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Riccardo Motta-La maturità digitale delle banche italiane

La pandemia ha avuto un impatto irreversibile su tutta l’umanità. Il settore bancario non avrebbe potuto esserne immune. Come in tutti i settori industriali, i cambiamenti conseguenti alla pandemia hanno avuto un impatto sulle aspettative dei clienti riguardanti i servizi bancari digitali, ad un livello più alto di sempre. Le banche oggi si stanno trasformando in qualcosa che va oltre il concetto tradizionale di banca. Gli istituti di credito leader del settore si stanno infatti trasformando in piattaforme multi-servizio, con un’offerta che va dalla mobilità all’ e-goverment, dai servizi alla persona al commercio, costruendo un nuovo ecosistema ricco di opportunità per i loro clienti. In particolare, stanno diventando sempre di più dei “trusted advisors” per i propri clienti, supportandoli nella loro quotidiana gestione delle proprie finanze con una ampia varietà di soluzioni digitali. Dal punto di vista della maturità digitale, è positivo il fatto che da una ricerca internazionale che abbiamo fatto in Deloitte, tra le banche Italiane analizzate, una quota prevalente (più del 60%) si posizioni all’interno di due cluster contraddistinti da un maggior livello di maturità digitale, ovvero i Digital Champions e Digital smart followers. Ma vediamo innanzitutto il contesto economico susseguente alla pandemia. Questa ha lasciato un generale senso di incertezza, che a sua volta ha generato un diffuso rallentamento economico ed un incremento significativo del tasso di inflazione, peraltro anche a causa del conflitto armato russo-ucraino. I consumatori, sia a livello internazionale che italiano, sono ora preoccupati riguardo i lori risparmi e pongono sempre maggiore attenzione al modo di spendere, dimostrando un costante incremento delle loro attitudini agli acquisti attraverso il canale digitale, nonché verso una sempre maggiore consapevolezza verso i temi di sostenibilità. Diviene pertanto sempre più un fattore critico per gli operatori finanziari dare risposte concrete ai cambiamenti comportamentali dei consumatori, concentrandosi in particolare sui loro bisogni, tra i quali si segnalano due aspetti fondamentali.

Il primo è privilegiare singoli “entry point” per l’accesso da parte dei clienti ad un ampio insieme di prodotti e servizi (e.g. attraverso l’utilizzo di SuperApp). A tal proposito, quasi 1 Cliente su 2 dimostra essere predisposto ad utilizzare piattaforme esterne per prodotti finanziari e al contempo la propria app bancaria per servizi non finanziari.

Il secondo è relativo al progressivo shift verso l’utilizzo dei canali di Digital Banking (mobile app e website) per una gestione più efficiente delle attività bancarie. A dimostrazione di ciò, il tasso di internet banking penetration ha raggiunto il 45% nel 2022, anticipando le previsioni di circa 3 anni rispetto alle proiezioni pre-Covid. Rispetto a tali nuove esigenze dei Clienti, le banche possono rispondere agendo in logica di “piattaforma” di servizi a valore attraverso la creazione di una “value proposition” basata su ecosistemi di partnership, ma anche con lo sviluppo di soluzioni fully-digital ed una ottimizzazione della copertura territoriale. Da uno studio Monitor Deloitte emerge infatti che le c.d. “Exponential Banks”, istituti finanziari caratterizzati dalla capacità di evolvere i propri modelli di business attraverso innovazione, capacità di adattamento e flessibilità strategica, ottengano in media migliori risultati in termini di valuation (+176%) ed efficienza (“cost income” inferiore di circa 20p.p.) rispetto rispetto ai “worst performers”. Come anticipato, i clienti digitali, ovvero coloro che svolgono più del 90% delle transazioni finanziarie attraverso Internet/ Mobile banking, giocano un ruolo sempre più centrale per le banche. Nel 2021 costituivano circa il 50% del “net banking income” delle banche, con una forte predominanza in termini di numero di clienti appartenenti a fasce Gen Z e millennials, e si stima che tale quota raggiungerà il 70% nel 2027 (crescendo quindi di ca. 20 punti percentuali).  Tale incremento di clienti a vocazione digitale alimenta sempre più la creazione di banche interamente digitali. Tuttavia, il principale fattore critico di successo per le banche digitali, siano esse native digitali o frutto di iniziative di trasformazione digitale di banche tradizionali (e.g. Neobanks), risulta il raggiungimento di una massa critica di clienti tale da sfruttare effettive economie di scala e abbassare il “cost per customer”, rendendo così la banca digitale profittevole. A dimostrazione di ciò, dalle analisi emerge come ad un aumento di 9x della base clienti corrisponde una riduzione del 75% del costo per cliente. Lo sviluppo di soluzioni fully-digital per i clienti, finalizzate a soddisfare l’esigenza di “self direct operation”, dovrà essere affiancato da un’ottimizzazione della copertura territoriale in grado di garantire una maggiore efficienta operativa. Tale processo di revisione del footprint geografico non potrà prescindere dall’effettivo livello di digitalizzazione che contraddistingue le diverse aree geografiche del Paese e dovrà essere accompagnato da iniziative complementari di accompagnamento all’evoluzione. Partendo dalle ca. 34.000 filiali bancarie nel 2011 in Italia, secondo l’analisi Monitor Deloitte, si stima per il 2023 un numero di filiali pari a ca. 20.000, per poi arrivare a ca. 16.000 nel 2029. I canali digitali, dunque, non saranno più semplici canali integrativi, ma rappresenteranno sempre di più un fattore chiave e differenziante della value proposition delle banche. A che punto è l’evoluzione delle banche italiane lungo queste direzioni? Quali sono le opportunità di ulteriore sviluppo? Lo studio Deloitte sulla Digital Banking Maturity, fornisce una valutazione completa del mercato esaminando 304 banche operanti in 41 Paesi differenti (con la partecipazione delle principali economie globali in EMEA, America, Asia). A livello nazionale, lo studio ha preso in esame un gruppo consistente di operatori bancari (banche tradizionali, banche online ed operatori FinTech) che, nel loro insieme, costituiscono un campione Italiano altamente rappresentativo (e.g. coprendo l’88% dell’offerta prestiti bancari). Sulla base dei risultati ottenuti, le banche italiane dimostrano una forte crescita rispetto allo studio precedente (2020), colmando il divario e affiancandosi alla media globale lungo tutte le dimensioni di analisi. Al contempo, lo studio mette in evidenza alcuni ambiti di intervento funzionali al raggiungimento delle best practice a livello globale.

 

Financial Market Industry Leader di Deloitte Central Mediterranean.

È partner audit dal 1998, Dottore Commercialista e Revisore Legale dei Conti in Italia.

Ha assunto il ruolo di revisore per numerosi istituti bancari in Italia ed è attualmente revisore del Gruppo UniCredit e del Gruppo Cassa Depositi e Presiti

Esperto di IFRS/IAS, ha una solida esperienza in incarichi di due diligence nell’ambito delle acquisizioni, in particolare per l’Europa Centro-Orientale.

É spesso chiamato come esperto da numerosi tribunali italiani per stilare pareri, fairness opinions e valutazioni su molte operazioni di finanza straordinaria.

Vive e lavora a Milano.

 

Don Franco Tassone- La bellezza più grande è restituire la dignità ai senza fissa dimora

Sono ormai trascorsi trent’ anni da quando l’incontro con un corpo devastato dalla miseria ha cambiato la mia vita. Arrivavo dalla festa di matrimonio di un amico e indossavo un abito chiaro, come si usava per i giorni di festa. Mentre camminavo vicino alla piazza del Castello, sotto una panchina ho visto una ‘cosa’ che rantolava. Mi ha raggiunto il suo odore prima ancora che il suo volto, la sua disperazione e le sue mani si sono appiccicate al mio vestito candido e mentre lo aiutavo a sollevarsi sentivo di sprofondare nel suo stesso abisso. Una volta seduti sulla panchina, mi ha chiesto se lo portavo a casa mia. Avevo diciotto anni e un grande desiderio di fare qualcosa di bello della mia vita, e mi sono trovato spiazzato davanti alle laceranti e contorte forme di vita subumana di tante persone che, in realtà, abitavano solo a due passi da me e dai miei interessi. Così maturai una mia contemplazione delle forme, osservando come le dipendenze potessero prendere i corpi e contorcerli e renderli sensibili, così per poco tempo e poi lasciarli inabitati e soli. Come accadde a Michelangelo con il marmo del Mosè, che si è nato dall’arte di levare, cominciai a credere che, togliendo i pregiudizi e la miseria dal volto e dal corpo delle persone, fosse possibile riscattare tanta umanità abbruttita. Quell’incontro mi turbò, mi lasciò annichilito e, a malincuore, proseguii sulla mia strada, sporco e carico di pensieri, segnato in modo indelebile e senza difese: come se davanti ai miei occhi, oltre alla ragazza che mi piaceva, passassero tutti i desideri e le scelte che dovevo fare per dare un senso alla mia vita.

Nello stesso anno dopo il diploma partii per il servizio civile e cominciai a fare tanto, spendevo i miei giorni nell’aiutare e quando, dopo venti mesi, tornai alle mie precedenti attività, qualcosa si era rotto in modo irreparabile. Cominciai a perdere il gusto di suonare, di animare e di condividere con i miei amici spazi di finta libertà. Lasciai la “morosa”, il lavoro, la vita mi sembrava inutile e non soddisfacente. Fu allora che chiesi di ritornare in comunità e iniziai un lungo percorso di formazione tra il teorico e il pratico che maturò fino all’ordinazione sacerdotale, e da lì a pochi mesi l’assunzione della responsabilità totale della comunità, che era stata fondata e condotta da Don Enzo Boschetti, in odore di santità e tassello indispensabile della vita di accoglienza di Pavia e della Lombardia e del Piemonte.

A trent’ anni fui caricato di grandi responsabilità e cominciai a temere di non farcela davanti alle sfide e alle necessità di tanti giovani in difficoltà. Fu in questo periodo che cominciai a rimarcare la necessità di aprire un nuovo dormitorio, più in sintonia con le norme di sicurezza e di igiene e capace di accogliere un numero sempre più vasto di persone in difficoltà. Il trauma delle umiliazioni inflitte a tanti uomini e donne, però, non finì con quella esperienza di responsabilità ma mi accompagnò ancora per lunghi anni. Così mi risolsi a costruire case di accoglienza cercando di creare, grazie all’aiuto di esperti, una Architettura solidale e bella, perché anche gli svantaggiati e i poveri godessero di spazi che potessero innalzare la loro dignità, per la cura dei particolari e la sostenibilità economica e ambientale. Nacque da questa ispirazione la costruzione di mattoni per i minori, chiamata “casa dei Puffi”, perché i tetti e le porte erano colorati di azzurro. Il progetto fu possibile grazie all’aiuto del mio amico Maurizio. Egli era della mia stessa città e fu portato in comunità dal suo fondatore, don Enzo Boschetti, che lo rincorse dieci volte per strada, perché sua mamma faceva il lavoro più antico del mondo e la sera non poteva mettere a letto i suoi figli o preparare loro la cena. Ecco questo mio amico con cui ho suonato, ho cantato, che ho accompagnato perché potesse ritrovare il proprio figliolo e riprendere in mano la sua vita, era un artista e nella sua arte c’era un dolore, una lacrima, qualcosa che assomigliava all’arte di Dalì, con il suo Crocifisso pendente, con questa umanità che scivola dalla Croce, verso l’abisso più profondo del nostro io, e il mio amico e stato capace di ergersi dalle sue molteplici dipendenze. Le sue ferite, solchi di saggezza profonda ciò che lui ha vissuto l’ha trasfuso nella sua arte. Ciò mi fa pensare che, se l’opera più bella di Dio è formare l’uomo a sua immagine e somiglianza, ridonare dignità è l’arte della speranza. Dentro di me è ancora vivo il desiderio di realizzare luoghi belli, dove si possono accogliere le ferite degli uomini, le loro lacrime, abbracciare i loro corpi, perché possano trovare rifugio e ripartire ancora più forti, sprigionando gesti di solidarietà e d’amore in un ambiente sostenibile e bello. L’esperienza fatta alla Casa del Giovane di Pavia mi ha lasciato una grande consapevolezza: c’è un grande disegno, una perfetta armonia, un desiderio che nelle forme umane, nella morale e nella cultura ci imbattiamo nella preziosa esperienza dell’uomo. Il privilegio di essere stato dai banchi dell’Università, ai luoghi più estremi della povertà: nei dormitori, nei luoghi in cui la gente in qualche modo era alla deriva e si aggrappava a quel relitto che veniva offerto dai volontari, mi ha messo nella condizione particolare di osservare e imparare una lezione di umanità. L’esercizio dell’ascolto, guardare e stupirmi di quanta bellezza alberghi tra i relitti della società, tra i malati e la gente semplice, mi ha costretto a non essere indifferente ai drammi che si svolgevano sotto i miei occhi, così mi sono lentamente innamorato delle forme più strane di uomini e donne contorti. Un’esperienza particolare ha sbloccato definitivamente la mia paralisi di fronte alle necessità dell’altro. Ricordo di essere stato una volta, con un gruppo di amici, in Val Vigezzo e con noi c’era una ragazza che aveva gli arti artificiali al posto delle braccia, ma non li poteva muovere perché c’era un difetto nell’impianto elettrico, così con un cacciavite mi sono messo ad aggiustarla. Oggi sono sempre più convinto di essere in un mondo in cui davvero, senza l’aiuto dell’altro, non si può vivere! Tutto ciò mi ha portato a scelte non conformiste, sono stato attirato dal fatto che non si può vivere senza avere questo grande desiderio di costruire qualcosa che possa essere un rifugio per gli altri, un aiuto, una possibilità per emergere dalle situazioni difficili e non rassegnarsi. Mi sono anche un po’ innamorato della pragmatica della comunicazione, per cui c’è una semantica che rappresenta la punteggiatura del linguaggio, ma c’è anche una pragmatica, dove osservi come uno si pone di fronte a te, si chiude o si apre, e tu osservando aspetti particolari dell’uomo e della donna che è di fronte a te capisci che atteggiamento hanno di fronte la vita. Ho imparato così, anche a mie spese, a fidarmi delle persone, a stare vicino, a sopportare le fragilità. Scoprivo gradualmente che quelle fragilità si riflettevano dentro di me e questa è stata una delle esperienze più mistiche che io abbia mai provato. Cioè mi sono trovato ad essere uomo tra gli uomini, solidale con tutte quelle ragazze e giovani che ho incontrato in comunità e che mi aprivano il loro cuore per tutte le violenze subite e i maltrattamenti sopportati, sentivo di passare da un abbraccio ad un l’altro.

Ripensando a quei sentimenti, ancora oggi vivi dentro di me, ricordo che ho un desiderio grande: aprire un dormitorio femminile. Un luogo bello dove le donne vittime della violenza, possano alloggiare, fermarsi un attimo, riprendersi, ritrovare il loro sguardo la bellezza del loro volto e frenare un po’ le loro lacrime, sentirsi accolte e accompagnate a riprendere in mano la loro vita e offrirla agli altri. La vita è un dono che non puoi tenere per te. Ecco perché desidero realizzare anche un dormitorio maschile e per famiglie, basato su tre livelli di accoglienza. Il primo livello è di pronto intervento per chi, a qualsiasi ora del giorno e della notte, avesse bisogno di trovare un rifugio. Mi piacerebbe un luogo dove poter offrire, senza barriere, un letto dove ci si possa riposare, una doccia, una lavanderia, un cambio d’abito, perché sempre di più mi accorgo che siamo tutti naufraghi. Un secondo livello di questa accoglienza sarebbe la disponibilità di stanze pensate per loro, accolti con colori e confort, con una dimensione di rispetto della dignità dove si può consumare qualche pasto, ma lo si può fare in armonia, nel desiderio di aiutarsi. E poi un terzo livello di accoglienza, per cui anche i senza fissa dimora possano accedere a una casa a prezzo calmierato, per rientrare nella vita e poter così cominciare a spiccare il volo.

Ritengo che sia la realizzazione del dormitorio femminile che quella del dormitorio maschile o per famiglie mi permetta di completare l’opera di redenzione e di crescita promozionale per cui ho vissuto in tutta la mia vita. Ho scoperto che l’umanità è il dono più prezioso, non riesco a pensare ad un’opera d’arte più bella, mi sembra una formulazione ancora più grande di quella che è stato il Leonardo con il suo uomo Vitruviano. Solo valorizzando i gesti, le microespressioni nelle facce, i pensieri e gli sguardi e soprattutto l’umanità scartata, è possibile mostrare in essa qualcosa di preziosissimo, a cui avvicinarsi con timore e tremore, per condividere una vita che valga la pena di essere vissuta. Anch’io ho provato la solitudine, a volte mi è parso di aver smarrito il senso e la meta, mi ha spaventato la malattia, ma mi sono sentito ben rappresentato nel mio desiderio di verità e di crescita dalle storie di tanti che avvicinandosi a me sono stati in grado di farmi uscire dalle mie comodità. I senza fissa dimora mi hanno costretto ad aprirmi alla realtà, ho trovato molte difficoltà, molti ostacoli, non solo quelli burocratici, sono stato messo all’angolo e respinto in maniera pesantissima.  Alle persone che in qualche modo si sono fidate ho potuto confidare questi miei desideri e il mio sogno di restituire una vita dignitosa a tanti fratelli e sorelle. Ma questo è progetto che possiamo realizzare solo insieme. Ecco non vorrei rimanere prigioniero dei miei sogni e dei miei desideri che sono nati soprattutto perché ho incontrato persone che ne avevano assoluto bisogno, mi piacerebbe condividere questa esperienza. Ecco perché ho bussato alle porte di Pietro Ripa, a cui sono grato, perché questo sogno prendesse forma con la scrittura e poi prendesse forma in qualcuno che entrasse nel progetto. Questa bella esperienza mi ha fatto bene, e, nonostante il male e l’indifferenza, cerco di vivere questo sogno come un appuntamento con tanti, che vorrei accogliere in nome della nostra ritrovata bellezza in questa umanità.

 

Nasce a Como nel 1962. Durante il servizio civile incontra Don Enzo Boschetti. E’ un incontro che gli cambia la vita e che lo porta ad imboccare la strada religiosa. Si laurea in Legge e diventa educatore professionale. Così, dopo la laurea in giurisprudenza, a soli trent’anni, è chiamato alla guida della “Casa del Giovane”, la struttura che Don Enzo ha creato per dare riparo e aiuto a giovani e adulti in difficoltà. Alla guida di questa importante casa di assistenza, don Franco è diventato uno stimolo di generosità e di solidarietà. Oggi è parroco della parrocchia Città SS. Salvatore di Pavia. Ha diretto il settimanale diocesano Il Ticino, ha fondato il Laboratorio di Nazareth per il lavoro dei Giovani, e oggi dirige la Caritas di Pavia. La sua la storia è quella di un esempio concreto di apostolato tra i bisognosi e punto di riferimento per la sua comunità

Riccardo Puglisi-Pil e altri indicatori di benessere

È possibile sintetizzare l’andamento di un’economia nel tempo dentro un solo indicatore come il PIL (prodotto interno lordo)? Come giustamente rilevato dall’amico Pietro Ripa nelle settimane scorse, è davvero eroico ritenere che una singola variabile sia sufficiente per catturare elementi cruciali che vanno considerati congiuntamente con il valore totale della produzione e del reddito, come la disuguaglianza e l’inquinamento, per non parlare della connessione tra andamento dell’economia e “felicità” dei cittadini.

Tuttavia, parafrasando la famosa battuta di Churchill sulla democrazia, la mia tesi sul PIL è che il PIL è la peggior forma di misurazione dell’andamento dell’economia, eccezion fatta per tutte quelle altre misure che sono state proposte finora. Per intenderci: se dobbiamo scegliere UNA SOLA misura, allora il PIL, e in particolare il PIL pro capite, va bene, perché le altre misure proposte (ad esempio il reddito netto disponibile delle famiglie, oppure un indice composito come lo Human Development Index, che mette insieme Pil pro capite, speranza di vita e anni di istruzione) aggiungono informazioni ma confondono le acque perché mettono insieme fattori diversi (sanità e istruzione) oppure ne tolgono una parte (le imposte tolte al reddito lordo per arrivare al reddito netto servono per finanziare i servizi pubblici e il welfare state).

Parentesi tecnica su che cosa è esattamente il PIL: esso rappresenta il valore totale di tutti i beni e servizi finali prodotti in un dato periodo di tempo in un certo paese, di solito in un anno o in un trimestre. Chi sono i soggetti che comprano tali beni e servizi? Le famiglie li acquistano per i propri consumi, mentre le imprese acquistano beni di investimento come impianti e macchinari per rimpiazzare la propria dotazione di “capitale” (pensate a macchinari ormai obsoleti o non funzionanti) oppure per aggiungerne di nuovi. Dal momento che l’economia è aperta ai rapporti con l’estero, dal lato della domanda (chi acquista la produzione nazionale?) vanno aggiunte le esportazioni, cioè gli acquisti di beni e servizi prodotti all’interno del paese ed acquistati da imprese o famiglie che stanno all’estero. Per essere coerenti bisogna però togliere dal valore delle esportazioni il valore delle importazioni, cioè dei beni e servizi finali acquistati all’estero: si tratta infatti di domanda che non va a comprare la produzione nazionale ma quella fatta all’estero. Dunque il concetto rilevante è quello delle esportazioni nette, cioè il valore delle esportazioni a cui si sottrae il valore delle importazioni.

E come entra in questo schema la parte pubblica dell’economia? Se il settore pubblico acquista beni e servizi questi fanno parte della domanda che acquista beni prodotti all’interno, e lo stesso vale per gli investimenti pubblici, cioè l’acquisto di beni che danno utilità per più di un periodo, come un ponte o un’autostrada. Anche gli stipendi pubblici entrano nel calcolo della spesa pubblica che acquista la produzione interna perché sono una misura del valore dei servizi pubblici prestati alla cittadinanza, quando non esiste un prezzo (come in questo caso) che definisce la quantità di moneta totale necessaria per acquistare quei servizi. Ad esempio nel settore sanitario, le imposte, cioè un prelievo coercitivo di risorse, finanziano l’acquisto di farmaci, il pagamento di medici e infermieri, mentre il paziente -a parte il pagamento aggiuntivo del ticket- usufruisce gratuitamente e universalmente di questi servizi di prevenzione, diagnosi e cura. Di fatto non esiste un prezzo per i servizi sanitari utilizzati dai consumatori finali, ma il suo valore è rappresentato dagli stipendi del personale, dall’acquisto di beni intermedi da parte della pubblica amministrazione eccetera.

Se prendiamo il PIL totale e lo dividiamo per la popolazione otteniamo il PIL pro capite, cioè una misura media della produzione e del reddito in un dato paese in un dato periodo di tempo. E da dove spunta il concetto di reddito? Un elemento contabile che qualcuno potrebbe persino definire “intrigante” è che a ogni acquisto di beni e servizi finali corrisponde un ricavo per i soggetti che li vendono, tipicamente imprese che utilizzano queste risorse incassate per pagare gli stipendi, i propri fornitori, gli interessi alle banche e i dividendi agli azionisti: da qui nasce l’uguaglianza tra spesa, valore della produzione e reddito (potere d’acquisto) che viene corrisposto a chi fornisce fattori produttivi (cioè lavoro e capitale) alle imprese che producono. E un concetto ancora più prezioso è quello di circuito del reddito, che a mio parere permette di comprendere abbastanza bene la forza teorica ed empirica del concetto di PIL: come sintetizzato nella Legge di Say (che -come ben argomentato dall’economista William Baumol- fu colposamente o dolosamente presentata in maniera caricaturale dal fondatore della macroeconomia, cioè John Maynard Keynes) la domanda di beni nasce dal lato dell’offerta, cioè dal lato delle imprese e degli altri soggetti che producono beni e servizi. Le imprese che vendono con successo beni e servizi danno risorse monetarie a lavoratori e capitalisti come reddito, il quale viene utilizzato da costoro per comprare beni e servizi finali, in un circolo virtuoso che diventa più ampio in termini assoluti se il PIL totale cresce, e in termini medi se il PIL pro capite cresce. E che succede se non tutto il reddito viene speso in consumi? La differenza positiva tra reddito e consumo è ovviamente il risparmio: esso è costituito da risorse monetarie che possono essere prestate alle imprese e allo stato per finanziare le proprie spese, in particolare quelle di investimento (ma non solo). Se poi si bada a non farci confondere le idee dall’inflazione (se da un anno all’altro si producono le stesse quantità di beni e servizi e i prezzi raddoppiano il PIL nominale raddoppia, mentre quello reale è inalterato), il PIL reale pro capite diventa una buona approssimazione del benessere economico medio dei cittadini in un dato paese in un dato periodo di tempo. Se si calcola il tasso di crescita percentuale del PIL reale pro capite si passa a una buona misura dello sviluppo economico pro capite nel tempo, ovviamente analizzando la cosa in un orizzonte temporale ragionevolmente lungo come un decennio o una generazione, cioè un quarto di secolo.

Vogliamo giustamente prestare attenzione alla disuguaglianza, all’inquinamento, alle condizioni sanitarie e dell’istruzione? Facciamolo pure, anzi dobbiamo farlo, ma consideriamole come indicatori separati e aggiuntivi rispetto al PIL, indaghiamone la correlazione con il PIL stesso, ma non rigettiamo il PIL come indicatore inutile perché non al passo con la moda dei tempi. Il passo della storia umana -dalla Rivoluzione Industriale in avanti, ma anche prima, e anche nel futuro- lo decidono di fatto il PIL e il PIL pro capite.

 

 

Riccardo Puglisi è professore ordinario di scienza delle finanze all’Università degli Studi di Pavia. Alunno del Collegio Ghislieri; ha studiato a Pavia (laurea in economia e dottorato in finanza pubblica) e alla London School of Economics (Master e PhD in economia).  

Si occupa principalmente del ruolo politico dei mass media, di finanza pubblica, e del ruolo economico delle istituzioni politiche. Ha pubblicato su riviste internazionali in economia e scienze politiche come il Journal of the European Economic Association, Journal of Politics e Journal of Public Economics. È redattore de lavoce.info.

Insegna scienza delle finanze a Pavia e in Bocconi e political economy a Pavia. Nel 2013-14 ha fatto parte di uno dei gruppi di lavoro nell’ambito della spending review condotta da Carlo Cottarelli; nel 2015 ha ottenuto il Premio Ghislieri con Virginio Rognoni, e nel 2016 ha vinto con James M. Snyder, Jr. la Hicks-Tinbergen Medal per il miglior articolo pubblicato nel biennio precedente sul Journal of the European Economic Association.

È ragionevolmente attivo sui social network, in particolare su Twitter.

 

 

 

Federico Diomeda- L’ambiente di lavoro nella composizione della Crisi di Impresa

Con l’entrata in vigore delle ultime modifiche al Codice della Crisi e dell’Insolvenza, il tema dell’ambiente di lavoro e dei doveri delle parti che era divenuto di notevole attualità al momento della partenza della Composizione Negoziata, diventa parte integrante e sostanziale del codice stesso.  Il legislatore ha confermato pienamente il desiderio di investire sulla più consapevole gestione (possibilmente anticipata) della crisi di impresa ed a tal fine ha specificamente normato quello che a me piace definire “l’ambiente di lavoro professionale” per tutti i soggetti coinvolti in ogni strumento di regolazione della crisi. Per tale motivo il nuovo articolo 4 del riformato CCI è rubricato “Doveri delle parti” e illustra in generale quale comportamento attivo il legislatore si aspetta che le parti (imprenditore e creditori da un lato, esperto della Composizione Negoziata e organi delle procedure, ove azionate) assumano durante ogni fase della regolazione della crisi. Al primo comma si richiama in generale il dovere di comportamento secondo buona fede e correttezza a valere su tutti gli strumenti di regolazione della crisi quindi non solo la composizione negoziata. Tale richiamo pertanto va inteso come monito generale sovrastante le specifiche ulteriori obbligazioni comportamentali e di trasparenza di volta in volta inserite negli specifici strumenti di regolazione. Il secondo comma illustra i doveri del debitore in termini: di piena disclosure della propria situazione “fornendo tutte le informazioni necessarie ed appropriate alle trattative avviate, anche nella composizione negoziata, e allo strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza prescelto” – di adozione tempestiva delle azioni idonee alla concreta realizzazione dello strumento prescelto – di gestione del patrimonio e dell’impresa nell’interesse prioritario dei creditori. Con riferimento ai creditori, il quarto comma impone il dovere per costoro di collaborare lealmente con il debitore, con l’esperto della composizione negoziata e con gli organi nominati dalla autorità giudiziaria e amministrativa e di rispettare l’obbligo di riservatezza sulla situazione del debitore. I richiami comportamentali sono invece contenuti nell’articolo 16 del CCI creando un virtuoso collegamento con le norme generali di cui al ridetto articolo 4. Come ormai noto, la Composizione Negoziata si basa sulla nomina di un esperto indipendente che faciliti il perseguimento del risanamento dell’impresa attraverso la disamina di adeguata informativa finanziaria ed industriale prodotta da parte dell’imprenditore che dovrà dotarsi di un controllo interno efficiente ed essere assistito da consulenti preparati che possono aiutarlo nella preparazione del set informativo di base. Scopo evidente della Composizione Negoziata è quello di aiutare la prevenzione e gestione della crisi di impresa con modalità più, oserei dire, flessibili rispetto all’impianto delle procedure di allerta di cui alla parte seconda del titolo primo del Codice della crisi e della insolvenza che viene definitivamente eliminata. A tale fine il legislatore propone un metodo di composizione negoziata basato su tre presupposti di “buon ambiente di lavoro”:1) la nomina di un esperto indipendente; 2) il ragionevole perseguimento del risanamento dell’impresa; 3) la immediata produzione, fra molti altri documenti richiesti, di adeguata informativa finanziaria ed industriale da parte dell’imprenditore. Lo schema operativo si snoda pertanto con un meccanismo di indubbio carattere aziendalistico, in linea con il già vigente obbligo in capo a tutti gli imprenditori di possedere un adeguato assetto organizzativo atto alla misurazione della persistenza della continuità aziendale. Occorre segnalare una novità rispetto al precedente art. 5 del DL 118 del 2019. Infatti  fra i documenti da allegare alla domanda è necessario non solo: “una situazione patrimoniale e finanziaria aggiornata a non oltre sessanta giorni prima della presentazione dell’istanza” e “una relazione tecnica chiara e sintetica sull’attività in concreto esercitata recante un piano finanziario per i successivi sei mesi e le iniziative industriali che l’imprenditore intende adottare”, ma anche “un progetto di piano di risanamento redatto secondo le indicazioni della lista di controllo, di cui all’art.13, comma 2”. L’inserimento di questo documento già in sede di domanda di accesso alla Composizione Negoziata chiude il dibattito sorto proprio in relazione alla capacità, specialmente delle piccole imprese, di essere in grado di produrre sin da subito un piano di risanamento. Al tempo il legislatore aveva optato per una soluzione più morbida di fatto obbligando l’esperto nominato a sovrintendere alla fase di preparazione del piano. La attuale formulazione non lascia dubbi ed obbliga l’imprenditore ed i suoi consulenti a presentare sin dall’inizio un progetto di piano di risanamento avvalendosi delle indicazioni operative della lista di controllo. Personalmente non mi sento di considerare questa “novità” come un irrigidimento a danno dell’impresa – piuttosto mi pare un richiamo a dotarsi di strumenti di controllo e misurazione di performance. E siccome l’esperto “agevola le trattative tra l’imprenditore, i creditori ed eventuali altri soggetti interessati” la creazione di un set informativo di base più idoneo a tale arduo compito va salutato con favore anche perché aiuta l’esperto a rimanere il più indipendente possibile”. A tale riguardo l’art.  16 del CCI conferma l’afflato aziendalistico della composizione negoziata della crisi e disciplina il cosiddetto “ambiente di lavoro”. L’esperto deve operare “in modo professionale, riservato, imparziale e indipendente“. Egli può chiedere all’imprenditore e ai creditori tutte le informazioni utili o necessarie e può avvalersi di soggetti dotati di specifica competenza, anche nel settore economico in cui opera l’imprenditore, e di un revisore legale. Si conferma dunque il ben ampio il potere di azione dell’esperto che deve poter effettivamente agevolare le trattative, cui le parti non possono sottrarsi per i doveri di buona fede e correttezza. Corrispondentemente, l’imprenditore ha il dovere di rappresentare la propria situazione a tutti in modo completo e trasparente e deve gestire l’impresa senza recare pregiudizio. Ancora, “tutte le parti coinvolte nelle trattative hanno il dovere di collaborare lealmente ed in modo sollecito con l’imprenditore e con l’esperto” – “le medesime parti danno riscontro alle proposte e alle richieste che ricevono durante le trattative con risposta tempestiva e motivata“.

Da segnalare inoltre il comma specificamente dedicato al mondo della finanza:le banche e gli intermediari finanziari, i loro mandatari e i cessionari dei loro crediti sono tenuti a partecipare alle trattative in modo attivo e informato“. L’obbligo di responsabilità comportamentale delle parti della crisi diventa la base del successo della risoluzione della crisi stessa, cui deve associarsi la capacità degli imprenditori di essere efficaci nel controllo di gestione e nella misurazione dei loro KPI. In tal senso la lista di controllo che aiuta la preparazione del progetto di piano contiene certamente le istruzioni minimamente necessarie per avvicinarsi alla composizione negoziata ed al contempo costituiscono un set operativo che consente di “leggere” la continuità aziendale in un modo costante a evitare un eccesso di “sorprese”. La crisi d’impresa, infatti, non è solo un problema dell’imprenditore, ma di tutti i soggetti coinvolti.

 

Dottore Commercialista e revisore contabile con specializzazione aziendalistica in adeguati assetti organizzativi, controllo di gestione e finanza aziendale, Financial reporting e Sustainability reporting e materie ESG, valutazioni di aziende. Amministratore e liquidatore di aziende commerciali. Esperto di prevenzione e gestione della crisi di impresa. Esperto nella composizione negoziata. Curatore Fallimentare, Commissario Giudiziale e Liquidatore Giudiziale.

E’ stato Presidente (dal 2006 al 2009) quindi CEO (dal 2009 al 2014) di E.F.A.A European Federation of Accountants and Auditors for SMEs (www.efaa.com), svolgendo attività politico-tecnica per la professione con il Parlamento Europeo e la Commissione Europea, IFAC, AE, EFRAG, Banca Mondiale, OECD, UNCTAD ed altre istituzioni internazionali che si occupano di principi contabili e di revisione.

Federico Vasoli-Il Vietnam e il suo boom economico come opportunità per le nostre imprese

Chi tra i dodici lettori di questo mio breve scritto è stato in Vietnam o ne ha viste immagini recenti delle principali città, sarà rimasto senza dubbio colpito dal traffico caotico, composto soprattutto da orde di motorini che sovente sfrecciano contromano e sui marciapiedi.

Milioni di persone tutti i giorni trasportano altre persone, oggetti e animali incessantemente da un angolo all’altro del paese, convinte che domani staranno meglio di oggi. In questo caos, fu facile per me, all’epoca, 2007, ironizzare sulla legge che avrebbe reso il casco obbligatorio dal 2008. Ebbene, il 1 gennaio seguente praticamente tutti indossavano il casco, magari non conforme agli standard europei, ma comunque una protezione c’era ed era stata attuata con rigore e rapidità.

Qualche anno dopo, un paese la cui economia era quasi esclusivamente basata sul contante, passò al mondo fintech in un batter d’occhio. I bonifici eseguiti online sono pressoché immediati e i punti accumulati – un po’ come le miglia aeree – possono essere convertiti in corse, consegne e acquisti presso i partner affiliati gratuiti o scontati.

In tutto questo, nonostante dazi, tasse speciali e noti problemi di logistica post pandemia e nonostante il reddito pro capite si attesti attorno ai 4.000,00 USD (dato da depurare, poiché solo il 36% della giovane popolazione di quasi cento milioni di vietnamiti vive in città), la domanda di prodotti di lusso, dal marmo di Carrara alle Bentley, dai grandi vini e alle cucine iper tecnologiche, non conosce flessione.

Dati noti, ma che giova ripetere: il Vietnam dal 1997, dopo tre guerre d’Indocina di cui una d’indipendenza e una civile in soli quarant’anni, cresce ogni anno a ritmi simili a quelli dell’ingombrante vicino cinese e nel 2022 ha registrato un aumento record, il maggiore in Asia, pari all’8,02%.

Inoltre, il Paese ha importato beni e servizi per poco più di 360 miliardi di dollari e ne ha esportati per oltre 381 (l’interscambio commerciale con l’Italia si assesta sui 6 miliardi), diventando così il maggior trader dell’area ASEAN dopo Singapore e prima della Thailandia. Ancorché vi siano talvolta alcuni sommovimenti interni al partito comunista che tangono anche il settore privato, il paese è alquanto stabile, non solo sul piano politico-governativo, ma anche su quello sociale: al netto delle differenze regionali facilmente riscontrabili nell’accento e nella cucina (in questi aspetti e in tanti altri il Vietnam è una specie di Italia del sud est asiatico) e di sperequazioni economiche peraltro non esagerate, non si registrano tensioni sociali, religiose, etniche. I giovani, che magari hanno vissuto la povertà, ma non la miseria, studiano e lavorano, desiderosi di mantenere e migliorare il proprio status. Il COVID è stato gestito in maniera quasi impeccabile: nel 2020, memori della SARS, i vietnamiti hanno chiuso i confini ben prima di altri e nel 2021, dopo qualche tentennamento, hanno vaccinato, anche grazie all’aiuto dei Paesi dell’UE e degli USA, il grosso della popolazione con AstraZeneca, Pfizer e Moderna.

Innumerevoli imprese hanno ampliato o spostato tout-court la propria base produttiva dalla Cina al Vietnam, in considerazione di molteplici fattori: diversificazione delle fonti produttive, appartenenza all’ASEAN, accordi di libero scambio con economie vicine e lontane, costi e qualità della manodopera, posizione geografica strategica, prossimità ai popolosi e relativamente giovani mercati di sbocco nella regione.

Nel solo 2022 sono entrati quasi 28 miliardi di dollari di investimenti diretti esteri, un dato simile a quello del 2020, con Singapore, Corea del Sud, Giappone, Cina e Hong Kong ai primi posti per territori di provenienza.

Se il Vietnam è un Paese eminentemente manifatturiero, da qualche anno la quota di servizi sul PIL ha superato il settore secondario.

Quanto all’interscambio, gli USA primeggiano come primo partner importatore. Ancora più interessanti sono i principali prodotti dell’export vietnamita: non solo calzature e abbigliamento (al quinto e quarto posto, rispettivamente), ma anche e soprattutto macchinari e componenti (quasi 42 miliardi di dollari di export), computer e accessori (oltre 50 miliardi), smartphone e accessori (quasi 55 miliardi).

Il Vietnam non è più solamente un Paese esportatore di prodotti semplici e altamente labour-intensive, ma anche di oggetti con un contenuto tecnologico piuttosto elevato, sul quale i giganti del settore hanno puntato con convinzione. Un’inflazione che appare sotto controllo attorno al 5%, aiuta.

A questo quadro del tutto positivo, con previsioni di crescita sostenuta anche per il 2023, va aggiunta l’enucleazione delle principali criticità che un Paese non ancora pienamente sviluppato come questo si trova ad affrontare e che impattano anche sugli investitori stranieri.

A mio personale giudizio, memore dei fattori che scoraggiano gli investimenti stranieri nella mia Italia, pongo l’incertezza del diritto e del funzionamento dei tribunali civili al primo posto. Il Vietnam è un paese di Civil Law, con un codice civile di derivazione napoleonica, che ha fatto straordinari passi avanti nell’adeguare il proprio ordinamento alle sfide contemporanee. Le significative riforme del diritto societario varate nel 2020 vanno in questa direzione. Ma non basta: permangono lacune e contraddizioni, e soprattutto, il sistema è imbevuto di norme non scritte che hanno a che fare con i complessi meccanismi gerarchici, familiari e familistici, che compongono l’ossatura della società e del modo di condurre gli affari in questo Paese. Va ricordato che il vietnamita è di fatto una lingua che si parla in… terza persona, per cui i pronomi personali variano al variare del rapporto di età e di gerarchia politica e famigliare (donna più giovane legge articolo di uomo più anziano; donna più giovane sposata con uomo più anziano diventa suo parigrado rispetto ai di lui fratelli più piccoli, ancorché anagraficamente più grandi di lei). Resistono al tempo le tradizioni, al limite della superstizione, per cui non è così infrequente attendere il giorno fortunato prima di concludere un affare, o consultare l’oroscopo della controparte prima di lanciarsi in una joint-venture, o ancora pagare i debiti prima del capodanno lunare. Il capitalismo è eminentemente di relazione e “i loro” vengono “prima”. Il riconoscimento di atti e titoli stranieri è arduo e le corti sono di un formalismo estremo, per cui la triste pratica di condurre affari anche importati con messaggini, senza contratti ben redatti, tradotti, semplici da comprendere da parte dell’interprete giudice, rende vano qualunque tentativo di soddisfacimento giudiziale delle proprie pur fondate e legittime pretese.

Vi sono poi sfide intrinseche a un Paese che ha comprensibilmente dato la priorità alla crescita economica rispetto a tutto il resto: inquinamento, sicurezza alimentare, sicurezza ambientale, tutela dei diritti dei lavoratori, sanità pubblica, qualità delle costruzioni e delle infrastrutture, per citare solo le principali, senza contare il difficile ma inevitabile rapporto con la Cina.

In tutto questo l’Italia potrebbe fare molto: possiamo fornire al Vietnam soluzioni ecosostenibili in cui siamo campioni, vendere macchinari, prodotti per il settore petrolchimico, arredamento a elevato contenuto tecnologico, e poi espandere la produzione anche in Vietnam significa non solo presidiare un’economia in pieno boom, ma anche servire più da vicino la clientela di tutta la regione, realizzare sul posto le linee non necessariamente di alta gamma ed evitare che la concorrenza prenda il sopravvento anche alle latitudini nostre. E torniamo ai motorini con cui abbiamo esordito. VinFast, car-maker locale nato solo pochi anni fa dal gigante VinGroup, ha già sviluppato il proprio scooter, non così dissimile dalla Vespa. Piaggio presidia da quindici anni il mercato locale e regionale con, tra l’altro, un intelligente posizionamento del proprio brand nel segmento elevato. Ma, così come le case degli italiani sono ora piene di elettrodomestici giapponesi, coreani e anche cinesi di qualità, non è potenzialmente lontano il momento in cui, per inazione dei nostri, i produttori vietnamiti scalzeranno anche quelli italiani.

Il 2023 segna il cinquantesimo anniversario delle relazioni diplomatiche tra Italia e Vietnam. Se tali relazioni sono eccellenti da anni, non altrettanto si può dire degli investimenti italiani in Vietnam. L’auspicio è che business e cultura marcino di pari passo con politica e diplomazia, con slancio.

 

Avvocato, opera in molteplici ordinamenti e culture. Managing partner dello studio di consulenza legale e tributaria dMTV Global, con uffici a Singapore, Malta e Vietnam, dopo avere lavorato in studi legali a Pechino, Bruxelles, Barcellona e Milano. È stato socio dello studio legale de Masi Taddei Vasoli, di Milano. Da oltre vent’anni assiste i propri clienti principalmente su contratti nazionali e internazionali e diritto societario, investimenti diretti esteri, asset protection, immigrazione, trust, questioni fiscali internazionali, in una molteplicità di settori. Ha fornito assistenza legale in numerosi casi inerenti i rapporti d’affari tra Europa e Asia e oltre 200 progetti blockchain, principalmente a Singapore e Malta, e più recentemente ad Antigua e Barbuda e in altri ordinamenti caraibici. L’essere stato esposto alle culture e ai mercati europei e asiatici già in giovane età, e a fianco di grandi maestri del diritto, come gli avvocati Daniel Vedovatto a Bruxelles nel 2004, Carles Moner a Barcellona nel 2011 e Gianfranco Negri-Clementi a Milano, gli ha permesso di sviluppare la capacità di lavorare su casi multi-ordinamento e di forgiare una mentalità orientata al risultato. È stato vicepresidente dell’Associazione Giovani Avvocati di Milano (AGAM), riveste svariate posizioni in consigli direttivi, anche di organizzazioni no-profit, ed è general counsel indipendente di nextAI Ltd e general counsel e managing partner Singapore e Asia-Pacific di Spektral USA LLC, entrambi spin-off di Harvard Medical School e MIT Sloan Alumni. E’ relatore al MIP – Politecnico di Milano, alla National Economic University di Hanoi e mentore di studenti MBA all’Università Cattolica di Milano e autore di pubblicazioni giuridiche e di business. È socio di Finance Malta, della Malta Chamber of Commerce, del Malta Business Network, della Camera di Commercio Italia-Vietnam (CCIV), dell’Italian Chamber of Commerce in Vietnam (Icham), della Vietnam Private Business Association, della Singapore Business Association in Vietnam, della Italian Chamber of Commerce in Singapore (ICCS) e di EuroCham in Vietnam e a Singapore. Ha fatto parte della delegazione del Gruppo Giovani Imprenditori di Confindustria al G20 Young Entrepreneurs’ Alliance. Laureato all’Università Bocconi di Milano, ha frequentato corsi post-laurea all’Università di Vienna, all’ISPI di Milano, all’Università di Strasburgo, all’ESADE di Barcellona, all’IFSP di Malta e all’Università di Edimburgo

Gastone Breccia- Una guerra semplice

La guerra è tornata in Europa dopo quasi ottant’anni. La guerra convenzionale, «simmetrica», tra due eserciti potenti, armati in maniera simile, capaci di condurre operazioni prolungate ad alta intensità sul campo di battaglia. Ci riguarda tutti, e ha una posta in gioco altissima; ma quella iniziata per volontà di Vladimir Putin e della Russia il 24 febbraio 2022 è anche una guerra semplice. Le motivazioni sono chiare, così come gli scopi, gli errori commessi e le ragioni degli sviluppi recenti sul campo di battaglia.

È semplice, per prima cosa, la motivazione fondamentale della Russia per attaccare l’Ucraina: Putin ha pensato di avere l’occasione di rovesciare il governo di Kiev, chiaramente orientato all’amicizia con l’Occidente, e ha deciso di coglierla usando la forza. Ma è semplice anche la ragione del fallimento della cosiddetta “Operazione Speciale”, la guerra-lampo che avrebbe dovuto consentire ai russi di insediare un governo amico a Kiev in una decina di giorni: Putin e i suoi generali erano stati male informati sulla solidità del “regime” ucraino, sulla volontà di resistenza della popolazione, e si erano convinti (da soli) che USA e NATO non fossero in grado di reagire in tempo. È semplice la ragione della tenacia mostrata dagli ucraini nell’opporsi all’invasione: “ogni popolo amante della libertà, alla fine sarà libero” (Simon Bolívar). Ovvero: quando un estraneo entra a casa tua con le armi in pugno, e vuole farla da padrone, tu combatti e combatti e combatti fino a cacciarlo, quali che siano i sacrifici necessari. È semplice, infine, la ragione per cui gli USA, passati i primi giorni in cui “tutto poteva accadere” (quando Biden offrì un passaggio in America a Zelensky, ottenendone una risposta passata alla storia), abbiano appoggiato l’Ucraina, ma non troppo: il massimo vantaggio, per loro, è vedere la Russia che si dissangua, perde uomini armamenti e prestigio, senza rischiare una guerra su vasta scala. Quindi sì agli HIMARS, no ad aerei carri armati e truppe. Sono persino semplici la ragioni per cui i russi non hanno sfondato le linee ucraine e non hanno ottenuto risultati decisivi sul campo: non hanno mai avuto una superiorità numerica sufficiente, non hanno saputo adattarsi rapidamente a una situazione diversa dalle loro aspettative, l’eccezionale sostegno dell’intelligence occidentale alle forze ucraine li ha messi costantemente in situazione di inferiorità sul campo di battaglia.

Queste sono le coordinate essenziali del conflitto. Il resto è propaganda. Non si può dar credito a Putin quando sostiene che la Russia fosse minacciata militarmente dall’Ucraina, e quindi giustifica l’aggressione come una “difesa preventiva”. Né quando parla della necessità di intervenire per fermare il “genocidio” in atto a danno dei russofoni del Donbass. Siamo di fronte a una guerra iniziata per motivi neo-imperiali, legati alla volontà di riaffermare il dominio russo su una parte dell’ex impero zarista-sovietico ritenuta troppo importante per essere “ceduta” all’Occidente, anche sotto forma di semplice alleanza economico-politica.

Dunque non possiamo avere dubbi: ha torto chi ha violato in armi i confini di un paese sovrano che non costituiva una minaccia alla sua sicurezza, chi ha creduto di poter spezzare la volontà di resistenza del suo popolo con il terrore, chi ha massacrato civili e devastato paesi e città. Ha ragione chi difende la propria terra, la propria casa, la propria vita. È una sorta di livello zero, ma imprescindibile, da cui partire per acquisire consapevolezza di ciò che sta accadendo da quasi un anno in Ucraina.

Il 2023 sarà un altro anno di guerra, probabilmente. Non ci sono, attualmente, le premesse per un accordo di pace: Putin ha “annesso” illegalmente quattro regioni ucraine, e non può abbandonarle senza dichiarare la propria sconfitta, cosa che farà solo se costretto con la forza militare. Forza che gli ucraini, al momento, non hanno.

Ma la via per la pace passa attraverso la giustizia, ovvero la fine dell’invasione, la punizione dei criminali di guerra e la libertà del popolo ucraino. Si illudono quelli che, magari in buona fede, auspicano una “resa” degli ucraini di fronte al fatto compiuto dell’occupazione russa di una parte del loro paese. Sarebbe nient’altro che una tregua instabile, avvelenata dal rancore, ben presto macchiata di violazioni di ogni tipo. Un passo verso il passaggio dal conflitto che abbiamo sotto gli occhi a una guerra civile feroce, che lascerebbe spazio alle forze peggiori delle due parti in lotta. Speriamo di non dover assistere a questo.

 

Livornese, classe 1962, laureato in lettere classiche a Pisa, ha conseguito il dottorato di ricerca in Scienze Storiche presso la Scuola Superiore di Studi Storici dell’Università di San Marino. Dal 2001 insegna Civiltà bizantina, Letteratura bizantina e Storia militare antica presso il Dipartimento di Musicologia, Lettere e Beni Culturali di Cremona (Università di Pavia). È membro del comitato scientifico della Società Italiana di Storia Militare. Da sempre appassionato di storia militare, ha pubblicato numerose monografie con varie case editrici, tra le quali si segnalano: L’arte della guerra. Da Sun Tzu a Clausewitz, Torino, Einaudi, 2009; I figli di Marte. L’arte della guerra a Roma antica, Milano, Mondadori, 2012; L’arte della guerriglia, Bologna, Il Mulino, 2013 (nuova edizione: 2022); 1915. L’Italia va in trincea, Bologna, Il Mulino, 2015; Lo scudo di Cristo. Le guerre dell’impero romano d’Oriente, Roma-Bari, Laterza, 2016; Scipione l’Africano. L’invincibile che rese grande Roma, Roma, Salerno, 2017; Corea. La guerra dimenticata, Bologna, Il Mulino, 2019; Missione fallita. La sconfitta dell’Occidente in Afghanistan, Bologna, Il Mulino, 2020; La grande storia della guerra, Roma, Newton Compton, 2020; Le guerre di Libia. Un secolo di guerre e rivoluzioni (con Stefano Marcuzzi), Bologna, Il Mulino, 2021; Il demone della battaglia. Alessandro a Isso, Bologna, Il Mulino, 2023 (in corso di stampa); Trafalgar, Torino, Einaudi, 2023 (in corso di stampa). Ha condotto ricerche sul campo in Afghanistan (2011) e in Kurdistan (Iraq e Siria, 2015), dopo le quali ha pubblicato saggi sulla missione ISAF (La tomba degli imperi, Milano, Mondadori, 2013), e sulla guerra contro lo Stato Islamico (Guerra all’ISIS. Diario dal fronte curdo, Bologna, Il Mulino, 2016).

Andrea Bracchi-Trust: cambio di rotta dell’Agenzia delle entrate sulla fiscalità indiretta

Lo scorso 20 ottobre 2022 l’Agenzia delle entrate ha pubblicato la – tanto attesa – circolare in materia di trust, fornendo alcuni rilevanti chiarimenti in relazione alla disciplina fiscale applicabile ai trust ai fini delle imposte dirette e indirette.

Uno dei principali chiarimenti – che si commenterà di seguito – è certamente rappresentato dal cambio di impostazione dell’Agenzia delle entrate in merito all’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni ai trust.

Si ricorda, in via preliminare, che il trust si sostanzia in un rapporto giuridico fiduciario mediante il quale un soggetto (“disponente” o “settlor”) trasferisce beni e/o diritti ad un altro soggetto (“trustee”), affinché quest’ultimo li gestisca, coerentemente con quanto previsto dall’atto istitutivo del trust, nell’interesse di uno o più beneficiari, o anche per uno scopo prestabilito.

I trust possono essere istituiti per diverse ragioni: tra i più diffusi vi sono certamente i cd. “trust familiari”, ovvero i trust istituiti con finalità di passaggio generazionale (es. per proteggere patrimoni familiari impedendo il frazionamento della proprietà dell’azienda di famiglia tra più discendenti), oppure con finalità di assistenza (es. per tutelare un familiare che è troppo giovane oppure non è sufficientemente responsabile per poter gestire i propri affari).

Come anticipato, la circolare dell’Agenzia delle entrate contiene una rilevante novità in materia di imposta sulle successioni e donazioni: l’Agenzia delle entrate recepisce, infatti, in un documento di prassi a valenza generale l’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza della Corte di Cassazione in merito all’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni ai trust.

In particolare, si passa da un modello in cui l’apporto dei beni dal disponente al trust scontava immediatamente l’imposta sulle successioni e donazioni al momento della segregazione dei beni in trust, sulla base del valore dei beni apportati e delle aliquote e franchigie vigenti al momento dell’apporto; ad un modello in cui l’apporto dei beni in trust non sconta l’imposta sulle successioni e donazioni, rimandando l’imposizione al momento della successiva devoluzione dei beni dal trustee ai beneficiari, con tutto quello che ne consegue in termini di maggior valore dei beni spettanti ai beneficiari – rispetto al momento in cui è stato istituito il trust – e, soprattutto, in termini di aliquote e franchigie applicabili al momento della devoluzione.

Sono infatti frequenti, in questi ultimi anni, i rumour relativi ad un possibile inasprimento dell’imposta sulle successioni e donazioni (che potrebbe comportare un innalzamento delle aliquote, una riduzione delle franchigie o, ancora, una modifica alle modalità di determinazione della base imponibile). È chiaro che, qualora tale inasprimento si verificasse, la devoluzione del fondo in trust ai beneficiari ne sarà impattata (rispetto al quadro previgente in cui l’Agenzia delle entrate aveva chiarito che la tassazione “in entrata” – ovvero al momento dell’apporto dei beni in trust – esauriva qualsiasi ulteriore tassazione al momento della devoluzione dei beni dal trust ai beneficiari).

In conclusione, ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni si passa dal precedente modello impositivo del trust, che prevedeva una tassazione immediata e certa nel quantum; ad un nuovo modello impositivo del trust, che prevede una tassazione differita, ma incerta nel quantum.

 

 

Laurea in Economia presso l’Università degli Studi di Pavia, studente dell’Almo Collegio Borromeo, consegue l’abilitazione alla professione di dottore commercialista. Ha iniziato la propria carriera lavorativa presso un primario studio tributario italiano. Dal 2019 lavora presso il Dipartimento Fiscale di BonelliErede e si occupa, in particolare, di private clients, operazioni di M&A, fiscalità d’impresa, dei gruppi societari e dei fondi d’investimento. E’ autore di diverse pubblicazioni in materia tributaria.

Paolo Macrì-Le aziende tra “grandi dimissioni” e metaverso

«È finito il lockdown e noi siamo tornati arrabbiati, iracondi, grigi… come eravamo sempre stati». Così dice Alfredo, protagonista di uno sketch teatrale creato apposta per un convegno di Confindustria sull’umanesimo aziendale. Il tono è ironico, ma la realtà non è così lontana dalle parole (pungenti, disilluse) che l’attore ha deciso di portare in scena. Il mondo si sta “riprendendo” dopo aver vissuto un periodo di crisi, ma sembra ormai impossibile tornare alla vita così come la conoscevamo pre-pandemia. Pensare che la “normalità” di adesso possa tornare uguale a quella di prima è assurdo; e anche se oggi si sente parlare spesso di new normal, non si può ancora definire con certezza cosa sia – perché non si è ancora assestato, è in sviluppo costante. Quello che sappiamo con sicurezza è che non possiamo più (e non dobbiamo) tornare indietro.

Certo, dopo due anni di estreme difficoltà il bisogno di tornare alla routine a noi più familiare è comprensibile. Riprendere le vecchie abitudini non solo è comodo, ma rassicurante: come tutte le crisi, la pandemia ha mostrato le imperfezioni del modo in cui vedevamo il mondo, il lavoro, la nostra stessa vita.

Non siamo troppo negativi: è durante i momenti difficili che nascono nuove soluzioni. Senza un periodo di fermo come quello vissuto, non ci saremmo resi conto di essere “seduti” su una miniera d’oro composta da videochiamate istantanee, chat online, classi virtuali…

Il mondo del lavoro (e della scuola) è stato quello che più di tutti ha dovuto piegarsi e reinventarsi davanti all’enorme cambiamento imposto dal lockdown. Da un giorno all’altro un altissimo numero di lavoratori è stato costretto a spostare le proprie attività dall’ufficio a casa. Di smart-working all’estero si parlava già da qualche anno, ma in Italia è sempre sembrata una realtà abbastanza lontana: eppure, contro ogni previsione, quando siamo stati costretti a metterlo in atto il sistema di lavorare da casa ha funzionato.

La tecnologia ha fatto un salto incredibile in avanti, aprendo le porte a nuovi scenari mai pensati prima, anche se non tutti sono disposti ad esplorare appieno questo nuovo mondo. Immaginate di poter partecipare a una riunione, magari in un’altra città, senza mettere piede fuori casa. Immaginate di dover progettare la ricostruzione di un palazzo, dalle fondamenta all’ultimo piano, e di poter passeggiare per l’intero cantiere rimanendo fermi sulla poltrona del salotto.

Due anni fa l’idea era impossibile, ma ora con l’avvento del metaverso si parla di riunioni tramite ologramma. L’idea può far storcere il naso – e fa venire in mente scene simili a quelle viste in Star Wars – ma questa è una realtà più vicina di quanto possiamo immaginare: si pensi alla digital fashion, che ormai ha preso piede sia negli Stati Uniti che in Oriente per combattere lo spreco della fast fashion, in cui i vestiti si comprano ma possono essere indossati solo virtualmente. Se avere un intero armadio mediatico è possibile, perché l’idea di applicare questa innovazione al mondo del lavoro trova ancora delle resistenze?

Anche senza gli ologrammi, ci sono già i mezzi per lavorare in modo efficiente, e comodo. Meno stressante, meno “iracondo, arrabbiato e grigio”, come sottolinea una recente ricerca presentata alla Bologna Business School: il 37% degli intervistati si è detto più tranquillo quando in smart working, il 25% più concentrato e il 7% più creativo. In tutto il mondo esperimenti di questo tipo stanno dando risultati simili.

La pandemia non ha solo creato problemi: in qualche modo ci ha insegnato a guardare molti aspetti della nostra vita sotto una luce diversa. Lontani dalle quattro mura dei nostri uffici, costretti a rimanere soli con noi stessi, abbiamo imparato a conoscerci meglio. Mentre prima vivevamo nell’idea che nulla potesse scalfirci, ora ci siamo resi conto che molti aspetti della nostra “vecchia” vita non erano così perfetti come credevamo. La nostra routine, il nostro modo di lavorare, persino il concetto stesso del lavoro è stato stravolto: dal bisogno di doverci dimostrare sempre forti, siamo passati alla necessità di parlare anche del lato umano. La pandemia ha svelato una verità scomoda: non siamo indistruttibili… e va bene anche così.

Si è passati da una cultura che esaltava la figura del “lavoratore incallito” – che fa straordinari tutti i giorni, si sveglia alle cinque del mattino, beve mille caffè per rimanere attivo e non ha un attimo da dedicare alla sua vita sociale – a una nuova visione di come il lavoro dovrebbe essere. Non a caso, la flessibilità di orario è uno tra i benefit maggiormente richiesti; forse abbiamo imparato a goderci le piccole cose.

Sono in tanti ora a non voler tornare indietro, perché il benessere è una priorità anche nelle aziende. L’anno appena trascorso è stato caratterizzato dalla “Great Resignation” (grandi dimissioni con un aumento dei licenziamenti volontari dell’85%). Il fenomeno rappresenta il volto dei lavoratori dipendenti alla costante ricerca di un equilibrio tra vita privata e lavoro: chi ha sperimentato un modello più conveniente, ora non vuole piegarsi alla routine del pre-pandemia.

È necessario un salto culturale, “una scossa” per far capire quanto sia importante guardare al futuro, cercando una collaborazione, tra azienda e lavoratore, tra manager e operaio, tra persona e persona. Le aziende, per l’importante ruolo che ricoprono nella società contemporanea, devono assumere una responsabilità sociale verso i lavoratori e in generale verso la comunità e il territorio dove operano.

 

Nato a Genova nel 1971, laureato in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Genova; si occupa da vent’anni di editoria elettronica e di nuovi media per l’apprendimento e la comunicazione, ha ideato e coordinato decine di piattaforme e-learning, webtv e progetti multimediali integrati per web e social media; è stato relatore in numerosi convegni su didattica, aggiornamento professionale, e-Learning e ICT, con specifica competenza nell’area salute; ha svolto molteplici attività di docenza presso istituti pubblici e privati, enti di formazione e nell’ambito di master e corsi universitari. È stato professore a contratto dal 2004 al 2018 presso l’Università degli Studi di Genova – Scuola di Scienze Umanistiche, per i Corsi di laurea di Lingue e Letterature Straniere e di Informazione ed Editoria. Presidente del gruppo societario GGallery, che opera nel settore dell’editoria, dell’e-learning e della comunicazione web; è consigliere di amministrazione del Consorzio SI4Life, Polo Regionale Ricerca e Innovazione; dal 2018 al 2021 è Membro delle Commissioni esterne e indipendenti di valutatori dei Piani formativi presso Fondazione Fondirigenti “G. Taliercio”; nel 2021 è co-fondatore del progetto di influence marketing CFactor; nel 2022 ha fondato la Rete di Imprese BAM Communication di cui è Vice Presidente; dal 2022 è Presidente della Sezione Terziario di Confindustria Genova.

Angela Maria Scullica- Il ruolo del giornalista e il business model di una moderna casa editrice

Con l’avvento dei social, lo sviluppo dell’intelligenza artificiale e l’accelerazione dei processi di digitalizzazione avvenuta in questi ultimi due anni di pandemia, il mestiere del giornalista e il business model di una casa editrice si sono radicalmente trasformati.  Oggi ci si interroga sul nuovo ruolo che sta assumendo il giornalista in quella che è stata definita l’era digitale (cui ora possiamo aggiungere anche dell’intelligenza artificiale) e sulle caratteristiche che deve assumere una casa editrice per restare sul mercato. Le due questioni viaggiano infatti in parallelo perché entrambe partono da una realtà in cui le fonti di informazione sono cresciute in maniera esponenziale, tutti parlano e comunicano, le fake news circolano senza controllo e appaiono sempre più credibili.

Il modo stesso in cui funzionano i social presenta aspetti positivi ma anche negativi; tra essi due criticità hanno un impatto sociale considerevole: la prima è il cosiddetto “effetto bolla “sulle notizie che inducono, inconsapevolmente per chi ne è oggetto, certi comportamenti sociali e di consumo, la seconda consiste nel favorire la tendenza, peraltro umana, a raccogliersi in gruppi omogenei di pensiero, riducendo così il dialogo e gli scambi di pareri e opinioni divergenti a scapito del progresso delle idee e della conoscenza.

Bene, stando così le cose, cerchiamo innanzitutto di delineare quello che oggi sta diventando il ruolo del giornalista. E partiamo dicendo che, proprio per effetto di quanto detto sopra, questo ruolo acquisisce più importanza principalmente sotto due punti di vista. Il primo è nella difesa della democratizzazione del pensiero, in quanto il giornalista è chiamato a favorire lo scambio di idee, l’approfondimento e il confronto, tra gruppi, settori, correnti, professioni differenti in modo da cogliere quell’essenza sociale e innovativa che un mondo in continua evoluzione ha dentro di sé. Il secondo è nella funzione professionale di selezione, verifica e valutazione delle innumerevoli fonti oggi a disposizione, di gerarchizzazione corretta e ragionata e di sintesi dei fatti, degli eventi, degli scenari in evoluzione. Tutto ciò richiede da parte del giornalista una forte capacità comunicativa personale e di utilizzo del maggior numero possibile di mezzi di comunicazione; creatività e iniziativa anche nelle pubbliche relazioni, nell’organizzazione di dibattiti e convegni; una conoscenza informatica notevole che oggi si allarga anche ai software di intelligenza artificiale. E comporta soprattutto un atteggiamento morale ed etico nello svolgimento del proprio lavoro orientato a fornire al pubblico informazioni oggettive di qualità. E qui arriviamo a un punto fondamentale che accomuna il mestiere del giornalista a quello di una casa editrice al passo con i tempi: la reputazione e l’affidabilità che si conquistano sul campo attraverso la creazione di community intorno ad argomenti specifici e ben delineati, che condividono la mission e l’arricchiscono di contenuti. Community che si ascoltano e con le quali si dialoga in uno scambio continuo di idee, pareri ed opinioni. Questo è molto importante soprattutto in un mondo, come dicevamo all’inizio, dove l’eccesso di informazione circolante può creare confusione e disorientamento. Più le community si arricchiscono di conoscenza, più aumenta l’interesse a parteciparvi, creando connessioni e iniziative che contribuiscono ad accrescere le potenzialità e a sostenere lo sviluppo. In questo contesto la specializzazione sugli argomenti trattati, la capacità di affrontarli in tutti i molteplici aspetti filosofici, morali, sociali, ambientali, storici coinvolgendo esperti e realtà di vari campi, sono fondamentali elementi di forza ed una sfida che, per un mondo migliore, vale la pena di intraprendere.

 

 

Dopo aver conseguito all’Università Bocconi di Milano una laurea a pieni voti in Economia Aziendale con specializzazione in Finanza, inizia il suo percorso professionale come revisore dei bilanci in R.I.A., società allora facente parte del gruppo Bnl e si avvicina al mondo editoriale avviando collaborazioni con il Corriere della Sera, Il Sole 24 Ore, Il Mondo, Mondo Economico e Capital. Nel 1989 entra nel gruppo Mondadori dove si occupa, fin dal primo numero, dell’allora Giornale della Banca (dal 2000 BancaFinanza). Nel 2000, con il passaggio delle tre testate a Newspapermilano, società che faceva parte del gruppo che edita il quotidiano “Il Giornale”, viene chiamata a dirigere BancaFinanza e Giornale delle Assicurazioni. Nel giugno 2013 assume anche la guida di Espansione. Dal novembre 2015 al dicembre 2020 è direttore delle testate editoriali Le Fonti e responsabile dei canali tv asset e insurance. Attualmente è direttore editoriale di ILI Editore. Tra le sue attività vanno ricordate le diverse pubblicazioni specializzate in economia e finanza tra cui il libro “Europa oltre le Nazioni”, edito da Mimesis, le lezioni in materia di finanza internazionale, tenute all’Università di Torino.

Sabrina Cohen-La filantropia del domani è già cominciata oggi

Sostenere cause filantropiche che abbiano un percorso definito, processi chiari e trasparenti e un obiettivo raggiungibile è importante tanto quanto decidere di effettuare una donazione. Ridare alla comunità che ha contribuito al successo di una persona e contribuire alla risoluzione di un problema in maniera efficiente sono due delle spinte chiave e più facilmente riscontrabili tra filantropi e persone di buon cuore in Italia, come pure nel resto del mondo. La pandemia ha di certo modificato la vita di centinaia di milioni di persone nel mondo, ma ha anche solo che accelerato la voglia di contribuire alla risoluzione dei grandi problemi della Terra. Fino al 2019 molti si limitavano a pianificare lasciti, che avrebbero trovato esecuzione solo dopo aver concluso la vita terrena, ora, invece, si pensa più a qualcosa che possa dare le sue evidenze ora, quando siamo ancora in vita. Può sembrare un elemento banale, ma in realtà è cambiato negli ultimi due anni il modo in cui facciamo beneficenza: ascoltiamo maggiormente le idee dei più giovani, iniziamo a donare non solo per le emergenze, ma anche in progetti di più lungo respiro, i cui effetti saranno visibili solo a distanza di anni.

Chiediamo, soprattutto, maggiori informazioni su come vengano investiti i fondi e quanto – in termini percentuali – viene effettivamente investito in un programma e in quanto tempo si arriva, presumibilmente, alla risoluzione del problema, o come si può contribuire alla sua risoluzione.

Sono ancora tante le organizzazioni benefiche e le fondazioni che sostengono costi amministrativi e di gestione spesso esorbitanti, e questo va a discapito della buona riuscita dei programmi stessi.

Fortunatamente, sta crescendo però anche il numero di organizzazioni che, grazie ai grandi benefattori, riesce a coprire la stragrande maggioranza dei costi e favorisce il buon esito dei programmi. La fondazione UBS Optimus, ad esempio, creata da UBS oltre 21 anni fa su richiesta dei suoi clienti, opera e garantisce che il 100% delle donazioni ricevute siano destinate unicamente ai programmi filantropici della fondazione stessa. Ma fortunatamente abbiamo molti altri casi nazionali e internazionali ad ispirarsi allo stesso principio, penso ad esempio ai “Bambini del Danubio” di Trieste o “Con i Bambini” parte della “Fondazione con il Sud” di Roma, che operano seguendo la stessa logica dando chiarezza al fine delle donazioni. E sono solo alcune delle centinaia di organizzazioni che calcolano anche l’impatto sociale delle donazioni.

Il filantropo/a o in maniera più estesa qualunque benefattore/ice, è invogliato a dare, sapendo che il suo denaro verrà completamente destinato al progetto in esecuzione.

Nell’estate del 2014 – ben prima dell’arrivo di Instagram, TikTok, SnapChat e altre piattaforme social – Ice Bucket Challenge è diventato un fenomeno virale e globale. Dalla gente comune fino ai più importanti top managers delle maggiori multinazionali globali hanno deciso di versarsi addosso catini colmi di acqua e ghiaccio per raccogliere fondi per la ricerca e lo studio della SLA. Ai tempi furono raccolti globalmente oltre USD 220 milioni. Bene, a distanza di oltre 8 anni, anche grazie a quei fondi, la ricerca ha fatto passi avanti da gigante e uno dei medicinali messi a punto è stato approvato agli inizi di settembre dalla Food and Drug Administration, in USA. É un esempio pratico di come l’unione non solo faccia la forza, ma che se il denaro è veicolato su una causa e la ricerca di una soluzione, insomma focalizzato, si possano trovare soluzioni ideali per tutti.

 

E’ a capo della Client Strategy and Development di UBS WM Europe dal novembre 2020. E’ entrata in UBS a Zurigo nel 2012 e nel 2018 si è trasferita a NY per seguire lo sviluppo dell’area filantropica. Dalla fine degli anni 90 al 2011 è stata giornalista per testate italiane e internazionali come Bloomberg e Dow Jones/Wall Street Journal lavorando da Londra, New York e Milano, seguendo banche e assicurazioni a livello pan-Europeo.

Gloria Gatti-Autenticazione di opere d’arte: siamo sulla strada giusta?

Il 2021 può essere considerato un anno epocale per il diritto dell’arte e, forse, anche per il mercato stesso. In un articolo pubblicato sul Giornale dell’Arte, mi chiedevo se «in caso di sospetta contraffazione di un’opera d’arte la sola opinione dell’Archivio intitolato all’artista fosse sufficiente per una condanna» a proposito della sentenza emessa dal Tribunale di Milano, n. 6004 del 28 ottobre 2020 relativa ad un’opera di Josef Albers. Sottolineavo in particolare che «la credibilità e attendibilità delle dichiarazioni rese della parte civile nel processo penale, quand’anche autorevole, è in genere circondata da molte cautele e ancora più rigore dovrebbe essere richiesto quando l’archivio che ha anche “il monopolio” sul rilascio dei certificati di autenticità è proprietario di opere e, quindi, inevitabilmente portatore di interessi economici sul mercato ed esposto al rischio di versare in situazioni di potenziale conflitto d’interesse>>. Per quanto la rarità non sia che uno dei fattori di accrescimento del valore, in astratto, infatti, il “potere” di ridurre il numero delle opere di un artista disponibili per la vendita, negandone l’archiviazione, potrebbe produrre come effetto l’incremento di valore delle opere di proprietà che l’archivio immette sul mercato. Nel caso di specie sul sito web della Josef and Anni Albers Foundation è espressamente dichiarato che “la Fondazione vende un piccolo e selezionato gruppo di dipinti e stampe attraverso i suoi rappresentanti autorizzati” e che “la Fondazione ha nominato la David Zwirner Gallery di New York e Londra come suo rappresentante esclusivo in tutto il mondo”», e, per le opere di grafica in edizione, dalla Cristea Roberts Gallery di Londra. Quelle mie argomentazioni, condivise da molti collezionisti, sono state fatte proprie dalla Corte d’Appello di Milano n. 7148 del 3 novembre 2021 che ha assolto il gallerista Gabriele Seno perché il fatto non costituisce reato e ha motivato che «il vaglio di attendibilità doveva essere ancora più penetrante in considerazione del fatto che l’Archivio, che possiede il monopolio sul rilascio dei certificati di autenticità, risulta altresì proprietario di opere e, quindi, inevitabilmente portatore di interessi economici sul mercato, dovendosi ipotizzare anche un potenziale conflitto d’interesse>>. La Fondazione Albers, infatti, si occupa anche di “vendere al pubblico un limitato numero di opere attraverso i suoi rappresentanti autorizzati”. Gli archivi a memoria d’artista si pongono il fine statutario di “incentivare gli studi e favorire la conoscenza della figura e dell’opera di un Artista, promuovendo ricerche e iniziative direttamente o in collaborazione con altri organismi pubblici e privati; catalogarne la produzione autentica nella massima trasparenza di metodo e rapporti”, o più semplicemente sono ”la struttura più o meno formale creata per assicurare, in accordo con l’artista o dopo la sua morte, la difesa e la promozione della sua opera”, a cui è stata riconosciuta iure proprio la titolarità a titolo originario alla propria identità personale ed alla «immagine», quale ente collettivo, per statuto preposto alla protezione e promozione della figura, della memoria e dell’opera di un determinato artista, come chiarito dalla Cassazione Civile, Sez. 1 n. 2039 Anno 2018.
Ma quella degli Archivi d’artista, al pari di qualunque altro soggetto che ritenga di averne le competenze, è  una expertise su una determinata opera, che nulla vale più di un’opinione tra tante, quale estrinsecazione della libertà di pensiero e non ha, né può avere, alcuna fede privilegiata né nel processo civile, né tanto meno in quello penale, vieppiù quando l’archivio è portatore di un interesse economico proprio nel mercato e quando detiene una quota rilevante di opere, il cui valore può potenzialmente accrescere attraverso piani strategici di valorizzazione che potrebbero essere addirittura anticoncorrenziali. Proprio per compensare il «piano strategico (…) di ritirare l’arte di Rauschenberg dal mercato, al fine di evitare un calo di valore da parte di speculatori o collezionisti che inondavano il mercato con la sua arte», ai tre componenti del Robert Rauschenberg Trust, avente come beneficiaria la Rauschenberg Foundation, è stato giudizialmente riconosciuto il diritto al compenso di 24 milioni di dollari, da dividersi equamente (Robert Rauschenberg Foundation, v. Bennet Grutman, Bill Goldston, and Darryl Pottorf, 2016). Ed è anche ben noto che molti comitati americani per l’autenticazione (Pollock-Krasner Foundation, Andy Warhol Foundation for the Visual Arts, Roy Lichtenstein Foundation), non potendo beneficiare del salvacondotto concesso agli eredi dal diritto morale d’autore, sono stati sciolti o hanno cessato di «erogare tale servizio», per preservare il patrimonio della Fondazione dalle richieste di risarcimento dei collezionisti che si erano visti cassare le loro opere. E proprio per un asserito conflitto d’interessi Brian Clarke, uno dei due esecutori testamentari di Francis Bacon, deceduto lasciando come unico erede il compagno John Edwards, è riuscito ad ottenere una declaratoria di decadenza dalla nomina dell’altro esecutore, poiché si trattava di dirigente della Marlborough Gallery, che aveva sempre rappresentato l’artista ed era titolare di interessi propri. Dopo la morte di John Edwards, anche Brian Clarke è, però, caduto in un palese conflitto di interessi quando ha assunto la direzione del Bacon Estate, una LTD, che gestisce il monopolio sul vero e sul falso del pittore inglese, che ha recentemente “dannato” le opere della Collezione Barry Jaule donate alla Tate e tutti i disegni italiani di Ravarino.

 

Avvocato, iscritto all’Ordine di Milano, patrocinante in Cassazione.

Assiste abitualmente, sia in sede giudiziale che stragiudiziale, imprese multinazionali ed imprese italiane leader di settore, nonché prestigiose istituzioni culturali italiane e straniere, case d’asta, archivi d’artista, privati collezionisti e artisti nei diversi ambiti (civile, penale e amministrativo) del diritto dell’arte e dei beni culturali in Italia e all’estero.

È sovente chiamata come docente in corsi di formazione specialistica, come relatore in convegni, seminari e webinar.

È giornalista pubblicista dal 2012 e collabora con diverse testate specializzate nel diritto dell’arte e dei beni culturali in particolare con Il Giornale dell’Arte.

Amedeo Lepore-Strategie economiche per battere la crisi

Lo scenario prossimo venturo dell’economia delineato dalle analisi più recenti induce a serie preoccupazioni e a una maggiore consapevolezza degli interventi di fondo necessari. Il contesto odierno è caratterizzato da un insieme di focolai di crisi, che vanno dall’impennata dei prezzi dell’energia, alla scarsità di molte materie prime e al rincaro smisurato del carrello della spesa e delle bollette. Il combinato disposto di queste circostanze annuncia l’avvento di un anno tormentato, segnato, con ogni probabilità, da una recessione di non breve durata, a meno di un cambiamento significativo dello scenario generale. Il Rapporto del Centro Studi di Confindustria, pur mostrando finora un ottimo andamento delle esportazioni (con un aumento del 7,9% a prezzi costanti, rispetto alla media dello scorso anno) e un recupero più accentuato dell’economia italiana in confronto a quella degli altri Paesi europei (con una crescita acquisita del Pil pari al 3,6% per il 2022, contro il 3,2% dell’eurozona), prevede una “crescita zeroper il 2023. L’Italia, quindi, si troverà al centro di un’elevata inflazione e una dolorosa stagnazione produttiva. Per Christophe Morel, capo economista di Groupama Asset Management, nei Paesi sviluppati non si tratterebbe di una stagflazione, poiché la riattivazione delle attività economiche ai livelli precedenti al Covid-19 sembra rendere la condizione attuale simile a un fenomeno di reflazione. Inoltre, sta prendendo piede la cosiddetta “shrinkflation” da parte delle multinazionali, che riducono la quantità di prodotto contenuta nelle confezioni, senza diminuire i prezzi al pubblico, creando, in questo modo, un’inflazione occulta. Dal canto suo, in un articolo sulla “grande stagflazione” in arrivo, un economista come Nouriel Roubini ha colto il pericolo di una recessione “grave e prolungata, con diffuse difficoltà finanziarie e crisi del debito”, che non permette affatto un atterraggio morbido e rischia di provocare addirittura un crollo dell’economia. Il Fondo Monetario Internazionale ha nuovamente rivisto al ribasso le sue previsioni di crescita, ipotizzando che un terzo dell’economia mondiale entrerà in recessione tra il 2022 e il 2023. Il “Global economic outlook” per il quarto trimestre 2022 descrive un’economia mondiale in preda a “forti venti contrari”, a causa del conflitto in Ucraina, dell’inasprimento monetario globale e del rallentamento della crescita cinese. Questo frangente dovrebbe proseguire per il prossimo anno, con perduranti interruzioni delle catene di fornitura e innalzamenti dei prezzi dell’energia, accompagnati da un’intensificazione degli sforzi delle principali banche centrali per mettere sotto controllo l’inflazione. Secondo l’EIU, il razionamento del gas e l’ulteriore rialzo dei prezzi dell’elettricità porteranno l’eurozona a patire una recessione per l’intero 2023. Insieme a Germania e Austria, che dipendono decisamente dal gas russo e non hanno fonti di approvvigionamento alternative, anche l’Italia sarà duramente colpita dalla crisi energetica. La stima di crescita per l’anno venturo, in questo documento, è negativa per Francia (-0,3%), Germania (-1%) e Italia (-1,3%). Completano il quadro europeo, standard ancora elevati di inflazione, cali di fiducia nelle possibilità di ripresa e riduzioni del commercio estero, che contribuiscono all’estrema debolezza della performance economica globale nel 2023. The Economist ha pubblicato un rapporto speciale sull’economia mondiale, nel quale indica le sfide da sostenere nel breve e nel lungo termine. Nel periodo più immediato, l’entità straordinaria della spesa pubblica per contrastare gli effetti della pandemia, della guerra e della stangata energetica complicherà il perseguimento dell’obiettivo di un’inflazione al 2%, ponendo un arduo problema alle banche centrali e ai governi. In un arco di tempo più vasto, l’intento sarà quello di scongiurare le crisi fiscali, cercando di affrontare il dilemma dell’invecchiamento della popolazione, che comporta un incremento degli interventi per l’assistenza sanitaria e le pensioni. Il rapporto, pur rimarcando le differenze tra le scelte seguite alla crisi finanziaria globale del 2007-2009 e quelle successive agli eventi imponderabili del 2020, evidenzia una notevole inversione di tendenza nei Paesi avanzati, il cui esito potrebbe essere una contrapposizione tra le strategie monetarie molto restrittive di banche centrali aggressive e le politiche fiscali ampiamente espansive di governi prodighi, ostacolando la lotta all’inflazione e indebolendo i propositi di ripresa. Da queste valutazioni, dunque, scaturisce l’esigenza di fare “lavorare in tandem” le opzioni in campo monetario e fiscale, provando a regolare le diverse intensità dei tassi di interesse, dei sostegni alle imprese e degli stimoli agli investimenti produttivi in maniera articolata, in base alla tendenza dei principali indicatori macroeconomici. Così, una situazione complessa e sfavorevole potrebbe, paradossalmente, fornire strumenti efficaci per una politica economica inedita, accorta e vantaggiosa al tempo stesso. Non è certamente un compito agevole, soprattutto in questo momento. L’Europa, se vuole continuare a dare la buona prova di cui è stata capace dopo la pandemia, deve intessere con grande avvedutezza la tela di una strategia coraggiosa e condivisa, superando ogni tentazione alla frammentazione e all’inseguimento di fragili interessi unilaterali.

 

 

Professore Ordinario di Storia Economica presso il Dipartimento di Economia dell’Università della Campania Luigi Vanvitelli. È docente presso il Dipartimento di Impresa e Management della LUISS Guido Carli di Roma. Ha svolto insegnamenti in diverse Università italiane e straniere. È componente del Consiglio di Amministrazione della SVIMEZ, per la quale coordina il progetto di ricerca e il gruppo di lavoro su “Le origini, l’evoluzione e le prospettive della bioeconomia e dell’economia circolare in Italia e nel Mezzogiorno”, costituito in collaborazione con ENEA, SRM e Spring. È membro del Consiglio Direttivo del Cluster italiano della Bioeconomia Circolare “Spring”. È socio dell’Accademia Pontaniana, nella Classe di Scienze Morali. Fa parte di Comitati scientifici e di Redazione di varie riviste nazionali e internazionali. Ha ricevuto riconoscimenti internazionali per la sua attività di studio e di ricerca. Ha pubblicato volumi e saggi, in Italia e all’estero. I suoi attuali ambiti di ricerca riguardano la storia dell’economia euro-atlantica, il processo di globalizzazione nei suoi vari aspetti, le dinamiche dell’innovazione e delle tecnologie, l’impatto sull’economia della pandemia di Covid-19, le dinamiche dell’economia circolare, l’evoluzione dell’impresa contemporanea, la storia del dualismo economico italiano. Ha svolto anche ruoli istituzionali legati alle sue competenze economiche, da ultimo come Assessore alle attività produttive della Regione Campania.

Francesca Sanguineti-Le catene del valore globali: quali tendenze ne guidano la riconfigurazione?

Negli ultimi anni le aziende si sono trovate a dover affrontare shock esterni e tendenze di mercato che hanno rivoluzionato il loro modo di fare business. Già dalla metà dello scorso decennio con il boom delle tecnologie digitali ci siamo infatti trovati di fronte a scenari in cui le catene del valore globali stavano iniziando a subire forti variazioni. Si ipotizzava allora, e si inizia a vedere in pratica oggi, una economia indirizzata a sviluppare prodotti sempre più personalizzati in base alle esigenze del consumatore finale. È il caso di brand globali come, ad esempio, Nike e Adidas che hanno sviluppato partnership rivolte all’utilizzo di tecnologie come la stampa 3D per permettere ai loro consumatori di creare le scarpe esattamente come le vogliono e ritirarle, dopo solo qualche ora, in store dedicati. Emerge quindi la tendenza di unire il fisico al digitale, offrendo un prodotto che venga visto dal consumatore come un’esperienza vera e propria. Assisteremo pertanto ad un accorciamento delle catene del valore che dovrebbe portare anche ad una maggiore flessibilità delle stesse. Produrre il bene al momento dell’acquisto, ad esempio, elimina le attività di trasporto e stoccaggio riducendo non solo i costi, ma anche l’impatto ambientale. Non dimentichiamo difatti quanto l’attenzione alla sostenibilità sia diventata ormai fondamentale – se già dal 2010 la sensibilizzazione ad aspetti ambientali, economici, e sociali aveva iniziato ad avere un peso importante sulle strategie aziendali, ora le aziende sono quasi obbligate ad affrontare tali questioni con obiettivi sempre più orientati ai diversi livelli di sostenibilità. Le tecnologie sembrano essere uno strumento per raggiungere proprio questi scopi. Gli shock esterni degli ultimi anni, e mi riferisco principalmente alla pandemia, alla collegata shortage economy, alle conseguenze della guerra Russia-Ucraina ma non esclusivamente a queste ovviamente, hanno portato le imprese attive a livello globale a dover scovare alternative a materie prime, fornitori, ma anche a mezzi per raggiungere i loro consumatori. Le aziende che si sono trovate e tuttora si trovano a dover gestire la mancanza o il forte aumento del costo delle materie prime, hanno iniziato a pensare a strategie alternative per coprire tali mancanze e per non trovarsi, in futuro, a non poter produrre o vendere i loro prodotti per una motivazione indipendente dalle loro scelte dirette. A cosa stiamo assistendo, quindi, ora? Si parla di reshoring, backshoring, nearshoring, ossia di una rilocalizzazione delle attività produttive o di parte della catena del valore nel paese di origine dell’azienda o in un paese vicino in termini di prossimità geografica, da un paese nel quale si era intrapresa precedentemente un’operazione di offshoring, ossia il portare in un paese estero parte dell’attività produttiva dell’azienda. Allo stesso modo si parla di sviluppi interni di materie prime alternative. Tra gli esempi principali figura l’azienda Gresmalt che sta sviluppando piastrelle in ceramica da argilla italiana, da sostituire a quella ucraina (interessante sottolineare come questo progetto sia iniziato prima del covid e ancora prima della guerra correntemente in atto). Quanto impattanti e quali siano effettivamente le varie dinamiche che stanno modificando le catene del valore delle aziende nei vari paesi ad oggi è però di difficile definizione. Manca una vera e propria banca dati che raccolga al suo interno le informazioni necessarie a rispondere a tali quesiti. A questo proposito, come team dell’Università di Pavia, in collaborazione con partner aziendali e istituzionali di eccellenza, abbiamo appena lanciato l’Osservatorio ReValue Chains che ha l’obiettivo di analizzare le dinamiche delle catene del valore globali, con particolare attenzione alla resilienza e alle potenziali riconfigurazioni delle stesse a seguito di eventi disruptive come quelli precedentemente menzionati. Solo raccogliendo dati ed esperienze dirette delle aziende potremo avere una visione più precisa del panorama attuale a livello italiano, europeo e globale.

 

Ricercatrice presso l’Università di Pavia, ha trascorso alcuni anni ricoprendo ruoli manageriali nel campo della consulenza e del retail prima di intraprendere la carriera accademica. Ha conseguito il dottorato a Pavia ed è stata visiting scholar a Georgia State University. Dal 2019 è co-lecturer del corso Strategic Management presso IES Abroad Milano e dal 2022 del corso di Digital Marketing a Pavia. Ha optato però per la vita da pendolare per poter mangiare focaccia e cappuccino ogni mattina. Con uno sguardo sempre rivolto verso fenomeni di business a livello internazionale, è interessata a studiare l’impatto delle tecnologie dell’Industry 4.0 sul panorama imprenditoriale attuale e, nello specifico, sulle catene del valore globali e sulla loro sostenibilità.

Helga Zanotti-PMI e digitalizzazione per nuovo Rinascimento Italiano

Without data you’re just another person with an opinion”. Edwards Deming con questa frase insegna che i dati sono fondamentali, mentre le opinioni non trovano spazio nelle organizzazioni moderne. L’Unione Europea sembra condividere pienamente questa visione, focalizzandosi sempre di più sul valore dei dati e la digitalizzazione di processi e servizi. Dal Regolamento n. 679 del 2016 in materia di trattamento dei dati personali e privacy, al Regolamento n. 881 del 2019 relativo all’ENISA, l’Agenzia europea per la cybersicurezza, per finire con la proposta di regolamento sull’intelligenza artificiale del 21 aprile 2021, la digitalizzazione sembra essere la risposta alle domande dei cittadini e del mercato. È la stessa Commissione Europea ad affermarlo, valutando che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC) non sono più un settore autonomo e indipendente dagli altri, ma il fondamento comune di tutti i sistemi economici innovativi moderni. Tra i sistemi di monitoraggio del grado di digitalizzazione dell’Unione Europea spicca DESI, l’indice europeo dell’economia e della società digitale. Nel quadro disegnato da questo sistema, l’Italia occupa gli ultimi posti, perciò sembrerebbe in fase negativa. Se leggiamo attentamente i report di DESI, però, notiamo come il ruolo del commercio elettronico nel fatturato delle PMI stia subendo un incremento, dal 2016 al 2021, a testimonianza della chiara percezione dell’imprenditoria sui vantaggi che provengono dal eBusiness. In altre parole, stiamo recuperando terreno nella media europea. Nel comunicato stampa del 28 luglio 2022, DESI mette a fuoco la necessità di incrementare le competenze digitali, digitalizzare le Piccole e Medie Imprese e diffondere le reti 5G avanzate, colmare le lacune in termini di competenze digitali, digitalizzazione delle PMI e diffusione di reti 5G avanzate. Il dispositivo per la ripresa e la resilienza, rende disponibili circa 127 miliardi di euro per riforme e investimenti nel settore digitale, funzionali all’accelerazione della trasformazione digitale. In termini di tempo, è Margrethe Vesthager a decretare l’urgenza della trasformazione digitale. Benché il decennio digitale, nel quale raggiungere gli obiettivi termini nel 2030, Margrethe Vesthager nel 2022 ha dichiarato “il cambiamento deve realizzarsi da subito”. Il Commissario per il Mercato interno, Thierry Breton, ha puntato ancor più in alto: “dobbiamo continuare a impegnarci per fare dell’UE un leader mondiale nella corsa alla tecnologia”. Il DESI ci mostra dove dobbiamo impegnarci ancora più a fondo, ad esempio per stimolare la digitalizzazione dell’industria, comprese le PMI. Dobbiamo intensificare gli sforzi affinché nell’UE ogni PMI, ogni impresa e ogni settore disponga delle migliori soluzioni digitali e abbia accesso a un’infrastruttura di connettività digitale di prim’ordine. Nella visione per il decennio digitale europeo la Commissione ha indicato gli obiettivi e le modalità, per conseguire la trasformazione digitale dell’Europa entro il 2030, fondamentale anche ai fini della transizione verso un’economia a impatto climatico zero, circolare e resiliente. L’obiettivo della Unione Europea può identificarsi con la sovranità digitale in un mondo aperto e interconnesso, attraverso politiche per il digitale, che garantiscano ai cittadini e alle imprese l’autonomia fondamentale per conseguire un futuro digitale antropocentrico, sostenibile e più ricco. Per raggiungere questo scopo occorre eliminare le vulnerabilità e le dipendenze, nonché intensificare gli investimenti. Cittadini e aziende hanno beneficiato delle tecnologie digitali durante la crisi da Covid-19 e saranno il fattore di differenziazione trainante nella trasformazione verso un’economia post-pandemica sostenibile. Le imprese, le cittadine e i cittadini europei hanno maggiori opportunità digitali, che promuovono la resilienza e riducono le dipendenze a tutti i livelli, dai settori industriali alle singole tecnologie. Nel Libro bianco sull’intelligenza artificiale si annuncia il focus degli interventi normativi sulla digitalizzazione europea e le opzioni strategiche per raggiungere il duplice obiettivo di promuovere l’adozione dell’Intelligenza Artificiale e affrontarne i rischi derivanti. La proposta di Regolamento Europeo sull’intelligenza artificiale dell’aprile 2021 così come il Regolamento Europeo n. 679 del 2016 sul trattamento dei dati personali e la privacy, o il Digital Service Act, cioè il Regolamento Europeo relativo ai servizi della società dell’informazione mira a proteggere imprese, cittadini e cittadine dal rischio che le nuove tecnologie portano con sé.

Ciò che accomuna le norme europee del decennio 2020/2030 è la promozione della digitalizzazione europea con gli occhi puntati sui rischi per le persone, che le nuove tecnologie portano con sé. Nel diritto statunitense manca il focus sui diritti delle persone, che il diritto comunitario protegge dai rischi legati alle nuove tecnologie fin dalla sua nascita. Si tratta di una sfida che abbiamo già vinto.

 

Laureata all’Università degli Studi di Pavia in Diritto Internazionale, Alumna del Collegio Nuovo Fondazione Sandra ed Enea Mattei. Executive MBA con focus sull’innovazione digitale, successivamente Master sulla protezione dei dati e Master sui contratti on line. Incarico triennale in Diritto Privato presso l’Università degli studi di Bergamo, attualmente ha un incarico in Diritto della Comunicazione per le imprese e i media, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Tutor di Diritto delle nuove tecnologie per il Master in International Business Entrepreneurship dell’Università di Pavia. Si occupa di compliance e contrattualistica, con particolare riferimento ai contratti d’impresa anche on-line, per gli studi legali BMV Law Tax Finance e Fenice Law&Consulting, per i quali è of counsel, gestisce la negoziazione, la redazione e la stipula di contratti e accordi nazionali ed internazionali focalizzati sul Fintech e sulle nuove tecnologie; ha maturato una competenza significativa e particolarmente marcata anche nella gestione della compliance aziendale.

Elena Monticelli – Il Codice della crisi d’impresa: opportunità per salvare l’economia?

Il nuovo Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza richiede un cambio culturale radicale, poiché non si tratta del solito recepimento di una Direttiva Comunitaria, bensì dell’introduzione di un nuovo modo di “fare impresa”, dove la scommessa per il risanamento del tessuto imprenditoriale risulta puntata tutta sulla prevenzione. Un panorama di norme che costituiscono una sorta di accompagnamento obbligato dell’imprenditore a fare il punto della situazione sul reale andamento della propria impresa non più quando quest’ultima è già in crisi – come avveniva in passato -bensì quando possono essere ancora selezionate le misure di risanamento. L’imprenditore viene dunque costretto a prendere contezza precocemente di eventuali segnali di crisi, mediante un monitoraggio costante della gestione aziendale al fine di adottare rapidamente le misure di salvaguardia. Più precisamente, già dalla lettura dell’art. 3 del Codice della Crisi, intitolato “Adeguatezza delle misure e degli assetti in funzione della rilevazione tempestiva della crisi di impresa” si evince in modo esplicativo l’intenzione del legislatore di dettare specifiche norme sulla prevenzione della crisi, sia per l’imprenditore individuale che per l’imprenditore collettivo. In particolare, l’art. 3, primo comma, prevede che “l’imprenditore individuale debba adottare misure idonee a rilevare tempestivamente lo stato di crisi ed assumere senza indugio le iniziative necessarie a farvi fronte”; mentre, sempre l’art.3, secondo comma, prevede che  “l’imprenditore collettivo debba istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato ai sensi dell’art. 2086 c.c. ai fini della tempestiva rilevazione dello stato di crisi e dell’assunzione di idonee iniziative, attivandosi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale”. La potenziale efficacia del nuovo Codice della Crisi d’Impresa che trae origine dalla Riforma Rordorf sarà pertanto direttamente proporzionale alla reale e leale applicazione delle idonee misure e degli adeguati assetti per la rilevazione della crisi. La mancata adesione agli adeguati assetti potrà, in ogni caso, configurare responsabilità a carico degli amministratori nei confronti dei creditori sociali. In caso di squilibrio patrimoniale o economico finanziario che rendano probabile la crisi o l’insolvenza dell’impresa e nel caso in cui ne risulti ragionevolmente perseguibile il risanamento, l’imprenditore commerciale o agricolo potrà presentare istanza per la Composizione Negoziata per la risoluzione della Crisi di Impresa. Questo nuovo strumento – introdotto dalla Legge 147/2021 e fatto confluire con il D.lgs.83/2022 (c.d. “decreto insolvency”) nel Codice della Crisi – consentirà alle imprese di attivarsi rapidamente – mediante il portale della Camera di Commercio – per comporre la propria crisi con i creditori, mediante la nomina di un Esperto Negoziatore. Il nuovo Codice introduce altresì nuove procedure per la salvaguardia della continuità aziendale. La Riforma Rordorf privilegia infatti la continuità aziendale che viene vista come filo conduttore di tutto il nuovo Codice, quale obiettivo da realizzare ogni qualvolta un’impresa possa tornare a produrre reddito in un tempo ragionevolmente contenuto; una presa d’atto che l’intercettazione precoce dei sintomi della crisi di un’impresa offre – rispetto al fallimento della stessa – maggiori opportunità di risanamento per tutta l’economia, con benefici sul piano occupazionale, della finanza pubblica e degli investimenti.

 

 

 

Avvocato Cassazionista del foro di Cremona, di cui è Gestore della Crisi da Sovra-indebitamento, iscritta presso il Registro dell’O.C.C., iscritta nell’Elenco dei Professionisti Delegati alle Vendite Immobiliari (è relatrice/docente di corsi di Alta Formazione in materia). Esperto Negoziatore della Crisi di Impresa presso la Camera di Commercio di Milano, iscritta nell’Elenco dei Curatori Fallimentari, Commissari Giudiziali, Liquidatori del Tribunale di Cremona, si occupa prevalentemente di consulenze e procedure in materia di Crisi di Impresa. Scrive trimestralmente rubriche legali, da oltre 10 anni, in materia di Impresa e di Crisi, per il Magazine Imprese di Confartigianato Cremona, di cui è legale fiduciario esterno, da oltre 25 anni, prestando assistenza in tutte le materie legate all’Impresa, compreso il contenzioso tributario. Accreditata Expertise di Partner 24ORE nella materia di Crisi d’Impresa – Composizione e Gestione della Crisi.

Kevin Giorgis-Formazione e tecnologia: la persona prima di tutto

La formazione del futuro sarà sempre più digitale. La pandemia ha solo accelerato e reso strutturale un processo in essere già da tempo, una necessaria spinta al cambiamento per rendere più snello, efficiente ed efficace l’apprendimento in un’epoca dominata dalla tecnologia digitale. La famosa didattica a distanza che ha coinvolto migliaia e migliaia di studenti è stata solo un banco di prova necessario, seppur difficile in alcune fasce d’età, andando però a rispondere all’esigenza di continuare la formazione anche quando l’accesso fisico alle scuole non era possibile. Figlio dell’emergenza, l’ampio uso dell’e-learning ha però messo in luce un’altra verità e in determinati contesti, soprattutto in ambito universitario e in quello dei corsi professionali e aziendali, sembra difficile pensare ad un futuro senza l’adozione su ampia scala di questo strumento. Se l’immaginario comune pensa soprattutto alla didattica a distanza quando si associa la tecnologia alla formazione, in realtà l’EdTech, l’Educational Technology, è molto di più. È una nuova concezione, è la consapevolezza del ruolo dei processi digitali nella formazione continua di un lavoratore, dell’aggiornamento professionale e dell’acquisizione di nuove competenze. Un mondo molto più ampio di quello che riguarda la carriera scolastica “tradizionale” e che si avvarrà sempre di più di strumenti digitali e altamente tecnologici per perfezionare un processo, rendere più efficace l’apprendimento ed evitare la dispersione di tempo in pratiche puramente gestionali. Ottimizzare, insomma, per essere più performanti nel compito educativo, accompagnando un progresso sostenibile in tutti gli ambienti educativi sensibili all’innovazione, con la volontà nobile di rendere l’educazione sempre più accessibile.  Sviluppare la tecnologia in determinati ambienti di formazione, soprattutto a livello professionale, ossia in quel processo che accompagnerà gran parte di noi per tutto l’arco della vita lavorativa, è un progresso in termini di risorse economiche, umane e di prestazioni. L’adozione di soluzioni altamente tecnologiche nel campo dell’apprendimento dev’essere accolta con entusiasmo e consapevolezza, perché rappresenta un’evoluzione del processo formativo, una miglioria che non toglie nulla al fattore umano, sempre al centro anche quando si parla di intelligenza artificiale e machine learning.

 

 

Cuneese classe 1997, è il cofondatore di Wyblo, giovane startup nata dalla necessità di perfezionare i processi di formazione, con la volontà di ottenere velocemente e in modo strutturato il livello di soddisfazione dei partecipanti a un corso. Ha studiato Management e Marketing all’Università di Bologna e uno scambio alla University of California Riverside. Ha poi continuato gli studi frequentando il Master’s in Strategy and International Management alla University of St. Gallen in Svizzera. È cofondatore di EdTech Italia, la prima associazione italiana che riunisce i diversi stakeholders nel mondo education technology. Infine, sta co-creando l’EdTech Garage, community europea a supporto delle startup early-stage EdTech per l’internazionalizzazione e fundraising. Vive da nomade digitale.

Carlo Casarico-Macro o Micro influencer, purchè se ne parli

I fatti: da qualche anno gli investimenti pubblicitari globali sono maggiori sul digitale rispetto ai vecchi media (tv, stampa e radio). Il trend è in costante crescita, e da qui non si torna più indietro. Il motivo è semplice e non è da ricondurre agli strascichi della pandemia: il marketing digitale è maggiormente performante, misurabile, verticale e confidenziale. E tra i vari filoni innovativi di comunicazione utilizzati, uno sta diventando maggiormente interessante per le aziende: il mondo degli influencer. Diamo qualche numero: si stima che il ritorno di una campagna di influencer marketing strutturata correttamente sia in grado di fruttare circa quattro volte l’investimento fatto. Più del 60% dei consumatori si informa tramite creator, blogger o driver di acquisto prima di comprare un prodotto in un negozio, sia esso fisico o online. C’è di più: ricerche e sondaggi hanno fatto emergere come 1 italiano su 3, nella fascia di età compresa tra i 18 e i 54 anni, decida di compiere un acquisto perché espressamente consigliato dall’influencer di riferimento. Tale preferenza è dettata da diverse “necessità” che i content creator sanno intercettare: ricevere consigli di acquisto, ascoltare gli “esperti in materia” o trovare modelli di riferimento in cui identificarsi. I settori che maggiormente sfruttano questo tipo di marketing sono quello del beauty, del make up, della tecnologia e del food; tuttavia è possibile applicarlo a moltissime attività B2C e, con le scelte giuste, B2B. Ed è proprio l’individuazione dei testimonial adeguati e corretti per il nostro target a sancire il successo o il fallimento di una campagna. In questo contesto è necessario specificare una distinzione fondamentale tra macro e micro influencer. Uno degli errori più grandi che si possano commettere quando ci si approccia a questo tipo di marketing è quello di pensare solo ai grossi driver di acquisto (Chiara Ferragni in testa). Infatti i macro influencer sono molto simili ai “testimonial” della pubblicità tradizionale: parliamo quindi di personaggi pubblici con un grandissimo seguito (milioni di follower) ma un pubblico di riferimento estremamente variegato. Questa tipologia di influencer è molto utile se l’obiettivo è il semplice e puro branding e notorietà del marchio, perde tuttavia di efficacia quando il nostro fine è una “conversione” ben definita da utente a cliente. Impostazione totalmente diversa arriva dai micro influencer. Precisiamo che la distinzione non va fatta soltanto sui numeri, ma anche e soprattutto sulla verticalità delle tematiche trattate. Quali sono dunque le caratteristiche fondamentali di questi nuovi “modelli”? Parlare ad una nicchia di pubblico ben specifica e targettizzata, ottenere un altissimo livello di affidabilità e avere un rapporto diretto con la propria community, composta da fan reali e già “autoprofilati”. Queste tre caratteristiche sono la vera forza dell’influencer marketing: è infatti molto più utile per un’azienda rivolgersi ad un “ambasciatore” con follower già in target preciso con il business che si va a sviluppare, piuttosto che “ingaggiare” testimonial con numeri molto elevati ma poco o nulla accomunati da un reale interesse comune. L’individuazione del creator corretto è però solo il primo passo di un processo che può decretare il successo o il fallimento di una campagna. Se da un lato è giusto voler controllare tutto ciò che viene pubblicato, dall’altro è opportuno concedere una certa dose di fiducia all’influencer in quanto miglior conoscitore dei gusti del proprio pubblico: solo il giusto mix tra controllo e creatività è in grado di restituire una campagna di successo. Inoltre è fondamentale conoscere le piattaforme su cui i creator si muovono e i relativi linguaggi. Per l’influencer marketing sono principalmente 2: Instagram e TikTok. La prima offre un linguaggio più tradizionale e patinato, parzialmente artefatto e già ben conosciuto dagli utenti della piattaforma. La seconda sta crescendo con una velocità mai vista prima per una piattaforma social, è caratterizzata da video veloci e maggiormente spontanei, con un coinvolgimento del pubblico eccezionale. Uno degli errori da evitare quando si parla dei succitati social è quello di pensare che si trattino di “giochi da ragazzi”: nulla di più sbagliato! Sono infatti sempre di più gli adulti che approdano su Instagram e TikTok, sia da utenti passivi che da utenti attivi. Date tali premesse, una delle ulteriori e principali motivazioni per cui le aziende decidono di affidarsi sempre di più all’influencer marketing per farsi conoscere è l’altissima misurabilità delle campagne effettuate. Infatti non soltanto è possibile conoscere precisamente il numero di contatti raggiunti, ma anche e soprattutto la quantità di interazioni e conversioni generate. Tramite il matching degli strumenti del marketing digitale con quelli dell’influencer marketing possiamo anche sapere quanti acquisti effettuati derivano dal singolo influencer, potendo quindi effettuare nel tempo campagne sempre più precise e mirate con i testimonial giusti per noi.

Le aziende, dunque, si trovano a dover affrontare una nuova sfida: comprendere quali siano gli influencer più vicini al loro target di pubblico è soltanto il primo step, successivamente è necessario formulare e strutturare un rapporto incentrato su risposte credibili e sincere, dove i contenuti siano basati su reale fiducia, interesse e valore.

 

Esperto di comunicazione e marketing digitale. E’ amministratore delegato di GGallery SRL e di CFactor, agenzia di talent management e influencer marketing

Riccardo Chiarelli-Una svolta culturale per soluzioni davvero innovative

La frase più pericolosa in assoluto è: abbiamo sempre fatto così”. Questa frase di Grace Murray Hopper preclude miglioramenti, aumenta l’inerzia al cambiamento e diventa un ostacolo insormontabile per innovare. Inoltre, chi la pronuncia (e chi la accetta come risposta) non sta riflettendo sul perché qualcosa si fa e se è possibile migliorarlo. I miglioramenti avvengono spesso dal mettere in discussione lo status quo ridefinendo quello che “si è sempre fatto così”. In questo momento storico, il digitale e l’innovazione tecnologica offrono un’opportunità continua per rianalizzare i processi aziendali ed i flussi produttivi per renderli più efficienti. Le aziende più performanti sono spesso quelle che abbracciano il cambiamento e si adeguano a nuovi modelli di business. Molti studi recenti di società di consulenza evidenziano come le imprese che adottano soluzioni digitali per i loro processi aziendali hanno un vantaggio competitivo e migliorano i loro risultati. Nessun settore è immune al cambiamento digitale. In genere, un settore è pronto per essere rivoluzionato (disrupted, in inglese) quando i processi con i quali opera sono gli stessi di 20 anni fa. Facciamo un esempio pratico: prendiamo un cantiere di costruzioni (edile, stradale o navale) o un intervento di manutenzione e pensiamo al lavoro svolto dagli operai. Se potessimo tornare a 20 anni fa, probabilmente vedremmo pochissime differenze con un cantiere odierno. La maggior parte dei documenti sono cartacei ed archiviati manualmente; qualcuno in ufficio, spesso con lunghe giornate di lavoro, deve tenere traccia dei vari documenti, dei costi, delle ore lavorate, dei materiali usati, con conseguente ritardo nel seguimento di cosa sta veramente accadendo nei vari cantieri aperti. Se poi qualcosa va storto, spesso per via di incomprensioni e ritardi, i contenziosi sono risolti con spese aggiuntive da parte delle parti coinvolte. Vero è che non tutti i cantieri sono uguali ed alcune imprese, spesso le più strutturate, si sono organizzate per restare al passo con i tempi. Nuove tecnologie sono in fase di sviluppo e qualcuna già utilizzata, alcune più futuribili di altre (BIM, droni per ispezioni, stampe 3D di muri e strutture…), e tutte volte a migliorare i risultati, rendendo il cantiere sempre più digitale. I cambiamenti a cui stiamo assistendo riguardano non solo l’utilizzo di nuovi strumenti avanzati, ma una svolta culturale che ha cambiato il modus operandi e anche la mentalità delle società di ingegneria, architettura e cantieristica. Chi vuole adattarsi ai nuovi modelli di business deve chiedersi cosa “si è sempre fatto così” e rimodellare la propria attività per un lavoro più agile. Le tecnologie più complesse sono ancora poco pratiche per aziende di piccole e medie dimensioni, ma molte altre sono pronte e già sul mercato. Nel 2022 non è più accettabile conoscere i costi di un cantiere con 3-4 settimane di ritardo, perdere rapportini cartacei, bolle e fatture. Per questi problemi, per esempio, alcune soluzioni offrono un’intelligenza artificiale per estrarre con una foto tutte le informazioni utili da una fattura e aggiornano automaticamente i costi del cantiere in tempo reale. I costi conosciuti subito possono essere analizzati facilmente e sapere dove si è a rischio di non starci dentro, agendo il prima possibile per correggere la cosa. Il digitale permette di rendere i processi più efficienti ed efficaci, facendo risparmiare tempo, risorse, e denaro, e di guadagnare un notevole vantaggio concorrenziale sui competitor. Le informazioni possono essere condivise facilmente, in tempo reale e permettere la comunicazione snella e diretta tra tutti gli attori del progetto. I contenuti sono accessibili dovunque tu sia. Così gli errori in fase di esecuzione sono risolti direttamente in campo, con un grande risparmio di tempo e di risorse. La collaborazione da remoto offerta dal digitale riduce le spese di viaggio e le trasferte, facilitando la risoluzione di problemi a distanza. Un altro punto importante è che, con il digitale, tutto è registrato, documentato e verificabile in tempo reale. Per questo si riduce notevolmente il margine di errore dovuto a un’errata trasmissione (o a una sbagliata interpretazione) dei dati, con notevole risparmio di tempo, risorse e denaro. Per esempio, i problemi associati a verifiche per la correttezza del super bonus 110% in edilizia potrebbero essere risolti rapidamente se le fasi della costruzione e i materiali usati fossero documentati in maniera semplice direttamente dal campo. Nei casi più delicati, la tecnologia della blockchain garantisce l’immutabilità del dato e di fatto ne valorizza l’informazione anche da un punto di vista legale. Per concludere, stiamo vivendo in un’epoca in cui abbiamo a disposizione strumenti per migliorare la produttività ed essere più competitivi. Gli strumenti ci sono ed hanno dimostrato la loro validità in termini di efficienza e produttività; sono veloci, usano il cloud e sono disponibili a tutti, ma l‘ostacolo più grande resta l’approccio delle persone all’innovazione, alla curiosità e all’apertura a nuovi modelli. L’aspetto più difficile è il cambio culturale per abbandonare processi obsoleti da “sempre fatti così” ed adottare nuove innovazioni per aumentare la competitività e, di conseguenza, i profitti.

 

“Laurea con lode in ingegneria nucleare al Politecnico di Torino ed un Master of Science all’Ecole Centrale Paris, Francia. Ha lavorato nel settore dell’energia nucleare in diverse realtà: in centrali nucleari in Spagna come direttore per il miglioramento continuo; in organizzazioni internazionali per la sicurezza delle centrali nucleari di tutto il mondo (all’International Atomic Energy Agency (IAEA) a Vienna e alla World Association of Nuclear Operators (WANO) a Londra e Parigi); all’ENEL come ingegnere nucleare per lo sviluppo internazionale. Nel 2017, fonda Mela Works, una società innovativa che fornisce un software per le attività di costruzione e manutenzione. L’idea di Mela Works nasce dall’esperienza maturata nelle centrali di produzione di energia dove c’era un problema per il seguimento, la rendicontazione e documentazione dei vari interventi. Oggi Mela Works e’ una realtà in espansione e vanta centinaia di clienti in vari settori, dalle costruzioni ai cantieri di manutenzione e alla gestione di processi di qualità in aziende manufatturiere.

Giovanni Gasparini- L’Arte divisa fra passione e finanza

I numeri decisamente positivi che emergono dalle aste di Maggio a New York suggeriscono un mercato dell’arte forte e de-correlato ai mercati tradizionali, quindi ideale per investimenti alternativi in questo frangente di incertezza ed elevata inflazione. Ci si deve chiedere quanto rappresentative siano queste aste rispetto al mercato in generale: il livello di prezzi elevatissimo le rende il territorio di caccia dei multimilionari che hanno visto la loro disponibilità di liquidi incrementare nel corso della pandemia.  Questo stato di salute sembra divaricarsi sempre di più dalla realtà delle gallerie che non trattano lavori milionari. Il mercato dell’arte si sta cristallizzando in due parti: da un lato investitori e speculatori serviti dalle poche grandi case d’asta sempre più simili ad intermediari finanziari ma non ancora regolamentati come tali, dall’altra quei (pochi?) oramai rimasti che si interessano agli aspetti storici, culturali ed estetici dell’arte, sostenendo un sistema di gallerie d’arte sotto pressione. E’ la domanda a determinare i cambiamenti strutturali del mercato. Il ventennio di spinte da parte della finanza per appropriarsi del mercato dell’arte e renderlo compatibile alle logiche di investimento speculativo è giunto al suo apice con l’esperimento degli NFT. Poiché le opere d’arte esistenti continuano ostinatamente a rimanere fisicamente non uniformi, nonostante i tentativi di artisti venduti al mercato come Damien Hirst e la sequela dei suoi dipinti ‘Spot’ e ‘Spin’, si è costituito un mercato paralleloderivato” in cui si scambiano contratti di possesso di ‘cose’ che all’occasione possono anche essere immagini. C’è voluto l’atto di prostituzione di un fondatore del mercato per sostenere la finzione che un NFT potesse aver a che fare con l’arte e quindi raggiungerne i prezzi intangibilmente assurdi raggiunti di recente. L’apporto essenziale delle case d’asta è stato offrire la loro vetrina pubblica e ‘prestigiosa’ vendendo la propria credibilità pluricentenaria per il famoso piatto di lenticchie, poco meno di 10 milioni di dollari in questo caso, per coprire una transazione di insider trading che sarebbe verosimilmente vietata in qualunque mercato regolamentato. In ogni caso stiamo perdendo tempo: il mercato NFT (anche di quello che alcuni si ostinano a porre sotto l’etichetta arte) è un mass market di scommesse su prodotti derivati in un mercato senza margin calls, in cui il venditore non può che vincere e il compratore sperare che ci sia qualcuno meno cosciente cui rivendere in fretta. E si sta già squagliando come neve al sole, poiché è funzionale al reimpiego di ‘monopoly money’ che a loro volta stanno inevitabilmente crollando, ovvero i crypto-oggetti piramidali nati per trovare sfogo ad una tecnologia di cui francamente non sappiamo che farcene: soluzione a problemi inesistenti. Ma non sono solo gli NFT a rappresentare il cancro della finanziarizzazione del mercato dell’arte. Nella parte alta del mercato l’utilizzo indiscriminato delle garanzie di parte terza manipolano i prezzi delle opere evitando che possano svalutarsi, mentre nel mercato ‘emergente’ le case d’asta rinforzano l’azione di speculatori che compiono operazioni “pump and dump” inammissibili in qualsiasi mercato minimamente regolamentato. Le garanzie riguardano il mercato delle ‘blue chip’, i titoli affermati in cui a contare è quasi esclusivamente il nome dell’artista e la volontà delle controparti di strutturare un derivato sotto forma di opzione. E i garanti solitamente hanno posizione come ‘market maker’ di alcuni artisti da loro garantiti, inflazionando artificialmente i prezzi senza che ciò risulti pubblicamente. La speculazione invece si focalizza su giovanissimi artiste/i che rispondono a determinati criteri di marketing ‘alla moda’ del momento spingendo artificialmente i loro prezzi con moltiplicatori anche di 100 volte nel giro di un anno; quale sia il lavoro in vendita è sostanzialmente irrilevante, complice anche un lunghissimo processo della critica postmoderna concettuale che ha ridicolizzato l’aspetto materiale ed estetico dell’opera d’arte. Si va verso la separazione e malvissuta convivenza fra due mercati, uno ancora definibile ‘dell’arte’ e dominato da gallerie e case d’asta medio-piccole, in cui valgono i criteri di valutazione del valore basati sull’opera, e l’altro dedicato a chi desidera un prodotto finanziario denominato ‘arte’, finalmente addomesticato ai criteri cari alla finanza.

 

Consulente nomade nel mondo dell’arte, a seguito di un decennio speso basato a Londra nel mondo delle case d’asta internazionali. Collabora da 12 anni con ArtEconomy24 del Sole 24 Ore e, dopo aver fondato e diretto per 7 anni il miglior corso di Master sul mercato dell’arte a livello internazionale, continua la sua missione educativa sporadica presso la SDA dell’Universita Bocconi, ove ha ottenuto la Laurea in Economia Politica. Più recentemente, ha conseguito un MA presso l’Universita di Manchester. Fra i suoi interessi oltre ovviamente all’arte, le auto d’epoca e la nautica, in particolare a vela, e l’aeronautica. E’ moderato collezionista di libri, arte, orologi e francobolli.

Marco Trevisan-Il processo produttivo artistico e una nuova economia dell’arte

Nell’ultima Biennale Arte di Venezia, la curatrice Alemanni ha annunciato che “solo l’arte racconta l’attualità in modo innovativo”, parlando poi dei tre temi cardine della presente edizione: la rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi; la relazione tra gli individui e le tecnologie; i legami che si intrecciano tra i corpi e la terra che abitiamo. Se prendiamo in esame il secondo di questi temi, è evidente come l’innovazione stia non solo nel modo di raccontare dell’arte, ma anche nel processo produttivo che la riguarda. Quello che spesso si dimentica è che il vero ambito nel quale si fa ricerca e innovazione, con un impatto anche sul lato economico non solo del sistema arte, è quello della produzione artistica. E che soprattutto ci aiuta ad avere una idea di futuro. La società contemporanea ha difficoltà nel definire una idea di futuro, ma ne conserva un imprescindibile bisogno. La crisi in epoca di pandemia non è solo economica, ma ha a che fare con l’identità e la visione. I concetti di progresso e di innovazione sono da sempre il motore che fa evolvere la società e scrive la storia dell’uomo. Per creare una idea di futuro, però, è necessaria la narrazione, dobbiamo essere in grado di raccontarcelo e immaginarcelo, ed è qui che le arti entrano in gioco. L’arte non può avere solo un ruolo consolatorio – come è avvenuto spesso nella fase di lockdown dell’epoca pandemica – o di ricerca di investimento o di status symbol con il mercato. Tutto ciò è ben presente nel progetto Futurelab di Ars Electronica di Linz, che da anni focalizza la sua ricerca sull’interazione dell’uomo con la tecnologia, utilizzando l’arte per rendere visibili e tangibili le implicazioni per la società. È un luogo dove scienziati, tecnici, manager d’azienda e artisti costituiscono gruppi di lavoro creando una sintesi di linguaggio, lavorando su temi e in tempi concreti e definiti. Futurelab si avvale sia di contributi pubblici e sia di grandi aziende, che sanno che la vera innovazione risiede nella creatività e nella collaborazione di più tipologie di menti. Succede così che BMW e Mercedes finanzino progetti sulla mobilità senza autista, che Intel lo faccia per il volo senza pilota, che SAP indaghi nuove formule di distribuzione del cibo, che gli ospedali collaborino con aziende, scienziati e artisti per formulare nuove idee di protesi più umanamente accettabili. Deve essere, tuttavia, ricerca che abbia un impatto per lo sviluppo della società nel suo complesso. Questo fa parte anche di una filosofia – di apprendimento prima e di lavoro poi – che si chiama STEAM, dove la A di Arts si è aggiunta a Science, Technology, Engineering and Mathematics. All’inizio del XXI secolo si è cominciato a parlare di STEAM, perchè si è scoperto che anche le professioni più apparentemente tecniche, come quelle dei programmatori, venivano svolte con più efficacia, ingegno e produttività se associate ad un approccio più umanistico e creativo. D’altronde lo stesso Einstein, oltre ad essere un leggendario matematico, era anche un appassionato violinista. Ed Alan Kay, uno dei padri della programmazione moderna e uno degli inventori del computer portatile e delle interfacce grafiche, ha lauree in matematica e biologia molecolare, ma è stato anche pittore e chitarrista jazz professionista. Per non parlare del rapporto tra arte e big data. La Data Art – l’arte prodotta elaborando o utilizzando i “big data” – sfida il mito dell’artista romantico, offrendo nel contempo un approccio artistico fondamentale nell’era digitale in cui viviamo. Molti artisti usano come materiale i dati grezzi che sono un prodotto delle nostre società (in primis, tramite i nostri telefoni e i social media) per “rendere visibile l’invisibile”, creando un ponte diretto tra macroeconomia ed individuo. Uno dei primi dipartimenti di Data Art è stato creato da Google e dato in mano ad Aaron Koblin, un artista. Nel 1995 Negroponte previde che la multimedialità avrebbe colmato la dicotomia tra tecnologia e arte. Citava l’esempio, già allora in atto, dell’industria dei videogiochi, con apparecchi più potenti di quelli usati per compiti professionali, sostenendo addirittura che l’industria dei videogiochi era più avanti della NASA: la qualità dell’hardware per giocare è sempre superiore a quella dei PC utilizzati per altre attività. Le sue previsioni si sono confermate esatte, ed oggi la gamification è forse il settore più evoluto che interfaccia arte ed economia. L’arte oggi può avere una sua funzione pratica nella società, senza negare quella di tensione verso la perfezione e il bello, o di creazione di pensiero. Questo ruolo eventuale dell’arte è cresciuto con il crescere dello sviluppo scientifico e tecnologico, ed oggi diventa uno dei punti cruciali del nostro sviluppo di esseri umani. Chi scrive, in un recente libro, l’ha chiamata “ars factiva”, riferendosi ad essa come ad arte efficace, produttiva, ma ars factiva significa anche, letteralmente, produzione artistica. È arte che dialoga con il mondo delle imprese, della tecnologia, dell’educazione, della società nel suo complesso, ma che sa produrre se stessa in maniera creativa e innovativa. Che non si basta. Che cerca dialoghi. E che viene cercata. Molti artisti lavorano in un ambito di sperimentazione e le aziende sono sempre più interessate a collaborazioni. Il processo di produzione dell’arte è cambiato, ed è sempre più sostenuto sia da istituzioni che da fondi privati, interessati a lavorare con artisti e designer che utilizzano le tecnologie o fenomeni scientifici che essi stessi utilizzano in chiave creativa e critica. Già negli anni ’60 la Bell (telecomunicazioni) forniva mezzi e ricerche per la sperimentazione ad artisti come Rauschenberg e John Cage, ed è stato uno dei primi esempi di un modello che negli anni, seppur lentamente, si è sviluppato. Ma nell’ultimo decennio, complice una espansione decisa dell’arte digitale, ha avuto un incremento netto.  I finanziatori mettono a disposizione i mezzi per la ricerca, la tecnologia e anche i professionisti, ma allo stesso tempo possono interferire sulla libertà del processo artistico, e scongiurare tutto ciò è oggi uno dei compiti dei curatori coinvolti, il cui profilo sta cambiando parallelamente.  Quello che è certo è che siamo già dentro ad una nuova era nella quale economia, tecnologia, scienza e arte, ognuno con i propri obiettivi, collaborano in vista di un progresso che ha nuovi parametri ed eccitanti opportunità.

 

Padovano, classe 1970, è stato responsabile relazioni corporate per il Guggenheim di Venezia, Communication Manager per FMR Art’è Usa da New York, direttore di Affordable Art Fair Italia (dopo aver importato il progetto internazionale) e Direttore di Christie’s Italia. Oggi è art advisor e direttore della Fondazione Alberto Peruzzo, oltre che socio fondatore di One Stop Art (servizi di consulenza nel mondo dell’arte). Nel 2021 ha pubblicato con Scheiwiller-24 Ore Cultura il libro “Ars Factiva. La bellezza utile dell’arte”, sul rapporto tra arte contemporanea e società, e tra arte e tecnologia.