termine. Nel periodo più immediato, l’entità straordinaria della spesa pubblica per contrastare gli effetti della pandemia, della guerra e della stangata energetica complicherà il perseguimento dell’obiettivo di un’inflazione al 2%, ponendo un arduo problema alle banche centrali e ai governi. In un arco di tempo più vasto, l’intento sarà quello di scongiurare le crisi fiscali, cercando di affrontare il dilemma dell’invecchiamento della popolazione, che comporta un incremento degli interventi per l’assistenza sanitaria e le pensioni. Il rapporto, pur rimarcando le differenze tra le scelte seguite alla crisi finanziaria globale del 2007-2009 e quelle successive agli eventi imponderabili del 2020, evidenzia una notevole inversione di tendenza nei Paesi avanzati, il cui esito potrebbe essere una contrapposizione tra le strategie monetarie molto restrittive di banche centrali aggressive e le politiche fiscali ampiamente espansive di governi prodighi, ostacolando la lotta all’inflazione e indebolendo i propositi di ripresa. Da queste valutazioni, dunque, scaturisce l’esigenza di fare “lavorare in tandem” le opzioni in campo monetario e fiscale, provando a regolare le diverse intensità dei tassi di interesse, dei sostegni alle imprese e degli stimoli agli investimenti produttivi in maniera articolata, in base alla tendenza dei principali indicatori macroeconomici. Così, una situazione complessa e sfavorevole potrebbe, paradossalmente, fornire strumenti efficaci per una politica economica inedita, accorta e vantaggiosa al tempo stesso. Non è certamente un compito agevole, soprattutto in questo momento. L’Europa, se vuole continuare a dare la buona prova di cui è stata capace dopo la pandemia, deve intessere con grande avvedutezza la tela di una strategia coraggiosa e condivisa, superando ogni tentazione alla frammentazione e all’inseguimento di fragili interessi unilaterali.

 

 

Professore Ordinario di Storia Economica presso il Dipartimento di Economia dell’Università della Campania Luigi Vanvitelli. È docente presso il Dipartimento di Impresa e Management della LUISS Guido Carli di Roma. Ha svolto insegnamenti in diverse Università italiane e straniere. È componente del Consiglio di Amministrazione della SVIMEZ, per la quale coordina il progetto di ricerca e il gruppo di lavoro su “Le origini, l’evoluzione e le prospettive della bioeconomia e dell’economia circolare in Italia e nel Mezzogiorno”, costituito in collaborazione con ENEA, SRM e Spring. È membro del Consiglio Direttivo del Cluster italiano della Bioeconomia Circolare “Spring”. È socio dell’Accademia Pontaniana, nella Classe di Scienze Morali. Fa parte di Comitati scientifici e di Redazione di varie riviste nazionali e internazionali. Ha ricevuto riconoscimenti internazionali per la sua attività di studio e di ricerca. Ha pubblicato volumi e saggi, in Italia e all’estero. I suoi attuali ambiti di ricerca riguardano la storia dell’economia euro-atlantica, il processo di globalizzazione nei suoi vari aspetti, le dinamiche dell’innovazione e delle tecnologie, l’impatto sull’economia della pandemia di Covid-19, le dinamiche dell’economia circolare, l’evoluzione dell’impresa contemporanea, la storia del dualismo economico italiano. Ha svolto anche ruoli istituzionali legati alle sue competenze economiche, da ultimo come Assessore alle attività produttive della Regione Campania.

Francesca Sanguineti-Le catene del valore globali: quali tendenze ne guidano la riconfigurazione?

Negli ultimi anni le aziende si sono trovate a dover affrontare shock esterni e tendenze di mercato che hanno rivoluzionato il loro modo di fare business. Già dalla metà dello scorso decennio con il boom delle tecnologie digitali ci siamo infatti trovati di fronte a scenari in cui le catene del valore globali stavano iniziando a subire forti variazioni. Si ipotizzava allora, e si inizia a vedere in pratica oggi, una economia indirizzata a sviluppare prodotti sempre più personalizzati in base alle esigenze del consumatore finale. È il caso di brand globali come, ad esempio, Nike e Adidas che hanno sviluppato partnership rivolte all’utilizzo di tecnologie come la stampa 3D per permettere ai loro consumatori di creare le scarpe esattamente come le vogliono e ritirarle, dopo solo qualche ora, in store dedicati. Emerge quindi la tendenza di unire il fisico al digitale, offrendo un prodotto che venga visto dal consumatore come un’esperienza vera e propria. Assisteremo pertanto ad un accorciamento delle catene del valore che dovrebbe portare anche ad una maggiore flessibilità delle stesse. Produrre il bene al momento dell’acquisto, ad esempio, elimina le attività di trasporto e stoccaggio riducendo non solo i costi, ma anche l’impatto ambientale. Non dimentichiamo difatti quanto l’attenzione alla sostenibilità sia diventata ormai fondamentale – se già dal 2010 la sensibilizzazione ad aspetti ambientali, economici, e sociali aveva iniziato ad avere un peso importante sulle strategie aziendali, ora le aziende sono quasi obbligate ad affrontare tali questioni con obiettivi sempre più orientati ai diversi livelli di sostenibilità. Le tecnologie sembrano essere uno strumento per raggiungere proprio questi scopi. Gli shock esterni degli ultimi anni, e mi riferisco principalmente alla pandemia, alla collegata shortage economy, alle conseguenze della guerra Russia-Ucraina ma non esclusivamente a queste ovviamente, hanno portato le imprese attive a livello globale a dover scovare alternative a materie prime, fornitori, ma anche a mezzi per raggiungere i loro consumatori. Le aziende che si sono trovate e tuttora si trovano a dover gestire la mancanza o il forte aumento del costo delle materie prime, hanno iniziato a pensare a strategie alternative per coprire tali mancanze e per non trovarsi, in futuro, a non poter produrre o vendere i loro prodotti per una motivazione indipendente dalle loro scelte dirette. A cosa stiamo assistendo, quindi, ora? Si parla di reshoring, backshoring, nearshoring, ossia di una rilocalizzazione delle attività produttive o di parte della catena del valore nel paese di origine dell’azienda o in un paese vicino in termini di prossimità geografica, da un paese nel quale si era intrapresa precedentemente un’operazione di offshoring, ossia il portare in un paese estero parte dell’attività produttiva dell’azienda. Allo stesso modo si parla di sviluppi interni di materie prime alternative. Tra gli esempi principali figura l’azienda Gresmalt che sta sviluppando piastrelle in ceramica da argilla italiana, da sostituire a quella ucraina (interessante sottolineare come questo progetto sia iniziato prima del covid e ancora prima della guerra correntemente in atto). Quanto impattanti e quali siano effettivamente le varie dinamiche che stanno modificando le catene del valore delle aziende nei vari paesi ad oggi è però di difficile definizione. Manca una vera e propria banca dati che raccolga al suo interno le informazioni necessarie a rispondere a tali quesiti. A questo proposito, come team dell’Università di Pavia, in collaborazione con partner aziendali e istituzionali di eccellenza, abbiamo appena lanciato l’Osservatorio ReValue Chains che ha l’obiettivo di analizzare le dinamiche delle catene del valore globali, con particolare attenzione alla resilienza e alle potenziali riconfigurazioni delle stesse a seguito di eventi disruptive come quelli precedentemente menzionati. Solo raccogliendo dati ed esperienze dirette delle aziende potremo avere una visione più precisa del panorama attuale a livello italiano, europeo e globale.

 

Ricercatrice presso l’Università di Pavia, ha trascorso alcuni anni ricoprendo ruoli manageriali nel campo della consulenza e del retail prima di intraprendere la carriera accademica. Ha conseguito il dottorato a Pavia ed è stata visiting scholar a Georgia State University. Dal 2019 è co-lecturer del corso Strategic Management presso IES Abroad Milano e dal 2022 del corso di Digital Marketing a Pavia. Ha optato però per la vita da pendolare per poter mangiare focaccia e cappuccino ogni mattina. Con uno sguardo sempre rivolto verso fenomeni di business a livello internazionale, è interessata a studiare l’impatto delle tecnologie dell’Industry 4.0 sul panorama imprenditoriale attuale e, nello specifico, sulle catene del valore globali e sulla loro sostenibilità.

Adda passà a nuttata (1 di 2)

La domanda più frequente che mi sento fare in questi giorni sull’attuale situazione economica mondiale è: “ma per quanto tempo durerà?”. I più ottimisti pensano che dovremo soffrire ancora questo inverno, poi epocali cambiamenti geopolitici porteranno la pace nel mondo e un livello dei prezzi finalmente normalizzato a livello globale, i più pessimisti, invece, rivivono la memoria della crisi petrolifera del ’74, e (qualcuno) arriva a sentenziare che è l’inizio di una era di decrescita infelice. Non ho doti divinatorie, ma per mia natura rimango ottimista, almeno basandomi sullo studio dei cicli economici.  Però, qualche approfondimento va fatto. Dopo il Covid il nuovo virus da combattere a livello mondiale si chiama inflazione. È un problema per tutti e di tutti e chi sostiene che alcuni Paesi si stiano avvantaggiando dalla guerra in corso, confonde forse i maggiori incassi realizzati dalla vendita di risorse energetiche, con lo svantaggio (comunque superiore) di un costo della vita divenuto insostenibile. E infatti per contrastare questo virus un ruolo essenziale lo giocano le banche centrali che alzano i tassi di interesse, non rinnovano le obbligazioni  di proprietà arrivate a scadenza e drenano la liquidità (si chiama quantitative tightening), nei Paesi dove hanno giurisdizione. Sono tutti tecnicismi, ma non è questo importante. Da inizio anno si contano complessivamente più di 90 rialzi dei tassi a livello mondiale: un numero che non ha precedenti nella storia economica e destinato a superare abbondantemente la centinaia per fine anno. Il meccanismo è semplice: il rialzo dei tassi comporta un aumento del costo del denaro, proprio per scoraggiare l’accesso al credito da parte dei consumatori e/o altri soggetti economici e dunque raffreddare la domanda aggregata e il livello globale dei prezzi. E questo è quello che si fa sulla cosiddetta inflazione da domanda. C’è però anche una altra inflazione (da offerta) legata all’aumento dei prezzi di determinati beni “sentinella” (su tutti materie energetiche e alimentari), su cui le banche centrali possono fare poco: un individuo ha la necessità di scaldare casa e/o mangiare, a prescindere dai prezzi di queste materie. In realtà, se le banche centrali sapranno raffreddare opportunatamente l’economia come indicato prima, questa potrebbe entrare in recessione, e, a un minor livello di consumi aggregati, si assocerebbe un minor livello di produzione industriale, quindi minor energia da consumare e prezzi di questi fattori in forte contrazione. Insomma, si potrebbe partire da sopra, per sistemare il problema anche sotto. Ma torniamo a bomba. Quanto tempo ci vorrà per riportare l’inflazione al livello del 2%, ritenuto come quel livello di inflazione buono e fisiologico che non danneggia il reddito disponibile delle famiglie consumatrici? Per ragioni di spazio risponderò la prossima volta, ho la forte certezza che sarà ancora un tema di forte attualità. E in fondo, questo potrebbe essere già un primo importate indizio…