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Giacomo Giulietti- Vuoi volerti bene? Vai in mare

“…Solo chi possiede una barca può capire. Può capire l’affetto… no, il cumulo di affetti che contiene una barca: l’orologio al quarzo garantito due secondi al mese, regalo di mio zio e compagno ai tanti stop durante il giro del mondo; il sestante col quale avevo fatto i primi punti, esitante, nel ’71; la coperta blu sulla quale una mano gentile aveva ricamato <<riservata a Giorgio>>”.

Sono le parole che l’industriale dell’acciaio e armatore Giorgio Falck scrisse al Giornale della Vela dopo che un’orca affondò il suo Guia III, nel 1976. Riassumono perché una barca non è un oggetto. È il compagno di viaggio che ti porta a bere e poi ti riporta a casa quando non puoi guidare. E tu lo ricambi, con la cura e con la fiducia: per affidartici devi prendertene cura; in cambio la tua barca ti porterà a casa sano, dimostrandoti che la fiducia era ben riposta. È quasi una lezione di vita: cura ciò che vuoi si prenda cura di te. E in prima persona dobbiamo curare noi stessi. Ecco perché è importante andare in barca. Così come può essere importante vivere il mare nelle mille altre forme che ti consente la sua enormità e mutevolezza. Puoi surfare le onde con una tavola; tirare due bordi su un catamarano dalle vele colorate, immergerti con l’autorespiratore, o anche solo ammirarlo. Insomma, vai per mare, perché si vive meglio: si è più felici. Non lo dico solo io che, ammetto, sono di parte: lo dice la scienza.

Studi sul comportamento e su quanto gli agenti ambientali incidono sulla salute e sul generale benessere delle persone in questi anni ne sono stati fatti tanti. Due in particolare mi hanno colpito in quanto legati all’acqua, l’elemento senza il quale non esisterebbero né il mio lavoro né la mia passione entrambi legati alle barche e più o meno a tutto ciò che sull’acqua scivola. Uno è alla base del libro Blue Mind, scritto dal biologo marino Wallace J. Nichols (se hai anche un solo momento della vita provato il piacere di avere a che fare con l’acqua non perdere altro tempo e leggilo). E poi c’è un altro studio, condotto da due ricercatori della London School of Economics e dell’Università del Sussex, durato una decina di anni e che ha coinvolto 20mila volontari e si è basato su oltre un milione di risposte. In entrambi i casi emerge che nelle aree verdi, nella natura, come diciamo, si è davvero più sereni e, ancora di più (e con particolare soddisfazione del sottoscritto) che le aree marine e costiere erano “in buona misura” i luoghi più felici. Non basta, perché quando si è vicino o nell’acqua, si vive meglio. Si dorme meglio, si è più pronti, ci si ammala di meno, ci si muove di più, si calma la mente, si affinano i sensi e, di conseguenza, aumenta la produttività.…

È forse per questo che ci sono decine di modi di godersi l’acqua. Per qualcuno è un semplice passeggiarci accanto, per altri è sedersi ad ammirare l’orizzonte che si ammanta col fuoco del sole che tramonta, rosso e grandissimo. Per altri ancora è immergercisi dentro, esplorarne i fondali, interagire con la sua meravigliosa esplosione di esseri viventi. Per ancora tanta umanità, il rapporto privilegiato con l’acqua è nel navigarla. In ogni modo che sia venuto in mente. Spesso non c’è neanche bisogno di arrivare da nessuna parte. Chi ama andare per mare è spesso contento anche solo di andarci su e giù. Che sia il velista che esce per fare due bordi, il kiter che fa avanti e indietro a 200 metri dalla spiaggia o quelli che affittano un’ora di pedalò che al massimo ci arrivano e ci si agganciano per fare il bagno, alla boa che segna i 200 metri dal litorale.

Tutti si godono il mare e il benessere che regala. Amiamo navigare in tutti i modi. Il windsurfista aspetta le giornate di vento teso perché è allora che il suo amico mare gli darà il meglio. L’armatore del megayacht si gode il mare dei luoghi più belli del mondo (e gode anche del farcisi vedere, là, in mare, tra tutti gli altri che possono permettersi di essere dove sono loro). Navighiamo perché desideriamo andare a pesca, insidiando una preda che non vedi o immergendoti in apnea in un ambiente che è più adatto alla fuga del tuo premio che alla tua permanenza. C’è chi naviga non per andare realmente da qualche parte, ma solo per il piacere di arrivare davanti all’avversario.

Ci sono uomini come Sir Thomas Lipton, il magnate del the, o anche Patrizio Bertelli, patron di Luna Rossa che hanno speso fortune per non vincere mai la Coppa America, il più antico trofeo sportivo del mondo regolarmente disputato sin dalla sua costituzione, nel 1851, che ha affascinato di generazione in generazione, alcuni degli uomini più influenti del mondo da un punto di vista economico e finanziario. E magari nel 2024 è la volta buona per la barca italiana.

Da una parte chi cerca di correre più di te e dall’altra il mutevole gioco di mare e vento. Una regata è una doppia sfida: con gli avversari e con l’ambiente che ti ospita. E talvolta sembra che non ti ospiti neanche tanto volentieri. In realtà a lui non è che interessi tanto se dove ha deciso di gonfiare onde da 5 metri e sputare vento a 50 nodi ci sei tu su una barca in giro per il mondo, o un capodoglio a caccia di calamari giganti.

A non sentirti tanto volentieri là sei tu che ti chiedi: ma chi me l’ha fatto fare?! Se è successo anche a te, non ti preoccupare, sei in buona compagnia. A partire dal sottoscritto, che naviga da 55 anni pur avendone ancora 54 (ci metto anche i 9 mesi delle navigazioni placentari) fino ad arrivare ai navigatori solitari da record. Ci sono video in cui piangono disperati perché stremati da giorni di battaglia con impressionanti depressioni meteorologiche, mentre navigano tra i 40 ruggenti e i 50 urlanti a 1400 miglia dalla costa più vicina, che è l’Antartide.

Chiunque ha avuto una barca o è andato in mare da navigatore è stato tentato di mettersi alla prova.

Tentare una nuova rotta, per arrivare più in là dei soliti lidi; uscire quando il vento è più forte o le onde più alte anche se a sentirle ruggire fa tremare lo stomaco. Decidere di tornare a casa alla fine della crociera anche se è in arrivo una brutta perturbazione perché domani si deve andare al lavoro.

Tra parentesi, la principale causa di navigazione col maltempo è dovuta alle date: se non sei obbligato ad arrivare un certo giorno, aspetti semplicemente che il tempo migliori prima di partire.

Eppure è successo a tutti. Ognuno in mare ha attraversato quel momento in cui ha alzato gli occhi al cielo implorante o ha battuto i pugni bestemmiando furiosamente. Eppure sono eccezioni coloro che dopo aver superato la paura di non farcela hanno abbandonato la passione senza trasformare quella barca, quella tavola, il sup o qualsiasi cosa galleggi in una parte della loro vita.

“Uomo libero sempre amerai il mare”, rimava il poeta Charles Baudelaire. “Navigare necesse est!” ordinava ai suoi uomini il potente Gneo Pompeo. “Le onde sono giocattoli mandati da Dio”, diceva il surfista Ray Lario.

Che sia per amore, per dovere o per divertimento, fatti un regalo: vai in mare.

 

Crede che comunicare sia un diritto di tutti. Anche di chi non ci riesce da solo. Ed è per questo che rende disponibili le sue competenze. Sia che si voglia parlare “ai giornali” sia alle persone. Giornalista professionista (ma non ditelo alla madre che è convinta che suoni il clarinetto alla fermata della metro). Consulente comunicazione e pr dal 2000 e consulente marketing dal 2009.

Ha collaborato con varie testate, tra cui: Il sole 24 ore; Repubblica-L’Espresso; Rcs; QN-Quotidiano Nazionale; Rizzoli Publishing; Il giornale di Sicilia; Rusconi; Hachette, Hearst; Panama Editore; International Yachting Media; PressMare; Vela e Motore, Bmi MAg

Giurato italiano del premio internazionale Best of Boats Awards.

Cura la comunicazione e il marketing di: H2Boat, Tuccoli; Nabys; Tuxedo Yachting House; Pks; Customboats Italia; Wind Yachts.

E’ stato velista professionista, (prodiere) dal 1998 al 2001. Campione del Mondo 12 metri S.I. (2000)

Ha scritto diversi manuali sulla Vela. Vincitore del Premio giornalistico e letterario Carlo Marincovich.

Ha anche due figli che ama, addirittura più della poesia metasemantica.

Nicola Ricciardi-A che punto è la notte: Art Basel e la temperatura del mercato dell’arte

A che punto è la notte? si sono chiesti per settimane gli operatori dell’arte man mano che si avvicinava Art Basel (11-16 giugno), la principale fiera d’arte al mondo e il momento dell’anno in cui è più facile registrare in diretta la temperatura del mercato. Dopo il generale raffreddamento del settore registrato negli ultimi mesi — con un sensibile rallentamento delle compravendite in galleria e con alcune recenti aste definite da più voci come “disastrose” — tutti guardavano alla fiera di Basilea come l’attimo in cui capire se la notte era destinata a farsi ancora più buia o se al contrario fosse possibile intravedere le prime luci dell’alba. E in un primo momento tutto lasciava intendere che lo scenario più plausibile fosse il secondo, il più positivo. Martedì sera, infatti, alla chiusura del primo dei giorni di anteprima dedicato ai top collectors, circolavano voci, rapidamente riprese dalla stampa di settore, di vendite importanti (tra tutte quella di un dipinto di Joan Mitchell del 1990, Sunflowers, presentato da David Zwirner e ceduto per una cifra intorno ai 20 milioni di dollari). Vendite a sei e sette cifre hanno continuato ad essere annunciate per tutto il corso della giornata successiva: 16 milioni di dollari per un Arshile Gorky (Untitled (Gray Drawing (Pastoral)), 1946–1947) da Hauser & Wirth, 6.75 milioni di dollari per Julie Mehretu (Untitled 2, 1999) da White Cube, 3.85 milioni di dollari per un bellissimo Robert Rauschenberg (Market Altar / ROCI MEXICO, 1985) da Thaddaeus Ropac, solo per citarne alcuni. Oltre alle cifre venivano riportate anche un discreto numero di transazioni, con numerose gallerie che hanno comunicato ai media una dozzina o più di vendite il giorno dell’inaugurazione (anche se è opportuno precisare che non essendoci possibilità di verificare le transizioni ogni numero è da prendere sulla fiducia, nella consapevolezza che i galleristi tendano a essere moderatamente ottimisti quando parlano con la stampa di settore). A rafforzare l’idea che le prime ore della fiera fossero incoraggianti ha contribuito anche un’insolita dichiarazione alla stampa da parte di Iwan Wirth, presidente di Hauser & Wirth, che recitava: “Nonostante il ‘doom porn’ che attualmente circola nella stampa artistica e tra gli addetti ai lavori, siamo molto fiduciosi nella resilienza del mercato dell’arte e il primo giorno di Art Basel ha confermato la nostra prospettiva. Il vantaggio del ritorno del mercato a un ritmo più umano è che i collezionisti internazionali più esigenti si stanno impegnando qui e ora per ottenere il meglio del meglio.” In molti hanno letto il buon avvio come una naturale risposta al ridimensionamento delle case d’asta e alla tradizionale alternanza che vede le vendite oscillare ciclicamente tra transazioni private e aste pubbliche. I prezzi delle opere nel primo mercato — nonostante la diffusa preoccupazione che possano essere diventati troppo alti — sono rimasti stabili o sono calati, e in questo scenario spesso è più facile per acquirenti e venditori effettuare transazioni per tramite delle gallerie (mentre quando il mercato è in crescita le opere vanno più velocemente in asta). Tuttavia, l’enfasi sulle vendite di grandi dimensioni ha solo in parte distolto l’attenzione dalle sempre più impegnative sfide che le gallerie si trovano oggi ad affrontare sul fronte delle trattative. Con il passare dei giorni l’atmosfera si è fatta rapidamente meno vivace e frizzante. Molte gallerie hanno iniziato a parlare di un “rallentamento” della fiera, complice il fatto che ad essere acquistate per prime erano state opere che i collezionisti stavano già cercando e sulle quali le gallerie avevano comunque lavorato con largo anticipo (o lavori spesso già venduti nelle settimane antecedenti alla fiera). Per tutte le altre trattative i tempi si sono dimostrati sensibilmente più lunghi, con l’acquisto d’impulso diventato ormai una rarità, specialmente per le opere con price point più elevati. Come raccontato alla stampa da un senior partner di Paula Cooper, “tutti stiamo lavorando il doppio più duramente per generare delle vendite”. I panni sporchi si lavano in casa, ed è difficile che le gallerie si espongano troppo quando le cose non girano al meglio. Tuttavia, muovendosi tra gli stand di Art Basel al terzo giorno della fiera era difficile non leggere una moderata preoccupazione sul volto di molti galleristi (ancora di più quando ci si spostava nelle fiere parallele, come ad esempio Liste, la manifestazione dedicata alle gallerie anagraficamente più giovani o emergenti, dove l’atmosfera era sensibilmente più cupa). A onor del vero, anche molte delle fiere che hanno preceduto Art Basel in questa prima metà del 2024 — inclusa miart, la fiera d’arte moderna e contemporanea organizzata da Fiera Milano, che dirigo da quattro anni — hanno fatto registrare trend simili. Anche ad aprile, la tradizionale finestra della manifestazione milanese, era infatti tangibile un grande entusiasmo il primo giorno di apertura, quello dedicato a VIP e selezionati collezionisti, con una flessione delle compravendite — e, di conseguenza, dell’umore — al trascorrere dei giorni. Interessante però riscontrare come molte gallerie con cui ho avuto la possibilità di confrontarmi proprio a Basilea abbiano confermato di aver chiuso trattative aperte in occasione miart solo a inizio giugno, a quasi due mesi di distanza dalla fiera, a testimonianza dell’attuale prudenza e rilassatezza del collezionismo. Se un tempo la cautela nel mercato dell’arte era l’eccezione, oggi possiamo considerarla quasi la norma. Parlando con gli addetti ai lavori, molti insistono sul fatto che il ritmo più lento abbia avuto come contraltare positivo un impegno più profondo, conversazioni più ponderate e legami più forti tra galleristi, artisti, collezionisti e curatori. Ma inevitabilmente questa lentezza genera a sua volta insicurezza, in quanto è sempre più complicato per una galleria pianificare con anticipo i propri investimenti. A fatti compiuti, questa Basilea non sembra comunque così diversa da quella del 2023 o dell’anno prima, e se consideriamo Art Basel un barometro della salute del mercato dell’arte, gli operatori del settore posono tirare un sospiro di sollievo per aver superato indenni o quasi l’ennesimo stress test: la notte non è buia come qualcuno temeva, anche se il sorgere del sole è ancora lontano. Resta tuttavia evidente che le fiere d’arte, da Art Basel a miart, non possono ignorare i mutamenti che stanno subendo anche solo le abitudini di acquisto. La risposta più scontata, ma anche più puntuale, a questa mutazione è senz’altro cercare di allargare il proprio pubblico di riferimento. È in tal senso che va letto il sempre maggior impegno di Fiera Milano nel costruire e far crescere — in misura e consapevolezza — una nuova classe di collezionisti, stimolando una domanda di arte ancora inespressa. Oltre a spronare la curiosità dei visitatori “tradizionali”, ad esempio la popolazione già solita frequentare miart, è sempre più fondamentale per una fiera allargare il proprio bacino di fruizione potenziale, includendovi comunità con alta capacità di spesa ma al momento meno partecipi, attraverso iniziative volte a comunicare come il collezionismo sia prima di tutto un esercizio di responsabilità. Chi compra arte seriamente deve farlo non solo per soddisfare un proprio desiderio personale ma anche con la consapevolezza di star supportando un sistema — quello delle gallerie, e di conseguenza degli artisti — che in questo momento storico ha bisogno più che mai di nuove energie e risorse per continuare a crescere in modo sano. Introdurre questi concetti in potenziali nuovi collezionisti non è banale, in quanto i meccanismi che muovono e regolano il mercato dell’arte sono, per loro natura, intrinsecamente opachi e stanno diventando sempre meno intellegibili negli anni post-Covid. Come ha dichiarato a The Art Newspaper Dominique Lévy, cofondatrice di Lévy Gorvy Dayan, in occasione di Art Basel, “Ciò che sta accadendo nel mercato dell’arte è difficile da descrivere, e ancor più difficile da decifrare. Il mondo ha dimenticato la parola ‘sfumatura’. Dal mercato dell’arte al mercato azionario fino alla situazione politica, tutto sembra essere un estremo o l’altro.” O è mezzanotte o è mezzogiorno, insomma. Tutto fa presagire però che dovremmo abituarci alle nuance e all’imprevedibilità del sole, senza scoraggiarci ma anche senza farci prendere troppo presto dall’entusiasmo, adattandoci e rispondendo a questo new normal con soluzioni concrete, nella speranza di trovare presto, per dirla con Battiato, “l’alba dentro l’imbrunire”.

 

 

Curatore, autore e manager culturale, vive e lavora tra Bergamo e Milano. Dal 2020 ricopre la carica di Direttore Artistico di miart, la fiera internazionale d’arte moderna e contemporanea di Milano. Dal 2016 al 2020, è stato Direttore Artistico delle OGR – Officine Grandi Riparazioni di Torino, dove ha organizzato oltre 20 mostre e più di 70 concerti di artisti internazionali, oltre a numerose rassegne musicali e cinematografiche. Tra il 2017 e il 2018 è stato membro del Consiglio di Amministrazione del Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato e nel corso degli ultimi dieci anni ha curato numerose mostre in Italia e all’estero. È autore di diverse pubblicazioni e testi critici e dal 2020 insegna regolarmente presso la NABA – Nuova Accademia di Belle Arti di Milano e presso l’Accademia di Belle Arti G. Carrara – Politecnico delle Arti di Bergamo.

Pierluigi Portalupi- I riflessi della guerra nelle assicurazioni marittime: sfide e strategie

Le compagnie di assicurazioni marittime si trovano di fronte a una sfida sempre più complessa nel gestire i rischi legati alla guerra, alle insurrezioni, alle ribellioni e ai conflitti civili, nelle rotte commerciali instabili e pericolose.

Da novembre 2023 ad oggi, la regione meridionale del Mar Rosso, del Golfo di Aden e del Mar Arabico sono state teatro di una serie di eventi destabilizzanti che hanno scosso l’industria marittima globale. Con l’attacco alla Galaxy Leader (seguito da altri 42 incidenti nella zona) e il tragico episodio sulla True Confidence lo scorso marzo che ha causato la perdita di vite umane, la sicurezza delle rotte commerciali è diventata oggetto di crescente preoccupazione per armatori, operatori e assicuratori.

La risposta alla crescente minaccia è stata l’aumento della presenza militare nel Mar Rosso, con operazioni di intercettazione e attacchi contro gruppi come gli Houthi. Se da un lato questo ha portato a un certo grado di contenimento delle minacce, dall’altro ha innescato un effetto domino che ha influenzato pesantemente i flussi di traffico marittimo.

La diminuzione del 53% dei transiti in tale area nel primo trimestre del 2024 rispetto all’anno precedente è emblema di una situazione in evoluzione, in cui le sfide e le incognite sono all’ordine del giorno.

Le compagnie di assicurazioni marittime devono ora affrontare il compito di valutare e mitigare i rischi legati alla guerra, che possono avere impatti devastanti sulle navi, sugli equipaggi e sulle merci trasportate.

A tale scopo sono state istituite polizze assicurative contro i rischi guerra, che sono stipulate per proteggere gli armatori e gli operatori marittimi da danni e/o perdite causate da una serie di fattori, quali (cito i principali): guerre civili, insurrezioni, ribellioni, conflitti civili, sequestri e arresti degli equipaggi (e relative conseguenze di tentativi in tal senso), effetti di mine, bombe o altri ordigni bellici abbandonati e infine scioperanti, sommosse e/o tumulti civili, atti di terrorismo, espropri, vandalismi, sabotaggi, e attività di pirateria.

Tali coperture vengono prestate assoggettandole a “Listed Areas” (lista dei paesi esclusi dalla copertura), “Institute Notice of Cancellation, Automatic Termination of Cover and War and Nuclear Exclusion Clause” (con un preavviso di 7 giorni per disdire la copertura), “London Blocking and Trapping Addendum” (nel caso di impossibilità della nave assicurata di lasciare il porto per un periodo continuativo di 12 mesi a seguito della chiusura dello stesso o di un suo canale di collegamento.

Tuttavia, la copertura assicurativa contro i rischi guerra comporta spesso delle limitazioni e delle esclusioni che gli armatori devono tenere in considerazione.

Come, ad esempio, le esclusioni di danni e/o perdite derivanti da qualsiasi detonazione da arma di guerra che impieghi la fissione/fusione atomica o nucleare o altre reazioni simili o materia radioattiva. A dir la verità ci sono anche altre clausole, che seppur, molto improbabili, devono essere considerate. Tra queste, cito quelle più significative che si applicano nel caso di scoppio della guerra tra UK, USA, Francia, Russia, Cina, ma anche clausole che si applicano per la requisizione, cattura, sequestro, arresto, detenzione, confisca o espropriazione da parte o per ordine del governo, o qualsiasi Autorità, in cui la nave è registrata.

Ve ne sono altre che si applicano invece per arresto, confisca, sequestro, detenzione o espropriazione in base a norme di quarantena o a causa di violazione di norme doganali, come pure l’esercizio di un’azione giudiziaria, la mancata prestazione di una garanzia o il mancato pagamento di una multa o qualsiasi altra causa finanziaria.

È pertanto essenziale che gli armatori e gli operatori marittimi comprendano appieno i dettagli e le clausole delle loro polizze per garantire una copertura adeguata in caso di eventi bellici.

La valutazione dei rischi guerra è diventata un elemento cruciale nella gestione complessiva dei rischi nell’industria marittima. Le compagnie di assicurazioni marittime devono adottare una strategia preventiva e proattiva nella valutazione e quotazione di tali rischi, lavorando a stretto contatto con gli armatori per individuare i potenziali pericoli e adottare le misure di sicurezza adeguate.

In conclusione, la gestione di tali rischi rappresenta una sfida sempre più pressante in un contesto di crescente instabilità geopolitica.

 

 

Head of Marine & Transport per Generali Global Corporate & Commercial Italia. Nel business “Marine” dal 1998. Ha cominciato a Parigi presso AGF Mat/Allianz, poi dal 2000 a Genova ed in Far East per lavorare come Insurance Marine manager.

Roberta Ghilardi-Tra sostenibilità, arte e cultura

La parola sostenibilità è ormai sulla bocca di tutti e l’acronimo “ESG”, Environmental, Social e Governance, permea ormai tutti i settori dell’economia, sulla scia delle numerose norme emanate dalla Commissione Europea in materia di sostenibilità nel corso degli ultimi anni.

Nel mio doppio ruolo di Sustainability Manager e Art&Finance Manager in Deloitte osservo con estremo interesse l’evoluzione del mondo dell’arte e della cultura che, seppur con tempi decisamente più “morbidi” rispetto ad altri settori dell’economia, sta muovendo qualche passo nel percorso verso la sostenibilità.

Un percorso che è iniziato in sordina qualche anno fa, limitandosi a poche azioni non strategicamente connesse, che riguardavano più o meno tutti gli operatori di settore. Tra queste, la dematerializzazione dei cataloghi d’asta, qualche tavolo di lavoro sulla sostenibilità nei network museali, sporadici esempi di report annuali e analisi d’impatto di organizzazioni culturali e creative, come anche iniziative per la promozione della salvaguardia dell’ambiente e delle diversità attraverso l’arte.

Il tutto a fronte, tuttavia, di una graduale presa di coscienza delle istituzioni internazionali del legame imprescindibile tra cultura e sostenibilità, con particolare riferimento alla consapevolezza del contributo della cultura allo sviluppo sostenibile.

La cultura attualmente non costituisce il focus specifico ed esclusivo di uno o più tra gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile definiti dall’ONU nell’Agenda2030 (in inglese Sustainable Development Goals” o “SDGs”), ma si è diffusa la consapevolezza della capacità delle organizzazioni che operano nel settore culturale e creativo di favorire la generazione di impatti economici ed occupazionali di tipo diretto, indiretto e indotto, promuovendo contestualmente la diversità, e contribuendo alla coesione e all’inclusione sociale. Anche per questo l’UNESCO ha pubblicato nel 2019 i “Culture 2030 Indicators”, un framework di indicatori tematici definiti con l’obiettivo di misurare e monitorare il contributo della cultura agli SDGs, che declinano di fatto i fattori ESG, considerando la cultura sia come settore di attività a sé stante, sia come elemento trasversale agli stessi Obiettivi.

La pandemia da COVID-19 ha contribuito ad accelerare la transizione verso lo sviluppo sostenibile anche a livello di operatori delle industrie culturali e creative, come è avvenuto per molti altri settori. A causa delle restrizioni agli spostamenti e alle interazioni sociali poste in essere per arginare la diffusione della pandemia, infatti, il mondo delle industrie culturali e creative, spesso basato sugli eventi e sull’interazione “di persona” è stato messo in stand-by, costretto a riflettere su come poter innovare e migliorare, e trovando il tempo per attivare nuove modalità per affrontare le sfide che il mondo odierno ci pone.

Proprio in questo periodo sono nate infatti nuove e promettenti iniziative sul fronte ambientale, come la Gallery Climate Coalition (GCC), organizzazione che riunisce un crescente numero di attori del mercato dell’arte per diffondere metodologie sviluppate specificamente per il settore al fine di ridurre l’impatto di questi attori sul clima; o ancora iniziative connesse alla promozione della diversità, della lotta alla violenza di genere e dell’inclusione sociale.

Quella che manca, tuttavia, è una “cultura della misurazione e della rendicontazione” degli impatti generati dall’arte e dalla cultura in termini ambientali, sociali e di governance (ESG), che potrebbe contribuire ad accrescere la consapevolezza del loro impatto sullo sviluppo sostenibile, generando anche effetti positivi nelle relazioni con gli stakeholder.

L’analisi degli impatti attuali e potenziali può, infatti, contribuire ad indirizzare le risorse verso le attività che portano maggior beneficio al contesto di riferimento, ma anche attrarre finanziamenti. Per queste analisi, le organizzazioni culturali e creative possono seguire le Linee guida per la redazione del Bilancio Sociale degli Enti del Terzo Settore, oppure trarre spunto dal settore profit, adottando gli indicatori tipici del reporting di sostenibilità; o ancora, adottare metodologie specifiche, quali le valutazioni econometriche derivanti da metodi utilizzati per la valutazione degli asset a fini contabili, la metodologia SROI – Social Return on Investment (SROI), o il già citato framework “Culture|2030 Indicators” dell’UNESCO.

La quantificazione degli impatti generati dalle imprese culturali e creative, profit e noprofit, può contribuire ad accrescere la disponibilità di informazioni relative alle sfere “Social” e “Governance” dei fattori ESG, che possono confluire non soltanto nei report delle stesse imprese culturali e creative, ma anche in quelle delle aziende che si troveranno nei prossimi anni a dovere affrontare le sfide poste dalla nuova Direttiva in materia di Reporting di Sostenibilità, la “CSRD” (Corporate Sustainability Reporting Directive).

Nuovi dati che, in termini strategici, possono così migliorare le performance complessive di sostenibilità delle imprese culturali e creative come anche delle aziende che le supportano, fungendo auspicabilmente da incentivo per l’investimento di ulteriori risorse in arte e cultura da parte del settore privato.

Un circuito virtuoso che potrebbe soltanto rafforzare la capacità della cultura di coadiuvare lo sviluppo sostenibile.

 

Manager nel team Sustainability di Deloitte in Italia, di cui fa parte dal 2017.

Lavora inoltre nel team Art&Finance, curando le pubblicazioni nazionali ed internazionali relative al mercato dell’arte, nonché lavorando su servizi che connettono sostenibilità, arte e cultura per clienti nazionali ed internazionali.

Dal 2023 è anche responsabile delle attività di marketing e comunicazione del Business Audit&Assurance di Deloitte.

Fa parte del gruppo di lavoro dedicato alla Sostenibilità e all’Agenda 2030 di ICOM Italia.

Lecturer in diverse università italiane.

Alessandro Genovesi- L’imperativo della sostenibilità

La sostenibilità aziendale, declinata con l’acronimo di ESG è ormai un concetto centrale nel dibattito economico e sociale contemporaneo. Spesso si ritiene che la diffusione delle logiche ESG sarà possibile principalmente grazie ad un proliferare di leggi e regolamenti, ai quali le aziende nella loro intera filiera dovranno attenersi. Pertanto “quando sarà obbligatorio, ce ne occuperemo…”, viene da pensare.

Sembra quasi che ai tavoli degli esperti, presso l’Unione Europea e in tutte le sedi in cui si producono norme sugli ESG, il tema centrale sia quello di annoverare all’interno del quadro normativo il maggior numero possibile di metriche legate alla sostenibilità (tassonomie, matrici, indicatori), con lo sforzo improbo di disciplinare e soprattutto rendere confrontabili degli aspetti che spesso per loro natura sono già di per sé difficili anche solo da misurare.

La realtà all’interno delle aziende è diversa: la sostenibilità rappresenta un approccio strategico che permea tutti i livelli dell’attività aziendale, integrando considerazioni ambientali, sociali ed economiche capaci di creare valore a lungo termine per tutte le parti coinvolte (i cosiddetti Stakeholders). Gli ESG sono una nuova modalità di intendere il “fare impresa”, forse già noto ad alcuni nostri lungimiranti imprenditori italiani del secolo scorso che costruivano asili, alloggi, campi sportivi, villaggi vacanze per i dipendenti e le loro famiglie, ad esempio. Di loro, non a caso, rimangono ritratti, monumenti, luoghi e fondazioni benefiche ad essi intitolati.

Perché la sostenibilità è ormai un imperativo per le aziende e non solo un’ottemperanza di regole?

In primo luogo, perché la sostenibilità aziendale implica un’attenzione particolare alla gestione responsabile delle risorse naturali, alla riduzione degli sprechi ed all’impatto ambientale delle operazioni aziendali. Questo si traduce in politiche volte al risparmio energetico, alla gestione efficiente delle risorse e alla promozione di pratiche di produzione ed economia circolare.

Parallelamente, le metriche ESG si estendono anche alla dimensione sociale, creando un valore condiviso per le comunità in cui le imprese stesse operano. Ciò implica promozione di valori sempre più rari, quali diversità, inclusione ed equità sociale. C’è in gioco il benessere e lo sviluppo di ciascun individuo, sia esso a qualsivoglia titolo “dipendente, fornitore o cliente”, che passa attraverso una fitta rete di relazioni positive.

Inoltre, la sostenibilità aziendale si caratterizza per un governo (governance) trasparente, etico e responsabile. Condurre le aziende garantendo la partecipazione delle donne, prevenendo i conflitti di interesse, la corruzione, è la strada per arrivare ad una conduzione dove non sempre il fine giustifica i mezzi.

Quindi tanto impegno e pochi vantaggi? Affatto. La sostenibilità è un driver per l’innovazione, in grado di stimolare la ricerca e lo sviluppo di nuove tecnologie, prodotti e servizi che rispondano a logiche di efficienza, progresso ed alle esigenze emergenti dei mercati mondiali. I vantaggi sono inoltre la crescita della reputazione e della fiducia di consumatori ed investitori che sono indotti a preferire quelle aziende che operano secondo pratiche responsabili e non solo in ragione della massimizzazione del profitto. Relativamente agli investitori, l’aumento della resilienza e della capacità di adattamento conduce l’azienda ad una inevitabile riduzione dei rischi operativi e finanziari; le ricadute positive sono in primis la riduzione del costo del denaro ed un mercato che tende a premiare gli investimenti sostenibili.

Ulteriori benefici dati dalla sostenibilità sono il miglioramento della reputazione e della brand equity dell’azienda, che aumentano la fiducia dei consumatori, degli investitori e delle altre parti interessate.

La sfida ESG è un’opportunità epocale, se compresa nel suo significato più profondo: elevare il genere umano a delle condizioni di vita migliori, per tutti, per anni. Non è il Pianeta che dobbiamo salvare (se la cava bene da 4,5 miliardi di anni), bensì noi stessi e le generazioni a venire.

 

 

Dottore Commercialista, Professore universitario di Finanza strategica e di Funding per l’Arte e la cultura a Ca’ Foscari, da oltre vent’anni si occupa di finanza d’impresa nell’ambito di fusioni, acquisizioni e valutazioni aziendali. Dopo un’esperienza decennale in KPMG ed in PWC, nell’ambito delle Financial Due Diligences si è specializzato come consulente professionista nel controllo di gestione e nelle operazioni straordinarie.

Dal 2020 segue i temi legati alla sostenibilità aziendale (ESG) e nel 2023 si è certificato come ESG Auditor Aicq-Sicev. Attualmente affianca le aziende come Sustainability Manager per gli aspetti legati alla rendicontazione non finanziaria.

Oltre all’attività di docenza e consulenza, è relatore in convegni e seminari sia in ambito ESG che per gli aspetti inerenti al corporate finance.

Fabio Marazzi- Le sfide dell’intelligenza artificiale

In questo periodo di accelerazione tecnologica ed inizio probabile di una nuova era industriale e prima ancora sociale, ritengo che le sfide che pone l’irrompere sulla scena mondiale della Intelligenza Artificiale siano diverse. Cito le principali.

Disoccupazione e Dislocamento Lavorativo: mentre l’IA crea nuovi posti di lavoro, può anche rendere obsoleti alcuni ruoli, specialmente quelli che implicano compiti manuali o ripetitivi; la sfida sarà garantire che la forza lavoro possa adattarsi, attraverso la riconversione professionale e l’educazione continua.

Disuguaglianze Economiche: esiste il rischio che i benefici economici dell’IA si concentrino nelle mani di chi possiede le tecnologie, le competenze e i capitali necessari per implementarle, potenzialmente esacerbando le disuguaglianze esistenti. Sarà importante percio’ implementare politiche che favoriscano una distribuzione equa dei benefici.

Richiesta di Nuove Competenze: il mercato del lavoro richiederà competenze sempre più sofisticate, incluse quelle relative alla tecnologia, alla programmazione e alla gestione dei dati, così come competenze trasversali come il pensiero critico e la creatività; ciò pone l’accento sull’importanza dell’istruzione e della formazione continua.

A queste sfide serve una risposta politica ed economica e quindi per trarre vantaggio dall’impatto dell’IA sull’economia e il lavoro, governi, aziende e società civile dovranno collaborare per favorire l’Innovazione Responsabile, ovvero promuovere lo sviluppo e l’adozione dell’IA in modo che rispetti i principi etici e sociali, attraverso regolamenti che proteggano la privacy, la sicurezza e l’equità. Le risposte delle istituzioni dovranno anche supportare la transizione lavorativa: implementare quindi politiche per sostenere i lavoratori nel transito verso nuovi impieghi, comprese iniziative di formazione e riqualificazione, oltre a sistemi di protezione sociale adeguati.

Infine, sarà anche necessario promuovere la Distribuzione Equa dei Benefici: adottare cioè politiche fiscali e sociali che assicurino una distribuzione equa dei guadagni economici derivanti dall’IA, per ridurre le disuguaglianze e sostenere gli individui più colpiti dalla transizione tecnologica.

L’impatto dell’IA sull’economia e il lavoro è complesso e richiede un approccio bilanciato che massimizzi i benefici mentre gestisca attentamente le sfide, è quindi fondamentale per i policymaker prevedere questi cambiamenti e prepararsi adeguatamente per guidare le società verso un futuro in cui l’IA contribuisca a un progresso economico sostenibile.

L’intelligenza artificiale (IA) si è rivelata estremamente utile in una vasta gamma di applicazioni, nella sanità, ad esempio, ove l’IA già contribuisce a migliorare la diagnosi e il trattamento delle malattie e dove algoritmi avanzati possono analizzare immagini mediche con precisione superiore o complementare agli esseri umani, identificando segni precoci di condizioni come il cancro al seno o malattie cardiovascolari. Inoltre, sistemi di IA possono monitorare i pazienti in tempo reale, fornendo dati vitali per la prevenzione o la gestione delle crisi mediche.

Un altro campo di virtuosa applicazione è rappresentato daiI trasporti, ove l’IA gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo di veicoli autonomi e nella gestione intelligente del traffico. Queste tecnologie promettono di ridurre gli incidenti stradali causati da errori umani, migliorare l’efficienza del traffico e diminuire le emissioni di gas serra attraverso una migliore pianificazione del percorso, mentre resta ancora problematico il dibattito sulla responsabilità e quindi le modalità assicurative e le misure risarcitorie.

Un altro esempio felice è rappresentato dall’ambiente, ove algoritmi di IA sono impiegati nel monitoraggio ambientale e nella lotta contro i cambiamenti climatici. L’analisi dei dati raccolti da satelliti con IA può aiutare a identificare deforestazione, inquinamento e altri fattori di degrado ambientale, oltre a ottimizzare l’uso delle risorse naturali come acqua ed energia. Da segnalare anche il tema dell’ industria e della produzione, ove l’IA migliora l’efficienza operativa attraverso la manutenzione predittiva, che prevede guasti delle macchine prima che accadano, riducendo i tempi di inattività e i costi di manutenzione. Inoltre, l’automazione intelligente e la robotica assistita da IA stanno trasformando le catene di montaggio, aumentando la produzione e la sicurezza sul lavoro. Un’altra modalità di applicazione è nell’educazione, ove sistemi di IA personalizzano l’apprendimento in base alle esigenze degli studenti, adattando i materiali didattici ai loro stili di apprendimento e progressi. Questo può migliorare l’efficacia dell’educazione e rendere l’apprendimento più accessibile a studenti di diverse capacità e background.

Anche nei servizi finanziari l’IA è utilizzata ottimamente per la gestione del rischio, la prevenzione delle frodi e l’ottimizzazione degli investimenti. Algoritmi sofisticati possono analizzare enormi volumi di dati di mercato per identificare tendenze, rischi e opportunità in tempo reale. Infine, un altro ambito di eccellenza è rappresentato dall’Assistenza e Intrattenimento, ove assistenti virtuali basati sull’IA, come Siri o Alexa, hanno reso la tecnologia più accessibile e interattiva, semplificando compiti quotidiani e fornendo informazioni in modo naturale. Nel campo dell’intrattenimento, l’IA è impiegata nella creazione di effetti speciali, nella personalizzazione dei contenuti e nella generazione di nuove forme di arte e musica.

Concludo con l’affermare che  l’IA presenta indubbiamente delle sfide e dei rischi, la sua utilità in vari ambiti è innegabile; la sfida sta nell’adottare approcci responsabili e regolamenti adeguati per garantire che le sue applicazioni siano etiche, sicure e vantaggiose per la società nel suo insieme, senza pero’ creare eccessivi ostacoli o lacciuoli burocratici allo svolglimento dell’attività di impresa.

 

Nato a Milano nel 1963, sì è laureato in giurisprudenza nel 1987 presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Con oltre 30 anni di esperienza come avvocato, ha concentrato la sua pratica principalmente nel diritto commerciale internazionale, nelle operazioni di M&A e nel diritto dell’innovazione.

Ampio background professionale, ricopre ruoli chiave come consulente per enti regionali e governativi. Inoltre, contribuisce attivamente come membro in numerosi consigli di amministrazione e organi di controllo, nazionali e internazionali, pubblici e privati.

Oltre alla sua attività legale, Marazzi è docente universitario presso l’Università degli Studi di Pavia e autore di numerose pubblicazioni.

Helga Zanotti- Legge Europea sull’intelligenza artificiale: il futuro è già domani

Il 12 marzo 2024, il Parlamento Europeo ha approvato il testo definitivo della legge sull’intelligenza artificiale, nota come AI Act (Artificiale Intelligence Act). Le domande che serpeggiano nell’ambiente partono dall’ipotesi di un irrimediabile ritardo sulle strade da intraprendere, per guidare il cambiamento nel rispetto delle persone e dello sviluppo dell’economia europea.

Entro il 2025, il volume totale dei dati prodotti al mondo pare destinato a quintuplicarsi, rispetto al valore di 33 zettabyte del 2018, anche grazie alla rapida progressione dell’intelligenza artificiale. È legittimo attendersi, che questa importante mole di dati trasformi la società, cioè il modo di produrre, consumare e vivere di ogni essere umano. Questa considerazione ci porta ad una prima valutazione: l’innovazione digitale e -nel caso qui trattato- l’intelligenza artificiale è nettamente più veloce del processo normativo ed anche economico. Solo conoscendo le dinamiche proprie dello sviluppo dell’intelligenza artificiale potremo beneficiare dei suoi effetti positivi, anche nell’ambito delle politiche di sviluppo e competitività degli enti.

Negli USA, un’azienda di liquori ha nominato un CEO Robot con intelligenza artificiale, Mika, mentre nello stesso Paese un avvocato ha incaricato Chat-gpt di costruire la difesa di un suo cliente. Nel primo caso, la società ha ottenuto un buon risultato in borsa, mentre nel secondo caso l’avvocato è stato sospeso dall’esercizio della professione forense, perché il giudice ha scoperto che questi e per lui Chat-gpt, si era letteralmente inventata i precedenti a sostegno della difesa elaborata[1]. Il risultato sembra diametralmente opposto, a un primo sguardo. Nei fatti il sistema di intelligenza artificiale che opera come amministratore delegato subisce i limiti legati ai bias cognitivi e la carenza di creatività che solo l’essere umano vanta. In breve, non può raggiungere i risultati degli amministratori delegati umani.

Una seconda valutazione ruota intorno a questi due esempi, non certo edificanti, del resto lo scopo era introdurre un tema importante, che traspare dallo speech dell’AD di Open AI in occasione del lancio di Chat-gpt: l’intelligenza artificiale che vediamo ora è semplice, frequentemente pervasa da errori e bias, anche a causa dei sistemi di machine learning impiegati per addestrarla[2]. Se non conosce i limiti dell’intelligenza artificiale chi la lancia sul mercato, non può farlo la legge.

La vera svolta è stimabile tra il 2028 e il 2030 circa, quando sistemi di intelligenza artificiale oggi, forse, inimmaginabili creeranno nuove opportunità professionali, nuovi metodi di cura e nuovi sistemi di produzione, per esempio.

Ci troviamo al centro di un cambiamento epocale, che chiama gli operatori europei ad essere data driven. A questo scopo, occorre un’intelligenza artificiale antropocentrica e affidabile[3].

Attraverso l’applicazione del c.d. Principio di progettazione antropocentrica dell’intelligenza artificiale, unitamente al Principio di autonomia della persona, è legittimo attendersi un incremento delle abilità cognitive, sociali e culturali dell’essere umano intorno al quale è costruito il diritto europeo[4].

Le società con sede extra-UE non devono rispettare norme simili, per sviluppare l’intelligenza artificiale e quelle statunitensi sono soggette unicamente ad una serie di norme incentrate sul valore economico dell’intelligenza artificiale[5], invece che sul coordinamento fra sviluppo dell’AI e rispetto delle persone. Un vantaggio a discapito dell’Europa? Non è detto, poiché i sistemi sviluppati e commercializzati extra-UE dovranno adeguarsi alle norme dell’AI Act Europeo, per entrare nel nostro mercato.

L’AI Act europeo si applica anche ai sistemi di intelligenza artificiale sviluppati e prodotti all’estero, che si intenda commercializzare sul nostro mercato, per garantire l’affidabilità dei sistemi e la fiducia delle persone, ma anche per arginare i rischi di affossare la competitività delle società europee dinnanzi alle Big Tech. Il ruolo dell’Unione Europea nei prossimi anni sarà probabilmente duplice: attrarre dati per sviluppare la propria economia  ed evitare abusi nel relativo trattamento. Mi pare più attrattivo del capitalismo della sorveglianza.

 

 

 

Avvocata d’affari, laureata in Diritto Internazionale all’Università degli Studi di Pavia ha studiato scienze alla Scuola Universitaria Superiore dello stesso ateneo, nonché Alumna del Collegio Nuovo-Fondazione Sandra ed Enea Mattei. Successivamente, Executive MBA con focus sull’innovazione digitale, successivamente Master sulla Privacy e Master sui Contratti on-line. Ha avuto un incarico triennale all’Università di Bergamo, successivamente all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, mentre oggi è tutor di giurisprudenza, presso l’Almo Collegio Borromeo, uno dei dodici Collegi universitari riconosciuti dal Ministero per l’Università e la Ricerca, nonché al Master International Business Entrepreneurship (M.I.B.E.) entrambi dell’Università di Pavia. Ad Aprile 2024, Dottorato in Business Administration, presso la stessa università con tesi sul tema: Etica dell’Intelligenza Artificiale. Ha scritto sia per https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2020/05/26/fintech-disruption-realta/; nonchè per Giappichelli Editore, “Guidare il cambiamento e l’innovazione. Scenari, talenti, valori”, A cura di Stefano Denicolai, G. Giappichelli Editore, 2020; per CEDAM, “Manuale di diritto dell’informazione e della comunicazione” del Prof. Ruben Razzante, (cap. 3: “Tutela della privacy e nuove frontiere dell’innovazione tecnologica”), 2022 nonché per la Rivista di Diritto dell’Informazione, a cura del Prof. Ruben Razzante. Mensilmente scrive sulla rivista economica WIP-Work in Progress, http://wipbusiness.it. È avvocata of counsel per BMV Law Tax & Finance, dove si occupa del Diritto dell’innovazione digitale e delle nuove tecnologie.

 

[1] Nei sistemi giuridici di Common Law, le sentenze rese in precedenza da altri giudici, in particolare superiori, aventi il medesimo oggetto, ndr.

[2] Chat-gpt è addestrata su Wikipedia e su articoli universitari che paiono troppo datati per essere fonti di conoscenza vera e propria, ndr.

[3] Emendamento 3, considerando 1 – AI Act.

[4] Linee Guida Etiche per un’IA affidabile, a cura del Gruppo di esperti di alto livello sull’intelligenza artificiale, 2028, Gruppo di esperti di alto livello sull’intelligenza artificiale | Plasmare il futuro digitale dell’Europa, nonchè Risoluzione del Parlamento Europeo del 20.10.2020 recante raccomandazioni alla Commissione concernenti il Quadro relative agli aspetti etici dell’intelligenza artificiale, della robotica e delle tecnologie correlate (2020/2012-INL).

[5] Execuive order on the Safe, Secure and Trustworthy Development  and Use of Artificial Intelligence del 23.10.203.

Italo Carli-Arte e iniziative culturali come risorse per la sostenibilità sociale

Arte e cultura svolgono un ruolo fondamentale nello sviluppo sociale, contribuendo in modo determinante allo sviluppo sostenibile. Negli ultimi anni si è assistito ad una crescita nell’interesse per i fattori “ESG”, “Environmental”, “Social” e “Governance”, anche alla luce dell’evoluzione della normativa in materia di reporting non finanziario e di sostenibilità. Bilancio sostenibile, di fatto, obbligatorio dal 2024 in Europa per tutte le compagnie quotate in borsa.

Con questo obbiettivo noi di ARTE Generali insieme all’Istituto per la Ricerca sull’innovazione trasformativa (ITIR) – Università di Pavia – in collaborazione con Banca Generali e Deloitte Private, abbiamo avviato un’indagine esplorativa sulle organizzazioni che detengono beni artistici culturali o promuovono iniziative culturali come fattori determinanti per la sostenibilità.

La ricerca è ancora allo stadio iniziale e costituisce il trampolino di lancio per costruire un vero e proprio “osservatorio” con il fine di approfondire qualitativamente e portare avanti l’indagine introduttiva per capire meglio il potenziale dell’arte e dei beni culturali nell’ambito dello sviluppo sostenibile, ma anche di stimolare lo scambio di domande e risposte tra i principali players del settore in merito agli investimenti in arte e cultura come parte del bilancio sostenibile.

Lo studio intende comprendere se e come tali organizzazioni gestiscano, misurino e comunichino verso l’esterno il proprio impatto sociale. Il monitoraggio e la rendicontazione degli impatti sono infatti fattori fondamentali per incrementare il potenziale dell’arte e della cultura nella promozione dello sviluppo sostenibile, e possono supportare le organizzazioni culturali ad attrarre risorse da stakeholder, pubblici e privati, investitori e donatori.

Da questa indagine emerge che solamente il 20% delle organizzazioni intervistate pubblicano informazioni su queste attività culturali, impegnandosi in una comunicazione trasparente delle loro prestazioni. Inoltre, nonostante solo il 38% delle organizzazioni intervistate fosse a conoscenza del quadro UNESCO Cultura 2030, che consente di definire indicatori utili per comprendere come la cultura contribuisce allo sviluppo sostenibile, e solo il 7% la utilizzi effettivamente, i dati raccolti sottolineano un’importante volontà di miglioramento e la possibilità di rafforzare il ruolo dell’arte e della cultura nello sviluppo sostenibile. È interessante inoltre notare che il 74% delle organizzazioni che attualmente non misurano l’impatto sociale delle loro collezioni d’arte e dei beni culturali indica di volerlo fare in futuro.

Considerando anche i risultati dell’analisi desk e dell’indagine quantitativa, le interviste contribuiscono a suggerire l’identificazione di tre “approcci” nella gestione e nella misurazione dell’arte e dei beni culturali.

Il primo che chiamiamo “approccio basato sulla cultura“, racchiude le organizzazioni che percepiscono l’arte come trascendente e intrinsecamente creativa. Queste organizzazioni svolgono con efficienza il loro ruolo di gestione dell’arte e della cultura, misurando meticolosamente le statistiche dei visitatori a beneficio dei propri consigli di amministrazione, ritenendo tuttavia preferibile la valutazione qualitativa degli impatti generati e della governance di arte e cultura.

La seconda tipologia, “approccio orientato alle comunità locali”, si riferisce invece a quelle organizzazioni che interpretano l’arte e i beni culturali come il ponte ideale per stabilire relazioni e dialogo con il territorio, per restituire alle popolazioni locali il valore generato dall’azienda, o dare valore alle comunità locali, e per gestire relazioni strategiche con importanti stakeholder, con un approccio di “rete”. Infine, il terzo tipo, può essere definito “approccio olistico”, poiché si fonda sulla premessa di cercare di rispondere alla domanda: come possono arte e cultura, secondo più angolazioni, acquisire nuove forme di valore per massimizzare il loro impatto, diventando vere e proprie risorse strategiche che idealmente dovrebbero alimentare il vantaggio competitivo? Questo tipo di organizzazione riconosce esplicitamente l’importanza della cultura nell’agire come motore della sostenibilità economica, ambientale e sociale, affrontando sfide contemporanee come l’eliminazione della povertà, l’adattamento ai cambiamenti climatici e la garanzia di pari opportunità.

Dunque, lo studio evidenzia un potenziale significativo dell’arte e dei beni culturali per ricalibrare i modelli di governance e le competenze nel settore culturale, anche attraverso la rendicontazione, al fine di amplificare gli impatti positivi generati e contribuire più efficacemente agli SDGs. Arte e cultura non solo ispirano e coinvolgono gli individui, ma stimolano anche l’innovazione, il dialogo e lo sviluppo inclusivo.

Le dinamiche economiche e sociali non devono più essere viste come parti antagoniste: è infatti possibile generare sinergie reciproche, e la misurazione della cultura e del suo impatto sulla società possono essere concepite come strumenti per preservare le arti e la cultura per le generazioni future.

 

Branch Manager di ARTE Generali Italia, è laureato in Ingegneria Elettronica presso il Politecnico di Milano. Ha iniziato la sua carriera nel mondo dell’informatica per poi passare al settore assicurativo e specializzarsi nel campo dell’arte. Ha ricoperto diverse posizioni manageriali nel settore assicurativo, sia in ruoli organizzativi che tecnico-commerciali. Tiene conferenze e corsi nelle più prestigiose università italiane sul mondo delle belle arti e sulla gestione del rischio dei beni culturali. Ha una vasta conoscenza nel campo della tecnologia dell’arte, combinando le competenze assicurative con la sua formazione di ingegnere.

Gabriele La Monica-Comunicare bene non è un costo, ma sempre un’opportunità di guadagno

Cosa accomuna la tragedia del Ponte Morandi e la querelle dei pandori di Chiara Ferragni? Se si guarda alle due vicende dal punto di vista della comunicazione, si nota come siano entrambe caratterizzate da clamorosi errori. Dopo il crollo del Ponte nessun azionista o manager ha pensato di fare un qualsiasi cenno che testimoniasse una forma, anche minima, di vicinanza. Nel caso dei Pandori, Ferragni era perfettamente a conoscenza dell’indagine dell’Antitrust. Ma invece di cavalcare la notizia quando il procedimento era ancora in corso ha preferito aspettare. Con ogni probabilità i manager delle due società hanno ascoltato il settore legale scegliendo il silenzio. Una scelta che per Ferragni poteva essere plausibile (per Genova è stato solo un ulteriore affronto alle vittime), ma che in entrambi i casi ha portato a una tempesta perfetta di critiche che ha aggravato le conseguenze reputazionali dell’evento. Questo evidenzia come la comunicazione oggi sia un passaggio essenziale per ogni azienda. Nei manuali di economia aziendale è associata al costo puro. E già questo non contribuisce a renderla simpatica. Se poi si aggiunge che comunicare comporta far conoscere qualcosa di sé, almeno nella percezione più grossolana che si può avere del concetto, questo la rende invisa ai troppi imprenditori che ancora confondono la riservatezza con l’invisibilità. Oggi l’assunto del fondatore di Mediobanca, Enrico Cuccia, secondo cui “la rassegna stampa perfetta è quella vuota” è anacronistico e sbagliato. La comunicazione aziendale si divide in interna ed esterna. La prima è imprescindibile anche per i più ossessionati dalla segretezza. Per comunicazione interna si intende il complesso di attività finalizzate a creare una rete di flussi informativi e mirate a diffondere informazioni, saperi e conoscenze e a rendere chiari e condivisi gli obiettivi di un’organizzazione complessa ai suoi dipendenti. Siamo molto oltre le circolari interne o gli avvisi in bacheca. Una inesatta o incompleta comunicazione interna è molto spesso alla base di reati colposi commessi dal dipendente, reati che comportano per l’azienda l’imputabilità ex 231. Negli oltre 20 anni della legge la lista dei reati- presupposto, ovverosia quelli che possono innescare la fattispecie, si è allargata enormemente e ogni anno diviene più nutrita. Si è passati da un nucleo originario di reati, caratterizzati da essere commessi nell’ambito di imprese svolgenti un’attività lecita, a fattispecie di reato non attinenti alla criminalità d’impresa. Per evitare che i dipendenti in buona fede possano commettere reati, la formazione e l’informazione devono essere costanti ed essere inserite in un contesto, un flusso, che il dipendente deve percepire e recepire. Se si passa alla comunicazione esterna, la situazione è spesso più drammatica. In un’era caratterizzata da web e social network, non comunicare significa semplicemente non esistere. E non esistere non significa solo fare fatica a vendere il proprio prodotto, ma anche la propria storia. E questo spesso si traduce nell’incapacità di attrarre finanziamenti differenti dal credito bancario. Tanto basterebbe a giustificare non solo un uso costante della comunicazione esterna, ma anche la formazione di una classe di dirigenti che sappia comunicare efficacemente con la stampa e tutti gli stakeholder. Spesso l’assenza di comunicazione rende inefficaci alcuni investimenti, anche molto onerosi. A cosa serve partecipare a costose fiere internazionali se ci si arriva con un abito non all’altezza? Uno spot di alcuni anni fa recitava che “la forza è nulla senza controllo”. Si può dire che la produzione senza immagine è molto più debole.

 

 

Catanese di nascita e milanese di adozione, è giornalista da quasi trent’anni dopo una laurea in giurisprudenza. Dopo un inizio da freelance e un quinquennio a Rds Radio Dimensione Suono, da vent’anni è il responsabile della redazione milanese dell’agenzia di stampa Mf Newswires. Esperto del settore bancario ha seguito da vicino le ultime scalate e anche le crisi del settore. L’esperienza universitaria, come assistente nel corso di “Sociologia della comunicazione” lo ha portato a osservare e praticare il mondo della comunicazione aziendale, imparando a conoscere, apprezzare e divulgare i comportamenti virtuosi che un’azienda deve porre in essere per prevalere e massimizzare i profitti.

Giuliano Iannaccone-Fare business in America è semplice, ma non è facile

Un numero sempre più crescente di aziende mondiali, tra cui molte italiane, scelgono gli Stati Uniti come il luogo dove stabilire le loro attività. C’è una buona ragione di fondo: gli Stati Uniti hanno il più attraente contesto economico e il più rappresentativo mercato finanziario internazionale e il combinato di queste peculiarità favorisce l’affluenza di capitali da ogni parte del mondo.

Anche Nicola Savoini, Co-Head dell’Investment Banking di Morgan Stanley in Italia in una recente intervista ha spiegato come questa fase storica sia ideale per chi desidera investire negli Stati Uniti. “In un clima di crescente tensione geopolitica” ha spiegato “gli Stati Uniti rimangono un’area di sempre maggiore interesse per le società italiane ed europee”. Numeri alla mano, il momento storico è favorevole per le relazioni d’affari con gli Usa che rappresentano il primo mercato di esportazione italiano al di fuori della Ue, la destinazione del 10% di tutto l’export italiano. Nei primi nove mesi del 2023 gli investimenti in M&A negli Usa da parte di aziende italiane sono stati 26, in aumento rispetto ai 25 dell’anno precedente (fonte KPMG), e il trend sembra positivo anche per il 2024/2025.

Gli obiettivi che vengono perseguiti da una impresa mediante l’acquisizione di un’azienda negli Stati Uniti possono essere tra i più vari: dalle acquisizioni di tipo strategico che sfruttano le potenziali sinergie tra società acquirente e la azienda target, alle acquisizioni di aziende già pienamente avviate nei mercati di riferimento utilizzate come ponte per aprire nuove rotte commerciali (in questo caso l’azienda leader sfrutta già la consolidata struttura commerciale in essere della azienda target).

Qualunque siano gli obiettivi perseguiti, le tecniche impiegate nelle acquisizioni negli Stati Uniti sono riconducibili a tipologie piuttosto simili, seppure con notevoli variazioni nei singoli casi concreti. Bisogna ribadire tuttavia che l’acquisizione e la fusione sono due concetti giuridici molto diversi con effetti economici e societari diversi. Con l’acquisizione, l’acquirente generalmente acquista il controllo, cosa che potrebbe non accadere con una fusione.

Investire è semplice, ma non è facile” è un famoso refrain che si usa spesso citare negli States e in effetti lo sbarco sui mercati americani, se è vero che rappresenta un approdo sognato da tantissime aziende italiane, troppo spesso però si tramuta in una chimera. Le ragioni di questo gap possono essere diverse: in alcuni casi le aziende leader non passano all’atto pratico perché non comprendono in pieno le opportunità del mercato americano, in altro casi, molto più frequenti, perché spaventate dalla sua complessità. Di fatto ognuno dei 50 stati rappresenta un caso a sé stante, con regolamentazioni e pratiche d’uso differenti. Quel che è certo è che per potere avere successo bisogna essere accompagnati. L’improvvisazione o peggio l’applicazione al mercato americano di schemi europei è l’anticamera del fallimento.

È prassi quindi farsi assistere da un “corporate attorney” con esperienza nel settore M&A e che le parti sottoscrivano una lettera di intenti (c.d. “letter of intent” o “term sheet”), contenente i termini principali dell’operazione in questione. Questa procedura consente di fissare i termini commerciali (c.d. “business terms”) del loro accordo e spesso è “conditio sine qua non” per accedere al mondo del credito locale. Inoltre, se l’operazione dovesse essere dimensionalmente importante, potrebbe essere anche soggetta all’esame delle autorità antitrust ed in questo caso è necessaria la firma congiunta di una “lettera di intenti”. Vi sono poi casi in cui la trattativa per una lettera di intenti può anche rallentare l’operazione. In questo caso il ruolo di un buon studio legale è impegnare le parti nel dettagliare successivamente il contratto definitivo. Le lettere di intenti hanno infatti normalmente natura “non vincolante”, ma questo è prassi specificarlo in modo molto chiaro e per iscritto nel testo stesso del documento.

Questa situazione diviene un’esigenza ancor più sentita quando si vuole mantenere una sufficiente flessibilità, soprattutto quando le parti non siano completamente certe dell’opportunità del deal, o non ne conoscano con precisione ancora tutti i dettagli. Le clausole di riservatezza e di esclusività sono, anche nell’ordinamento americano espressamente vincolanti.

Insomma, per essere certi di superare i molti trabocchetti che si possono incontrare tra le varie normative nazionali, statali e comunali è opportuno farsi affiancare da professionisti legali che già presidiano il mercato. Quando si parla di studi legali a stelle e strisce bisogna innanzitutto avere presente che le spese sono molto spesso doppie se non triple rispetto al panorama italiano. Ma gli insuccessi di chi ha voluto andare al risparmio insegnano che questa scelta può essere fatale. I grandi studi americani spesso disorientano un poco l’imprenditore italiano, che è spesso abituato ad un rapporto strettamente personale con il proprio avvocato. Ecco perché per competere con successo in questo contesto, bisogna anche saper conservare alcune caratteristiche (e virtù) della tradizione professionale italiana, quali, ad esempio, la vicinanza e l’assistenza al cliente, che rende più empatico, e quindi più efficace il rapporto professionale. Ed evita, una volta di più, che il cliente possa sentirsi considerato solo un numero.

 

Laureato in Italia, equity partner dello studio legale Tarter Krinsky &Drogin, conosce la realtà legale su entrambe le sponde dell’Atlantico e ha un approccio tailor made che lo porta a visitare fisicamente i clienti, recandosi nelle loro aziende o luoghi produttivi. Lo Studio, con sede centrale a New York, offre un servizio completo di assistenza in diversi settori e dipartimenti, lavorando al fianco delle aziende per sviluppare soluzioni pratiche e strategiche sulla base delle loro esigenze, nonché servizi di consulenza legale a livello internazionale con una divisione specificamente dedicata alla clientela italiana.

L’Italy Practice di Tarter Krinsky & Drogin è la più grande squadra legale di professionisti in uno studio americano ingaggiati su clienti italiani.

Lo studio ha assistito negli ultimi due anni importanti realtà italiane per operazioni cross borders, tra cui, Molteni&C, Mvc Group, e il Gruppo Sabaf.

 

Davide Bleve- La cruna dell’ago ovvero come rinnovarsi nella continuità della cultura aziendale

Nonostante le imprese familiari rappresentino, di fatto, la spina dorsale dell’imprenditoria italiana, troppo spesso gli imprenditori sottovalutano o affrontano malvolentieri un momento decisivo per la vita di un’azienda: poco più di un quinto delle imprese ha affrontato la questione della transizione generazionale nel decennio 2013 – 2023, confrontandosi con una varietà di ostacoli burocratici, economici e organizzativi (Istat, Rapporto Imprese 2021). Eppure, da qui al 2030 è stato stimato che i valori in gioco si approssimano ai duemila miliardi di Euro (sì, esattamente, 2.000 miliardi che passeranno di mano) a livello nazionale.

A fronte di tutto questo, però, si riscontrano le più varie reazioni al tema della continuità generazionale che vanno dal rifiuto del tema, all’idea che invece tutto si risolverà da sé (basta attendere) perché il prossimo leader deve solo maturare un po’ o che l’incertezza è forte per cui meglio aspettare. Incertezza che invece può essere ben superata se si comincia a guardare al passaggio generazionale non tanto come ad un momento incidentale o “traumatico” dell’imprenditoria, ma come ad un vero e proprio percorso fisiologico di crescita dell’azienda e di tutte le persone che sono coinvolte.

Terminologicamente infatti già il termine “successione generazionale” è un termine errato oggi: non è appunto un momento di passaggio del testimone, come alcuni vanno dicendo da anni, ma aiuterebbe invece pensarlo come un percorso di formazione dei “family members” ai valori fondamentali della cultura aziendale (da affermare e condividere) ed al contempo come chiave di integrazione tra le generazioni per un efficace scambio e arricchimento. In prima battuta infatti è indispensabile una fase di condivisione di questi valori comuni e del know-how aziendale che si vuole imprimere come carattere distintivo; ed in seconda battuta, ne dovrà seguire una fase di comprensione delle caratteristiche, delle ambizioni e della disponibilità della nuova generazione: motivazioni, atteggiamento, interessi, obiettivi sono solo alcuni tra gli elementi chiave da tenere in considerazione per accogliere il successore in azienda assecondando le sue singolarità. Il successore, infatti, sarà colui che proseguirà il business nell’ambito dei caratteri fondamentali dell’azienda, ma lo farà verosimilmente secondo un proprio modello di leadership: ecco perché è opportuno che i valori aziendali vengano messi a terra in modo concreto, realizzando un piano efficace da attuare gradualmente per intrecciare vecchie e nuove strategie in un percorso comune.

Percorso significa che si permette ai più giovani di formarsi – anche fuori dalla propria azienda – per entrare in posti di comando in anticipo fino a renderli consapevoli per tempo del loro personale percorso e delle scelte necessarie: la parola chiave è quindi preparazione e formazione della leadership. In occasione di incontri, mi piace sempre ricordare che l’individuazione del leader aziendale non dovrebbe essere vista come una investitura dall’alto ma come una crescita personale nel presidio dei valori comuni. In alcuni casi di successo, è stato persino utile che il periodo intermedio fosse condotto da un management indipendente, affidato ed affidabile oltre che preparato alla sfida, in attesa che la famiglia potesse tornare ad individuare colui che avesse le capacità per portare avanti la sfida del business. Questo passaggio diventa decisivo quando si intende far proseguire e possibilmente crescere il “family business”: del resto non si tratta (soltanto) di trasferire denari ma di un intero complesso produttivo che è caratterizzato da una propria etica di valori costruiti nel tempo.

Tempo passato e tempo futuro: una sintesi è possibile?

Il fattore “tempo”, certo, non aiuta oggigiorno e talvolta i tempi della crescita non coincidono con quelli della preparazione, ma il valore aziendale deve prevalere sulla singola ambizione per la prosecuzione del bene comune. Leggevo ancora la settimana scorsa di un paio di ricerche commissionate da gruppi bancari internazionali. Secondo la prima, emergeva che all’interno delle famiglie più ricche a livello mondiale si creino delle spaccature di vedute strategiche: c’è chi vorrebbe restituire molto di ciò che ha accumulato (il c.d. give back diffuso tra le prime generazioni) e chi invece vorrebbe continuare ad investire, crescere, e accumulare (più diffuso tra le seconde e terze generazioni). Secondo la seconda ricerca, invece, emergeva come il trasferimento della ricchezza diventi il problema stesso a discapito del “come” e del “quando”, tanto che meno del dieci per cento degli intervistati dedica attenzione all’educazione (non in senso accademico) dei destinatari di quella ricchezza. Insomma, una nave senza nocchiero e senza una meta condivisa.

Queste apparenti differenze di visione possono creare dissidi irrisolti che vanno dall’azienda alla famiglia e viceversa. Eppure, i due mondi possono rimanere contigui ma separati per il bene di entrambi. Ad esempio, a leggere bene le fotografie emerse dalle ricerche, si può capire come le generazioni coinvolte non avessero tanto una diversità di vedute imprenditoriali sul business model, quanto piuttosto sul come gestire al meglio la ricchezza famigliare pregressa (ancora un effetto del tempo). Con la conseguenza che è ben possibile che il dualismo famiglia-azienda non vada in collisione perché ci sono temi che devono e possono restare separati (azienda da una parte e ricchezza pregressa da un’altra), facilitando una visione di medio-lungo termine che consenta sia di programmare con soddisfazione e solidità la continuità dell’azienda famigliare sia le aspirazioni dei singoli membri.

Insomma, sembra chiaro che la miglior gestione del fenomeno non possa limitarsi alla cura (pur importantissima) degli aspetti legali e fiscali legati alla fredda esecuzione del passaggio di controllo e del famoso testimone. L’approccio ottimale deve avere un carattere multidisciplinare, guidato in primis da una condivisione chiara della cultura aziendale (magari formalizzandola in una carta dei valori famigliari) per poi programmare un percorso formativo fondamentale che tenga conto delle variabili umane e psicologiche che influenzano il passaggio generazionale in azienda, che si conferma come un cambiamento fisiologico sì, ma non per questo automatico e lineare.

 

Avvocato patrimonialista e consulente fiscale, con esperienza ventennale nel contenzioso tributario e nell’assistenza alle aziende e famiglie con grandi patrimoni (“HNWI”). Dopo la laurea in legge ha conseguito l’Adv. LLM in International Taxation presso l’International Tax Center dell’Università di Leiden, Paesi Bassi. Nel corso degli ultimi anni si è specializzato nella cura dei profili legali e tributari connessi al passaggio generazionale, agli strumenti di protezione patrimoniale e alla riorganizzazione del patrimonio personale e dell’impresa famigliare. Ha conseguito il diploma in Diritto e fiscalità nel Mercato dell’Arte della 24Ore Business School. È coordinatore del modulo legale e fiscale del Master in Gestione Innovativa dei beni d’arte presso l’Università di Pavia e tiene corsi specialistici in materie tributarie presso varie Università e scuole di formazione. Dal 2017 è Partner di Studio Tributario e Societario Deloitte dove è membro dei Team Private Clients e Art&Finance. È autore di libri, articoli e rassegne su primarie riviste specializzate in materia fiscale.

Valeria Brambilla- Innovare per competere: la sfida della sostenibilità

Ci troviamo oggi in un momento di profondo cambiamento sociale, economico e demografico, che richiede nuove modalità per analizzare e gestire rischi e opportunità. Un nuovo approccio che deve riguardare le vite delle persone, così come le agende politiche ed economiche, e che deve prevedere, tra le altre cose, un rinnovato impegno per la sostenibilità.

Molti elementi spingono infatti a porre sempre più attenzione agli aspetti ESGEnvironmental, Social e Governance. Più nello specifico, le istituzioni – quelle europee in prima battuta – hanno definito obiettivi di sostenibilità ambiziosi ed elaborato piani per raggiungerli. L’Unione Europea, ad esempio, ha elaborato il Green Deal, un pacchetto di iniziative strategiche per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. In questo ambito, con l’approvazione della direttiva riguardante la rendicontazione societaria di sostenibilità, la Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD), l’UE ha allargato il perimetro di aziende a cui dal 2024 verrà richiesto di predisporre e sottoporre a verifica l’informativa di sostenibilità, coinvolgendo non solo le realtà quotate, ma anche società di medie e grandi dimensioni non quotate aventi specifiche caratteristiche.

Alla richiesta di trasparenza da parte delle istituzioni, si aggiunge quella delle persone, ed in particolare delle nuove generazioni – Millennials e Generazione Z, che manifestano nuovi bisogni, tra cui proprio la sostenibilità nelle sue diverse sfaccettature. L’ultima “Deloitte Global GenZ and Millennial Survey” rileva, infatti, che quando i più giovani si ritrovano a cercare occupazione, valutano accuratamente i datori di lavoro rispetto a criteri come flessibilità e salute mentale sul posto di lavoro, oltre che considerare l’impatto ambientale e sociale dell’impresa, sebbene la carriera rimanga un fondamentale elemento di identità per il 62% dei Millennials e per il 49% della GenZ. Anche le preoccupazioni per lo stato di salute del nostro pianeta rientrano nella scala delle priorità delle nuove generazioni, ed in particolare per il 64% dei Millenials e il 63% della Generazione Z.

Nuove sfide, ma anche nuove opportunità, che portano le aziende non soltanto a definire piani di sostenibilità, ma anche a misurarsi sulle tre dimensioni che le compongono per migliorare nel tempo e soddisfare le richieste dell’UE e delle persone, siano queste clienti o talenti da attirare e trattenere.

Alla base di tutto deve essere posta l’innovazione, soprattutto di processo. Un’innovazione che deve partire dalla comprensione delle nuove sfide del contesto odierno, e delle possibili opportunità emergenti, per passare dal lavorare costantemente sul rapporto di fiducia con tutti gli stakeholder, ed arrivare, infine, ad un nuovo modello di business basato sulla trasparenza e sull’impegno a concretizzare gli elementi caratterizzanti lo sviluppo sostenibile attraverso azioni concrete e quotidiane.

 

Da giugno 2023 è la nuova AD di Deloitte & Touche SpA, la società di revisione e organizzazione contabile appartenente al network di Deloitte in Italia. Assumendo la guida dell’Audit&Assurance è diventata la prima donna a ricoprire il ruolo di AD di una società del network Deloitte in Italia.

Già socia di Deloitte dal 2007, nel 2009 ha guidato l’ufficio di Parma – cresciuto da 10 ad oltre 50 persone nell’arco di 5 anni – e successivamente, nel 2012, è diventata Leader dell’Industry Manufacturing per Deloitte in Italia. Durante la sua carriera ha maturato un’esperienza ultraventennale nella revisione e nel reporting di società appartenenti a gruppi internazionali quotati, società quotate ai mercati italiani e gruppi italiani di medie dimensioni.

Dal 2015 Brambilla è a capo dell’Industry Life Sciences & Healthcare (LSHC) per l’intero Network di Deloitte Italia che, negli ultimi 6 anni, ha visto triplicare il proprio fatturato e ha poi ricoperto il ruolo di Deloitte Central Mediterranean LSHC leader. 

Nel 2019 diviene consigliere del consiglio di amministrazione di Deloitte & Touche S.p.A. con deleghe alla Governance, nel 2021 diviene Presidente del Consiglio di Amministrazione della Società e nel 2023, infine, Amministratore Delegato.

Oltre a ricoprire il ruolo di AD, Valeria Brambilla ricopre occasionalmente l’incarico di docente presso diverse Università di Economia, presso l’Ordine dei Dottori Commercialisti ed è membro della Commissione Consultiva di Assirevi.

 

Paolo Maloberti-La riduzione del valore degli attivi iscritti in bilancio: impairment test

A scopo puramente divulgativo ed evitando di entrare nei tecnicismi della dottrina ragionieristica, possiamo definire il test di riduzione del valore degli attivi iscritti in bilancio, c.d. “impairment test”, come un importante strumento valutativo contabile utilizzato dalle aziende per misurare la recuperabilità di singoli assets aziendali o dell’intera azienda.

Tale processo ricopre un ruolo cruciale nella rendicontazione finanziaria e nella gestione delle risorse aziendali: sia perché viene richiesto dai principi contabili nazionali, internazionali e dalla normativa civilistica e sia perché fornisce un quadro prospettico della capacità degli assets dell’impresa di generare flussi di cassa adeguati al sostegno della continuità aziendale. Attraverso questo test, le aziende possono assicurarsi di: riflettere accuratamente la situazione finanziaria, fornire informazioni trasparenti agli stakeholders e prendere decisioni informate sulla gestione delle risorse dell’impresa, spostando il paradigma valutativo dal costo storico degli assets ad una visione prospettica e dinamica connessa alla capacità di generare flussi di cassa futuri degli stessi.

Il processo di impairment test coinvolge diversi passaggi: in primo luogo, il management  identifica gli attivi che potrebbero essere soggetti ad una perdita di valore, includendo in questa analisi tanto attivi fissi tangibili quali immobili e attrezzature, che attivi fissi intangibili come goodwill o diritti di brevetto piuttosto che investimenti partecipativi in altre imprese.

Successivamente l’esercizio valutativo comporta la determinazione del valore recuperabile di ciascuno dei suddetti attivi, basata sulla stima dei flussi di cassa attesi, derivanti dall’utilizzo del singolo bene nel processo produttivo, in un orizzonte temporale definito. Tale valore così determinato viene confrontato con il valore contabile dell’asset e, qualora il valore recuperabile risultasse inferiore al valore netto contabile dello stesso, il management procederà a rettificarne conseguentemente l’importo iscritto in bilancio.

L’impairment test è essenziale per diverse ragioni: contribuisce a garantire la corretta rappresentazione della situazione finanziaria di un’azienda dimostrando la recuperabilità dei valori iscritti in bilancio, garantisce ad investitori e stakeholders informazioni sulle prestazioni finanziarie dell’azienda e sulla sua capacità prospettica di generare flussi di cassa nel futuro, permette al management di prendere decisioni informate sul mantenimento o sulla realizzazione di attivi che potrebbero aver perso valore, aiuta ad ottimizzare l’allocazione delle risorse.

Alla luce di quanto sopra sintetizzato, concludo dicendo che a prescindere dalle prescrizioni normative, l’impairment test risulta uno strumento consigliabile come processo di moderna gestione aziendale.

Infatti, spostando il paradigma contabile dalla valutazione consuntiva ad un approccio predittivo, disciplina il management ad un sistematico e sistemico esercizio di programmazione aziendale a medio e lungo termine, focalizzando gli obiettivi sulla generazione di flussi di cassa, quale strumento di misurazione delle performance aziendali.

Inoltre, la sua corretta applicazione garantisce la sostenibilità del business rispetto al semplice indicatore di profitto economico. Anche il processo di comunicazione finanziaria con tutti gli stakeholders aziendali è così migliorato: azionisti, creditori, investitori, banche, organizzazioni sindacali etc… possono monitorare il rendimento aziendale e prendere decisioni informate.

In poche parole, si migliora la fiducia verso l’azienda e ne aumenta la reputazione, garantendone, al tempo stesso, la sostenibilità nel tempo.

 

 

Laurea cum laude in Economia all’Università di Genova, Dottore Commercialista e Revisore Legale, partner Audit & Assurance di BDO Italia S.p.A. in Genova e Milano

 

Amedeo Lepore- Guerra e pace

La guerra nel Vicino Oriente, perseguita scientemente con l’attacco terroristico di Hamas, interroga l’Occidente sullo stato del mondo attuale, in bilico su un precipizio che sta mettendo in secondo piano le grandi opportunità di quest’epoca. Esistono potenzialità senza eguali per uno straordinario progresso scientifico, frontiere inedite dell’innovazione digitale e un nuovo umanesimo, non una pura e semplice difesa del nostro genere e del suo ecosistema, ma in diretta relazione con uno sviluppo culturale, tecnologico e produttivo di tipo moderno. Nonostante tutto ciò, si fa sempre più intensa la percezione di un dolore del mondo (“weltschmerz” è il termine esatto), che nasce dal confronto tra una vita ideale o possibile e l’inesorabile realtà dei fatti. Di fronte a una guerra implacabile e uno sterminio di innocenti, una spiegazione troppo elementare non aiuta a comprendere l’intreccio ingarbugliato delle questioni che si addensano come grumi sul futuro prossimo delle popolazioni di ormai estese aree geografiche. Nell’innesco della conflagrazione è innegabile la responsabilità di un gruppo efferato, sostenuto da potenze tenebrose, con mire di distruzione di Israele e di destabilizzazione globale. È l’altra faccia di un assetto del mondo in radicale trasformazione e della lotta per l’egemonia mondiale, che rischia, però, di essere combattuta da alcuni contendenti senza esclusione di armi. Oggi, si invoca giustamente, anche all’interno di un duro conflitto, senso dell’umanità e della misura, con azioni volte esclusivamente a debellare Hamas, garantendo ogni scampo e assistenza agli abitanti inermi, bloccando i bombardamenti di concentrazioni civili e scongiurando qualsiasi ampliamento del fronte bellico. Al tempo stesso, va posto un argine immediato alla diffusione di gravi manifestazioni di antisemitismo, che richiamano un lugubre passato. Il consesso delle nazioni democratiche, gli Stati Uniti e l’Europa devono compiere ogni sforzo per favorire il rispristino di senno, ragionevolezza e pace in un contesto tanto tormentato e complesso. La componente economica di questi eventi può contribuire a evidenziare l’insensatezza delle ostilità e a isolare i guerrafondai, guardando all’insieme dei problemi che comporta uno scontro di questo rilievo. Secondo il più recente rapporto della Banca Mondiale sui mercati delle materie prime, un ulteriore inasprimento del conflitto porterebbe a un duplice shock, dovuto all’impatto bellico delle vicende di Ucraina e Medio Oriente. Un’interruzione delle forniture di petrolio paragonabile all’embargo dei produttori arabi del 1973 provocherebbe un incremento dell’inflazione a catena, a cominciare da energia (con il greggio a oltre 150 dollari al barile) e alimentari. Per ora, tuttavia, la guerra ha influenzato più i prezzi del gas che quelli del petrolio, mentre, rispetto a mezzo secolo fa, le fonti di approvvigionamento si sono diversificate e i mercati dell’oro nero sono diventati meno importanti e vulnerabili. In un articolo su Bloomberg, a firma di Ziad Daoud, Galit Altstein e Bhargavi Sakthivel, si è confermato che lo scontro tra Israele e Hamas può sconvolgere l’economia internazionale, conducendola a una recessione, con una perdita produttiva pari a circa un trilione di dollari e il mantenimento di un’inflazione generale elevata (al 6,7% nel 2024) se venissero coinvolti altri Paesi. Il Financial Times ha rilevato che i timori di propagazione del conflitto gettano un’ombra sull’economia globale, minando la fiducia degli operatori e suscitando una nuova impennata dei prezzi, in una condizione preesistente, descritta dal Fondo Monetario Internazionale, di peggioramento delle tendenze di sviluppo a lungo termine e di aggravamento del debito pubblico. A sua volta, Gian Maria Milesi-Ferretti su Brookings ha affermato che le potenziali ricadute economiche di un allargamento dei combattimenti sarebbero rovinose, in particolare per le popolazioni della regione interessata. Egli ha avvertito che sbalzi nell’offerta di petrolio avrebbero conseguenze deleterie per l’attività economica nei Paesi importatori di energia e, più in generale, per l’economia mondiale. Lo studioso dell’Hutchins Center on Fiscal and Monetary Policy ha ricordato, altresì, che le tensioni geopolitiche incombono sulla propensione al rischio globale, accrescendo i divari finanziari ed esercitando nuove pressioni al rialzo sul dollaro: così, si possono determinare notevoli ripercussioni sulle economie più esposte ai fattori esterni. A tale proposito, Stephen Roach dell’Università di Yale – mentre alcuni ritengono che i tragici avvenimenti bellici avranno effetti devastanti, ma limitati alle economie regionali – ha sottolineato come, in questo quadro, il rischio di recessione si amplifichi: “La storia insegna che in ogni caso quel che accade in Medio Oriente, non solo per gli aspetti energetici, risuona pesantemente in tutto il mondo”. Infine, in una nota congiunturale di Competere.EU, si sono indicate alcune previsioni di larga massima per l’Italia, che potrebbe patire contraccolpi diretti e indiretti della situazione odierna: da un lato, un impatto significativo sul commercio tra il nostro Paese e Israele (del valore di 4,8 miliardi di euro, con un saldo positivo di 2,3 miliardi); dall’altro, l’aumento dei prezzi delle risorse energetiche e il rallentamento della ripresa, per la riduzione di scambi e investimenti. Insomma, oltre ai terribili disastri e alle immani perdite umane della guerra, i danni economici e il pregiudizio di interessi diffusi dovrebbero suggerire che bisogna difendersi dalle aggressioni, specialmente se un popolo le vive ripetutamente nella storia, e che al contempo, parafrasando Norman Angell, il modo migliore per vincere i conflitti è quello di ricondurli il più presto possibile alla rotta dell’aggressore e alla ragione dell’uomo.

 

 

Professore Ordinario di Storia Economica presso il Dipartimento di Economia dell’Università della Campania Luigi Vanvitelli. È docente presso il Dipartimento di Impresa e Management della LUISS Guido Carli di Roma. Ha svolto insegnamenti in diverse Università italiane e straniere. È componente del Consiglio di Amministrazione della SVIMEZ e del Consiglio Direttivo delle Fondazioni Merita-meridione Italia e Astrid.

È membro del Consiglio Direttivo del Cluster italiano della Bioeconomia Circolare “Spring”.

È socio dell’Accademia Pontaniana, nella Classe di Scienze Morali.

Fa parte di Comitati scientifici e di Redazione di varie riviste nazionali e internazionali.

Ha ricevuto riconoscimenti internazionali per la sua attività di studio e di ricerca.

Ha pubblicato volumi e saggi, in Italia e all’estero.

I suoi attuali ambiti di ricerca riguardano la storia dell’economia euro-atlantica, il processo di globalizzazione nei suoi vari aspetti, le dinamiche dell’innovazione e delle tecnologie, l’impatto sull’economia della pandemia di Covid-19, le dinamiche dell’economia circolare, l’evoluzione dell’impresa contemporanea, la storia del dualismo economico italiano.

Ha svolto anche ruoli istituzionali legati alle sue competenze economiche, da ultimo come Assessore alle attività produttive della Regione Campania

Marco Q. Silvi-Fine tutela nei mercati dell’energia: cosa cambia?

Da diversi anni, almeno dal 2017, parlando di energia (elettrica e gas naturale) sentiamo ripetere che è prossima la fine delle tutele (sic!). Ora tale momento è ormai davvero molto vicino: nel settore del gas naturale la tutela finirà il 10 gennaio 2024, mentre nel settore elettrico il successivo 1° aprile.

Ma cosa vuol dire ‘fine tutela’? Cosa tutela la tutela? Perché date diverse? E perché riceviamo comunicazioni e messaggi differenti per i due settori? Cercherò di rispondere con poche parole, anche se inevitabilmente imprecise.

“Tutela” o “mercato tutelato” sono spesso contrapposte a “mercato libero”. “Mercato libero”, in realtà, è il mercato semplicemente, in cui un consumatore di energia può scegliere il fornitore che preferisce negoziando il prezzo (se ha adeguata capacità contrattuale), oppure (come normalmente avviene per i noi piccoli consumatori, c.d. domestici) aderendo all’offerta commerciale che ritiene migliore (un po’ come avviene nel settore delle telecomunicazioni). Il mercato è libero da tempo: per i clienti con maggiori consumi (e quindi con maggiore capacità e forza contrattuale), dal 1999 (elettricità) e dal 2000 (gas naturale), mentre per i consumatori contrattualmente più deboli (tra cui anche i domestici) dal 2003, per il gas, e dal 2007 per l’elettrico.

Tuttavia, è stato subito chiaro che il piccolo consumatore di energia e di gas non era così smart come è avvenuto per le telecomunicazioni. I mercati dell’energia, del resto, sono un mondo complesso, di cui il consumatore, soprattutto se piccolo, aveva (almeno all’inizio degli anni 2000) una percezione molto lontana, quasi ovattata. Si è trattato quindi di fornire una tutela in più a questa tipologia, una tutela che ha però assunto forme diverse per i due settori.

Non v’è tempo per chiare le ragioni di tale differenza, che comunque consiste in ciò. Nel settore elettrico la legge individua un soggetto competente (il distributore locale, che opera attraverso una apposita società di vendita – che prende il nome di “esercente la maggior tutela”) il quale è obbligato a fornire elettricità al cliente finale a un prezzo fissato (e aggiornato) dall’autorità amministrativa indipendente preposta a regolare il settore (Arera). Nel settore del gas, invece, tutti i venditori hanno l’obbligo (non di fornire gas a chi lo chieda, ma) di inserire nel loro menù di offerte commerciali rivolte ai consumatori finali, anche quella il cui prezzo è regolato da Arera. Pertanto: chi vuole elettricità al prezzo Arera, si deve presentare all’esercente la maggior tutela che è obbligato a fornirlo; chi invece vuole gas al prezzo Arera deve cercarlo nei vari menù di offerte di qualunque venditore, qualora quest’ultimo, ovviamente, voglia concludere il contratto col cliente.

La tutela, quindi, tutela il piccolo consumatore (ma, nel gas, anche i condomini uso domestico) sotto il profilo del prezzo pagato per la fornitura di energia (in gergo: la tutela di cui si parla è tutela di prezzo – che è cosa diversa calla c.d. tutela della continuità, di cui però qui non mi posso occupare): il prezzo Arera è un prezzo che riflette l’andamento dei costi di approvvigionamento del mercato ed è parametrato a standard propri di un operatore efficiente.

Ma una tale tutela di prezzo, dopo anni di annunci, ora finirà. Ciò significa che al consumatore che fino a oggi ne aveva diritto, resterà solo il libero mercato, in cui dovrà ricercare le offerte che ritiene migliori – in un contesto comunque regolato (ancorché non nel più prezzo) e sorvegliato da Arera.

Tuttavia, la tutela non finirà all’improvviso, e non per tutti. Non finirà per i c.d. clienti vulnerabili (ossia per i consumatori con disagio sociale, economico e fisico, ma anche per tutti gli ultrasettantacinquenni): per loro rimarranno in piedi le tutele già previste. Per gli altri consumatori, invece, il legislatore ha deciso di introdurre un percorso di gradualità (attuato da Arera) che dovrebbe accompagnare il consumatore al mondo del libero mercato – soprattutto il consumatore che è sempre rimasto inerte, appoggiato sul cuscino del prezzo Arera.

Le modalità di passaggio sono, anch’esse, differenziate tra i due settori, ed è ora facile capire perché. Nel settore del gas, in cui il cliente in tutela è un cliente che ha concluso un contratto con un operatore del libero mercato, pattuendo però il prezzo Arera, si prevede che alla data di fine tutela, qualora il cliente non abbia accettato altra offerta sul mercato libero, il contratto prosegua ma a nuove condizioni fissate interamente da Arera, a eccezione d’una componente del prezzo (in misura fissa) che è invece liberamente stabilita dal venditore. Tali nuove condizioni contrattuali avranno efficacia annuale, e alla scadenza, potranno essere modificate unilateralmente dal venditore secondo le modalità previste da Arera. La nuova componente di prezzo, unitamente alle altre condizioni di contratto, deve essere comunicata al cliente con anticipo adeguato, unitamente a una offerta sul mercato libero (che deve essere la migliore per quel cliente rispetto a quelle praticate dal venditore). Inoltre, Arera sta attuando un monitoraggio sulle condizioni applicate dagli operatori.

Il settore elettrico, invece, è più complesso, in quanto la fine tutela travolgerà la stessa validità dei contratti oggi in essere con l’esercente la maggior tutela, che non sarà più titolato a fornire consumatori non vulnerabili. Si è deciso pertanto che la gradualità dovrà essere garantita attraverso un nuovo venditore, da selezionare mediante gara, su aree geografiche predefinite, a cui saranno trasferiti i consumatori sino ad allora serviti in maggior tutela ubicati nell’area territoriale di riferimento. Tale nuovo venditore (denominato “esercente il servizio a tutele graduali”) sarà obbligato a fornire tali clienti (che saranno trasferiti in modo automatico e massivo) a condizioni contrattuali regolate da Arera, ma a condizioni economiche proposte dal venditore in sede di gara (si aggiudica la gara, ovviamente il venditore che offre il prezzo migliore). Ovviamente i consumatori che saranno trasferiti alle tutele graduali saranno sempre liberi di recedere dal servizio e concludere una nuova offerta sul mercato libero. L’esercente la tutela graduale assicura quindi solo una continuità della fornitura al consumatore elettrico che non accetta offerte nel mercato libero, ma non più tutela di prezzo.

I due meccanismi di accompagnamento dei consumatori finali, come è facile intuire, costituiscono certamente un’opportunità, per i venditori interessati, di acquisire e fidelizzare nuovi clienti, soprattutto se saranno in grado di stimolarli e renderli attivi sul mercato libero, con nuove offerte commerciali.

I clienti domestici coinvolti, d’altro canto, possono, in certa misura, confidare nel fatto che la transizione dalla tutela alla fine tutela sarà quanto meno sorvegliata dall’autorità di settore, la quale già da tempo ha messo a disposizione del cliente finale un’apposita piattaforma informatica che gli consente di confrontare le varie offerte sul mercato, anche in base alle proprie caratteristiche di consumo (il c.d. Portale Offerte). Altro strumento imprescindibile, sempre garantito da Arera, è il diritto di recesso, che il cliente insoddisfatto può sempre esercitare per cambiare venditore e aderire a nuova offerta: del resto, qualcuno diceva che il cliente migliore è quello infedele.

P.s. Le opinioni qui espresse sono del tutto personali e non impegnano in alcun modo l’ente di appartenenza.

 

Fanese, classe 1975, si è laureato in Giurisprudenza a Pavia (1999), dove ha studiato presso l’Almo Collegio Borromeo, (nella stanza di fianco a quella del Direttore di Nuvole e Mercati…).

Sotto la guida del prof. Amedeo G. Conte ha conseguito il Dottorato di ricerca in Filosofia analitica e teoria generale del diritto presso l’Università “Statale” di Milano (2003), e ha sempre continuato a coltivare gli studi giusfilosofici.

Dal 2001 ha iniziato il suo percorso lavorativo nel servizio legale dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas (ora Autorità di regolazione per energia, reti e ambiente “Arera”), in cui è responsabile dell’Ufficio Affari giuridici e consulenza.

Marco Conzadori-Una storia italiana

La seconda generazione non ha la fame, la scorza e le cicatrici della prima.

È un refrain che ha accompagnato tutta la crescita di una intera classe di imprenditoria italiana che si ostina a considerarsi ancora giovane, ma che in realtà ha già abbondantemente superato la soglia degli “anta”.

Quando la seconda generazione deve convivere con la prima, la gestione (già articolata di per sé) è fatta di compromessi e di competizione.

Per noi primi reduci di una Italia che ha smesso di crescere e quindi di sognare, lo è ancora di più.

Chi arriva dopo non solca mai la strada ma la segue, e per essere bravo può solo correre. È vero. E infatti fare l’imprenditore, oggi, in questo Paese, è come correre una maratona: avrai mille momenti di cedimento durante il percorso, avrai mille cavilli burocratici a consigliarti un decoroso ritiro e ancora di più ti sentirai troppe volte solo, schiacciato tra l’ambizione di un traguardo e la sofferenza di una strada che si mostra solo, o spesso, in salita.

Correre questa maratona come generazione subentrante può essere estremamente motivante, di certo è assolutamente faticoso: oltre al carico emotivo di voler (o dover) dimostrare di avere gli stessi “attributi”, è il percorso a essersi fatto molto più competitivo e accidentato.

E allora i racconti di un Paese ancora in forma spumeggiante, dove si poteva sprintare liberamente e credere alla favola di una crescita inarrestabile da parte di chi quello stesso cammino lo ha già fatto prima di te, suonano affascinanti, ma anche un po’ beffardi.

La ricchezza del nostro Paese si fonda su un sistema di competenze tramandate di padre in figlio, quelle piccole medie imprese che sono il cuore pulsante della nostra economia.

E una gestione familiare gode del privilegio della fiducia (fino a prova contraria) su asset e una storia consolidata, che, nel mondo del business agevola rispetto ad imprese più grandi, strutturalmente più definite, con smisurate strutture di management e complessi sistemi di governance.

Ma allo stesso tempo, queste imprese padronali peccano della debolezza del legame di sangue e della poca distanza dovuta dall’eccessiva confidenza o dallo scarso adeguamento ad un sistema competitivo completamente mutato nel tempo. Non è solo un problema di tecnologie adottate, quanto di visione del business nel suo insieme, capacità di anticipare trend da un lato e necessità di diversificare sull’altro lato.

La difficoltà è far comprendere che l’evoluzione del contesto ha determinato nuove modalità e nuovi attori con cui fare business, la necessità è di rischiare nuove strade, senza intaccare il livello di risultati e di efficienza raggiunti in epoche completamente diverse.

Questo mix di lavoro e affetto, una doppia lama di un coltello affilato, due piante rampicanti che crescono avvinghiate, una condizione di privilegio con molte sfaccettature, tanti pro e molti contro. La famiglia e l’azienda, un tutt’uno nello spazio e nel tempo.

Molte volte sentiamo quanto i cambi generazionali siano delicati e a volte deleteri per le aziende, proprio perché la “corsia veloce” è stata occupata per troppo tempo dalla prima generazione.

Ma se non ci fosse stata la prima generazione, quel percorso, o quella maratona, per rimanere in metafora, non sarebbe mai stata corsa dalla seconda.

Dura la vita del maratoneta, ma viva le maratone.

Il bello della maratona è vivere la fase della preparazione che ti porta alla corsa e la durezza emotiva della prestazione: all’arrivo, quando il percorso è ormai terminato, è impossibile non crogiolarsi nell’immensa sequenza di sensazioni vissute durante il percorso.

Ovviamente, anche tagliare il traguardo è una sensazione bellissima. Persino da secondi.

 

 

Nato nel 1977, nella città di Cremona, dove continua a vivere ed operare.

Ha studiato Ingegneria Informatica e Automazione.

E’ socio e Direttore vendite in EMG, impresa operante nella automazione e meccanica.

Ha la passione della corsa e ha corso numerose gare podistiche di media e lunga distanza.

In nessuna è arrivato primo, ma non è questo un buon motivo per smettere di correre. 

Giuseppe Chisalè-La solitudine dell’imprenditore

Rappresento una famiglia che è nel ramo imprenditoriale da quattro generazioni: il capostipite fu il mio bisnonno e oggi tocca a me. Nella mia famiglia non è mai stato un problema di scelta se appartenere a questo mondo o meno, ma l’abbiamo sempre interpretata come una sorta di vocazione.

Sono cresciuto nei racconti di mio nonno sulla necessità di essere dei “bravi imprenditori” dove “il profitto” non è mai stato il metro di giudizio adottato per esserlo o meno, quanto piuttosto la necessità di esser tutti pienamente responsabilizzati sui nostri doveri sociali con chi ha creduto (e continua a credere) nel nostro progetto: i dipendenti in primis, poi i fornitori e i nostri clienti.

Ecco, forse, essere imprenditori in questo contesto storico ed economico così complicato espone spesso la categoria che rappresento a una forma di alienazione che mi piace chiamare “la solitudine dell’imprenditore”. Premetto che qualunque contesto storico ha sempre rappresentato per ogni imprenditore un banco di prova nell’interpretare velocemente le novità insite ai cambiamenti, ma volendo fare il focus sull’ultimo triennio, con una pandemia internazionale prima e una dinamica inflattiva davvero impazzita poi, fare impresa è davvero estenuante. Ma non per questo meno stimolante.

Parto sempre dal tema della responsabilità, sia personale che verso la collettività che mi sento di rappresentare e fatta dai miei dipendenti, fornitori e clienti. Noi imprenditori dobbiamo prendere decisioni spesso cruciali “al buio”, visto che non si era mai visto e immaginato, se non all’inizio del ventesimo secolo, un contesto così mutevole e fragile. E spesso queste decisioni vanno prese velocemente e senza una rete emotiva di sostegno: seppur circondati da un sistema di affetti, certe dinamiche spesso sono difficilmente comprensibili se non con chi si trova nella stessa condizione di necessità o sta vivendo (ha vissuto) esperienze imprenditoriali simili.

Quando si prende una decisione in un contesto economico così turbolento si va necessariamente a tentativi e seguendo il proprio istinto e talento, (grande o piccolo che sia), ma il dovere sociale di cui l’imprenditore si sente caricato, rischia di costringerlo in un circolo vizioso: più decisioni da prendere, più stress, meno possibilità di confrontarsi, maggiore isolamento emotivo, maggiore probabilità di fare degli errori non tanto nella intuizione, ma nell’esecuzione di una decisione.

Ecco perché ritengo molto importanti le opportunità di confronto che si possono generare a livello territoriale tra associazioni volontarie di imprese, o qualunque altra forma di dibattito pubblico o privato tra imprenditori!

Sono momenti necessari per ascoltarci reciprocamente, stimolarci, consigliarci, sostenerci e anche talvolta sfogarci su tematiche che ci accomunano e spesso che ci tormentano.

Ritengo che spesso si abbia una immagine un po’ edulcorata e naif del mondo imprenditoriale, spesso rappresentato come un’enclave borghese” che vorrebbe difendere presunti vantaggi sociali, cristallizzati nel tempo.

Non c’è nulla di più sbagliato!  L’imprenditore rischia non solo un suo capitale economico, ma anche un suo capitale umano, fatto di affetti, relazioni, reputazione ed è tendenza di ogni bravo imprenditore mettere il gruppo dei suoi stakeholders davanti a tutto e a tutti.

Mi dispiace invece constatare come gli imprenditori siano spesso lasciati al loro isolamento e non si riesca a riconoscere, prevenire ed intervenire per tempo alcuni malesseri e i frequenti “mal di pancia” che qualunque decisione aziendale comporta sullo sviluppo dell’impresa, e quindi di  territorio, e quindi di un contesto sociale.

Ne ho parlato tante volte in sede di associazionismo di imprese: uno stato di crisi di una impresa è una sconfitta per tutti, non solo per l’imprenditore che ne è a capo.

Rimango allora fortemente dell’idea che solo un clima di piena cooperazione tra imprenditore, dipendenti, stakeholder e amministrazione pubblica possano creare occasioni di reciproco stimolo e ricchezza per tutti.

Ecco perché credo molto nel confronto tra imprenditore e parti sociali: la solitudine di cui ho parlato prima limita la capacità di generare idee innovative e di sviluppare strategie di crescita. Senza un ambiente di supporto e collaborazione, l’imprenditore può trovarsi “impantanato” nelle proprie paure, non riscendo a cogliere più eventuali opportunità di crescita, ma soprattutto, venendo meno a quel “dovere socialea cui facevo riferimento in apertura e di cui mi sento, ancora e orgogliosamente, promotore.

 

Genovese, classe 1968, è dal gennaio 2004 presidente e amministratore esecutivo della Giuseppe Lang arti grafiche, azienda fondata a Genova nel 1887 con il nome Tipo-litografia Fratelli Waser e poi rilevata nel 1911 dal bisnonno Giuseppe Lang, che ne era socio.

La azienda è rimasta stabilmente nelle mani della famiglia da allora, affrontando le drammatiche parentesi delle guerre mondiali e innumerevoli crisi finanziarie ed economiche.

Oggi Giuseppe rappresenta la quarta generazione.

Dal 2010 al 2014 Giuseppe è stato Presidente di sezione in Confindustria Genova.

Michela Cerruti-Emancipazione economica delle donne in Siria tra guerra civile e barriere sociali

L’emancipazione economica delle donne in Siria, come in altri paesi mediorientali, è da sempre influenzata da una serie di fattori sociali, religiosi ed etnici che l’hanno resa particolarmente difficoltosa. La guerra civile iniziata nel marzo 2011, le barriere sociali preesistenti e nuovi limiti culturali, hanno tendenzialmente danneggiato il percorso di emancipazione femminile intrapreso prima del conflitto. Nei primi anni 2000, movimenti femministi e organizzazioni della società civile, avevano creato dei progetti di inserimento delle donne nel mercato del lavoro, approfittando del numero consistente di giovani donne diplomate e laureate. La Siria, infatti, prima del devastante conflitto che l’ha colpita, aveva un tasso di alfabetizzazione femminile del 60% negli Anni ’70, cresciuto ulteriormente tra gli Anni ’90 e il 2010, scendendo a un attuale 30%.

Prima della guerra, la maggioranza dei progetti di emancipazione portati avanti da gruppi femministi e dal General Union of Syrian Women, l’associazione del partito Ba’ath e del governo di Assad per la tutela dei diritti delle donne, era concentrata sul convincere le donne e le loro famiglie a utilizzare nel mondo del lavoro i titoli acquisiti, invece di tenerli chiusi in un cassetto e occuparsi unicamente della sfera privata. Una mentalità patriarcale che vedeva gli uomini, già da giovanissimi, come coloro che dovevano mantenere la famiglia, trattava le donne come soggetti fragili, da proteggere tra le mura domestiche. Alcuni lavori venivano considerati inappropriati per ragazze onorevoli (l’onore è il valore alla base della società Siriana). Lavorare con colleghi maschi veniva anche considerato potenzialmente disonorevole. Tornare a casa dopo il tramonto veniva visto come un rischio inutile di incappare in episodi di violenza sessuale rispetto al guadagno. Il percorso tipico delle donne appartenenti al ceto medio era quindi di raggiungere la laurea (livello Bachelor), fare un internato in cui ricevevano una formazione pratica, lavorare fino al matrimonio e poi licenziarsi per vivere una vita domestica.  Con la guerra civile, la posizione della donna dentro e fuori casa cambia radicalmente.

Da marzo 2011, infatti una profonda crisi economica ha colpito il Paese fino a diventare drammatica a febbraio 2023 quando un terribile terremoto ha colpito il Nord della Siria. Secondo dati recenti, da gennaio 2023 più di 15 milioni di persone in Siria necessitano di aiuti umanitari, con un incremento di 700.000 individui rispetto al 2022. La crisi è peggiorata dalla mancanza di acqua e di beni alimentari.

In questo contesto di vulnerabilità economica e di emergenza umanitaria causata dalla convergenza di diversi fattori quali il conflitto armato, il COVID-19, il terremoto che ha colpito soprattutto il Nord della Siria e la guerra in Ucraina che ha ulteriormente deteriorato le condizioni macroeconomiche rendendo drammatico l’approvvigionamento dei cereali (alimento essenziale nell’alimentazione siriana), la situazione dei diritti delle donne è stata fortemente impattata. Nei dodici anni di guerra, le donne sono state esposte a violenze da parte di militari o famigliari, la loro vita è stata spesso sradicata a causa dalla perdita di mezzi di sostentamento, e sono state costrette a negoziare con il proprio corpo fondi per sostenere la famiglia. Allo stesso tempo però sono spesso diventate l’unico mezzo di sopravvivenza di nuclei famigliari in cui gli uomini sono stati uccisi o arrestati.

Se la percentuale di donne che entrano nel mondo del lavoro ha dunque subito un rapido incremento, dovuto alle necessità, a causa di barriere culturali, religiose e sociali l’emancipazione economica delle Siriane rimane ancora appannaggio di poche.

I lavori prescelti sono quelli tipici femminili. In particolare, si evidenzia l’egemonia femminile in campo medico ed infermieristico. Un ruolo importante è per esempio quello ostetriche che sono fondamentali nella cura delle donne incinte e di quelle che hanno appena partorito. Molte di loro fanno la spola quotidianamente tra le cliniche e le case delle pazienti poiché molte di loro non riescono a raggiungere gli ospedali a causa della costante distruzione di infrastrutture. Queste professioniste sono considerate eroine dalla comunità poiché nei loro viaggi rischiano costantemente la vita. Un altro lavoro tipicamente femminile è quello di medico. Dal 2011, i medici uomini infatti hanno lasciato il Paese o si sono arruolati sia tra le milizie ribelli sia nell’esercito di Bashar al Assad. Le dottoresse hanno quindi preso in mano ospedali e cliniche sacrificandosi con turni massacranti. Il problema della mancanza di personale si è palesato in tutta la sua gravità durante l’epidemia di COVID-19. In uno studio condotto recentemente nella zona di Al-Suweida (sud-ovest della Siria, sul confine con la Giordania), si sono evidenziate le barriere sociali e culturali che hanno fortemente pesato sul lavoro delle donne medico domiciliate nel governatorato. Per queste dottoresse, la mentalità patriarcale significa avere responsabilità sul lavoro e violenze a casa dovute spesso alla frustrazione per una crisi economica che va peggiorando. Nonostante siano spesso le uniche portatrici primarie di reddito, in una sorta di ossimoro sociale, sono ancora sottoposte a compiti casalinghi, quali supporto a bambini e anziani, pulizie di case o tende se sono sfollati in un’altra regione del paese rispetto a dove abitavano originalmente. Anche dal punto del salario, le donne medico sono remunerate meno dei loro colleghi uomini e con la mancanza di materiale di protezione negli ospedali, sono costrette a usare una grossa parte del loro salario per comprare guanti e mascherine di cui hanno bisogno per non ammalarsi e per proteggere i pazienti. Per capire, una dottoressa guadagnava nel 2022 un salario medio di 80.000 – 90.000 lire siriane (172 – 193 USD nel 2022 ora 6,10 USD) al mese. Una scatola di guanti in lattice costava costa 11.500 lire siriane (25 USD ora 0.87 USD) mentre una scatola di mascherine di minore qualità costava 9.000 lire siriane (20 USD ora 0.68 USD). Il governo siriano ha annunciato recentemente un aumento di salario dal momento che il cambio lira siriana – USD sta raggiungendo quota 13500. In realtà, l’impatto dell’aumento sarà comunque di poco conto vista il tasso d’inflazione inarrestabile.

Alcune dottoresse hanno preso la difficile decisione di lasciare il lavoro per cui hanno duramente studiato per andare a imparare un mestiere meno prestigioso ma più redditizio quale quello di sarta. Ad oggi, infatti, molte associazioni non governative locali e internazionali hanno deciso di portare avanti progetti umanitari volti a sostenere piccole imprenditrici (soprattutto sarte, artiste che ristrutturano piccole opere d’arte locali, artiste che creano mosaici etc.) devolvendo parecchi fondi per supportare queste imprenditrici e formare giovani e giovanissime donne a un mestiere. Un dottore che prendeva l’equivalente di 6 USD in un ospedale pubblico può arrivare a guadagnare anche 100USD al mese se pagata da ONG straniere.

Il fine di questi progetti umanitari è soprattutto quello di offrire alle donne, ragazze e bambine un lavoro che possa salvarle dalla piaga di un matrimonio prematuro (a 9 o 10 anni). Prima della guerra, infatti, le spose bambine erano meno del 10% mentre oggi il dato è salito esponenzialmente. I dati ufficiosi sul terreno parlano anche di 60% di spose bambine in certe aree non urbanizzate del Paese. La realtà è che se queste bambine si emancipano economicamente, la famiglia non ha motivo di “venderle” in nome di una dote che doni ai genitori un po’ di ossigeno economico. Con la scusa di una tradizione culturale e religiosa migliaia di bambine si ritrovano incastrate con mariti violenti che non permettono loro di terminare gli studi o di lavorare fuori casa. Con un inserimento, sebbene precoce, nel mondo del lavoro invece queste bambine diventano soggetti da tenere convenientemente in famiglia in modo da far fronte tutti insieme alle crisi che sono sempre dietro l’angolo.

L’emancipazione delle donne siriane, dunque, passa sia attraverso l’abbattimento di barriere sociali e il cambiamento di codici culturali che dovrebbero modificarsi grazie anche all’introduzione di una nuova Costituzione, più rispettosa dei diritti di genere e più severa nei confronti di violenze sulle donne, ma anche attraverso il sostegno all’imprenditoria femminile, al sostegno economico a ONG fidate che si occupino di donare una vita lavorativa a donne giovani e meno giovani in linea con le loro attitudini e alla richiesta del Paese e a quelle ONG che sostengono economicamente donne che hanno già un lavoro ma che con il loro lavoro non possono sopravvivere economicamente.

 

 

DEA in Sociologia all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales a Parigi e MAS in Strategia e Leadership Internazionale al Graduate Institute di Ginevra, è una consulente ed una manager di progetti di ricerca presso gruppi internazionali di consulenza su problematiche medio-orientali. Tra i numerosi contributi accademici figurano collaborazioni con la New York University Press nel libro Women Rising: In and Beyond Arab Spring e con Palgrave Mc Millan nel libro Handbook of Gender, Media and Communication in the Middle East and North Africa. È mamma di una promettente sciatrice di dieci anni e nel tempo libero ama coniugare la sua passione per la sociologia con l’amore per i viaggi che fa con suo marito e sua figlia.

 

Rossella Novarini-L’evoluzione delle case d’aste: attuale posizionamento nazionale ed internazionale

Identificherei con l’inizio del 2020 l’avvio di una nuova fase, forse la più evolutiva e propulsiva, nella trasformazione delle case d’aste e nella percezione da parte del pubblico della loro portata operativa.

L’ inevitabile chiusura del mondo delle relazioni e dei contatti durante la crisi pandemica, ha inciso sul modo di rapportarsi con un mercato fino ad allora percepito come esclusivo e riservato a pochi intenditori.

Annullate le fiere, gli eventi, le mostre, serrati i musei, le case d’aste sono rimaste l’unico circuito d’acquisto e di riferimento. Approvvigionarsi di emozioni, sensazioni e nutrimento dello spirito significava navigare per siti, per cataloghi online, per esposizioni virtuali e sperimentare (per tanti per la prima volta) le battiture in streaming.

Stiamo parlando di una svolta epocale, in cui le aste sono emerse con prepotenza, poiché la loro stessa natura ha consentito loro di adattarsi celermente alle modalità dell’offerta di quel preciso momento storico, restando connesse con un tessuto sociale vivo e pulsante, sebbene nascosto dietro a uno schermo. Il collezionista, l’appassionato, il simpatizzante, il neofita, hanno avuto l’opportunità di avvicinarsi all’acquisto d’arte senza più un coinvolgimento fisico e personale, ma come spettatori e osservatori, in una sorta di formazione estetica ed esperienziale unica e inaspettata. Sfogliare i cataloghi significava curiosare nelle proposte, assistere a una personalizzata lezione di storia dell’arte, chiedendo e informandosi direttamente da esperti e specialisti (anche attraverso avanzati servizi di condition report), investendo quindi in un settore che per la prima volta diventava veramente trasversale.

Da lì in poi l’universo delle vendite all’asta si è davvero globalizzato, subendo un’impennata e un’evoluzione espansionistica proporzionale all’interesse suscitato dall’incremento dell’uso di internet a tutti i livelli: geografici, sociali ed economici.

Parlare di casa d’aste, oggi, non è più un argomento per salotti intellettuali, per sofisticati critici d’arte o per operatori del settore, bensì uno scambio di informazioni ampio e condiviso, rafforzato da un’estesa partecipazione e dalla accessibilità dei dati e delle aggiudicazioni, che permette di conoscere in tempo reale l’andamento di un artista, di una corrente e di un settore.

Mi riferisco a un confronto aperto a cui tutti possono partecipare, secondo il proprio potenziale finanziario e la propria propensione al collezionismo e alla raccolta, confrontandosi allo stesso tempo con tanti altri appassionati e concorrenti da tutto il mondo. E’ stato compiuto un passo ulteriore rispetto alle originarie e semplici aste online, siamo giunti ad partecipazione da remoto estremamente coinvolgente, ad una DAD del mercato dell’arte, in cui ognuno può essere diretto protagonista o semplicemente assistere.

Da qui deriva l’apprezzamento sempre maggiore da parte del pubblico per le case d’aste: trasparenza dell’offerta, trasparenza della domanda.

Chi vende in asta può vedere personalmente e direttamente cosa succede del proprio bene, che si tratti di un dipinto, di un gioiello o di un arredo, mentre chi acquista può cogliere l’interesse della platea di concorrenti e ricevere così informazioni preziose sulla scelta dell’investimento compiuto.

Inoltre, a fare la differenza, sono anche i tanti servizi offerti dalle case d’aste: certificazioni, attestazioni di valore, garanzia delle transazioni e dunque attendibilità.

Insomma, da sinonimo di un mondo quasi mitologico, che solo occasionalmente apriva una sorta di “stargate” a cui affacciarsi – mi riferisco a memorabili incanti come l’asta Elizabeth Taylor, di Yves Saint Laurent, dei Rothschild e di Karl Lagerfeld – le case d’aste hanno fatto un salto quantico diventando la corsia preferenziale più divertente e coinvolgente per diventare protagonisti (a vario titolo) del mercato dell’arte.

Sbaragliando ogni previsione ed ogni aspettativa le case d’aste sono diventate un’alternativa aperta e competitiva all’acquisto diretto presso la galleria o il negozio di fiducia, offrendo l’occasione a tanti collezionisti e semplici appassionati di un confronto sul campo di gara con quello stesso commerciante o gallerista. L’iscrizione alle piattaforme e ai siti dedicati sono cresciute in modo esponenziale, segnale di un marcato e disinvolto approccio verso una modalità di acquisto percepita come affidabile, concreta e realistica. Parallelamente è accresciuto il ruolo delle case d’aste nelle grandi logiche di mercato, finanche a condizionarlo proprio in forza dei risultati pubblici e trasparenti.

Appurato la solidità e l’importanza del loro attuale ruolo, risulta necessario un distinguo per quel che riguarda le case d’aste italiane, la cui crescita è purtroppo ancora fortemente limitata rispetto ai concorrenti stranieri. Le legislazioni restrittive (esercizio della notifica, incertezze sull’esportazione, scarsa collaborazione tra istituzioni e privato) nonché la carente regolamentazione – in Francia e in Inghilterra la figura del “battitore d’asta” è paragonata a quella di un notaio, in Italia la turbativa d’asta non è estensibile alla categoria del mercato dell’arte – penalizzano fortemente il potenziale di un settore che troverebbe nel territorio e nella cultura italiana una delle massime espressioni ed esaltazioni, a vantaggio di un’economia vivace e allo stesso tempo trasparente.

Rispetto allo scenario globale, la posizione delle case d’aste italiane risulta quindi retrostante, nonostante il desiderio e la volontà di essere concorrenziali e all’altezza dei più blasonati internazionali che godono invece di situazioni e condizioni estremamente favorevoli, vantando risultati impressionanti e procedure semplici, rapide e fluide per i compratori stranieri.

C‘è ancora molto da fare, ma va riconosciuto che molto è stato fatto per progredire e tenere il passo delle case d’aste estere. L’auspicio è che si vada sempre più nella direzione di un mercato libero e paritario, in cui ognuno possa esprimere la propria forza e il proprio potenziale, a vantaggio di una cultura capace di conciliare e armonizzare mercato dell’arte con rispetto e attenzione per il patrimonio storico e artistico, di cui questo paese è ricco e allo stesso tempo enormemente orgoglioso.

 

Nasce a Parma e si laurea in Lettere Moderne. Durante gli anni dell’Università individua nel mondo delle aste, una realtà in Italia allora poco diffusa e conosciuta, il settore nel quale intraprendere la propria strada professionale e negli anni ’80 entra a far parte del ristretto gruppo di persone che allora costituivano lo staff de Il Ponte Casa d’Aste. Dopo un lungo e duro periodo di “gavetta” e di formazione, in cui entra a diretto contatto con gli innumerevoli aspetti del mestiere, matura quelle competenze sul campo che la porteranno nel 2012 a diventare Direttore Generale dell’azienda. Grazie all’acquisita capacità, in anni di esperienza, di cogliere i segnali di cambiamento del mercato e le evoluzioni tecnologiche che lo affiancano e lo supportano, gli anni della sua affermazione professionale coincidono con la graduale trasformazione de Il Ponte Casa d’Aste da piccola casa d’aste milanese (nata nel 1974) ad azienda leader nel settore in Italia, che si avvale di uno staff di oltre 70 professionisti, 20 dipartimenti e due sedi operative. Alla storica sede di Palazzo Crivelli (situata nel cuore di Brera a Milano) nel 2006 si affiancano le sedi di via Pitteri e di via Medici del Vascello e rimane viva la mission dell’azienda di voler essere un riferimento per quel pubblico di neofiti appassionati che desiderano approcciarsi all’acquisto e al collezionismo partendo da piccoli investimenti.

Arturo Sica-I riflessi della guerra nelle nevrosi collettive

La pace è finita titola l’ultimo libro di Lucio Caracciolo.

È un’affermazione evidente per la guerra così vicina, in Europa, in casa praticamente.

Contemporaneamente la pace è finita anche dentro di noi. Da nevrosi ed angustie individuali, siamo approdati ad un sentimento di angoscia di morte collettivo.

C’è una inquietante incoerenza fra la negazione totale (la famosa operazione speciale) e la minaccia di guerra atomica di distruzione totale.

Questo scenario ci fa dire che la pulsione autodistruttiva e paranoica prende il sopravvento, stimolando la paura come trama costante delle emozioni della vita.

Le lancette della storia vengono riportate indietro e il codice paterno ritorna ad indicare il suo centro nella virilità del guerriero.

Gli uomini al fronte a morire e le donne a casa o all’estero a proteggere i bambini.

Per noi vicini e insieme lontani dal fronte della guerra, le reazioni vanno in direzione opposte, il ritiro depressivo, la sostanziale rinuncia alla propensione alla vita soffocata dall’angoscia non elaborata e dal senso di impotenza.

In tendenza opposta una sorta di euforia di emozioni con la diminuzione dei freni inibitori, alla ricerca di una gioia difficile da trovare e allora l’uso della violenza come mezzo espressivo.

Nella psicoanalisi della guerra l’autore Franco Fornari sottolinea come la guerra appunto venga sempre annunciata come atto d’amore e mai come pulsione distruttiva.

Amore per la libertà, amore per la democrazia, la religione, amore per la patria, per i propri compatrioti succubi di altri regimi (i russi nel Donbass).

Non possiamo non notare che con pretese motivazionali d’amore, gli uomini autori di violenza giustificano i loro comportamenti violenti con la partner.

“L’amavo troppo per perderla, l’ho uccisa per questo.”

Infine, abbiamo delle risorse per perseguire l’obiettivo di affrancarci da ogni genere di povertà e privazioni sia fisiche che psicologiche senza usare la guerra come unica soluzione?

Partendo dall’esperienza delle generazioni precedenti (padri/madri e nonni/e) proviamo a mettere in moto energie positive per affrontare analoghi percorsi, pericoli e superarli.

 

Arturo Sica psicoterapeuta, direttore del centro “White Dove”, si occupa delle dinamiche familiari e della gestione dei conflitti. Ha sviluppato programmi di supporto per uomini autori di violenza e ha collaborato come consulente con la commissione femminicidio al Senato della Repubblica durante la passata legislatura.

Mariolina Bassetti- Riflessioni sul mercato dell’arte

Si può parlare di un anno straordinario del mercato dell’arte internazionale: il 2022 è stato infatti il migliore nella storia delle grandi case d’asta internazionali. Nello specifico, Christie’s ha raggiunto 8,4 miliardi di dollari di ricavato complessivo, divenendo la casa d’asta con il record assoluto per volumi di vendita. Il tutto è avvenuto in un anno tutt’altro che semplice, con una guerra in corso e una situazione globale di semi-uscita dal COVID, ma alcuni elementi hanno consentito, in particolare, di registrare questi grandi risultati. In primis la resistenza del mercato dell’arte e soprattutto della qualità, ben dimostrata dal fatto che, come sempre succede, nel momento in cui la borsa ha iniziato a scendere il mercato dell’arte ha registrato andamenti inversamente proporzionali, continuando a crescere. Altro elemento di successo è stata la disponibilità di meravigliose collezioni private in vendita. Le collezioni hanno grande successo perché vengono legate alla storia del personaggio che le ha costruite, si può creare una narrativa sulla storia della collezione stessa, con grande ritorno in termini di marketing. I collezionisti, inoltre, amano acquistare oggetti appartenuti a personaggi noti, che hanno impresso il proprio gusto sugli oggetti stessi, confermandone la qualità. L’appartenenza ad un personaggio noto influisce sui risultati di vendita delle collezioni, ma anche di singoli oggetti in cataloghi misti, nonché sull’attenzione del pubblico. La vendita record della Collezione di Paul Allen, ad esempio, battuta per 1 miliardo e 620 milioni di dollari è stata un vero e proprio evento internazionale, il cui ricavato è stato devoluto in beneficenza e ha registrato non soltanto il 100% di venduto, ma anche grandi risultati da un punto di vista mediatico, rappresentando un episodio di grande qualità culturale. Nel periodo dell’esposizione si registravano davanti al Rockefeller Center code di persone non tanto interessate ad acquistare, ma quanto più a vedere opere di livello museale, aspettando ore per poter entrare. Ci sono stati diversi casi di aste in grado di generare questa attrazione, e questa aspettativa, e in cui gli acquirenti amano comprare qualcosa per cui c’è stata grande attesa. Questo vale soprattutto in America, dove la storia culturale è diversa e soprattutto ha radici meno antiche di quella europea. In America si registra infatti grande fanatismo per oggetti da collezione che difficilmente rientrano nelle corde del collezionismo europeo, come i pantaloncini o gli accappatoi di Cassius Clay venduti per centinaia di migliaia di dollari. La collezione mitizza gli oggetti e storicizza l’intera asta, dando maggiore incisività alla vendita. Da un punto di vista geografico, invece, sembrerebbe confermarsi il rafforzamento di Parigi nella scacchiera del mercato internazionale. Io credo molto in Parigi, credo che sia il futuro dell’Europa e sono una delle più grandi fautrici dell’importanza di Parigi in questo momento. L’Inghilterra, con la Brexit, si è un po’ auto-esclusa da un libero mercato senza dazi, con conseguenze importanti nel mondo dell’arte, poiché per un europeo importare le opere dall’Inghilterra è diventato molto costoso. La scelta di portare la nostra asta Thinking Italian, di arte italiana, a Parigi, è dettata prevalentemente da un aspetto economico, perché più della metà degli acquirenti registrati a questa asta ha provenienza europea. La scelta di Parigi è dettata anche da una bassa aliquota IVA, pari al 5,5% in Francia, contro per esempio al 10% in Italia, che rimane la aliquota più alta in Europa. Queste percentuali determinano differenze sostanziali nei prezzi che complessivamente dovranno essere pagati dal compratore. Inoltre, c’è anche un fattore ulteriore: noi italiani siamo sicuramente più vicini, culturalmente, alla Francia; e la nostra arte è sicuramente più affine a quella delle avanguardie francesi. Infine, c’è un ultimo elemento determinante: siamo molto più vicini ad una fiera come Art Basel che ad una fiera come Frieze a Londra, che è molto più contemporanea. Con l’introduzione di Art Basel Paris+ a Parigi, mi è sembrato che ci fossero elementi che combaciassero e che spingessero a portare la nostra asta di arte Italiana a Parigi. Ed è stata una prova di grande successo. Abbiamo registrato un grande entusiasmo, grande collaborazione dal team francese e notevoli semplificazioni nelle esportazioni e importazioni di opere. Se i nostri collezionisti italiani sono più attratti da Parigi, trovo altresì che l’arte contemporanea rimarrà sicuramente a Londra, e l’arte moderna sarà sempre più focalizzata a Parigi. Inoltre, l’arte italiana è ancora vista come arte elitaria, origine dell’arte degli altri paesi. È molto raffinata e selettiva, non riusciremo mai ad arrivare ad una globalizzazione della proposta a Milano, ma continuiamo a convogliare l’interesse di molti collezionisti sofisticati. Per concludere e in generale, penso che il 2023 possa esser un anno di transizione per il mercato dell’arte: siamo ancora in un momento molto delicato, con un contesto internazionale ferito da una guerra che va ormai avanti da un anno. Difficilmente sarà un anno di esplosione, ma penso che manterrà i buoni livelli dell’anno precedente. È bene tuttavia sottolineare che tutto dipenderà in parte anche dalle collezioni che potranno giungere sul mercato, elemento davvero imprevedibile. Le nostre previsioni sono sempre abbastanza soggettive e relative, ma è un lavoro splendido anche per questo: ogni giorno può succedere qualcosa di diverso che ci cambia la stagione.

 

 

Laurea in letteratura francese presso l’Università la Sapienza di Roma. Inizia il suo percorso all’interno di Christie’s nel 1987, diventando nel 1995 la Responsabile italiana del Dipartimento di Arte Moderna e Contemporanea. E’ alla guida dell’ ”Italian Sale”, poi “Thinking Italian”, l’unico appuntamento annuale a livello internazionale dedicato all’arte italiana del XX secolo, fin dalla sua nascita nel 2000. Nel 2015 l’Italian Sale ha raggiunto il record di vendite, realizzando £42,200,000 e proclamando Christie’s la nuova leader di questo segmento di mercato. Ad oggi è il record per un’asta dedicata interamente all’arte italiana. Nel 2011, in aggiunta alla precedente carica di International Director del dipartimento di Post-War & Contemporary Art, è stata nominata presidente di Christie’s Italy.  Nel dicembre del 2018 le è stata assegnata la carica di Chairman of Continental Europe per il dipartimento di  Post-War and Contemporary Art, guidando l’Europa Continentale e lavorando per elaborare una strategia che comprendesse un piano di crescita del business, l’acquisizione di nuovi clienti, la formazione e l’assunzione di nuovi talenti all’interno del team di Post-War & Contemporary Art. In oltre 30 anni di carriera all’interno di Christie’s, ha curato molti memorabili capolavori e inestimabili collezioni grazie alla sua capacità di saper instaurare relazioni solide con i suoi clienti, all’elaborazione di strategie efficaci e al lavoro di squadra. Anno dopo anno la sua figura è diventata fondamentale nella curatela e nel consolidamento dell’arte italiana nel mondo.

Clarice Pecori Giraldi- Il cambio di passo necessario nel mondo dell’arte e della cultura italiana

Si sente spesso parlare di tutela della cultura e dell’arte in Italia e spesso si ha la sensazione che questi nobili intendimenti non siano affrontati a livello di sistema, ma siano lasciati all’iniziativa privata e al mecenatismo, (che per fortuna è diffuso) di illuminati imprenditori collezionisti che intendono restituire qualcosa al Paese che ne ha determinato il successo.

Anche a tale scopo si è costituito sotto forma di Associazione, il Gruppo Apollo, con l’obiettivo di valorizzare e promuovere il patrimonio culturale italiano, incentivando e tutelando il collezionismo e la fruizione dell’arte in Italia e dell’arte italiana all’estero. Si è sentita l’esigenza quindi di sostenere la filiera dell’arte nell’interlocuzione con le istituzioni, con l’obiettivo di promuovere l’allineamento delle norme nazionali a quelle vigenti all’interno della U.E, con particolare attenzione al tema della circolazione delle opere d’arte.

Quello che abbiamo notato è un ritardo del nostro Paese nei confronti di altre nazioni più virtuose in questo ambito. Penso ad esempio alla Francia, che ha guadagnato moltissimo dalla Brexit, cogliendo le opportunità derivanti dall’impossibilità per Londra di continuare a beneficiare del regime di libera circolazione. Il vantaggio della Francia è che ha una normativa più favorevole al collezionista, con una legislazione pragmatica e una tassazione agevolata con previsione di bonus per gli artisti giovani ed altre iniziative a supporto del settore.

Siamo anche noi ad un bivio della nostra storia e mai come ora, dobbiamo avere il coraggio di promuovere una riforma strutturale che sia in grado di colmare il disallineamento in essere con le normative degli altri Paesi europei in materia di circolazione delle opere d’arte, rivedere il livello di tassazione Iva, rendere stabili ed ampliare i benefici introdotti con l’Art Bonus. Senza dimenticare il continuo impegno sul fronte della formazione e della digitalizzazione.

E questi sono proprio alcuni dei punti programmatici della Associazione Gruppo Apollo, che è diventato il punto di convergenza dei vari interessi degli attori che animano il mercato dell’arte in Italia. Abbiamo un obiettivo chiaro: mettere a disposizione del decisore pubblico, in primis del Ministero della Cultura, l’enorme bagaglio di conoscenza ed esperienza internazionale dell’intera filiera, in materia di valorizzazione e tutela del patrimonio artistico e culturale.

Per questo motivo, fanno parte dell’Associazione, case d’asta italiane e internazionali, le associazioni e i galleristi di arte moderna e contemporanea, i collezionisti, i mercanti di arte antica, gli operatori del mercato numismatico e le imprese della logistica. Ma anche rappresentanti di aziende e singoli individui, (tra cui la sottoscritta), hanno già aderito a questo progetto, che vuole ripensare il modo di fare cultura e sostenerla in questo Paese.

Il nostro desiderio è che il mercato italiano dell’arte possa riacquistare un ruolo di centralità e recuperare il gap concorrenziale a livello europeo. La Brexit ha posto sicuramente un ulteriore elemento di sfida, in un contesto che vedeva già la legislazione italiana sfavorevole al mondo delle imprese e del collezionismo. Nell’ottica di indicare agli interlocutori istituzionali delle iniziative precise in grado di incentivare la vitalità del mercato, come Associazione abbiamo stilato 11 punti prioritari. Tra questi, l’estensione anche in Italia di tutte le soglie di valore europee per cui si rendono necessarie licenze di esportazione, l’introduzione di termini perentori per le procedure riguardanti l’esportazione, l’introduzione di un obbligo di acquisto in caso di diniego (come avviene già in Francia e UK) e di un obbligo di indennizzo in caso di notifica. Sul fronte fiscale, inoltre, il rafforzamento degli incentivi al mecenatismo, la diminuzione dell’IVA sulle importazioni e sulle transazioni, un tax credit per l’acquisto opere di artisti viventi volto a supportare l’arte contemporanea e infine, un database pubblicamente accessibile per le opere notificate.

I contatti con i rappresentati del Ministero, delle sovrintendenze, e i membri del parlamento sono continui, al fine di favorire il corretto scambio di informazioni e la valorizzazione delle istanze di chi opera sul mercato. Incontri informali, ma anche occasioni pubbliche, quali audizioni presso il Parlamento e convegni, come gli eventi di Roma e Milano dello scorso anno, in cui tra i molti ospiti, è intervenuto anche lo stesso Ministro della Cultura. Ma siamo consapevoli che la promozione della cultura in Italia necessita il coinvolgimento di molti altri ministeri e molti altri attori istituzionali. La cosa non mi spaventa.

Come Associazione ci impegneremo per creare un contesto più favorevole per tutti gli attori del settore, inclusi i collezionisti, amanti e appassionati d’arte che magari hanno speso la propria vita a creare una collezione ma divengono talmente “disamorati” dello Stato, che difficilmente faranno donazioni a favore dei musei italiani, o fonderanno le “Galleria Borghese” del Ventunesimo secolo. Migliorare la normativa sulla circolazione delle opere d’arte avrebbe quindi benefici per tutti, anche per chi non dovesse partecipare fattivamente a questo momento di transizione, ma fruire solo degli (auspicati) effetti.

 

Si occupa di arte da sempre. Inizia nel 1984 da Sotheby’s. Passa poi a Christie’s e nel 1998 entra a Prada come responsabile della comunicazione worldwide. Torna a Christie’s nel 2006 come amministratore delegato della sede italiana.
Si trasferisce nella sede di Londra per avviare il nuovo dipartimento delle private sales. Nel 2016 torna in Italia e crea la sua società di Art Collection Management: la “Cpg Art Advisory”. Si tratta di un’attività indipendente, che segue la gestione strategica e tattica di una collezione, un compito a medio/lungo termine che si basa sulla fiducia e sulla competenza e che può comprendere dall’inventario al passaggio generazionale, a seconda delle necessità.
Clarice siede nel CdA del FAI e della Fondazione San Patrignano, mettendo a disposizione le sue competenze per attività filantropiche. E’ anche vice presidente del Gruppo Apollo.
È sposata con due figli. L’arte è una passione che riempie anche il suo tempo libero, assieme al giardinaggio e alla lettura.

Stefano Raimondi-A ogni fiera la sua arte, a ogni arte il suo collezionista.

Le fiere di arte contemporanea rappresentano un’importante occasione per gli artisti, i collezionisti e gli appassionati di arte di tutto il mondo per incontrarsi, esplorare le tendenze artistiche del momento, vedere opere di grandi maestri o scoprire nuovi talenti emergenti. Tuttavia possiamo evidenziare tre modelli di fiera che si rivolgono a target di gallerie, ma anche di collezionisti, diversi. Potremmo suddividere le fiere in tre categorie principali: locali, a cui come titolo di esempio in Italia possiamo riferirci ad ArtVerona; glocali, come per esempio Arco a Madrid e globali come ArtBasel, che si svolge in Svizzera, a Parigi a Miami e Hong Kong.

Le fiere d’arte locali presentano le ricerche più sperimentali o i maestri più consolidati del proprio territorio, di cui sono capaci di trasmetterne l’identità, la storia e la direzione. Rimanendo sull’esempio di ArtVerona, la manifestazione ha accolto spesso gallerie emergenti italiane e di qualità così come le gallerie più note dei maestri dell’arte moderna, rivolgendosi così sia a un collezionista più established, con un buon potere di spesa, sia a un collezionista appassionato di novità e desideroso di scoprire, valorizzare e comprendere l’arte della propria nazione nel momento in cui si sta formando, con investimenti inferiori rispetto agli artisti già storicizzati. L’importanza di questa manifestazione risiede nel creare e “mettere a sistema” una comunità con dei valori e interessi ben definiti.

Le fiere d’arte glocali sono una combinazione di eventi locali e globali. Sono organizzate per includere gli artisti e collezionisti locali ma anche per attirare visitatori e partecipanti da altre parti del mondo. Le fiere glocali possono essere utilizzate per aumentare la brand identity della galleria e ampliare la propria rete di collezionisti. Si svolgono in città la cui scena artistica è particolarmente vivace, con sostegno delle amministrazioni comunali e delle istituzioni culturali della città.

Le gallerie partecipano spesso a entrambe queste prime due tipologie di fiere, così come i collezionisti spesso coincidono a livello locale ma si diversificano a livello glocale.

Le fiere d’arte globali sono eventi di grande portata che propongono le opere più importanti e costose dei maestri storici e degli artisti storicizzati. Le gallerie che partecipano a questi eventi sono spesso le stesse, e queste fiere sono diventate un circus che si sposta di nazione e di continente, ma con i medesimi protagonisti. E’ difficile trovare in queste manifestazioni grandi novità ma sono delle occasioni importanti per investitori e collezionisti per trovare proposte estremamente consolidate e sicure.

A ogni fiera la sua arte, a ogni arte il suo collezionista.

 

Stefano Raimondi (1981) è un critico e curatore  d’arte. È direttore artistico di ArtVerona. Dal 2010 è direttore del network culturale The Blank Contemporary Art con cui organizza annualmente il Festival d’Arte Contemporanea ArtDate e con cui ha curato le mostre personali di Nathalie Djurberg & Hans Berg, Eva & Franco Mattes, Jonas Mekas e Deimantas Narkevičius. È stato Curatore alla GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo dal 2011 al 2017, istituzione per la quale ha curato mostre personali di artisti internazionali come Cory Arcangel, Rochelle Goldberg, Rashid Johnson, Andrea Mastrovito, Ryan McGinley e Pamela Rosenkranz. Dal 2013 al 2017 ha curato Qui. Enter Atlas – Simposio Internazionale di Curatori Emergenti. Nel 2011 ha co-ideato BACO – Base Arte Contemporanea per la quale ha curato le mostre di Francesco Arena, Riccardo Beretta, Filippo Berta, Ettore Favini, Oscar Giaconia, Daniel Knorr, Jacopo Miliani, Israel Lund, Navid Nuur, Adrian Paci, Dan Rees e Guido Van Der Werve. Dal 2015 al 2017 è stato docente all’Accademia di Belle Arti di Verona. È membro dell’IKT – International Association of Curators of Contemporary Art.

Don Franco Tassone- La bellezza più grande è restituire la dignità ai senza fissa dimora

Sono ormai trascorsi trent’ anni da quando l’incontro con un corpo devastato dalla miseria ha cambiato la mia vita. Arrivavo dalla festa di matrimonio di un amico e indossavo un abito chiaro, come si usava per i giorni di festa. Mentre camminavo vicino alla piazza del Castello, sotto una panchina ho visto una ‘cosa’ che rantolava. Mi ha raggiunto il suo odore prima ancora che il suo volto, la sua disperazione e le sue mani si sono appiccicate al mio vestito candido e mentre lo aiutavo a sollevarsi sentivo di sprofondare nel suo stesso abisso. Una volta seduti sulla panchina, mi ha chiesto se lo portavo a casa mia. Avevo diciotto anni e un grande desiderio di fare qualcosa di bello della mia vita, e mi sono trovato spiazzato davanti alle laceranti e contorte forme di vita subumana di tante persone che, in realtà, abitavano solo a due passi da me e dai miei interessi. Così maturai una mia contemplazione delle forme, osservando come le dipendenze potessero prendere i corpi e contorcerli e renderli sensibili, così per poco tempo e poi lasciarli inabitati e soli. Come accadde a Michelangelo con il marmo del Mosè, che si è nato dall’arte di levare, cominciai a credere che, togliendo i pregiudizi e la miseria dal volto e dal corpo delle persone, fosse possibile riscattare tanta umanità abbruttita. Quell’incontro mi turbò, mi lasciò annichilito e, a malincuore, proseguii sulla mia strada, sporco e carico di pensieri, segnato in modo indelebile e senza difese: come se davanti ai miei occhi, oltre alla ragazza che mi piaceva, passassero tutti i desideri e le scelte che dovevo fare per dare un senso alla mia vita.

Nello stesso anno dopo il diploma partii per il servizio civile e cominciai a fare tanto, spendevo i miei giorni nell’aiutare e quando, dopo venti mesi, tornai alle mie precedenti attività, qualcosa si era rotto in modo irreparabile. Cominciai a perdere il gusto di suonare, di animare e di condividere con i miei amici spazi di finta libertà. Lasciai la “morosa”, il lavoro, la vita mi sembrava inutile e non soddisfacente. Fu allora che chiesi di ritornare in comunità e iniziai un lungo percorso di formazione tra il teorico e il pratico che maturò fino all’ordinazione sacerdotale, e da lì a pochi mesi l’assunzione della responsabilità totale della comunità, che era stata fondata e condotta da Don Enzo Boschetti, in odore di santità e tassello indispensabile della vita di accoglienza di Pavia e della Lombardia e del Piemonte.

A trent’ anni fui caricato di grandi responsabilità e cominciai a temere di non farcela davanti alle sfide e alle necessità di tanti giovani in difficoltà. Fu in questo periodo che cominciai a rimarcare la necessità di aprire un nuovo dormitorio, più in sintonia con le norme di sicurezza e di igiene e capace di accogliere un numero sempre più vasto di persone in difficoltà. Il trauma delle umiliazioni inflitte a tanti uomini e donne, però, non finì con quella esperienza di responsabilità ma mi accompagnò ancora per lunghi anni. Così mi risolsi a costruire case di accoglienza cercando di creare, grazie all’aiuto di esperti, una Architettura solidale e bella, perché anche gli svantaggiati e i poveri godessero di spazi che potessero innalzare la loro dignità, per la cura dei particolari e la sostenibilità economica e ambientale. Nacque da questa ispirazione la costruzione di mattoni per i minori, chiamata “casa dei Puffi”, perché i tetti e le porte erano colorati di azzurro. Il progetto fu possibile grazie all’aiuto del mio amico Maurizio. Egli era della mia stessa città e fu portato in comunità dal suo fondatore, don Enzo Boschetti, che lo rincorse dieci volte per strada, perché sua mamma faceva il lavoro più antico del mondo e la sera non poteva mettere a letto i suoi figli o preparare loro la cena. Ecco questo mio amico con cui ho suonato, ho cantato, che ho accompagnato perché potesse ritrovare il proprio figliolo e riprendere in mano la sua vita, era un artista e nella sua arte c’era un dolore, una lacrima, qualcosa che assomigliava all’arte di Dalì, con il suo Crocifisso pendente, con questa umanità che scivola dalla Croce, verso l’abisso più profondo del nostro io, e il mio amico e stato capace di ergersi dalle sue molteplici dipendenze. Le sue ferite, solchi di saggezza profonda ciò che lui ha vissuto l’ha trasfuso nella sua arte. Ciò mi fa pensare che, se l’opera più bella di Dio è formare l’uomo a sua immagine e somiglianza, ridonare dignità è l’arte della speranza. Dentro di me è ancora vivo il desiderio di realizzare luoghi belli, dove si possono accogliere le ferite degli uomini, le loro lacrime, abbracciare i loro corpi, perché possano trovare rifugio e ripartire ancora più forti, sprigionando gesti di solidarietà e d’amore in un ambiente sostenibile e bello. L’esperienza fatta alla Casa del Giovane di Pavia mi ha lasciato una grande consapevolezza: c’è un grande disegno, una perfetta armonia, un desiderio che nelle forme umane, nella morale e nella cultura ci imbattiamo nella preziosa esperienza dell’uomo. Il privilegio di essere stato dai banchi dell’Università, ai luoghi più estremi della povertà: nei dormitori, nei luoghi in cui la gente in qualche modo era alla deriva e si aggrappava a quel relitto che veniva offerto dai volontari, mi ha messo nella condizione particolare di osservare e imparare una lezione di umanità. L’esercizio dell’ascolto, guardare e stupirmi di quanta bellezza alberghi tra i relitti della società, tra i malati e la gente semplice, mi ha costretto a non essere indifferente ai drammi che si svolgevano sotto i miei occhi, così mi sono lentamente innamorato delle forme più strane di uomini e donne contorti. Un’esperienza particolare ha sbloccato definitivamente la mia paralisi di fronte alle necessità dell’altro. Ricordo di essere stato una volta, con un gruppo di amici, in Val Vigezzo e con noi c’era una ragazza che aveva gli arti artificiali al posto delle braccia, ma non li poteva muovere perché c’era un difetto nell’impianto elettrico, così con un cacciavite mi sono messo ad aggiustarla. Oggi sono sempre più convinto di essere in un mondo in cui davvero, senza l’aiuto dell’altro, non si può vivere! Tutto ciò mi ha portato a scelte non conformiste, sono stato attirato dal fatto che non si può vivere senza avere questo grande desiderio di costruire qualcosa che possa essere un rifugio per gli altri, un aiuto, una possibilità per emergere dalle situazioni difficili e non rassegnarsi. Mi sono anche un po’ innamorato della pragmatica della comunicazione, per cui c’è una semantica che rappresenta la punteggiatura del linguaggio, ma c’è anche una pragmatica, dove osservi come uno si pone di fronte a te, si chiude o si apre, e tu osservando aspetti particolari dell’uomo e della donna che è di fronte a te capisci che atteggiamento hanno di fronte la vita. Ho imparato così, anche a mie spese, a fidarmi delle persone, a stare vicino, a sopportare le fragilità. Scoprivo gradualmente che quelle fragilità si riflettevano dentro di me e questa è stata una delle esperienze più mistiche che io abbia mai provato. Cioè mi sono trovato ad essere uomo tra gli uomini, solidale con tutte quelle ragazze e giovani che ho incontrato in comunità e che mi aprivano il loro cuore per tutte le violenze subite e i maltrattamenti sopportati, sentivo di passare da un abbraccio ad un l’altro.

Ripensando a quei sentimenti, ancora oggi vivi dentro di me, ricordo che ho un desiderio grande: aprire un dormitorio femminile. Un luogo bello dove le donne vittime della violenza, possano alloggiare, fermarsi un attimo, riprendersi, ritrovare il loro sguardo la bellezza del loro volto e frenare un po’ le loro lacrime, sentirsi accolte e accompagnate a riprendere in mano la loro vita e offrirla agli altri. La vita è un dono che non puoi tenere per te. Ecco perché desidero realizzare anche un dormitorio maschile e per famiglie, basato su tre livelli di accoglienza. Il primo livello è di pronto intervento per chi, a qualsiasi ora del giorno e della notte, avesse bisogno di trovare un rifugio. Mi piacerebbe un luogo dove poter offrire, senza barriere, un letto dove ci si possa riposare, una doccia, una lavanderia, un cambio d’abito, perché sempre di più mi accorgo che siamo tutti naufraghi. Un secondo livello di questa accoglienza sarebbe la disponibilità di stanze pensate per loro, accolti con colori e confort, con una dimensione di rispetto della dignità dove si può consumare qualche pasto, ma lo si può fare in armonia, nel desiderio di aiutarsi. E poi un terzo livello di accoglienza, per cui anche i senza fissa dimora possano accedere a una casa a prezzo calmierato, per rientrare nella vita e poter così cominciare a spiccare il volo.

Ritengo che sia la realizzazione del dormitorio femminile che quella del dormitorio maschile o per famiglie mi permetta di completare l’opera di redenzione e di crescita promozionale per cui ho vissuto in tutta la mia vita. Ho scoperto che l’umanità è il dono più prezioso, non riesco a pensare ad un’opera d’arte più bella, mi sembra una formulazione ancora più grande di quella che è stato il Leonardo con il suo uomo Vitruviano. Solo valorizzando i gesti, le microespressioni nelle facce, i pensieri e gli sguardi e soprattutto l’umanità scartata, è possibile mostrare in essa qualcosa di preziosissimo, a cui avvicinarsi con timore e tremore, per condividere una vita che valga la pena di essere vissuta. Anch’io ho provato la solitudine, a volte mi è parso di aver smarrito il senso e la meta, mi ha spaventato la malattia, ma mi sono sentito ben rappresentato nel mio desiderio di verità e di crescita dalle storie di tanti che avvicinandosi a me sono stati in grado di farmi uscire dalle mie comodità. I senza fissa dimora mi hanno costretto ad aprirmi alla realtà, ho trovato molte difficoltà, molti ostacoli, non solo quelli burocratici, sono stato messo all’angolo e respinto in maniera pesantissima.  Alle persone che in qualche modo si sono fidate ho potuto confidare questi miei desideri e il mio sogno di restituire una vita dignitosa a tanti fratelli e sorelle. Ma questo è progetto che possiamo realizzare solo insieme. Ecco non vorrei rimanere prigioniero dei miei sogni e dei miei desideri che sono nati soprattutto perché ho incontrato persone che ne avevano assoluto bisogno, mi piacerebbe condividere questa esperienza. Ecco perché ho bussato alle porte di Pietro Ripa, a cui sono grato, perché questo sogno prendesse forma con la scrittura e poi prendesse forma in qualcuno che entrasse nel progetto. Questa bella esperienza mi ha fatto bene, e, nonostante il male e l’indifferenza, cerco di vivere questo sogno come un appuntamento con tanti, che vorrei accogliere in nome della nostra ritrovata bellezza in questa umanità.

 

Nasce a Como nel 1962. Durante il servizio civile incontra Don Enzo Boschetti. E’ un incontro che gli cambia la vita e che lo porta ad imboccare la strada religiosa. Si laurea in Legge e diventa educatore professionale. Così, dopo la laurea in giurisprudenza, a soli trent’anni, è chiamato alla guida della “Casa del Giovane”, la struttura che Don Enzo ha creato per dare riparo e aiuto a giovani e adulti in difficoltà. Alla guida di questa importante casa di assistenza, don Franco è diventato uno stimolo di generosità e di solidarietà. Oggi è parroco della parrocchia Città SS. Salvatore di Pavia. Ha diretto il settimanale diocesano Il Ticino, ha fondato il Laboratorio di Nazareth per il lavoro dei Giovani, e oggi dirige la Caritas di Pavia. La sua la storia è quella di un esempio concreto di apostolato tra i bisognosi e punto di riferimento per la sua comunità

Riccardo Motta-La maturità digitale delle banche italiane

La pandemia ha avuto un impatto irreversibile su tutta l’umanità. Il settore bancario non avrebbe potuto esserne immune. Come in tutti i settori industriali, i cambiamenti conseguenti alla pandemia hanno avuto un impatto sulle aspettative dei clienti riguardanti i servizi bancari digitali, ad un livello più alto di sempre. Le banche oggi si stanno trasformando in qualcosa che va oltre il concetto tradizionale di banca. Gli istituti di credito leader del settore si stanno infatti trasformando in piattaforme multi-servizio, con un’offerta che va dalla mobilità all’ e-goverment, dai servizi alla persona al commercio, costruendo un nuovo ecosistema ricco di opportunità per i loro clienti. In particolare, stanno diventando sempre di più dei “trusted advisors” per i propri clienti, supportandoli nella loro quotidiana gestione delle proprie finanze con una ampia varietà di soluzioni digitali. Dal punto di vista della maturità digitale, è positivo il fatto che da una ricerca internazionale che abbiamo fatto in Deloitte, tra le banche Italiane analizzate, una quota prevalente (più del 60%) si posizioni all’interno di due cluster contraddistinti da un maggior livello di maturità digitale, ovvero i Digital Champions e Digital smart followers. Ma vediamo innanzitutto il contesto economico susseguente alla pandemia. Questa ha lasciato un generale senso di incertezza, che a sua volta ha generato un diffuso rallentamento economico ed un incremento significativo del tasso di inflazione, peraltro anche a causa del conflitto armato russo-ucraino. I consumatori, sia a livello internazionale che italiano, sono ora preoccupati riguardo i lori risparmi e pongono sempre maggiore attenzione al modo di spendere, dimostrando un costante incremento delle loro attitudini agli acquisti attraverso il canale digitale, nonché verso una sempre maggiore consapevolezza verso i temi di sostenibilità. Diviene pertanto sempre più un fattore critico per gli operatori finanziari dare risposte concrete ai cambiamenti comportamentali dei consumatori, concentrandosi in particolare sui loro bisogni, tra i quali si segnalano due aspetti fondamentali.

Il primo è privilegiare singoli “entry point” per l’accesso da parte dei clienti ad un ampio insieme di prodotti e servizi (e.g. attraverso l’utilizzo di SuperApp). A tal proposito, quasi 1 Cliente su 2 dimostra essere predisposto ad utilizzare piattaforme esterne per prodotti finanziari e al contempo la propria app bancaria per servizi non finanziari.

Il secondo è relativo al progressivo shift verso l’utilizzo dei canali di Digital Banking (mobile app e website) per una gestione più efficiente delle attività bancarie. A dimostrazione di ciò, il tasso di internet banking penetration ha raggiunto il 45% nel 2022, anticipando le previsioni di circa 3 anni rispetto alle proiezioni pre-Covid. Rispetto a tali nuove esigenze dei Clienti, le banche possono rispondere agendo in logica di “piattaforma” di servizi a valore attraverso la creazione di una “value proposition” basata su ecosistemi di partnership, ma anche con lo sviluppo di soluzioni fully-digital ed una ottimizzazione della copertura territoriale. Da uno studio Monitor Deloitte emerge infatti che le c.d. “Exponential Banks”, istituti finanziari caratterizzati dalla capacità di evolvere i propri modelli di business attraverso innovazione, capacità di adattamento e flessibilità strategica, ottengano in media migliori risultati in termini di valuation (+176%) ed efficienza (“cost income” inferiore di circa 20p.p.) rispetto rispetto ai “worst performers”. Come anticipato, i clienti digitali, ovvero coloro che svolgono più del 90% delle transazioni finanziarie attraverso Internet/ Mobile banking, giocano un ruolo sempre più centrale per le banche. Nel 2021 costituivano circa il 50% del “net banking income” delle banche, con una forte predominanza in termini di numero di clienti appartenenti a fasce Gen Z e millennials, e si stima che tale quota raggiungerà il 70% nel 2027 (crescendo quindi di ca. 20 punti percentuali).  Tale incremento di clienti a vocazione digitale alimenta sempre più la creazione di banche interamente digitali. Tuttavia, il principale fattore critico di successo per le banche digitali, siano esse native digitali o frutto di iniziative di trasformazione digitale di banche tradizionali (e.g. Neobanks), risulta il raggiungimento di una massa critica di clienti tale da sfruttare effettive economie di scala e abbassare il “cost per customer”, rendendo così la banca digitale profittevole. A dimostrazione di ciò, dalle analisi emerge come ad un aumento di 9x della base clienti corrisponde una riduzione del 75% del costo per cliente. Lo sviluppo di soluzioni fully-digital per i clienti, finalizzate a soddisfare l’esigenza di “self direct operation”, dovrà essere affiancato da un’ottimizzazione della copertura territoriale in grado di garantire una maggiore efficienta operativa. Tale processo di revisione del footprint geografico non potrà prescindere dall’effettivo livello di digitalizzazione che contraddistingue le diverse aree geografiche del Paese e dovrà essere accompagnato da iniziative complementari di accompagnamento all’evoluzione. Partendo dalle ca. 34.000 filiali bancarie nel 2011 in Italia, secondo l’analisi Monitor Deloitte, si stima per il 2023 un numero di filiali pari a ca. 20.000, per poi arrivare a ca. 16.000 nel 2029. I canali digitali, dunque, non saranno più semplici canali integrativi, ma rappresenteranno sempre di più un fattore chiave e differenziante della value proposition delle banche. A che punto è l’evoluzione delle banche italiane lungo queste direzioni? Quali sono le opportunità di ulteriore sviluppo? Lo studio Deloitte sulla Digital Banking Maturity, fornisce una valutazione completa del mercato esaminando 304 banche operanti in 41 Paesi differenti (con la partecipazione delle principali economie globali in EMEA, America, Asia). A livello nazionale, lo studio ha preso in esame un gruppo consistente di operatori bancari (banche tradizionali, banche online ed operatori FinTech) che, nel loro insieme, costituiscono un campione Italiano altamente rappresentativo (e.g. coprendo l’88% dell’offerta prestiti bancari). Sulla base dei risultati ottenuti, le banche italiane dimostrano una forte crescita rispetto allo studio precedente (2020), colmando il divario e affiancandosi alla media globale lungo tutte le dimensioni di analisi. Al contempo, lo studio mette in evidenza alcuni ambiti di intervento funzionali al raggiungimento delle best practice a livello globale.

 

Financial Market Industry Leader di Deloitte Central Mediterranean.

È partner audit dal 1998, Dottore Commercialista e Revisore Legale dei Conti in Italia.

Ha assunto il ruolo di revisore per numerosi istituti bancari in Italia ed è attualmente revisore del Gruppo UniCredit e del Gruppo Cassa Depositi e Presiti

Esperto di IFRS/IAS, ha una solida esperienza in incarichi di due diligence nell’ambito delle acquisizioni, in particolare per l’Europa Centro-Orientale.

É spesso chiamato come esperto da numerosi tribunali italiani per stilare pareri, fairness opinions e valutazioni su molte operazioni di finanza straordinaria.

Vive e lavora a Milano.

 

Riccardo Puglisi-Pil e altri indicatori di benessere

È possibile sintetizzare l’andamento di un’economia nel tempo dentro un solo indicatore come il PIL (prodotto interno lordo)? Come giustamente rilevato dall’amico Pietro Ripa nelle settimane scorse, è davvero eroico ritenere che una singola variabile sia sufficiente per catturare elementi cruciali che vanno considerati congiuntamente con il valore totale della produzione e del reddito, come la disuguaglianza e l’inquinamento, per non parlare della connessione tra andamento dell’economia e “felicità” dei cittadini.

Tuttavia, parafrasando la famosa battuta di Churchill sulla democrazia, la mia tesi sul PIL è che il PIL è la peggior forma di misurazione dell’andamento dell’economia, eccezion fatta per tutte quelle altre misure che sono state proposte finora. Per intenderci: se dobbiamo scegliere UNA SOLA misura, allora il PIL, e in particolare il PIL pro capite, va bene, perché le altre misure proposte (ad esempio il reddito netto disponibile delle famiglie, oppure un indice composito come lo Human Development Index, che mette insieme Pil pro capite, speranza di vita e anni di istruzione) aggiungono informazioni ma confondono le acque perché mettono insieme fattori diversi (sanità e istruzione) oppure ne tolgono una parte (le imposte tolte al reddito lordo per arrivare al reddito netto servono per finanziare i servizi pubblici e il welfare state).

Parentesi tecnica su che cosa è esattamente il PIL: esso rappresenta il valore totale di tutti i beni e servizi finali prodotti in un dato periodo di tempo in un certo paese, di solito in un anno o in un trimestre. Chi sono i soggetti che comprano tali beni e servizi? Le famiglie li acquistano per i propri consumi, mentre le imprese acquistano beni di investimento come impianti e macchinari per rimpiazzare la propria dotazione di “capitale” (pensate a macchinari ormai obsoleti o non funzionanti) oppure per aggiungerne di nuovi. Dal momento che l’economia è aperta ai rapporti con l’estero, dal lato della domanda (chi acquista la produzione nazionale?) vanno aggiunte le esportazioni, cioè gli acquisti di beni e servizi prodotti all’interno del paese ed acquistati da imprese o famiglie che stanno all’estero. Per essere coerenti bisogna però togliere dal valore delle esportazioni il valore delle importazioni, cioè dei beni e servizi finali acquistati all’estero: si tratta infatti di domanda che non va a comprare la produzione nazionale ma quella fatta all’estero. Dunque il concetto rilevante è quello delle esportazioni nette, cioè il valore delle esportazioni a cui si sottrae il valore delle importazioni.

E come entra in questo schema la parte pubblica dell’economia? Se il settore pubblico acquista beni e servizi questi fanno parte della domanda che acquista beni prodotti all’interno, e lo stesso vale per gli investimenti pubblici, cioè l’acquisto di beni che danno utilità per più di un periodo, come un ponte o un’autostrada. Anche gli stipendi pubblici entrano nel calcolo della spesa pubblica che acquista la produzione interna perché sono una misura del valore dei servizi pubblici prestati alla cittadinanza, quando non esiste un prezzo (come in questo caso) che definisce la quantità di moneta totale necessaria per acquistare quei servizi. Ad esempio nel settore sanitario, le imposte, cioè un prelievo coercitivo di risorse, finanziano l’acquisto di farmaci, il pagamento di medici e infermieri, mentre il paziente -a parte il pagamento aggiuntivo del ticket- usufruisce gratuitamente e universalmente di questi servizi di prevenzione, diagnosi e cura. Di fatto non esiste un prezzo per i servizi sanitari utilizzati dai consumatori finali, ma il suo valore è rappresentato dagli stipendi del personale, dall’acquisto di beni intermedi da parte della pubblica amministrazione eccetera.

Se prendiamo il PIL totale e lo dividiamo per la popolazione otteniamo il PIL pro capite, cioè una misura media della produzione e del reddito in un dato paese in un dato periodo di tempo. E da dove spunta il concetto di reddito? Un elemento contabile che qualcuno potrebbe persino definire “intrigante” è che a ogni acquisto di beni e servizi finali corrisponde un ricavo per i soggetti che li vendono, tipicamente imprese che utilizzano queste risorse incassate per pagare gli stipendi, i propri fornitori, gli interessi alle banche e i dividendi agli azionisti: da qui nasce l’uguaglianza tra spesa, valore della produzione e reddito (potere d’acquisto) che viene corrisposto a chi fornisce fattori produttivi (cioè lavoro e capitale) alle imprese che producono. E un concetto ancora più prezioso è quello di circuito del reddito, che a mio parere permette di comprendere abbastanza bene la forza teorica ed empirica del concetto di PIL: come sintetizzato nella Legge di Say (che -come ben argomentato dall’economista William Baumol- fu colposamente o dolosamente presentata in maniera caricaturale dal fondatore della macroeconomia, cioè John Maynard Keynes) la domanda di beni nasce dal lato dell’offerta, cioè dal lato delle imprese e degli altri soggetti che producono beni e servizi. Le imprese che vendono con successo beni e servizi danno risorse monetarie a lavoratori e capitalisti come reddito, il quale viene utilizzato da costoro per comprare beni e servizi finali, in un circolo virtuoso che diventa più ampio in termini assoluti se il PIL totale cresce, e in termini medi se il PIL pro capite cresce. E che succede se non tutto il reddito viene speso in consumi? La differenza positiva tra reddito e consumo è ovviamente il risparmio: esso è costituito da risorse monetarie che possono essere prestate alle imprese e allo stato per finanziare le proprie spese, in particolare quelle di investimento (ma non solo). Se poi si bada a non farci confondere le idee dall’inflazione (se da un anno all’altro si producono le stesse quantità di beni e servizi e i prezzi raddoppiano il PIL nominale raddoppia, mentre quello reale è inalterato), il PIL reale pro capite diventa una buona approssimazione del benessere economico medio dei cittadini in un dato paese in un dato periodo di tempo. Se si calcola il tasso di crescita percentuale del PIL reale pro capite si passa a una buona misura dello sviluppo economico pro capite nel tempo, ovviamente analizzando la cosa in un orizzonte temporale ragionevolmente lungo come un decennio o una generazione, cioè un quarto di secolo.

Vogliamo giustamente prestare attenzione alla disuguaglianza, all’inquinamento, alle condizioni sanitarie e dell’istruzione? Facciamolo pure, anzi dobbiamo farlo, ma consideriamole come indicatori separati e aggiuntivi rispetto al PIL, indaghiamone la correlazione con il PIL stesso, ma non rigettiamo il PIL come indicatore inutile perché non al passo con la moda dei tempi. Il passo della storia umana -dalla Rivoluzione Industriale in avanti, ma anche prima, e anche nel futuro- lo decidono di fatto il PIL e il PIL pro capite.

 

 

Riccardo Puglisi è professore ordinario di scienza delle finanze all’Università degli Studi di Pavia. Alunno del Collegio Ghislieri; ha studiato a Pavia (laurea in economia e dottorato in finanza pubblica) e alla London School of Economics (Master e PhD in economia).  

Si occupa principalmente del ruolo politico dei mass media, di finanza pubblica, e del ruolo economico delle istituzioni politiche. Ha pubblicato su riviste internazionali in economia e scienze politiche come il Journal of the European Economic Association, Journal of Politics e Journal of Public Economics. È redattore de lavoce.info.

Insegna scienza delle finanze a Pavia e in Bocconi e political economy a Pavia. Nel 2013-14 ha fatto parte di uno dei gruppi di lavoro nell’ambito della spending review condotta da Carlo Cottarelli; nel 2015 ha ottenuto il Premio Ghislieri con Virginio Rognoni, e nel 2016 ha vinto con James M. Snyder, Jr. la Hicks-Tinbergen Medal per il miglior articolo pubblicato nel biennio precedente sul Journal of the European Economic Association.

È ragionevolmente attivo sui social network, in particolare su Twitter.

 

 

 

Federico Diomeda- L’ambiente di lavoro nella composizione della Crisi di Impresa

Con l’entrata in vigore delle ultime modifiche al Codice della Crisi e dell’Insolvenza, il tema dell’ambiente di lavoro e dei doveri delle parti che era divenuto di notevole attualità al momento della partenza della Composizione Negoziata, diventa parte integrante e sostanziale del codice stesso.  Il legislatore ha confermato pienamente il desiderio di investire sulla più consapevole gestione (possibilmente anticipata) della crisi di impresa ed a tal fine ha specificamente normato quello che a me piace definire “l’ambiente di lavoro professionale” per tutti i soggetti coinvolti in ogni strumento di regolazione della crisi. Per tale motivo il nuovo articolo 4 del riformato CCI è rubricato “Doveri delle parti” e illustra in generale quale comportamento attivo il legislatore si aspetta che le parti (imprenditore e creditori da un lato, esperto della Composizione Negoziata e organi delle procedure, ove azionate) assumano durante ogni fase della regolazione della crisi. Al primo comma si richiama in generale il dovere di comportamento secondo buona fede e correttezza a valere su tutti gli strumenti di regolazione della crisi quindi non solo la composizione negoziata. Tale richiamo pertanto va inteso come monito generale sovrastante le specifiche ulteriori obbligazioni comportamentali e di trasparenza di volta in volta inserite negli specifici strumenti di regolazione. Il secondo comma illustra i doveri del debitore in termini: di piena disclosure della propria situazione “fornendo tutte le informazioni necessarie ed appropriate alle trattative avviate, anche nella composizione negoziata, e allo strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza prescelto” – di adozione tempestiva delle azioni idonee alla concreta realizzazione dello strumento prescelto – di gestione del patrimonio e dell’impresa nell’interesse prioritario dei creditori. Con riferimento ai creditori, il quarto comma impone il dovere per costoro di collaborare lealmente con il debitore, con l’esperto della composizione negoziata e con gli organi nominati dalla autorità giudiziaria e amministrativa e di rispettare l’obbligo di riservatezza sulla situazione del debitore. I richiami comportamentali sono invece contenuti nell’articolo 16 del CCI creando un virtuoso collegamento con le norme generali di cui al ridetto articolo 4. Come ormai noto, la Composizione Negoziata si basa sulla nomina di un esperto indipendente che faciliti il perseguimento del risanamento dell’impresa attraverso la disamina di adeguata informativa finanziaria ed industriale prodotta da parte dell’imprenditore che dovrà dotarsi di un controllo interno efficiente ed essere assistito da consulenti preparati che possono aiutarlo nella preparazione del set informativo di base. Scopo evidente della Composizione Negoziata è quello di aiutare la prevenzione e gestione della crisi di impresa con modalità più, oserei dire, flessibili rispetto all’impianto delle procedure di allerta di cui alla parte seconda del titolo primo del Codice della crisi e della insolvenza che viene definitivamente eliminata. A tale fine il legislatore propone un metodo di composizione negoziata basato su tre presupposti di “buon ambiente di lavoro”:1) la nomina di un esperto indipendente; 2) il ragionevole perseguimento del risanamento dell’impresa; 3) la immediata produzione, fra molti altri documenti richiesti, di adeguata informativa finanziaria ed industriale da parte dell’imprenditore. Lo schema operativo si snoda pertanto con un meccanismo di indubbio carattere aziendalistico, in linea con il già vigente obbligo in capo a tutti gli imprenditori di possedere un adeguato assetto organizzativo atto alla misurazione della persistenza della continuità aziendale. Occorre segnalare una novità rispetto al precedente art. 5 del DL 118 del 2019. Infatti  fra i documenti da allegare alla domanda è necessario non solo: “una situazione patrimoniale e finanziaria aggiornata a non oltre sessanta giorni prima della presentazione dell’istanza” e “una relazione tecnica chiara e sintetica sull’attività in concreto esercitata recante un piano finanziario per i successivi sei mesi e le iniziative industriali che l’imprenditore intende adottare”, ma anche “un progetto di piano di risanamento redatto secondo le indicazioni della lista di controllo, di cui all’art.13, comma 2”. L’inserimento di questo documento già in sede di domanda di accesso alla Composizione Negoziata chiude il dibattito sorto proprio in relazione alla capacità, specialmente delle piccole imprese, di essere in grado di produrre sin da subito un piano di risanamento. Al tempo il legislatore aveva optato per una soluzione più morbida di fatto obbligando l’esperto nominato a sovrintendere alla fase di preparazione del piano. La attuale formulazione non lascia dubbi ed obbliga l’imprenditore ed i suoi consulenti a presentare sin dall’inizio un progetto di piano di risanamento avvalendosi delle indicazioni operative della lista di controllo. Personalmente non mi sento di considerare questa “novità” come un irrigidimento a danno dell’impresa – piuttosto mi pare un richiamo a dotarsi di strumenti di controllo e misurazione di performance. E siccome l’esperto “agevola le trattative tra l’imprenditore, i creditori ed eventuali altri soggetti interessati” la creazione di un set informativo di base più idoneo a tale arduo compito va salutato con favore anche perché aiuta l’esperto a rimanere il più indipendente possibile”. A tale riguardo l’art.  16 del CCI conferma l’afflato aziendalistico della composizione negoziata della crisi e disciplina il cosiddetto “ambiente di lavoro”. L’esperto deve operare “in modo professionale, riservato, imparziale e indipendente“. Egli può chiedere all’imprenditore e ai creditori tutte le informazioni utili o necessarie e può avvalersi di soggetti dotati di specifica competenza, anche nel settore economico in cui opera l’imprenditore, e di un revisore legale. Si conferma dunque il ben ampio il potere di azione dell’esperto che deve poter effettivamente agevolare le trattative, cui le parti non possono sottrarsi per i doveri di buona fede e correttezza. Corrispondentemente, l’imprenditore ha il dovere di rappresentare la propria situazione a tutti in modo completo e trasparente e deve gestire l’impresa senza recare pregiudizio. Ancora, “tutte le parti coinvolte nelle trattative hanno il dovere di collaborare lealmente ed in modo sollecito con l’imprenditore e con l’esperto” – “le medesime parti danno riscontro alle proposte e alle richieste che ricevono durante le trattative con risposta tempestiva e motivata“.

Da segnalare inoltre il comma specificamente dedicato al mondo della finanza:le banche e gli intermediari finanziari, i loro mandatari e i cessionari dei loro crediti sono tenuti a partecipare alle trattative in modo attivo e informato“. L’obbligo di responsabilità comportamentale delle parti della crisi diventa la base del successo della risoluzione della crisi stessa, cui deve associarsi la capacità degli imprenditori di essere efficaci nel controllo di gestione e nella misurazione dei loro KPI. In tal senso la lista di controllo che aiuta la preparazione del progetto di piano contiene certamente le istruzioni minimamente necessarie per avvicinarsi alla composizione negoziata ed al contempo costituiscono un set operativo che consente di “leggere” la continuità aziendale in un modo costante a evitare un eccesso di “sorprese”. La crisi d’impresa, infatti, non è solo un problema dell’imprenditore, ma di tutti i soggetti coinvolti.

 

Dottore Commercialista e revisore contabile con specializzazione aziendalistica in adeguati assetti organizzativi, controllo di gestione e finanza aziendale, Financial reporting e Sustainability reporting e materie ESG, valutazioni di aziende. Amministratore e liquidatore di aziende commerciali. Esperto di prevenzione e gestione della crisi di impresa. Esperto nella composizione negoziata. Curatore Fallimentare, Commissario Giudiziale e Liquidatore Giudiziale.

E’ stato Presidente (dal 2006 al 2009) quindi CEO (dal 2009 al 2014) di E.F.A.A European Federation of Accountants and Auditors for SMEs (www.efaa.com), svolgendo attività politico-tecnica per la professione con il Parlamento Europeo e la Commissione Europea, IFAC, AE, EFRAG, Banca Mondiale, OECD, UNCTAD ed altre istituzioni internazionali che si occupano di principi contabili e di revisione.

Federico Vasoli-Il Vietnam e il suo boom economico come opportunità per le nostre imprese

Chi tra i dodici lettori di questo mio breve scritto è stato in Vietnam o ne ha viste immagini recenti delle principali città, sarà rimasto senza dubbio colpito dal traffico caotico, composto soprattutto da orde di motorini che sovente sfrecciano contromano e sui marciapiedi.

Milioni di persone tutti i giorni trasportano altre persone, oggetti e animali incessantemente da un angolo all’altro del paese, convinte che domani staranno meglio di oggi. In questo caos, fu facile per me, all’epoca, 2007, ironizzare sulla legge che avrebbe reso il casco obbligatorio dal 2008. Ebbene, il 1 gennaio seguente praticamente tutti indossavano il casco, magari non conforme agli standard europei, ma comunque una protezione c’era ed era stata attuata con rigore e rapidità.

Qualche anno dopo, un paese la cui economia era quasi esclusivamente basata sul contante, passò al mondo fintech in un batter d’occhio. I bonifici eseguiti online sono pressoché immediati e i punti accumulati – un po’ come le miglia aeree – possono essere convertiti in corse, consegne e acquisti presso i partner affiliati gratuiti o scontati.

In tutto questo, nonostante dazi, tasse speciali e noti problemi di logistica post pandemia e nonostante il reddito pro capite si attesti attorno ai 4.000,00 USD (dato da depurare, poiché solo il 36% della giovane popolazione di quasi cento milioni di vietnamiti vive in città), la domanda di prodotti di lusso, dal marmo di Carrara alle Bentley, dai grandi vini e alle cucine iper tecnologiche, non conosce flessione.

Dati noti, ma che giova ripetere: il Vietnam dal 1997, dopo tre guerre d’Indocina di cui una d’indipendenza e una civile in soli quarant’anni, cresce ogni anno a ritmi simili a quelli dell’ingombrante vicino cinese e nel 2022 ha registrato un aumento record, il maggiore in Asia, pari all’8,02%.

Inoltre, il Paese ha importato beni e servizi per poco più di 360 miliardi di dollari e ne ha esportati per oltre 381 (l’interscambio commerciale con l’Italia si assesta sui 6 miliardi), diventando così il maggior trader dell’area ASEAN dopo Singapore e prima della Thailandia. Ancorché vi siano talvolta alcuni sommovimenti interni al partito comunista che tangono anche il settore privato, il paese è alquanto stabile, non solo sul piano politico-governativo, ma anche su quello sociale: al netto delle differenze regionali facilmente riscontrabili nell’accento e nella cucina (in questi aspetti e in tanti altri il Vietnam è una specie di Italia del sud est asiatico) e di sperequazioni economiche peraltro non esagerate, non si registrano tensioni sociali, religiose, etniche. I giovani, che magari hanno vissuto la povertà, ma non la miseria, studiano e lavorano, desiderosi di mantenere e migliorare il proprio status. Il COVID è stato gestito in maniera quasi impeccabile: nel 2020, memori della SARS, i vietnamiti hanno chiuso i confini ben prima di altri e nel 2021, dopo qualche tentennamento, hanno vaccinato, anche grazie all’aiuto dei Paesi dell’UE e degli USA, il grosso della popolazione con AstraZeneca, Pfizer e Moderna.

Innumerevoli imprese hanno ampliato o spostato tout-court la propria base produttiva dalla Cina al Vietnam, in considerazione di molteplici fattori: diversificazione delle fonti produttive, appartenenza all’ASEAN, accordi di libero scambio con economie vicine e lontane, costi e qualità della manodopera, posizione geografica strategica, prossimità ai popolosi e relativamente giovani mercati di sbocco nella regione.

Nel solo 2022 sono entrati quasi 28 miliardi di dollari di investimenti diretti esteri, un dato simile a quello del 2020, con Singapore, Corea del Sud, Giappone, Cina e Hong Kong ai primi posti per territori di provenienza.

Se il Vietnam è un Paese eminentemente manifatturiero, da qualche anno la quota di servizi sul PIL ha superato il settore secondario.

Quanto all’interscambio, gli USA primeggiano come primo partner importatore. Ancora più interessanti sono i principali prodotti dell’export vietnamita: non solo calzature e abbigliamento (al quinto e quarto posto, rispettivamente), ma anche e soprattutto macchinari e componenti (quasi 42 miliardi di dollari di export), computer e accessori (oltre 50 miliardi), smartphone e accessori (quasi 55 miliardi).

Il Vietnam non è più solamente un Paese esportatore di prodotti semplici e altamente labour-intensive, ma anche di oggetti con un contenuto tecnologico piuttosto elevato, sul quale i giganti del settore hanno puntato con convinzione. Un’inflazione che appare sotto controllo attorno al 5%, aiuta.

A questo quadro del tutto positivo, con previsioni di crescita sostenuta anche per il 2023, va aggiunta l’enucleazione delle principali criticità che un Paese non ancora pienamente sviluppato come questo si trova ad affrontare e che impattano anche sugli investitori stranieri.

A mio personale giudizio, memore dei fattori che scoraggiano gli investimenti stranieri nella mia Italia, pongo l’incertezza del diritto e del funzionamento dei tribunali civili al primo posto. Il Vietnam è un paese di Civil Law, con un codice civile di derivazione napoleonica, che ha fatto straordinari passi avanti nell’adeguare il proprio ordinamento alle sfide contemporanee. Le significative riforme del diritto societario varate nel 2020 vanno in questa direzione. Ma non basta: permangono lacune e contraddizioni, e soprattutto, il sistema è imbevuto di norme non scritte che hanno a che fare con i complessi meccanismi gerarchici, familiari e familistici, che compongono l’ossatura della società e del modo di condurre gli affari in questo Paese. Va ricordato che il vietnamita è di fatto una lingua che si parla in… terza persona, per cui i pronomi personali variano al variare del rapporto di età e di gerarchia politica e famigliare (donna più giovane legge articolo di uomo più anziano; donna più giovane sposata con uomo più anziano diventa suo parigrado rispetto ai di lui fratelli più piccoli, ancorché anagraficamente più grandi di lei). Resistono al tempo le tradizioni, al limite della superstizione, per cui non è così infrequente attendere il giorno fortunato prima di concludere un affare, o consultare l’oroscopo della controparte prima di lanciarsi in una joint-venture, o ancora pagare i debiti prima del capodanno lunare. Il capitalismo è eminentemente di relazione e “i loro” vengono “prima”. Il riconoscimento di atti e titoli stranieri è arduo e le corti sono di un formalismo estremo, per cui la triste pratica di condurre affari anche importati con messaggini, senza contratti ben redatti, tradotti, semplici da comprendere da parte dell’interprete giudice, rende vano qualunque tentativo di soddisfacimento giudiziale delle proprie pur fondate e legittime pretese.

Vi sono poi sfide intrinseche a un Paese che ha comprensibilmente dato la priorità alla crescita economica rispetto a tutto il resto: inquinamento, sicurezza alimentare, sicurezza ambientale, tutela dei diritti dei lavoratori, sanità pubblica, qualità delle costruzioni e delle infrastrutture, per citare solo le principali, senza contare il difficile ma inevitabile rapporto con la Cina.

In tutto questo l’Italia potrebbe fare molto: possiamo fornire al Vietnam soluzioni ecosostenibili in cui siamo campioni, vendere macchinari, prodotti per il settore petrolchimico, arredamento a elevato contenuto tecnologico, e poi espandere la produzione anche in Vietnam significa non solo presidiare un’economia in pieno boom, ma anche servire più da vicino la clientela di tutta la regione, realizzare sul posto le linee non necessariamente di alta gamma ed evitare che la concorrenza prenda il sopravvento anche alle latitudini nostre. E torniamo ai motorini con cui abbiamo esordito. VinFast, car-maker locale nato solo pochi anni fa dal gigante VinGroup, ha già sviluppato il proprio scooter, non così dissimile dalla Vespa. Piaggio presidia da quindici anni il mercato locale e regionale con, tra l’altro, un intelligente posizionamento del proprio brand nel segmento elevato. Ma, così come le case degli italiani sono ora piene di elettrodomestici giapponesi, coreani e anche cinesi di qualità, non è potenzialmente lontano il momento in cui, per inazione dei nostri, i produttori vietnamiti scalzeranno anche quelli italiani.

Il 2023 segna il cinquantesimo anniversario delle relazioni diplomatiche tra Italia e Vietnam. Se tali relazioni sono eccellenti da anni, non altrettanto si può dire degli investimenti italiani in Vietnam. L’auspicio è che business e cultura marcino di pari passo con politica e diplomazia, con slancio.

 

Avvocato, opera in molteplici ordinamenti e culture. Managing partner dello studio di consulenza legale e tributaria dMTV Global, con uffici a Singapore, Malta e Vietnam, dopo avere lavorato in studi legali a Pechino, Bruxelles, Barcellona e Milano. È stato socio dello studio legale de Masi Taddei Vasoli, di Milano. Da oltre vent’anni assiste i propri clienti principalmente su contratti nazionali e internazionali e diritto societario, investimenti diretti esteri, asset protection, immigrazione, trust, questioni fiscali internazionali, in una molteplicità di settori. Ha fornito assistenza legale in numerosi casi inerenti i rapporti d’affari tra Europa e Asia e oltre 200 progetti blockchain, principalmente a Singapore e Malta, e più recentemente ad Antigua e Barbuda e in altri ordinamenti caraibici. L’essere stato esposto alle culture e ai mercati europei e asiatici già in giovane età, e a fianco di grandi maestri del diritto, come gli avvocati Daniel Vedovatto a Bruxelles nel 2004, Carles Moner a Barcellona nel 2011 e Gianfranco Negri-Clementi a Milano, gli ha permesso di sviluppare la capacità di lavorare su casi multi-ordinamento e di forgiare una mentalità orientata al risultato. È stato vicepresidente dell’Associazione Giovani Avvocati di Milano (AGAM), riveste svariate posizioni in consigli direttivi, anche di organizzazioni no-profit, ed è general counsel indipendente di nextAI Ltd e general counsel e managing partner Singapore e Asia-Pacific di Spektral USA LLC, entrambi spin-off di Harvard Medical School e MIT Sloan Alumni. E’ relatore al MIP – Politecnico di Milano, alla National Economic University di Hanoi e mentore di studenti MBA all’Università Cattolica di Milano e autore di pubblicazioni giuridiche e di business. È socio di Finance Malta, della Malta Chamber of Commerce, del Malta Business Network, della Camera di Commercio Italia-Vietnam (CCIV), dell’Italian Chamber of Commerce in Vietnam (Icham), della Vietnam Private Business Association, della Singapore Business Association in Vietnam, della Italian Chamber of Commerce in Singapore (ICCS) e di EuroCham in Vietnam e a Singapore. Ha fatto parte della delegazione del Gruppo Giovani Imprenditori di Confindustria al G20 Young Entrepreneurs’ Alliance. Laureato all’Università Bocconi di Milano, ha frequentato corsi post-laurea all’Università di Vienna, all’ISPI di Milano, all’Università di Strasburgo, all’ESADE di Barcellona, all’IFSP di Malta e all’Università di Edimburgo

Gastone Breccia- Una guerra semplice

La guerra è tornata in Europa dopo quasi ottant’anni. La guerra convenzionale, «simmetrica», tra due eserciti potenti, armati in maniera simile, capaci di condurre operazioni prolungate ad alta intensità sul campo di battaglia. Ci riguarda tutti, e ha una posta in gioco altissima; ma quella iniziata per volontà di Vladimir Putin e della Russia il 24 febbraio 2022 è anche una guerra semplice. Le motivazioni sono chiare, così come gli scopi, gli errori commessi e le ragioni degli sviluppi recenti sul campo di battaglia.

È semplice, per prima cosa, la motivazione fondamentale della Russia per attaccare l’Ucraina: Putin ha pensato di avere l’occasione di rovesciare il governo di Kiev, chiaramente orientato all’amicizia con l’Occidente, e ha deciso di coglierla usando la forza. Ma è semplice anche la ragione del fallimento della cosiddetta “Operazione Speciale”, la guerra-lampo che avrebbe dovuto consentire ai russi di insediare un governo amico a Kiev in una decina di giorni: Putin e i suoi generali erano stati male informati sulla solidità del “regime” ucraino, sulla volontà di resistenza della popolazione, e si erano convinti (da soli) che USA e NATO non fossero in grado di reagire in tempo. È semplice la ragione della tenacia mostrata dagli ucraini nell’opporsi all’invasione: “ogni popolo amante della libertà, alla fine sarà libero” (Simon Bolívar). Ovvero: quando un estraneo entra a casa tua con le armi in pugno, e vuole farla da padrone, tu combatti e combatti e combatti fino a cacciarlo, quali che siano i sacrifici necessari. È semplice, infine, la ragione per cui gli USA, passati i primi giorni in cui “tutto poteva accadere” (quando Biden offrì un passaggio in America a Zelensky, ottenendone una risposta passata alla storia), abbiano appoggiato l’Ucraina, ma non troppo: il massimo vantaggio, per loro, è vedere la Russia che si dissangua, perde uomini armamenti e prestigio, senza rischiare una guerra su vasta scala. Quindi sì agli HIMARS, no ad aerei carri armati e truppe. Sono persino semplici la ragioni per cui i russi non hanno sfondato le linee ucraine e non hanno ottenuto risultati decisivi sul campo: non hanno mai avuto una superiorità numerica sufficiente, non hanno saputo adattarsi rapidamente a una situazione diversa dalle loro aspettative, l’eccezionale sostegno dell’intelligence occidentale alle forze ucraine li ha messi costantemente in situazione di inferiorità sul campo di battaglia.

Queste sono le coordinate essenziali del conflitto. Il resto è propaganda. Non si può dar credito a Putin quando sostiene che la Russia fosse minacciata militarmente dall’Ucraina, e quindi giustifica l’aggressione come una “difesa preventiva”. Né quando parla della necessità di intervenire per fermare il “genocidio” in atto a danno dei russofoni del Donbass. Siamo di fronte a una guerra iniziata per motivi neo-imperiali, legati alla volontà di riaffermare il dominio russo su una parte dell’ex impero zarista-sovietico ritenuta troppo importante per essere “ceduta” all’Occidente, anche sotto forma di semplice alleanza economico-politica.

Dunque non possiamo avere dubbi: ha torto chi ha violato in armi i confini di un paese sovrano che non costituiva una minaccia alla sua sicurezza, chi ha creduto di poter spezzare la volontà di resistenza del suo popolo con il terrore, chi ha massacrato civili e devastato paesi e città. Ha ragione chi difende la propria terra, la propria casa, la propria vita. È una sorta di livello zero, ma imprescindibile, da cui partire per acquisire consapevolezza di ciò che sta accadendo da quasi un anno in Ucraina.

Il 2023 sarà un altro anno di guerra, probabilmente. Non ci sono, attualmente, le premesse per un accordo di pace: Putin ha “annesso” illegalmente quattro regioni ucraine, e non può abbandonarle senza dichiarare la propria sconfitta, cosa che farà solo se costretto con la forza militare. Forza che gli ucraini, al momento, non hanno.

Ma la via per la pace passa attraverso la giustizia, ovvero la fine dell’invasione, la punizione dei criminali di guerra e la libertà del popolo ucraino. Si illudono quelli che, magari in buona fede, auspicano una “resa” degli ucraini di fronte al fatto compiuto dell’occupazione russa di una parte del loro paese. Sarebbe nient’altro che una tregua instabile, avvelenata dal rancore, ben presto macchiata di violazioni di ogni tipo. Un passo verso il passaggio dal conflitto che abbiamo sotto gli occhi a una guerra civile feroce, che lascerebbe spazio alle forze peggiori delle due parti in lotta. Speriamo di non dover assistere a questo.

 

Livornese, classe 1962, laureato in lettere classiche a Pisa, ha conseguito il dottorato di ricerca in Scienze Storiche presso la Scuola Superiore di Studi Storici dell’Università di San Marino. Dal 2001 insegna Civiltà bizantina, Letteratura bizantina e Storia militare antica presso il Dipartimento di Musicologia, Lettere e Beni Culturali di Cremona (Università di Pavia). È membro del comitato scientifico della Società Italiana di Storia Militare. Da sempre appassionato di storia militare, ha pubblicato numerose monografie con varie case editrici, tra le quali si segnalano: L’arte della guerra. Da Sun Tzu a Clausewitz, Torino, Einaudi, 2009; I figli di Marte. L’arte della guerra a Roma antica, Milano, Mondadori, 2012; L’arte della guerriglia, Bologna, Il Mulino, 2013 (nuova edizione: 2022); 1915. L’Italia va in trincea, Bologna, Il Mulino, 2015; Lo scudo di Cristo. Le guerre dell’impero romano d’Oriente, Roma-Bari, Laterza, 2016; Scipione l’Africano. L’invincibile che rese grande Roma, Roma, Salerno, 2017; Corea. La guerra dimenticata, Bologna, Il Mulino, 2019; Missione fallita. La sconfitta dell’Occidente in Afghanistan, Bologna, Il Mulino, 2020; La grande storia della guerra, Roma, Newton Compton, 2020; Le guerre di Libia. Un secolo di guerre e rivoluzioni (con Stefano Marcuzzi), Bologna, Il Mulino, 2021; Il demone della battaglia. Alessandro a Isso, Bologna, Il Mulino, 2023 (in corso di stampa); Trafalgar, Torino, Einaudi, 2023 (in corso di stampa). Ha condotto ricerche sul campo in Afghanistan (2011) e in Kurdistan (Iraq e Siria, 2015), dopo le quali ha pubblicato saggi sulla missione ISAF (La tomba degli imperi, Milano, Mondadori, 2013), e sulla guerra contro lo Stato Islamico (Guerra all’ISIS. Diario dal fronte curdo, Bologna, Il Mulino, 2016).

Andrea Bracchi-Trust: cambio di rotta dell’Agenzia delle entrate sulla fiscalità indiretta

Lo scorso 20 ottobre 2022 l’Agenzia delle entrate ha pubblicato la – tanto attesa – circolare in materia di trust, fornendo alcuni rilevanti chiarimenti in relazione alla disciplina fiscale applicabile ai trust ai fini delle imposte dirette e indirette.

Uno dei principali chiarimenti – che si commenterà di seguito – è certamente rappresentato dal cambio di impostazione dell’Agenzia delle entrate in merito all’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni ai trust.

Si ricorda, in via preliminare, che il trust si sostanzia in un rapporto giuridico fiduciario mediante il quale un soggetto (“disponente” o “settlor”) trasferisce beni e/o diritti ad un altro soggetto (“trustee”), affinché quest’ultimo li gestisca, coerentemente con quanto previsto dall’atto istitutivo del trust, nell’interesse di uno o più beneficiari, o anche per uno scopo prestabilito.

I trust possono essere istituiti per diverse ragioni: tra i più diffusi vi sono certamente i cd. “trust familiari”, ovvero i trust istituiti con finalità di passaggio generazionale (es. per proteggere patrimoni familiari impedendo il frazionamento della proprietà dell’azienda di famiglia tra più discendenti), oppure con finalità di assistenza (es. per tutelare un familiare che è troppo giovane oppure non è sufficientemente responsabile per poter gestire i propri affari).

Come anticipato, la circolare dell’Agenzia delle entrate contiene una rilevante novità in materia di imposta sulle successioni e donazioni: l’Agenzia delle entrate recepisce, infatti, in un documento di prassi a valenza generale l’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza della Corte di Cassazione in merito all’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni ai trust.

In particolare, si passa da un modello in cui l’apporto dei beni dal disponente al trust scontava immediatamente l’imposta sulle successioni e donazioni al momento della segregazione dei beni in trust, sulla base del valore dei beni apportati e delle aliquote e franchigie vigenti al momento dell’apporto; ad un modello in cui l’apporto dei beni in trust non sconta l’imposta sulle successioni e donazioni, rimandando l’imposizione al momento della successiva devoluzione dei beni dal trustee ai beneficiari, con tutto quello che ne consegue in termini di maggior valore dei beni spettanti ai beneficiari – rispetto al momento in cui è stato istituito il trust – e, soprattutto, in termini di aliquote e franchigie applicabili al momento della devoluzione.

Sono infatti frequenti, in questi ultimi anni, i rumour relativi ad un possibile inasprimento dell’imposta sulle successioni e donazioni (che potrebbe comportare un innalzamento delle aliquote, una riduzione delle franchigie o, ancora, una modifica alle modalità di determinazione della base imponibile). È chiaro che, qualora tale inasprimento si verificasse, la devoluzione del fondo in trust ai beneficiari ne sarà impattata (rispetto al quadro previgente in cui l’Agenzia delle entrate aveva chiarito che la tassazione “in entrata” – ovvero al momento dell’apporto dei beni in trust – esauriva qualsiasi ulteriore tassazione al momento della devoluzione dei beni dal trust ai beneficiari).

In conclusione, ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni si passa dal precedente modello impositivo del trust, che prevedeva una tassazione immediata e certa nel quantum; ad un nuovo modello impositivo del trust, che prevede una tassazione differita, ma incerta nel quantum.

 

 

Laurea in Economia presso l’Università degli Studi di Pavia, studente dell’Almo Collegio Borromeo, consegue l’abilitazione alla professione di dottore commercialista. Ha iniziato la propria carriera lavorativa presso un primario studio tributario italiano. Dal 2019 lavora presso il Dipartimento Fiscale di BonelliErede e si occupa, in particolare, di private clients, operazioni di M&A, fiscalità d’impresa, dei gruppi societari e dei fondi d’investimento. E’ autore di diverse pubblicazioni in materia tributaria.

Paolo Macrì-Le aziende tra “grandi dimissioni” e metaverso

«È finito il lockdown e noi siamo tornati arrabbiati, iracondi, grigi… come eravamo sempre stati». Così dice Alfredo, protagonista di uno sketch teatrale creato apposta per un convegno di Confindustria sull’umanesimo aziendale. Il tono è ironico, ma la realtà non è così lontana dalle parole (pungenti, disilluse) che l’attore ha deciso di portare in scena. Il mondo si sta “riprendendo” dopo aver vissuto un periodo di crisi, ma sembra ormai impossibile tornare alla vita così come la conoscevamo pre-pandemia. Pensare che la “normalità” di adesso possa tornare uguale a quella di prima è assurdo; e anche se oggi si sente parlare spesso di new normal, non si può ancora definire con certezza cosa sia – perché non si è ancora assestato, è in sviluppo costante. Quello che sappiamo con sicurezza è che non possiamo più (e non dobbiamo) tornare indietro.

Certo, dopo due anni di estreme difficoltà il bisogno di tornare alla routine a noi più familiare è comprensibile. Riprendere le vecchie abitudini non solo è comodo, ma rassicurante: come tutte le crisi, la pandemia ha mostrato le imperfezioni del modo in cui vedevamo il mondo, il lavoro, la nostra stessa vita.

Non siamo troppo negativi: è durante i momenti difficili che nascono nuove soluzioni. Senza un periodo di fermo come quello vissuto, non ci saremmo resi conto di essere “seduti” su una miniera d’oro composta da videochiamate istantanee, chat online, classi virtuali…

Il mondo del lavoro (e della scuola) è stato quello che più di tutti ha dovuto piegarsi e reinventarsi davanti all’enorme cambiamento imposto dal lockdown. Da un giorno all’altro un altissimo numero di lavoratori è stato costretto a spostare le proprie attività dall’ufficio a casa. Di smart-working all’estero si parlava già da qualche anno, ma in Italia è sempre sembrata una realtà abbastanza lontana: eppure, contro ogni previsione, quando siamo stati costretti a metterlo in atto il sistema di lavorare da casa ha funzionato.

La tecnologia ha fatto un salto incredibile in avanti, aprendo le porte a nuovi scenari mai pensati prima, anche se non tutti sono disposti ad esplorare appieno questo nuovo mondo. Immaginate di poter partecipare a una riunione, magari in un’altra città, senza mettere piede fuori casa. Immaginate di dover progettare la ricostruzione di un palazzo, dalle fondamenta all’ultimo piano, e di poter passeggiare per l’intero cantiere rimanendo fermi sulla poltrona del salotto.

Due anni fa l’idea era impossibile, ma ora con l’avvento del metaverso si parla di riunioni tramite ologramma. L’idea può far storcere il naso – e fa venire in mente scene simili a quelle viste in Star Wars – ma questa è una realtà più vicina di quanto possiamo immaginare: si pensi alla digital fashion, che ormai ha preso piede sia negli Stati Uniti che in Oriente per combattere lo spreco della fast fashion, in cui i vestiti si comprano ma possono essere indossati solo virtualmente. Se avere un intero armadio mediatico è possibile, perché l’idea di applicare questa innovazione al mondo del lavoro trova ancora delle resistenze?

Anche senza gli ologrammi, ci sono già i mezzi per lavorare in modo efficiente, e comodo. Meno stressante, meno “iracondo, arrabbiato e grigio”, come sottolinea una recente ricerca presentata alla Bologna Business School: il 37% degli intervistati si è detto più tranquillo quando in smart working, il 25% più concentrato e il 7% più creativo. In tutto il mondo esperimenti di questo tipo stanno dando risultati simili.

La pandemia non ha solo creato problemi: in qualche modo ci ha insegnato a guardare molti aspetti della nostra vita sotto una luce diversa. Lontani dalle quattro mura dei nostri uffici, costretti a rimanere soli con noi stessi, abbiamo imparato a conoscerci meglio. Mentre prima vivevamo nell’idea che nulla potesse scalfirci, ora ci siamo resi conto che molti aspetti della nostra “vecchia” vita non erano così perfetti come credevamo. La nostra routine, il nostro modo di lavorare, persino il concetto stesso del lavoro è stato stravolto: dal bisogno di doverci dimostrare sempre forti, siamo passati alla necessità di parlare anche del lato umano. La pandemia ha svelato una verità scomoda: non siamo indistruttibili… e va bene anche così.

Si è passati da una cultura che esaltava la figura del “lavoratore incallito” – che fa straordinari tutti i giorni, si sveglia alle cinque del mattino, beve mille caffè per rimanere attivo e non ha un attimo da dedicare alla sua vita sociale – a una nuova visione di come il lavoro dovrebbe essere. Non a caso, la flessibilità di orario è uno tra i benefit maggiormente richiesti; forse abbiamo imparato a goderci le piccole cose.

Sono in tanti ora a non voler tornare indietro, perché il benessere è una priorità anche nelle aziende. L’anno appena trascorso è stato caratterizzato dalla “Great Resignation” (grandi dimissioni con un aumento dei licenziamenti volontari dell’85%). Il fenomeno rappresenta il volto dei lavoratori dipendenti alla costante ricerca di un equilibrio tra vita privata e lavoro: chi ha sperimentato un modello più conveniente, ora non vuole piegarsi alla routine del pre-pandemia.

È necessario un salto culturale, “una scossa” per far capire quanto sia importante guardare al futuro, cercando una collaborazione, tra azienda e lavoratore, tra manager e operaio, tra persona e persona. Le aziende, per l’importante ruolo che ricoprono nella società contemporanea, devono assumere una responsabilità sociale verso i lavoratori e in generale verso la comunità e il territorio dove operano.

 

Nato a Genova nel 1971, laureato in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Genova; si occupa da vent’anni di editoria elettronica e di nuovi media per l’apprendimento e la comunicazione, ha ideato e coordinato decine di piattaforme e-learning, webtv e progetti multimediali integrati per web e social media; è stato relatore in numerosi convegni su didattica, aggiornamento professionale, e-Learning e ICT, con specifica competenza nell’area salute; ha svolto molteplici attività di docenza presso istituti pubblici e privati, enti di formazione e nell’ambito di master e corsi universitari. È stato professore a contratto dal 2004 al 2018 presso l’Università degli Studi di Genova – Scuola di Scienze Umanistiche, per i Corsi di laurea di Lingue e Letterature Straniere e di Informazione ed Editoria. Presidente del gruppo societario GGallery, che opera nel settore dell’editoria, dell’e-learning e della comunicazione web; è consigliere di amministrazione del Consorzio SI4Life, Polo Regionale Ricerca e Innovazione; dal 2018 al 2021 è Membro delle Commissioni esterne e indipendenti di valutatori dei Piani formativi presso Fondazione Fondirigenti “G. Taliercio”; nel 2021 è co-fondatore del progetto di influence marketing CFactor; nel 2022 ha fondato la Rete di Imprese BAM Communication di cui è Vice Presidente; dal 2022 è Presidente della Sezione Terziario di Confindustria Genova.

Angela Maria Scullica- Il ruolo del giornalista e il business model di una moderna casa editrice

Con l’avvento dei social, lo sviluppo dell’intelligenza artificiale e l’accelerazione dei processi di digitalizzazione avvenuta in questi ultimi due anni di pandemia, il mestiere del giornalista e il business model di una casa editrice si sono radicalmente trasformati.  Oggi ci si interroga sul nuovo ruolo che sta assumendo il giornalista in quella che è stata definita l’era digitale (cui ora possiamo aggiungere anche dell’intelligenza artificiale) e sulle caratteristiche che deve assumere una casa editrice per restare sul mercato. Le due questioni viaggiano infatti in parallelo perché entrambe partono da una realtà in cui le fonti di informazione sono cresciute in maniera esponenziale, tutti parlano e comunicano, le fake news circolano senza controllo e appaiono sempre più credibili.

Il modo stesso in cui funzionano i social presenta aspetti positivi ma anche negativi; tra essi due criticità hanno un impatto sociale considerevole: la prima è il cosiddetto “effetto bolla “sulle notizie che inducono, inconsapevolmente per chi ne è oggetto, certi comportamenti sociali e di consumo, la seconda consiste nel favorire la tendenza, peraltro umana, a raccogliersi in gruppi omogenei di pensiero, riducendo così il dialogo e gli scambi di pareri e opinioni divergenti a scapito del progresso delle idee e della conoscenza.

Bene, stando così le cose, cerchiamo innanzitutto di delineare quello che oggi sta diventando il ruolo del giornalista. E partiamo dicendo che, proprio per effetto di quanto detto sopra, questo ruolo acquisisce più importanza principalmente sotto due punti di vista. Il primo è nella difesa della democratizzazione del pensiero, in quanto il giornalista è chiamato a favorire lo scambio di idee, l’approfondimento e il confronto, tra gruppi, settori, correnti, professioni differenti in modo da cogliere quell’essenza sociale e innovativa che un mondo in continua evoluzione ha dentro di sé. Il secondo è nella funzione professionale di selezione, verifica e valutazione delle innumerevoli fonti oggi a disposizione, di gerarchizzazione corretta e ragionata e di sintesi dei fatti, degli eventi, degli scenari in evoluzione. Tutto ciò richiede da parte del giornalista una forte capacità comunicativa personale e di utilizzo del maggior numero possibile di mezzi di comunicazione; creatività e iniziativa anche nelle pubbliche relazioni, nell’organizzazione di dibattiti e convegni; una conoscenza informatica notevole che oggi si allarga anche ai software di intelligenza artificiale. E comporta soprattutto un atteggiamento morale ed etico nello svolgimento del proprio lavoro orientato a fornire al pubblico informazioni oggettive di qualità. E qui arriviamo a un punto fondamentale che accomuna il mestiere del giornalista a quello di una casa editrice al passo con i tempi: la reputazione e l’affidabilità che si conquistano sul campo attraverso la creazione di community intorno ad argomenti specifici e ben delineati, che condividono la mission e l’arricchiscono di contenuti. Community che si ascoltano e con le quali si dialoga in uno scambio continuo di idee, pareri ed opinioni. Questo è molto importante soprattutto in un mondo, come dicevamo all’inizio, dove l’eccesso di informazione circolante può creare confusione e disorientamento. Più le community si arricchiscono di conoscenza, più aumenta l’interesse a parteciparvi, creando connessioni e iniziative che contribuiscono ad accrescere le potenzialità e a sostenere lo sviluppo. In questo contesto la specializzazione sugli argomenti trattati, la capacità di affrontarli in tutti i molteplici aspetti filosofici, morali, sociali, ambientali, storici coinvolgendo esperti e realtà di vari campi, sono fondamentali elementi di forza ed una sfida che, per un mondo migliore, vale la pena di intraprendere.

 

 

Dopo aver conseguito all’Università Bocconi di Milano una laurea a pieni voti in Economia Aziendale con specializzazione in Finanza, inizia il suo percorso professionale come revisore dei bilanci in R.I.A., società allora facente parte del gruppo Bnl e si avvicina al mondo editoriale avviando collaborazioni con il Corriere della Sera, Il Sole 24 Ore, Il Mondo, Mondo Economico e Capital. Nel 1989 entra nel gruppo Mondadori dove si occupa, fin dal primo numero, dell’allora Giornale della Banca (dal 2000 BancaFinanza). Nel 2000, con il passaggio delle tre testate a Newspapermilano, società che faceva parte del gruppo che edita il quotidiano “Il Giornale”, viene chiamata a dirigere BancaFinanza e Giornale delle Assicurazioni. Nel giugno 2013 assume anche la guida di Espansione. Dal novembre 2015 al dicembre 2020 è direttore delle testate editoriali Le Fonti e responsabile dei canali tv asset e insurance. Attualmente è direttore editoriale di ILI Editore. Tra le sue attività vanno ricordate le diverse pubblicazioni specializzate in economia e finanza tra cui il libro “Europa oltre le Nazioni”, edito da Mimesis, le lezioni in materia di finanza internazionale, tenute all’Università di Torino.

Sabrina Cohen-La filantropia del domani è già cominciata oggi

Sostenere cause filantropiche che abbiano un percorso definito, processi chiari e trasparenti e un obiettivo raggiungibile è importante tanto quanto decidere di effettuare una donazione. Ridare alla comunità che ha contribuito al successo di una persona e contribuire alla risoluzione di un problema in maniera efficiente sono due delle spinte chiave e più facilmente riscontrabili tra filantropi e persone di buon cuore in Italia, come pure nel resto del mondo. La pandemia ha di certo modificato la vita di centinaia di milioni di persone nel mondo, ma ha anche solo che accelerato la voglia di contribuire alla risoluzione dei grandi problemi della Terra. Fino al 2019 molti si limitavano a pianificare lasciti, che avrebbero trovato esecuzione solo dopo aver concluso la vita terrena, ora, invece, si pensa più a qualcosa che possa dare le sue evidenze ora, quando siamo ancora in vita. Può sembrare un elemento banale, ma in realtà è cambiato negli ultimi due anni il modo in cui facciamo beneficenza: ascoltiamo maggiormente le idee dei più giovani, iniziamo a donare non solo per le emergenze, ma anche in progetti di più lungo respiro, i cui effetti saranno visibili solo a distanza di anni.

Chiediamo, soprattutto, maggiori informazioni su come vengano investiti i fondi e quanto – in termini percentuali – viene effettivamente investito in un programma e in quanto tempo si arriva, presumibilmente, alla risoluzione del problema, o come si può contribuire alla sua risoluzione.

Sono ancora tante le organizzazioni benefiche e le fondazioni che sostengono costi amministrativi e di gestione spesso esorbitanti, e questo va a discapito della buona riuscita dei programmi stessi.

Fortunatamente, sta crescendo però anche il numero di organizzazioni che, grazie ai grandi benefattori, riesce a coprire la stragrande maggioranza dei costi e favorisce il buon esito dei programmi. La fondazione UBS Optimus, ad esempio, creata da UBS oltre 21 anni fa su richiesta dei suoi clienti, opera e garantisce che il 100% delle donazioni ricevute siano destinate unicamente ai programmi filantropici della fondazione stessa. Ma fortunatamente abbiamo molti altri casi nazionali e internazionali ad ispirarsi allo stesso principio, penso ad esempio ai “Bambini del Danubio” di Trieste o “Con i Bambini” parte della “Fondazione con il Sud” di Roma, che operano seguendo la stessa logica dando chiarezza al fine delle donazioni. E sono solo alcune delle centinaia di organizzazioni che calcolano anche l’impatto sociale delle donazioni.

Il filantropo/a o in maniera più estesa qualunque benefattore/ice, è invogliato a dare, sapendo che il suo denaro verrà completamente destinato al progetto in esecuzione.

Nell’estate del 2014 – ben prima dell’arrivo di Instagram, TikTok, SnapChat e altre piattaforme social – Ice Bucket Challenge è diventato un fenomeno virale e globale. Dalla gente comune fino ai più importanti top managers delle maggiori multinazionali globali hanno deciso di versarsi addosso catini colmi di acqua e ghiaccio per raccogliere fondi per la ricerca e lo studio della SLA. Ai tempi furono raccolti globalmente oltre USD 220 milioni. Bene, a distanza di oltre 8 anni, anche grazie a quei fondi, la ricerca ha fatto passi avanti da gigante e uno dei medicinali messi a punto è stato approvato agli inizi di settembre dalla Food and Drug Administration, in USA. É un esempio pratico di come l’unione non solo faccia la forza, ma che se il denaro è veicolato su una causa e la ricerca di una soluzione, insomma focalizzato, si possano trovare soluzioni ideali per tutti.

 

E’ a capo della Client Strategy and Development di UBS WM Europe dal novembre 2020. E’ entrata in UBS a Zurigo nel 2012 e nel 2018 si è trasferita a NY per seguire lo sviluppo dell’area filantropica. Dalla fine degli anni 90 al 2011 è stata giornalista per testate italiane e internazionali come Bloomberg e Dow Jones/Wall Street Journal lavorando da Londra, New York e Milano, seguendo banche e assicurazioni a livello pan-Europeo.

Gloria Gatti-Autenticazione di opere d’arte: siamo sulla strada giusta?

Il 2021 può essere considerato un anno epocale per il diritto dell’arte e, forse, anche per il mercato stesso. In un articolo pubblicato sul Giornale dell’Arte, mi chiedevo se «in caso di sospetta contraffazione di un’opera d’arte la sola opinione dell’Archivio intitolato all’artista fosse sufficiente per una condanna» a proposito della sentenza emessa dal Tribunale di Milano, n. 6004 del 28 ottobre 2020 relativa ad un’opera di Josef Albers. Sottolineavo in particolare che «la credibilità e attendibilità delle dichiarazioni rese della parte civile nel processo penale, quand’anche autorevole, è in genere circondata da molte cautele e ancora più rigore dovrebbe essere richiesto quando l’archivio che ha anche “il monopolio” sul rilascio dei certificati di autenticità è proprietario di opere e, quindi, inevitabilmente portatore di interessi economici sul mercato ed esposto al rischio di versare in situazioni di potenziale conflitto d’interesse>>. Per quanto la rarità non sia che uno dei fattori di accrescimento del valore, in astratto, infatti, il “potere” di ridurre il numero delle opere di un artista disponibili per la vendita, negandone l’archiviazione, potrebbe produrre come effetto l’incremento di valore delle opere di proprietà che l’archivio immette sul mercato. Nel caso di specie sul sito web della Josef and Anni Albers Foundation è espressamente dichiarato che “la Fondazione vende un piccolo e selezionato gruppo di dipinti e stampe attraverso i suoi rappresentanti autorizzati” e che “la Fondazione ha nominato la David Zwirner Gallery di New York e Londra come suo rappresentante esclusivo in tutto il mondo”», e, per le opere di grafica in edizione, dalla Cristea Roberts Gallery di Londra. Quelle mie argomentazioni, condivise da molti collezionisti, sono state fatte proprie dalla Corte d’Appello di Milano n. 7148 del 3 novembre 2021 che ha assolto il gallerista Gabriele Seno perché il fatto non costituisce reato e ha motivato che «il vaglio di attendibilità doveva essere ancora più penetrante in considerazione del fatto che l’Archivio, che possiede il monopolio sul rilascio dei certificati di autenticità, risulta altresì proprietario di opere e, quindi, inevitabilmente portatore di interessi economici sul mercato, dovendosi ipotizzare anche un potenziale conflitto d’interesse>>. La Fondazione Albers, infatti, si occupa anche di “vendere al pubblico un limitato numero di opere attraverso i suoi rappresentanti autorizzati”. Gli archivi a memoria d’artista si pongono il fine statutario di “incentivare gli studi e favorire la conoscenza della figura e dell’opera di un Artista, promuovendo ricerche e iniziative direttamente o in collaborazione con altri organismi pubblici e privati; catalogarne la produzione autentica nella massima trasparenza di metodo e rapporti”, o più semplicemente sono ”la struttura più o meno formale creata per assicurare, in accordo con l’artista o dopo la sua morte, la difesa e la promozione della sua opera”, a cui è stata riconosciuta iure proprio la titolarità a titolo originario alla propria identità personale ed alla «immagine», quale ente collettivo, per statuto preposto alla protezione e promozione della figura, della memoria e dell’opera di un determinato artista, come chiarito dalla Cassazione Civile, Sez. 1 n. 2039 Anno 2018.
Ma quella degli Archivi d’artista, al pari di qualunque altro soggetto che ritenga di averne le competenze, è  una expertise su una determinata opera, che nulla vale più di un’opinione tra tante, quale estrinsecazione della libertà di pensiero e non ha, né può avere, alcuna fede privilegiata né nel processo civile, né tanto meno in quello penale, vieppiù quando l’archivio è portatore di un interesse economico proprio nel mercato e quando detiene una quota rilevante di opere, il cui valore può potenzialmente accrescere attraverso piani strategici di valorizzazione che potrebbero essere addirittura anticoncorrenziali. Proprio per compensare il «piano strategico (…) di ritirare l’arte di Rauschenberg dal mercato, al fine di evitare un calo di valore da parte di speculatori o collezionisti che inondavano il mercato con la sua arte», ai tre componenti del Robert Rauschenberg Trust, avente come beneficiaria la Rauschenberg Foundation, è stato giudizialmente riconosciuto il diritto al compenso di 24 milioni di dollari, da dividersi equamente (Robert Rauschenberg Foundation, v. Bennet Grutman, Bill Goldston, and Darryl Pottorf, 2016). Ed è anche ben noto che molti comitati americani per l’autenticazione (Pollock-Krasner Foundation, Andy Warhol Foundation for the Visual Arts, Roy Lichtenstein Foundation), non potendo beneficiare del salvacondotto concesso agli eredi dal diritto morale d’autore, sono stati sciolti o hanno cessato di «erogare tale servizio», per preservare il patrimonio della Fondazione dalle richieste di risarcimento dei collezionisti che si erano visti cassare le loro opere. E proprio per un asserito conflitto d’interessi Brian Clarke, uno dei due esecutori testamentari di Francis Bacon, deceduto lasciando come unico erede il compagno John Edwards, è riuscito ad ottenere una declaratoria di decadenza dalla nomina dell’altro esecutore, poiché si trattava di dirigente della Marlborough Gallery, che aveva sempre rappresentato l’artista ed era titolare di interessi propri. Dopo la morte di John Edwards, anche Brian Clarke è, però, caduto in un palese conflitto di interessi quando ha assunto la direzione del Bacon Estate, una LTD, che gestisce il monopolio sul vero e sul falso del pittore inglese, che ha recentemente “dannato” le opere della Collezione Barry Jaule donate alla Tate e tutti i disegni italiani di Ravarino.

 

Avvocato, iscritto all’Ordine di Milano, patrocinante in Cassazione.

Assiste abitualmente, sia in sede giudiziale che stragiudiziale, imprese multinazionali ed imprese italiane leader di settore, nonché prestigiose istituzioni culturali italiane e straniere, case d’asta, archivi d’artista, privati collezionisti e artisti nei diversi ambiti (civile, penale e amministrativo) del diritto dell’arte e dei beni culturali in Italia e all’estero.

È sovente chiamata come docente in corsi di formazione specialistica, come relatore in convegni, seminari e webinar.

È giornalista pubblicista dal 2012 e collabora con diverse testate specializzate nel diritto dell’arte e dei beni culturali in particolare con Il Giornale dell’Arte.

Amedeo Lepore-Strategie economiche per battere la crisi

Lo scenario prossimo venturo dell’economia delineato dalle analisi più recenti induce a serie preoccupazioni e a una maggiore consapevolezza degli interventi di fondo necessari. Il contesto odierno è caratterizzato da un insieme di focolai di crisi, che vanno dall’impennata dei prezzi dell’energia, alla scarsità di molte materie prime e al rincaro smisurato del carrello della spesa e delle bollette. Il combinato disposto di queste circostanze annuncia l’avvento di un anno tormentato, segnato, con ogni probabilità, da una recessione di non breve durata, a meno di un cambiamento significativo dello scenario generale. Il Rapporto del Centro Studi di Confindustria, pur mostrando finora un ottimo andamento delle esportazioni (con un aumento del 7,9% a prezzi costanti, rispetto alla media dello scorso anno) e un recupero più accentuato dell’economia italiana in confronto a quella degli altri Paesi europei (con una crescita acquisita del Pil pari al 3,6% per il 2022, contro il 3,2% dell’eurozona), prevede una “crescita zeroper il 2023. L’Italia, quindi, si troverà al centro di un’elevata inflazione e una dolorosa stagnazione produttiva. Per Christophe Morel, capo economista di Groupama Asset Management, nei Paesi sviluppati non si tratterebbe di una stagflazione, poiché la riattivazione delle attività economiche ai livelli precedenti al Covid-19 sembra rendere la condizione attuale simile a un fenomeno di reflazione. Inoltre, sta prendendo piede la cosiddetta “shrinkflation” da parte delle multinazionali, che riducono la quantità di prodotto contenuta nelle confezioni, senza diminuire i prezzi al pubblico, creando, in questo modo, un’inflazione occulta. Dal canto suo, in un articolo sulla “grande stagflazione” in arrivo, un economista come Nouriel Roubini ha colto il pericolo di una recessione “grave e prolungata, con diffuse difficoltà finanziarie e crisi del debito”, che non permette affatto un atterraggio morbido e rischia di provocare addirittura un crollo dell’economia. Il Fondo Monetario Internazionale ha nuovamente rivisto al ribasso le sue previsioni di crescita, ipotizzando che un terzo dell’economia mondiale entrerà in recessione tra il 2022 e il 2023. Il “Global economic outlook” per il quarto trimestre 2022 descrive un’economia mondiale in preda a “forti venti contrari”, a causa del conflitto in Ucraina, dell’inasprimento monetario globale e del rallentamento della crescita cinese. Questo frangente dovrebbe proseguire per il prossimo anno, con perduranti interruzioni delle catene di fornitura e innalzamenti dei prezzi dell’energia, accompagnati da un’intensificazione degli sforzi delle principali banche centrali per mettere sotto controllo l’inflazione. Secondo l’EIU, il razionamento del gas e l’ulteriore rialzo dei prezzi dell’elettricità porteranno l’eurozona a patire una recessione per l’intero 2023. Insieme a Germania e Austria, che dipendono decisamente dal gas russo e non hanno fonti di approvvigionamento alternative, anche l’Italia sarà duramente colpita dalla crisi energetica. La stima di crescita per l’anno venturo, in questo documento, è negativa per Francia (-0,3%), Germania (-1%) e Italia (-1,3%). Completano il quadro europeo, standard ancora elevati di inflazione, cali di fiducia nelle possibilità di ripresa e riduzioni del commercio estero, che contribuiscono all’estrema debolezza della performance economica globale nel 2023. The Economist ha pubblicato un rapporto speciale sull’economia mondiale, nel quale indica le sfide da sostenere nel breve e nel lungo termine. Nel periodo più immediato, l’entità straordinaria della spesa pubblica per contrastare gli effetti della pandemia, della guerra e della stangata energetica complicherà il perseguimento dell’obiettivo di un’inflazione al 2%, ponendo un arduo problema alle banche centrali e ai governi. In un arco di tempo più vasto, l’intento sarà quello di scongiurare le crisi fiscali, cercando di affrontare il dilemma dell’invecchiamento della popolazione, che comporta un incremento degli interventi per l’assistenza sanitaria e le pensioni. Il rapporto, pur rimarcando le differenze tra le scelte seguite alla crisi finanziaria globale del 2007-2009 e quelle successive agli eventi imponderabili del 2020, evidenzia una notevole inversione di tendenza nei Paesi avanzati, il cui esito potrebbe essere una contrapposizione tra le strategie monetarie molto restrittive di banche centrali aggressive e le politiche fiscali ampiamente espansive di governi prodighi, ostacolando la lotta all’inflazione e indebolendo i propositi di ripresa. Da queste valutazioni, dunque, scaturisce l’esigenza di fare “lavorare in tandem” le opzioni in campo monetario e fiscale, provando a regolare le diverse intensità dei tassi di interesse, dei sostegni alle imprese e degli stimoli agli investimenti produttivi in maniera articolata, in base alla tendenza dei principali indicatori macroeconomici. Così, una situazione complessa e sfavorevole potrebbe, paradossalmente, fornire strumenti efficaci per una politica economica inedita, accorta e vantaggiosa al tempo stesso. Non è certamente un compito agevole, soprattutto in questo momento. L’Europa, se vuole continuare a dare la buona prova di cui è stata capace dopo la pandemia, deve intessere con grande avvedutezza la tela di una strategia coraggiosa e condivisa, superando ogni tentazione alla frammentazione e all’inseguimento di fragili interessi unilaterali.

 

 

Professore Ordinario di Storia Economica presso il Dipartimento di Economia dell’Università della Campania Luigi Vanvitelli. È docente presso il Dipartimento di Impresa e Management della LUISS Guido Carli di Roma. Ha svolto insegnamenti in diverse Università italiane e straniere. È componente del Consiglio di Amministrazione della SVIMEZ, per la quale coordina il progetto di ricerca e il gruppo di lavoro su “Le origini, l’evoluzione e le prospettive della bioeconomia e dell’economia circolare in Italia e nel Mezzogiorno”, costituito in collaborazione con ENEA, SRM e Spring. È membro del Consiglio Direttivo del Cluster italiano della Bioeconomia Circolare “Spring”. È socio dell’Accademia Pontaniana, nella Classe di Scienze Morali. Fa parte di Comitati scientifici e di Redazione di varie riviste nazionali e internazionali. Ha ricevuto riconoscimenti internazionali per la sua attività di studio e di ricerca. Ha pubblicato volumi e saggi, in Italia e all’estero. I suoi attuali ambiti di ricerca riguardano la storia dell’economia euro-atlantica, il processo di globalizzazione nei suoi vari aspetti, le dinamiche dell’innovazione e delle tecnologie, l’impatto sull’economia della pandemia di Covid-19, le dinamiche dell’economia circolare, l’evoluzione dell’impresa contemporanea, la storia del dualismo economico italiano. Ha svolto anche ruoli istituzionali legati alle sue competenze economiche, da ultimo come Assessore alle attività produttive della Regione Campania.

Francesca Sanguineti-Le catene del valore globali: quali tendenze ne guidano la riconfigurazione?

Negli ultimi anni le aziende si sono trovate a dover affrontare shock esterni e tendenze di mercato che hanno rivoluzionato il loro modo di fare business. Già dalla metà dello scorso decennio con il boom delle tecnologie digitali ci siamo infatti trovati di fronte a scenari in cui le catene del valore globali stavano iniziando a subire forti variazioni. Si ipotizzava allora, e si inizia a vedere in pratica oggi, una economia indirizzata a sviluppare prodotti sempre più personalizzati in base alle esigenze del consumatore finale. È il caso di brand globali come, ad esempio, Nike e Adidas che hanno sviluppato partnership rivolte all’utilizzo di tecnologie come la stampa 3D per permettere ai loro consumatori di creare le scarpe esattamente come le vogliono e ritirarle, dopo solo qualche ora, in store dedicati. Emerge quindi la tendenza di unire il fisico al digitale, offrendo un prodotto che venga visto dal consumatore come un’esperienza vera e propria. Assisteremo pertanto ad un accorciamento delle catene del valore che dovrebbe portare anche ad una maggiore flessibilità delle stesse. Produrre il bene al momento dell’acquisto, ad esempio, elimina le attività di trasporto e stoccaggio riducendo non solo i costi, ma anche l’impatto ambientale. Non dimentichiamo difatti quanto l’attenzione alla sostenibilità sia diventata ormai fondamentale – se già dal 2010 la sensibilizzazione ad aspetti ambientali, economici, e sociali aveva iniziato ad avere un peso importante sulle strategie aziendali, ora le aziende sono quasi obbligate ad affrontare tali questioni con obiettivi sempre più orientati ai diversi livelli di sostenibilità. Le tecnologie sembrano essere uno strumento per raggiungere proprio questi scopi. Gli shock esterni degli ultimi anni, e mi riferisco principalmente alla pandemia, alla collegata shortage economy, alle conseguenze della guerra Russia-Ucraina ma non esclusivamente a queste ovviamente, hanno portato le imprese attive a livello globale a dover scovare alternative a materie prime, fornitori, ma anche a mezzi per raggiungere i loro consumatori. Le aziende che si sono trovate e tuttora si trovano a dover gestire la mancanza o il forte aumento del costo delle materie prime, hanno iniziato a pensare a strategie alternative per coprire tali mancanze e per non trovarsi, in futuro, a non poter produrre o vendere i loro prodotti per una motivazione indipendente dalle loro scelte dirette. A cosa stiamo assistendo, quindi, ora? Si parla di reshoring, backshoring, nearshoring, ossia di una rilocalizzazione delle attività produttive o di parte della catena del valore nel paese di origine dell’azienda o in un paese vicino in termini di prossimità geografica, da un paese nel quale si era intrapresa precedentemente un’operazione di offshoring, ossia il portare in un paese estero parte dell’attività produttiva dell’azienda. Allo stesso modo si parla di sviluppi interni di materie prime alternative. Tra gli esempi principali figura l’azienda Gresmalt che sta sviluppando piastrelle in ceramica da argilla italiana, da sostituire a quella ucraina (interessante sottolineare come questo progetto sia iniziato prima del covid e ancora prima della guerra correntemente in atto). Quanto impattanti e quali siano effettivamente le varie dinamiche che stanno modificando le catene del valore delle aziende nei vari paesi ad oggi è però di difficile definizione. Manca una vera e propria banca dati che raccolga al suo interno le informazioni necessarie a rispondere a tali quesiti. A questo proposito, come team dell’Università di Pavia, in collaborazione con partner aziendali e istituzionali di eccellenza, abbiamo appena lanciato l’Osservatorio ReValue Chains che ha l’obiettivo di analizzare le dinamiche delle catene del valore globali, con particolare attenzione alla resilienza e alle potenziali riconfigurazioni delle stesse a seguito di eventi disruptive come quelli precedentemente menzionati. Solo raccogliendo dati ed esperienze dirette delle aziende potremo avere una visione più precisa del panorama attuale a livello italiano, europeo e globale.

 

Ricercatrice presso l’Università di Pavia, ha trascorso alcuni anni ricoprendo ruoli manageriali nel campo della consulenza e del retail prima di intraprendere la carriera accademica. Ha conseguito il dottorato a Pavia ed è stata visiting scholar a Georgia State University. Dal 2019 è co-lecturer del corso Strategic Management presso IES Abroad Milano e dal 2022 del corso di Digital Marketing a Pavia. Ha optato però per la vita da pendolare per poter mangiare focaccia e cappuccino ogni mattina. Con uno sguardo sempre rivolto verso fenomeni di business a livello internazionale, è interessata a studiare l’impatto delle tecnologie dell’Industry 4.0 sul panorama imprenditoriale attuale e, nello specifico, sulle catene del valore globali e sulla loro sostenibilità.

Helga Zanotti-PMI e digitalizzazione per nuovo Rinascimento Italiano

Without data you’re just another person with an opinion”. Edwards Deming con questa frase insegna che i dati sono fondamentali, mentre le opinioni non trovano spazio nelle organizzazioni moderne. L’Unione Europea sembra condividere pienamente questa visione, focalizzandosi sempre di più sul valore dei dati e la digitalizzazione di processi e servizi. Dal Regolamento n. 679 del 2016 in materia di trattamento dei dati personali e privacy, al Regolamento n. 881 del 2019 relativo all’ENISA, l’Agenzia europea per la cybersicurezza, per finire con la proposta di regolamento sull’intelligenza artificiale del 21 aprile 2021, la digitalizzazione sembra essere la risposta alle domande dei cittadini e del mercato. È la stessa Commissione Europea ad affermarlo, valutando che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC) non sono più un settore autonomo e indipendente dagli altri, ma il fondamento comune di tutti i sistemi economici innovativi moderni. Tra i sistemi di monitoraggio del grado di digitalizzazione dell’Unione Europea spicca DESI, l’indice europeo dell’economia e della società digitale. Nel quadro disegnato da questo sistema, l’Italia occupa gli ultimi posti, perciò sembrerebbe in fase negativa. Se leggiamo attentamente i report di DESI, però, notiamo come il ruolo del commercio elettronico nel fatturato delle PMI stia subendo un incremento, dal 2016 al 2021, a testimonianza della chiara percezione dell’imprenditoria sui vantaggi che provengono dal eBusiness. In altre parole, stiamo recuperando terreno nella media europea. Nel comunicato stampa del 28 luglio 2022, DESI mette a fuoco la necessità di incrementare le competenze digitali, digitalizzare le Piccole e Medie Imprese e diffondere le reti 5G avanzate, colmare le lacune in termini di competenze digitali, digitalizzazione delle PMI e diffusione di reti 5G avanzate. Il dispositivo per la ripresa e la resilienza, rende disponibili circa 127 miliardi di euro per riforme e investimenti nel settore digitale, funzionali all’accelerazione della trasformazione digitale. In termini di tempo, è Margrethe Vesthager a decretare l’urgenza della trasformazione digitale. Benché il decennio digitale, nel quale raggiungere gli obiettivi termini nel 2030, Margrethe Vesthager nel 2022 ha dichiarato “il cambiamento deve realizzarsi da subito”. Il Commissario per il Mercato interno, Thierry Breton, ha puntato ancor più in alto: “dobbiamo continuare a impegnarci per fare dell’UE un leader mondiale nella corsa alla tecnologia”. Il DESI ci mostra dove dobbiamo impegnarci ancora più a fondo, ad esempio per stimolare la digitalizzazione dell’industria, comprese le PMI. Dobbiamo intensificare gli sforzi affinché nell’UE ogni PMI, ogni impresa e ogni settore disponga delle migliori soluzioni digitali e abbia accesso a un’infrastruttura di connettività digitale di prim’ordine. Nella visione per il decennio digitale europeo la Commissione ha indicato gli obiettivi e le modalità, per conseguire la trasformazione digitale dell’Europa entro il 2030, fondamentale anche ai fini della transizione verso un’economia a impatto climatico zero, circolare e resiliente. L’obiettivo della Unione Europea può identificarsi con la sovranità digitale in un mondo aperto e interconnesso, attraverso politiche per il digitale, che garantiscano ai cittadini e alle imprese l’autonomia fondamentale per conseguire un futuro digitale antropocentrico, sostenibile e più ricco. Per raggiungere questo scopo occorre eliminare le vulnerabilità e le dipendenze, nonché intensificare gli investimenti. Cittadini e aziende hanno beneficiato delle tecnologie digitali durante la crisi da Covid-19 e saranno il fattore di differenziazione trainante nella trasformazione verso un’economia post-pandemica sostenibile. Le imprese, le cittadine e i cittadini europei hanno maggiori opportunità digitali, che promuovono la resilienza e riducono le dipendenze a tutti i livelli, dai settori industriali alle singole tecnologie. Nel Libro bianco sull’intelligenza artificiale si annuncia il focus degli interventi normativi sulla digitalizzazione europea e le opzioni strategiche per raggiungere il duplice obiettivo di promuovere l’adozione dell’Intelligenza Artificiale e affrontarne i rischi derivanti. La proposta di Regolamento Europeo sull’intelligenza artificiale dell’aprile 2021 così come il Regolamento Europeo n. 679 del 2016 sul trattamento dei dati personali e la privacy, o il Digital Service Act, cioè il Regolamento Europeo relativo ai servizi della società dell’informazione mira a proteggere imprese, cittadini e cittadine dal rischio che le nuove tecnologie portano con sé.

Ciò che accomuna le norme europee del decennio 2020/2030 è la promozione della digitalizzazione europea con gli occhi puntati sui rischi per le persone, che le nuove tecnologie portano con sé. Nel diritto statunitense manca il focus sui diritti delle persone, che il diritto comunitario protegge dai rischi legati alle nuove tecnologie fin dalla sua nascita. Si tratta di una sfida che abbiamo già vinto.

 

Laureata all’Università degli Studi di Pavia in Diritto Internazionale, Alumna del Collegio Nuovo Fondazione Sandra ed Enea Mattei. Executive MBA con focus sull’innovazione digitale, successivamente Master sulla protezione dei dati e Master sui contratti on line. Incarico triennale in Diritto Privato presso l’Università degli studi di Bergamo, attualmente ha un incarico in Diritto della Comunicazione per le imprese e i media, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Tutor di Diritto delle nuove tecnologie per il Master in International Business Entrepreneurship dell’Università di Pavia. Si occupa di compliance e contrattualistica, con particolare riferimento ai contratti d’impresa anche on-line, per gli studi legali BMV Law Tax Finance e Fenice Law&Consulting, per i quali è of counsel, gestisce la negoziazione, la redazione e la stipula di contratti e accordi nazionali ed internazionali focalizzati sul Fintech e sulle nuove tecnologie; ha maturato una competenza significativa e particolarmente marcata anche nella gestione della compliance aziendale.

Elena Monticelli – Il Codice della crisi d’impresa: opportunità per salvare l’economia?

Il nuovo Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza richiede un cambio culturale radicale, poiché non si tratta del solito recepimento di una Direttiva Comunitaria, bensì dell’introduzione di un nuovo modo di “fare impresa”, dove la scommessa per il risanamento del tessuto imprenditoriale risulta puntata tutta sulla prevenzione. Un panorama di norme che costituiscono una sorta di accompagnamento obbligato dell’imprenditore a fare il punto della situazione sul reale andamento della propria impresa non più quando quest’ultima è già in crisi – come avveniva in passato -bensì quando possono essere ancora selezionate le misure di risanamento. L’imprenditore viene dunque costretto a prendere contezza precocemente di eventuali segnali di crisi, mediante un monitoraggio costante della gestione aziendale al fine di adottare rapidamente le misure di salvaguardia. Più precisamente, già dalla lettura dell’art. 3 del Codice della Crisi, intitolato “Adeguatezza delle misure e degli assetti in funzione della rilevazione tempestiva della crisi di impresa” si evince in modo esplicativo l’intenzione del legislatore di dettare specifiche norme sulla prevenzione della crisi, sia per l’imprenditore individuale che per l’imprenditore collettivo. In particolare, l’art. 3, primo comma, prevede che “l’imprenditore individuale debba adottare misure idonee a rilevare tempestivamente lo stato di crisi ed assumere senza indugio le iniziative necessarie a farvi fronte”; mentre, sempre l’art.3, secondo comma, prevede che  “l’imprenditore collettivo debba istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato ai sensi dell’art. 2086 c.c. ai fini della tempestiva rilevazione dello stato di crisi e dell’assunzione di idonee iniziative, attivandosi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale”. La potenziale efficacia del nuovo Codice della Crisi d’Impresa che trae origine dalla Riforma Rordorf sarà pertanto direttamente proporzionale alla reale e leale applicazione delle idonee misure e degli adeguati assetti per la rilevazione della crisi. La mancata adesione agli adeguati assetti potrà, in ogni caso, configurare responsabilità a carico degli amministratori nei confronti dei creditori sociali. In caso di squilibrio patrimoniale o economico finanziario che rendano probabile la crisi o l’insolvenza dell’impresa e nel caso in cui ne risulti ragionevolmente perseguibile il risanamento, l’imprenditore commerciale o agricolo potrà presentare istanza per la Composizione Negoziata per la risoluzione della Crisi di Impresa. Questo nuovo strumento – introdotto dalla Legge 147/2021 e fatto confluire con il D.lgs.83/2022 (c.d. “decreto insolvency”) nel Codice della Crisi – consentirà alle imprese di attivarsi rapidamente – mediante il portale della Camera di Commercio – per comporre la propria crisi con i creditori, mediante la nomina di un Esperto Negoziatore. Il nuovo Codice introduce altresì nuove procedure per la salvaguardia della continuità aziendale. La Riforma Rordorf privilegia infatti la continuità aziendale che viene vista come filo conduttore di tutto il nuovo Codice, quale obiettivo da realizzare ogni qualvolta un’impresa possa tornare a produrre reddito in un tempo ragionevolmente contenuto; una presa d’atto che l’intercettazione precoce dei sintomi della crisi di un’impresa offre – rispetto al fallimento della stessa – maggiori opportunità di risanamento per tutta l’economia, con benefici sul piano occupazionale, della finanza pubblica e degli investimenti.

 

 

 

Avvocato Cassazionista del foro di Cremona, di cui è Gestore della Crisi da Sovra-indebitamento, iscritta presso il Registro dell’O.C.C., iscritta nell’Elenco dei Professionisti Delegati alle Vendite Immobiliari (è relatrice/docente di corsi di Alta Formazione in materia). Esperto Negoziatore della Crisi di Impresa presso la Camera di Commercio di Milano, iscritta nell’Elenco dei Curatori Fallimentari, Commissari Giudiziali, Liquidatori del Tribunale di Cremona, si occupa prevalentemente di consulenze e procedure in materia di Crisi di Impresa. Scrive trimestralmente rubriche legali, da oltre 10 anni, in materia di Impresa e di Crisi, per il Magazine Imprese di Confartigianato Cremona, di cui è legale fiduciario esterno, da oltre 25 anni, prestando assistenza in tutte le materie legate all’Impresa, compreso il contenzioso tributario. Accreditata Expertise di Partner 24ORE nella materia di Crisi d’Impresa – Composizione e Gestione della Crisi.

Kevin Giorgis-Formazione e tecnologia: la persona prima di tutto

La formazione del futuro sarà sempre più digitale. La pandemia ha solo accelerato e reso strutturale un processo in essere già da tempo, una necessaria spinta al cambiamento per rendere più snello, efficiente ed efficace l’apprendimento in un’epoca dominata dalla tecnologia digitale. La famosa didattica a distanza che ha coinvolto migliaia e migliaia di studenti è stata solo un banco di prova necessario, seppur difficile in alcune fasce d’età, andando però a rispondere all’esigenza di continuare la formazione anche quando l’accesso fisico alle scuole non era possibile. Figlio dell’emergenza, l’ampio uso dell’e-learning ha però messo in luce un’altra verità e in determinati contesti, soprattutto in ambito universitario e in quello dei corsi professionali e aziendali, sembra difficile pensare ad un futuro senza l’adozione su ampia scala di questo strumento. Se l’immaginario comune pensa soprattutto alla didattica a distanza quando si associa la tecnologia alla formazione, in realtà l’EdTech, l’Educational Technology, è molto di più. È una nuova concezione, è la consapevolezza del ruolo dei processi digitali nella formazione continua di un lavoratore, dell’aggiornamento professionale e dell’acquisizione di nuove competenze. Un mondo molto più ampio di quello che riguarda la carriera scolastica “tradizionale” e che si avvarrà sempre di più di strumenti digitali e altamente tecnologici per perfezionare un processo, rendere più efficace l’apprendimento ed evitare la dispersione di tempo in pratiche puramente gestionali. Ottimizzare, insomma, per essere più performanti nel compito educativo, accompagnando un progresso sostenibile in tutti gli ambienti educativi sensibili all’innovazione, con la volontà nobile di rendere l’educazione sempre più accessibile.  Sviluppare la tecnologia in determinati ambienti di formazione, soprattutto a livello professionale, ossia in quel processo che accompagnerà gran parte di noi per tutto l’arco della vita lavorativa, è un progresso in termini di risorse economiche, umane e di prestazioni. L’adozione di soluzioni altamente tecnologiche nel campo dell’apprendimento dev’essere accolta con entusiasmo e consapevolezza, perché rappresenta un’evoluzione del processo formativo, una miglioria che non toglie nulla al fattore umano, sempre al centro anche quando si parla di intelligenza artificiale e machine learning.

 

 

Cuneese classe 1997, è il cofondatore di Wyblo, giovane startup nata dalla necessità di perfezionare i processi di formazione, con la volontà di ottenere velocemente e in modo strutturato il livello di soddisfazione dei partecipanti a un corso. Ha studiato Management e Marketing all’Università di Bologna e uno scambio alla University of California Riverside. Ha poi continuato gli studi frequentando il Master’s in Strategy and International Management alla University of St. Gallen in Svizzera. È cofondatore di EdTech Italia, la prima associazione italiana che riunisce i diversi stakeholders nel mondo education technology. Infine, sta co-creando l’EdTech Garage, community europea a supporto delle startup early-stage EdTech per l’internazionalizzazione e fundraising. Vive da nomade digitale.

Carlo Casarico-Macro o Micro influencer, purchè se ne parli

I fatti: da qualche anno gli investimenti pubblicitari globali sono maggiori sul digitale rispetto ai vecchi media (tv, stampa e radio). Il trend è in costante crescita, e da qui non si torna più indietro. Il motivo è semplice e non è da ricondurre agli strascichi della pandemia: il marketing digitale è maggiormente performante, misurabile, verticale e confidenziale. E tra i vari filoni innovativi di comunicazione utilizzati, uno sta diventando maggiormente interessante per le aziende: il mondo degli influencer. Diamo qualche numero: si stima che il ritorno di una campagna di influencer marketing strutturata correttamente sia in grado di fruttare circa quattro volte l’investimento fatto. Più del 60% dei consumatori si informa tramite creator, blogger o driver di acquisto prima di comprare un prodotto in un negozio, sia esso fisico o online. C’è di più: ricerche e sondaggi hanno fatto emergere come 1 italiano su 3, nella fascia di età compresa tra i 18 e i 54 anni, decida di compiere un acquisto perché espressamente consigliato dall’influencer di riferimento. Tale preferenza è dettata da diverse “necessità” che i content creator sanno intercettare: ricevere consigli di acquisto, ascoltare gli “esperti in materia” o trovare modelli di riferimento in cui identificarsi. I settori che maggiormente sfruttano questo tipo di marketing sono quello del beauty, del make up, della tecnologia e del food; tuttavia è possibile applicarlo a moltissime attività B2C e, con le scelte giuste, B2B. Ed è proprio l’individuazione dei testimonial adeguati e corretti per il nostro target a sancire il successo o il fallimento di una campagna. In questo contesto è necessario specificare una distinzione fondamentale tra macro e micro influencer. Uno degli errori più grandi che si possano commettere quando ci si approccia a questo tipo di marketing è quello di pensare solo ai grossi driver di acquisto (Chiara Ferragni in testa). Infatti i macro influencer sono molto simili ai “testimonial” della pubblicità tradizionale: parliamo quindi di personaggi pubblici con un grandissimo seguito (milioni di follower) ma un pubblico di riferimento estremamente variegato. Questa tipologia di influencer è molto utile se l’obiettivo è il semplice e puro branding e notorietà del marchio, perde tuttavia di efficacia quando il nostro fine è una “conversione” ben definita da utente a cliente. Impostazione totalmente diversa arriva dai micro influencer. Precisiamo che la distinzione non va fatta soltanto sui numeri, ma anche e soprattutto sulla verticalità delle tematiche trattate. Quali sono dunque le caratteristiche fondamentali di questi nuovi “modelli”? Parlare ad una nicchia di pubblico ben specifica e targettizzata, ottenere un altissimo livello di affidabilità e avere un rapporto diretto con la propria community, composta da fan reali e già “autoprofilati”. Queste tre caratteristiche sono la vera forza dell’influencer marketing: è infatti molto più utile per un’azienda rivolgersi ad un “ambasciatore” con follower già in target preciso con il business che si va a sviluppare, piuttosto che “ingaggiare” testimonial con numeri molto elevati ma poco o nulla accomunati da un reale interesse comune. L’individuazione del creator corretto è però solo il primo passo di un processo che può decretare il successo o il fallimento di una campagna. Se da un lato è giusto voler controllare tutto ciò che viene pubblicato, dall’altro è opportuno concedere una certa dose di fiducia all’influencer in quanto miglior conoscitore dei gusti del proprio pubblico: solo il giusto mix tra controllo e creatività è in grado di restituire una campagna di successo. Inoltre è fondamentale conoscere le piattaforme su cui i creator si muovono e i relativi linguaggi. Per l’influencer marketing sono principalmente 2: Instagram e TikTok. La prima offre un linguaggio più tradizionale e patinato, parzialmente artefatto e già ben conosciuto dagli utenti della piattaforma. La seconda sta crescendo con una velocità mai vista prima per una piattaforma social, è caratterizzata da video veloci e maggiormente spontanei, con un coinvolgimento del pubblico eccezionale. Uno degli errori da evitare quando si parla dei succitati social è quello di pensare che si trattino di “giochi da ragazzi”: nulla di più sbagliato! Sono infatti sempre di più gli adulti che approdano su Instagram e TikTok, sia da utenti passivi che da utenti attivi. Date tali premesse, una delle ulteriori e principali motivazioni per cui le aziende decidono di affidarsi sempre di più all’influencer marketing per farsi conoscere è l’altissima misurabilità delle campagne effettuate. Infatti non soltanto è possibile conoscere precisamente il numero di contatti raggiunti, ma anche e soprattutto la quantità di interazioni e conversioni generate. Tramite il matching degli strumenti del marketing digitale con quelli dell’influencer marketing possiamo anche sapere quanti acquisti effettuati derivano dal singolo influencer, potendo quindi effettuare nel tempo campagne sempre più precise e mirate con i testimonial giusti per noi.

Le aziende, dunque, si trovano a dover affrontare una nuova sfida: comprendere quali siano gli influencer più vicini al loro target di pubblico è soltanto il primo step, successivamente è necessario formulare e strutturare un rapporto incentrato su risposte credibili e sincere, dove i contenuti siano basati su reale fiducia, interesse e valore.

 

Esperto di comunicazione e marketing digitale. E’ amministratore delegato di GGallery SRL e di CFactor, agenzia di talent management e influencer marketing

Riccardo Chiarelli-Una svolta culturale per soluzioni davvero innovative

La frase più pericolosa in assoluto è: abbiamo sempre fatto così”. Questa frase di Grace Murray Hopper preclude miglioramenti, aumenta l’inerzia al cambiamento e diventa un ostacolo insormontabile per innovare. Inoltre, chi la pronuncia (e chi la accetta come risposta) non sta riflettendo sul perché qualcosa si fa e se è possibile migliorarlo. I miglioramenti avvengono spesso dal mettere in discussione lo status quo ridefinendo quello che “si è sempre fatto così”. In questo momento storico, il digitale e l’innovazione tecnologica offrono un’opportunità continua per rianalizzare i processi aziendali ed i flussi produttivi per renderli più efficienti. Le aziende più performanti sono spesso quelle che abbracciano il cambiamento e si adeguano a nuovi modelli di business. Molti studi recenti di società di consulenza evidenziano come le imprese che adottano soluzioni digitali per i loro processi aziendali hanno un vantaggio competitivo e migliorano i loro risultati. Nessun settore è immune al cambiamento digitale. In genere, un settore è pronto per essere rivoluzionato (disrupted, in inglese) quando i processi con i quali opera sono gli stessi di 20 anni fa. Facciamo un esempio pratico: prendiamo un cantiere di costruzioni (edile, stradale o navale) o un intervento di manutenzione e pensiamo al lavoro svolto dagli operai. Se potessimo tornare a 20 anni fa, probabilmente vedremmo pochissime differenze con un cantiere odierno. La maggior parte dei documenti sono cartacei ed archiviati manualmente; qualcuno in ufficio, spesso con lunghe giornate di lavoro, deve tenere traccia dei vari documenti, dei costi, delle ore lavorate, dei materiali usati, con conseguente ritardo nel seguimento di cosa sta veramente accadendo nei vari cantieri aperti. Se poi qualcosa va storto, spesso per via di incomprensioni e ritardi, i contenziosi sono risolti con spese aggiuntive da parte delle parti coinvolte. Vero è che non tutti i cantieri sono uguali ed alcune imprese, spesso le più strutturate, si sono organizzate per restare al passo con i tempi. Nuove tecnologie sono in fase di sviluppo e qualcuna già utilizzata, alcune più futuribili di altre (BIM, droni per ispezioni, stampe 3D di muri e strutture…), e tutte volte a migliorare i risultati, rendendo il cantiere sempre più digitale. I cambiamenti a cui stiamo assistendo riguardano non solo l’utilizzo di nuovi strumenti avanzati, ma una svolta culturale che ha cambiato il modus operandi e anche la mentalità delle società di ingegneria, architettura e cantieristica. Chi vuole adattarsi ai nuovi modelli di business deve chiedersi cosa “si è sempre fatto così” e rimodellare la propria attività per un lavoro più agile. Le tecnologie più complesse sono ancora poco pratiche per aziende di piccole e medie dimensioni, ma molte altre sono pronte e già sul mercato. Nel 2022 non è più accettabile conoscere i costi di un cantiere con 3-4 settimane di ritardo, perdere rapportini cartacei, bolle e fatture. Per questi problemi, per esempio, alcune soluzioni offrono un’intelligenza artificiale per estrarre con una foto tutte le informazioni utili da una fattura e aggiornano automaticamente i costi del cantiere in tempo reale. I costi conosciuti subito possono essere analizzati facilmente e sapere dove si è a rischio di non starci dentro, agendo il prima possibile per correggere la cosa. Il digitale permette di rendere i processi più efficienti ed efficaci, facendo risparmiare tempo, risorse, e denaro, e di guadagnare un notevole vantaggio concorrenziale sui competitor. Le informazioni possono essere condivise facilmente, in tempo reale e permettere la comunicazione snella e diretta tra tutti gli attori del progetto. I contenuti sono accessibili dovunque tu sia. Così gli errori in fase di esecuzione sono risolti direttamente in campo, con un grande risparmio di tempo e di risorse. La collaborazione da remoto offerta dal digitale riduce le spese di viaggio e le trasferte, facilitando la risoluzione di problemi a distanza. Un altro punto importante è che, con il digitale, tutto è registrato, documentato e verificabile in tempo reale. Per questo si riduce notevolmente il margine di errore dovuto a un’errata trasmissione (o a una sbagliata interpretazione) dei dati, con notevole risparmio di tempo, risorse e denaro. Per esempio, i problemi associati a verifiche per la correttezza del super bonus 110% in edilizia potrebbero essere risolti rapidamente se le fasi della costruzione e i materiali usati fossero documentati in maniera semplice direttamente dal campo. Nei casi più delicati, la tecnologia della blockchain garantisce l’immutabilità del dato e di fatto ne valorizza l’informazione anche da un punto di vista legale. Per concludere, stiamo vivendo in un’epoca in cui abbiamo a disposizione strumenti per migliorare la produttività ed essere più competitivi. Gli strumenti ci sono ed hanno dimostrato la loro validità in termini di efficienza e produttività; sono veloci, usano il cloud e sono disponibili a tutti, ma l‘ostacolo più grande resta l’approccio delle persone all’innovazione, alla curiosità e all’apertura a nuovi modelli. L’aspetto più difficile è il cambio culturale per abbandonare processi obsoleti da “sempre fatti così” ed adottare nuove innovazioni per aumentare la competitività e, di conseguenza, i profitti.

 

“Laurea con lode in ingegneria nucleare al Politecnico di Torino ed un Master of Science all’Ecole Centrale Paris, Francia. Ha lavorato nel settore dell’energia nucleare in diverse realtà: in centrali nucleari in Spagna come direttore per il miglioramento continuo; in organizzazioni internazionali per la sicurezza delle centrali nucleari di tutto il mondo (all’International Atomic Energy Agency (IAEA) a Vienna e alla World Association of Nuclear Operators (WANO) a Londra e Parigi); all’ENEL come ingegnere nucleare per lo sviluppo internazionale. Nel 2017, fonda Mela Works, una società innovativa che fornisce un software per le attività di costruzione e manutenzione. L’idea di Mela Works nasce dall’esperienza maturata nelle centrali di produzione di energia dove c’era un problema per il seguimento, la rendicontazione e documentazione dei vari interventi. Oggi Mela Works e’ una realtà in espansione e vanta centinaia di clienti in vari settori, dalle costruzioni ai cantieri di manutenzione e alla gestione di processi di qualità in aziende manufatturiere.

Giovanni Gasparini- L’Arte divisa fra passione e finanza

I numeri decisamente positivi che emergono dalle aste di Maggio a New York suggeriscono un mercato dell’arte forte e de-correlato ai mercati tradizionali, quindi ideale per investimenti alternativi in questo frangente di incertezza ed elevata inflazione. Ci si deve chiedere quanto rappresentative siano queste aste rispetto al mercato in generale: il livello di prezzi elevatissimo le rende il territorio di caccia dei multimilionari che hanno visto la loro disponibilità di liquidi incrementare nel corso della pandemia.  Questo stato di salute sembra divaricarsi sempre di più dalla realtà delle gallerie che non trattano lavori milionari. Il mercato dell’arte si sta cristallizzando in due parti: da un lato investitori e speculatori serviti dalle poche grandi case d’asta sempre più simili ad intermediari finanziari ma non ancora regolamentati come tali, dall’altra quei (pochi?) oramai rimasti che si interessano agli aspetti storici, culturali ed estetici dell’arte, sostenendo un sistema di gallerie d’arte sotto pressione. E’ la domanda a determinare i cambiamenti strutturali del mercato. Il ventennio di spinte da parte della finanza per appropriarsi del mercato dell’arte e renderlo compatibile alle logiche di investimento speculativo è giunto al suo apice con l’esperimento degli NFT. Poiché le opere d’arte esistenti continuano ostinatamente a rimanere fisicamente non uniformi, nonostante i tentativi di artisti venduti al mercato come Damien Hirst e la sequela dei suoi dipinti ‘Spot’ e ‘Spin’, si è costituito un mercato paralleloderivato” in cui si scambiano contratti di possesso di ‘cose’ che all’occasione possono anche essere immagini. C’è voluto l’atto di prostituzione di un fondatore del mercato per sostenere la finzione che un NFT potesse aver a che fare con l’arte e quindi raggiungerne i prezzi intangibilmente assurdi raggiunti di recente. L’apporto essenziale delle case d’asta è stato offrire la loro vetrina pubblica e ‘prestigiosa’ vendendo la propria credibilità pluricentenaria per il famoso piatto di lenticchie, poco meno di 10 milioni di dollari in questo caso, per coprire una transazione di insider trading che sarebbe verosimilmente vietata in qualunque mercato regolamentato. In ogni caso stiamo perdendo tempo: il mercato NFT (anche di quello che alcuni si ostinano a porre sotto l’etichetta arte) è un mass market di scommesse su prodotti derivati in un mercato senza margin calls, in cui il venditore non può che vincere e il compratore sperare che ci sia qualcuno meno cosciente cui rivendere in fretta. E si sta già squagliando come neve al sole, poiché è funzionale al reimpiego di ‘monopoly money’ che a loro volta stanno inevitabilmente crollando, ovvero i crypto-oggetti piramidali nati per trovare sfogo ad una tecnologia di cui francamente non sappiamo che farcene: soluzione a problemi inesistenti. Ma non sono solo gli NFT a rappresentare il cancro della finanziarizzazione del mercato dell’arte. Nella parte alta del mercato l’utilizzo indiscriminato delle garanzie di parte terza manipolano i prezzi delle opere evitando che possano svalutarsi, mentre nel mercato ‘emergente’ le case d’asta rinforzano l’azione di speculatori che compiono operazioni “pump and dump” inammissibili in qualsiasi mercato minimamente regolamentato. Le garanzie riguardano il mercato delle ‘blue chip’, i titoli affermati in cui a contare è quasi esclusivamente il nome dell’artista e la volontà delle controparti di strutturare un derivato sotto forma di opzione. E i garanti solitamente hanno posizione come ‘market maker’ di alcuni artisti da loro garantiti, inflazionando artificialmente i prezzi senza che ciò risulti pubblicamente. La speculazione invece si focalizza su giovanissimi artiste/i che rispondono a determinati criteri di marketing ‘alla moda’ del momento spingendo artificialmente i loro prezzi con moltiplicatori anche di 100 volte nel giro di un anno; quale sia il lavoro in vendita è sostanzialmente irrilevante, complice anche un lunghissimo processo della critica postmoderna concettuale che ha ridicolizzato l’aspetto materiale ed estetico dell’opera d’arte. Si va verso la separazione e malvissuta convivenza fra due mercati, uno ancora definibile ‘dell’arte’ e dominato da gallerie e case d’asta medio-piccole, in cui valgono i criteri di valutazione del valore basati sull’opera, e l’altro dedicato a chi desidera un prodotto finanziario denominato ‘arte’, finalmente addomesticato ai criteri cari alla finanza.

 

Consulente nomade nel mondo dell’arte, a seguito di un decennio speso basato a Londra nel mondo delle case d’asta internazionali. Collabora da 12 anni con ArtEconomy24 del Sole 24 Ore e, dopo aver fondato e diretto per 7 anni il miglior corso di Master sul mercato dell’arte a livello internazionale, continua la sua missione educativa sporadica presso la SDA dell’Universita Bocconi, ove ha ottenuto la Laurea in Economia Politica. Più recentemente, ha conseguito un MA presso l’Universita di Manchester. Fra i suoi interessi oltre ovviamente all’arte, le auto d’epoca e la nautica, in particolare a vela, e l’aeronautica. E’ moderato collezionista di libri, arte, orologi e francobolli.

Marco Trevisan-Il processo produttivo artistico e una nuova economia dell’arte

Nell’ultima Biennale Arte di Venezia, la curatrice Alemanni ha annunciato che “solo l’arte racconta l’attualità in modo innovativo”, parlando poi dei tre temi cardine della presente edizione: la rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi; la relazione tra gli individui e le tecnologie; i legami che si intrecciano tra i corpi e la terra che abitiamo. Se prendiamo in esame il secondo di questi temi, è evidente come l’innovazione stia non solo nel modo di raccontare dell’arte, ma anche nel processo produttivo che la riguarda. Quello che spesso si dimentica è che il vero ambito nel quale si fa ricerca e innovazione, con un impatto anche sul lato economico non solo del sistema arte, è quello della produzione artistica. E che soprattutto ci aiuta ad avere una idea di futuro. La società contemporanea ha difficoltà nel definire una idea di futuro, ma ne conserva un imprescindibile bisogno. La crisi in epoca di pandemia non è solo economica, ma ha a che fare con l’identità e la visione. I concetti di progresso e di innovazione sono da sempre il motore che fa evolvere la società e scrive la storia dell’uomo. Per creare una idea di futuro, però, è necessaria la narrazione, dobbiamo essere in grado di raccontarcelo e immaginarcelo, ed è qui che le arti entrano in gioco. L’arte non può avere solo un ruolo consolatorio – come è avvenuto spesso nella fase di lockdown dell’epoca pandemica – o di ricerca di investimento o di status symbol con il mercato. Tutto ciò è ben presente nel progetto Futurelab di Ars Electronica di Linz, che da anni focalizza la sua ricerca sull’interazione dell’uomo con la tecnologia, utilizzando l’arte per rendere visibili e tangibili le implicazioni per la società. È un luogo dove scienziati, tecnici, manager d’azienda e artisti costituiscono gruppi di lavoro creando una sintesi di linguaggio, lavorando su temi e in tempi concreti e definiti. Futurelab si avvale sia di contributi pubblici e sia di grandi aziende, che sanno che la vera innovazione risiede nella creatività e nella collaborazione di più tipologie di menti. Succede così che BMW e Mercedes finanzino progetti sulla mobilità senza autista, che Intel lo faccia per il volo senza pilota, che SAP indaghi nuove formule di distribuzione del cibo, che gli ospedali collaborino con aziende, scienziati e artisti per formulare nuove idee di protesi più umanamente accettabili. Deve essere, tuttavia, ricerca che abbia un impatto per lo sviluppo della società nel suo complesso. Questo fa parte anche di una filosofia – di apprendimento prima e di lavoro poi – che si chiama STEAM, dove la A di Arts si è aggiunta a Science, Technology, Engineering and Mathematics. All’inizio del XXI secolo si è cominciato a parlare di STEAM, perchè si è scoperto che anche le professioni più apparentemente tecniche, come quelle dei programmatori, venivano svolte con più efficacia, ingegno e produttività se associate ad un approccio più umanistico e creativo. D’altronde lo stesso Einstein, oltre ad essere un leggendario matematico, era anche un appassionato violinista. Ed Alan Kay, uno dei padri della programmazione moderna e uno degli inventori del computer portatile e delle interfacce grafiche, ha lauree in matematica e biologia molecolare, ma è stato anche pittore e chitarrista jazz professionista. Per non parlare del rapporto tra arte e big data. La Data Art – l’arte prodotta elaborando o utilizzando i “big data” – sfida il mito dell’artista romantico, offrendo nel contempo un approccio artistico fondamentale nell’era digitale in cui viviamo. Molti artisti usano come materiale i dati grezzi che sono un prodotto delle nostre società (in primis, tramite i nostri telefoni e i social media) per “rendere visibile l’invisibile”, creando un ponte diretto tra macroeconomia ed individuo. Uno dei primi dipartimenti di Data Art è stato creato da Google e dato in mano ad Aaron Koblin, un artista. Nel 1995 Negroponte previde che la multimedialità avrebbe colmato la dicotomia tra tecnologia e arte. Citava l’esempio, già allora in atto, dell’industria dei videogiochi, con apparecchi più potenti di quelli usati per compiti professionali, sostenendo addirittura che l’industria dei videogiochi era più avanti della NASA: la qualità dell’hardware per giocare è sempre superiore a quella dei PC utilizzati per altre attività. Le sue previsioni si sono confermate esatte, ed oggi la gamification è forse il settore più evoluto che interfaccia arte ed economia. L’arte oggi può avere una sua funzione pratica nella società, senza negare quella di tensione verso la perfezione e il bello, o di creazione di pensiero. Questo ruolo eventuale dell’arte è cresciuto con il crescere dello sviluppo scientifico e tecnologico, ed oggi diventa uno dei punti cruciali del nostro sviluppo di esseri umani. Chi scrive, in un recente libro, l’ha chiamata “ars factiva”, riferendosi ad essa come ad arte efficace, produttiva, ma ars factiva significa anche, letteralmente, produzione artistica. È arte che dialoga con il mondo delle imprese, della tecnologia, dell’educazione, della società nel suo complesso, ma che sa produrre se stessa in maniera creativa e innovativa. Che non si basta. Che cerca dialoghi. E che viene cercata. Molti artisti lavorano in un ambito di sperimentazione e le aziende sono sempre più interessate a collaborazioni. Il processo di produzione dell’arte è cambiato, ed è sempre più sostenuto sia da istituzioni che da fondi privati, interessati a lavorare con artisti e designer che utilizzano le tecnologie o fenomeni scientifici che essi stessi utilizzano in chiave creativa e critica. Già negli anni ’60 la Bell (telecomunicazioni) forniva mezzi e ricerche per la sperimentazione ad artisti come Rauschenberg e John Cage, ed è stato uno dei primi esempi di un modello che negli anni, seppur lentamente, si è sviluppato. Ma nell’ultimo decennio, complice una espansione decisa dell’arte digitale, ha avuto un incremento netto.  I finanziatori mettono a disposizione i mezzi per la ricerca, la tecnologia e anche i professionisti, ma allo stesso tempo possono interferire sulla libertà del processo artistico, e scongiurare tutto ciò è oggi uno dei compiti dei curatori coinvolti, il cui profilo sta cambiando parallelamente.  Quello che è certo è che siamo già dentro ad una nuova era nella quale economia, tecnologia, scienza e arte, ognuno con i propri obiettivi, collaborano in vista di un progresso che ha nuovi parametri ed eccitanti opportunità.

 

Padovano, classe 1970, è stato responsabile relazioni corporate per il Guggenheim di Venezia, Communication Manager per FMR Art’è Usa da New York, direttore di Affordable Art Fair Italia (dopo aver importato il progetto internazionale) e Direttore di Christie’s Italia. Oggi è art advisor e direttore della Fondazione Alberto Peruzzo, oltre che socio fondatore di One Stop Art (servizi di consulenza nel mondo dell’arte). Nel 2021 ha pubblicato con Scheiwiller-24 Ore Cultura il libro “Ars Factiva. La bellezza utile dell’arte”, sul rapporto tra arte contemporanea e società, e tra arte e tecnologia.

Luca Giacopuzzi-Che fine fa il patrimonio digitale di un individuo

Con una pronuncia del 10/02/21 il Tribunale di Milano ha accolto il ricorso promosso, in via d’urgenza, dai genitori di un ragazzo deceduto un anno prima per ottenere, di fronte al diniego di Apple, i contenuti digitali del proprio figlio, coinvolto in un incidente stradale. Nel sinistro il telefono cellulare era andato completamente distrutto, con ciò precludendo la possibilità di recuperare i dati presenti in locale sul dispositivo. Non però i dati in sè (o, meglio, la copia degli stessi), che, archiviati nella “nuvola” della mela, risultavano sincronizzati e facilmente accessibili. I tentativi stragiudiziali dei genitori di ottenere il vissuto digitale del proprio figlio sono tuttavia risultati vani, attesa la chiusura di Apple Italia S.r.l. (che condizionava la riconsegna dei dati al possesso di requisiti del tutto estranei al nostro ordinamento). Di qui l’inevitabile contenzioso giudiziario, conclusosi con l’esito di cui sopra. Va detto subito che il provvedimento meneghino è ineccepibile, e poggia su una norma giuridica (l’art. 2-terdecies del D.Lgs. 196/03, più noto come Codice in materia di protezione dei dati) il cui tenore letterale è inequivocabile. Il primo comma così recita: “i diritti (…) del Regolamento (il Reg. 2016/19, c.d. GDPR) riferiti ai dati personali concernenti persone decedute possono essere esercitati da chi ha un interesse proprio, o agisce a tutela dell’interessato, in qualità di suo mandatario, o per ragioni familiari meritevoli di protezione“. Di fronte alle allegazioni di parte ricorrente (la cancellazione dei dati ove l’inattività dell’account si fosse protratta e la necessità di avere i dati dell’ultimo periodo di vita del figlio per realizzare un progetto che ne eternasse la memoria) e considerato il legame tra genitori e figli, le “ragioni familiari meritevoli di protezione” che consentono ai genitori l’esercizio, post mortem, di quei diritti che in vita avrebbe avuto sui propri dati l’interessato,  non potevano non essere ravvisate. Scontata, quindi, la condanna della società resistente. Complice la novità della questione – mai affrontata prima d’ora in un’aula di giustizia italiana – la pronuncia ha fatto notizia e molti media non hanno perso tempo ad etichettarla come una “sentenza storica”. Imprecisione giuridica a parte (il provvedimento, infatti, non è una sentenza), anche l’aggettivo “storica” mi sembra fuori luogo: si appellano così, normalmente, le sentenze che hanno mutato un precedente, e radicato, orientamento giurisprudenziale o che comunque, nell’incertezza di norme difficili da interpretare, hanno “sposato” una tesi, aprendo la via ad una tutela prima negata. Senza nulla togliere al provvedimento in questione (che è eccellente, anche sotto l’aspetto della chiarezza espositiva), nulla di quanto precede è accaduto nel caso in esame, laddove una fattispecie (per quanto “un novum“) è stata decisa applicando la norma che ad essa si riferisce. La novità risiede, piu correttamente, nella singolarità della materia che viene in rilievo: l’eredità digitale. Una tematica di strettissima attualità e che molto farà parlare di sè, in quanto il patrimonio digitale di un individuo non ha, post mortem, solo un valore affettivo, ma anche economico: si pensi, per fare un esempio, alla rilevanza di un conto corrente “online only, ai depositi correlati ai servizi digitali di pagamento o alle piattaforme di trading online o, ancora, ai wallet che custodiscono le criptovalute. La regola generale (tracciata dal primo comma dell’art. 2-terdecies del D.Lgs. 196/03) è quella della persistenza dei diritti che l’interessato ha sui propri dati personali oltre la morte e della possibilità del loro esercizio, post mortem, da parte di determinati soggetti, a ciò legittimati. Questo principio soffre però di diverse eccezioni che ne temperano la portata. Il secondo comma della norma in esame, infatti, precisa che l’esercizio dei diritti non è ammesso nei casi previsti dalla legge o quando, “limitatamente all’offerta diretta di servizi della società dell’informazione”, l’interessato lo ha espressamente vietato con dichiarazione scritta: per esempio, un testamento. Non tragga in inganno il fatto che il diritto di veto dell’interessato (perché di questo, a ben vedere, si tratta) sia circoscritto al perimetro dei servizi prestati dai provider. Come ognuno ben sa, i social o i servizi digitali offerti in rete costituiscono un territorio vastissimo, il cui governo è, in via di principio, demandato al soggetto cui i dati personali si riferiscono. Un territorio in cui, più o meno ordinatamente, coabitano profili social, corrispondenza telematica, documenti, immagini, dati finanziari e altro ancora (basti pensare al metaverso): dati che compongono la proiezione virtuale della dimensione fisica della persona e dei quali il legislatore ha affidato la cabina di regia alla persona stessa, che può decidere la sorte dei dati medesimi. Ciascuno dovrebbe prenderne coscienza e di ciò ricordarsi se e quando faccia testamento. Come la legge 219/17 consente ad ogni persona – maggiorenne e capace di intendere e di volere – di “esprimere le proprie volontà in termini di trattamenti sanitari“, condizionando accertamenti diagnostici e scelte terapeutiche, così in questo caso il legislatore, abbracciando sempre il dogma dell’autodeterminazione dell’individuo, permette a quest’ultimo di essere padrone non solo dei propri beni fisici, ma anche degli asset digitali e dei dati personali.  Est modus in rebus, si diceva un tempo: in un’evidente ottica di bilanciamento, il quinto comma della norma precisa che il veto in oggetto “non può produrre effetti pregiudizievoli per l’esercizio da parte dei terzi dei diritti patrimoniali che derivano dalla morte dell’interessato, nonchè del diritto di difendere in giudizio i propri interessi”. Più che un limite, l’indiretta conferma del valore – anche economico – che al giorno d’oggi assumono l’identità digitale dell’individuo e gli asset ad essa relativi.

 

 

Veronese, classe 1972, è menzionato da Forbes nel 2022 tra i 100 professionals italiani. È specializzato in diritto delle nuove tecnologie, nonché di diritto dell’arte, settori che tuttora segue in prima persona unitamente al diritto d’impresa, core dello studio (citato da Il Sole 24 Ore tra “gli studi legali dell’anno” tanto nel 2020 quanto nel 2021). Apprezzato relatore in talk organizzati da primarie realtà, riserva particolare attenzione all’attività pubblicistica, fornendo con sistematicità contributi su quotidiani e riviste italiane.

Ulteriori informazioni online al sito www.studiogiacopuzzi.it

 

Andrea Danesini-Innovazione e servitizzazione: possibili sinergie per il progresso.

Complessità. Questa parola è la chiave descrittiva dell’epoca che stiamo vivendo, più o meno consapevoli degli impatti sulle nostre vite di una serie innumerevole di cambiamenti in atto. Le competenze necessarie per gestire tale complessità sono raramente in possesso delle aziende che, in un mondo sempre più interconnesso, necessitano di mantenere il focus sul core-business e razionalizzare opex e investimenti per rimanere competitive sul mercato globale. Tale razionalizzazione si scontra con la necessità di procedere, necessariamente, ad investimenti anche nelle aree non core per cercare di rimanere al passo con l’evoluzione dei propri competitor. In tale contesto si evince come cercare e seguire il progresso in costante ricerca di innovazioni, che esse siano progressive o disruptive, sia una scommessa da un lato necessaria, ma dall’altra foriera di costi. Se nell’area core tale ricerca può essere necessaria, nelle aree non core spesso le aziende si ritrovano a fare i conti con budget troppo ristretti per generare impatti di valore e di conseguenza tendono a procrastinare a data da definire gli investimenti. In risposta ad alcuni di questi temi, nell’ultimo decennio si sono sviluppate le soluzioni cosiddette “aaS”, “as a service”. Software as a service, spazio di stoccaggio dati, automazione, intelligenza artificiale, robotica… tutto sempre più as a service. Lo stesso noleggio delle auto, o delle stampanti, o delle soluzioni hardware è sempre più “full service”, raggruppando nelle offerte servizi che di fatto eliminano l’effettiva gestione dei beni da parte del Cliente. Da un lato questo permette di ricevere soluzioni senza infrastruttura, senza investimenti iniziali, senza precise competenze per la loro gestione o manutenzione; dall’altro garantisce la non obsolescenza del servizio, che rimane sempre aggiornato, innovato e costantemente manutenuto. Di contro, tale servizio ha un costo ovviamente superiore (apparentemente) sul lungo periodo.  Il gioco vale quindi la candela? Tendenzialmente sì, soprattutto per le PMI. Ritorniamo quindi al tema della Complessità. Ciascuno di questi software, apparecchiature, mezzi, richiede dapprima un investimento e, successivamente, competenze profonde e specifiche per l’utilizzo, la gestione e la manutenzione. Inoltre, stante la velocità con cui evolvono le tecnologie, il ciclo di vita del prodotto tende sistematicamente ad abbreviarsi. Questi due fattori rendono l’investimento oneroso in termini di gestione e rischioso in termini di obsolescenza. Poter accedere a soluzioni di servizio, pagate con un canone pluriennale, in cui la gestione è affidata a terzi (che avendo più “impianti” hanno strutture di supporto e gestione più efficienti) permette al Cliente di non allocare risorse non saturate da formare e retribuire su ciascun specifico asset. Il Cliente che lo acquista come servizio ne conoscerà preventivamente il costo di gestione annuale, senza sorprese legate a manutenzioni o rotture, e potrà quindi concentrare la sua capacità di investimento nelle aree del core-business. Negli ultimi tempi si stanno infine presentando soluzioni “pay for result” nelle quali il servizio viene pagato dal cliente in base alla performance ottenuta dal sistema/impianto fornito col servizio. Queste iniziative permettono di prevedere l’impatto dell’attività connessa al servizio sul costo unitario dell’output. Nella mia personale visione del futuro a brevissimo termine, questo approccio di servitizzazione aaS sarà il traino ai meccanismi che regolano l’innovazione per la grande maggioranza delle aziende. Prodotti nuovi, a volte complessi, spesso incomprensibili ai più nelle loro intime strutture tecnologiche, ma palesemente capaci di migliorare flussi di materiali e di dati nelle aziende, verranno forniti come servizio ai Clienti, fornendo ad essi il risultato richiesto invece che l’impianto, che rimarrà in carico al fornitore. Questo modello di business, a mio avviso, sarà per molte PMI la porta d’accesso a molteplici innovazioni importanti già presenti sul mercato o in divenire.

 

Laurea in ingegneria elettronica a Pavia. Dal 2003 coordina i lavori di costruzione e quindi dirige le operations di uno stabilimento alimentare altamente automatizzato in Sardegna. Dopo 7 anni, si trasferisce in Brianza, dove lavora come dirigente per diversi gruppi nell’ambito dei servizi  logistici e appalti, sviluppando e applicando vari concetti di ingegneria dei servizi, secondo logiche TPS e just in time, con un occhio sempre legato all’innovazione dei processi e dei prodotti.
Nel 2015 sviluppa l’idea e partecipa alla fondazione di Moveo Servizi e del sottostante progetto Movelog. Da quel momento riceve tre premi ai Le Fonti Awards ed è finalista al premio sull’innovazione dell’ Automation&Testing di Torino. Nel 2022, Moveo è tra i Campioni della Crescita dell’ITQF.

Paolo Marenco-Parliamo di giovani

Questa newsletter molto “cool”, come direbbero i miei amici in California, parla di capitali, finanza, mercati. Tutte cose presenti nella nostra vita, da conoscere e capire. Io vi parlo di giovani: il nostro futuro, come genitori, imprenditori o manager di aziende. Un futuro che in quest’ultima era, quella di internet è sempre più in mano a loro. Un mio vecchio amico, Vincenzo Tagliasco scienziato e professore a Ingegneria Genova, oltre 15 anni fa inaugurava l’anno accademico dell’Ateneo dicendo Cari colleghi viviamo in un era in cui i nostri studenti ne sanno più di noi”. In anni molto più recenti il Vice President Marketing di Vmware, il genovese Vittorio Viarengo super mentor di Silicon Valley dice: “Il lunedì mattina appena in ufficio, chiamo i giovani collaboratori, quelli appena arrivati, per farmi raccontare le ultime tendenze, le cose nuovissime della rete che non hanno ancora scalato ai nostri ruoli di comando”. Io vivo coi giovani professionalmente dal 1986, sempre ventenni o giù di lì. Con essi ho promosso startup, creato percorsi professionali internazionali e dopo un decennio circa- cioè quando di anni ne hanno trenta – li ho coinvolti nel diventare mentor dei più giovani. Ho capito che i giovani oggi non possono fare nelle aziende i percorsi che si sono sempre fatti: appredistato, lenti passaggi facendo lavori ripetitivi e poco stimolanti. I giovani devono, come succede in Silicon Valley, essere sul front end, mettere tutta la loro vivacità e stimoli al servizio delle prime linee illuminate delle aziende. Quelle per intenderci fatte di A People, come Viarengo. Sempre lui ci ricorda da anni che: A People hire A people, B people hire C people. Chiaro il significato. Se sei una persona- manager imprenditore- aperta a far crescere l’azienda, la tua squadra e te stesso, cercherai di assumere sempre i migliori,  quelli come te: A people, brillanti, creativi, out of the box (fuori dagli schemi) perché tanti di questi lasciati a briglia sciolta in azienda, togliendoli tu stesso gli ostacoli dal percorso, porteranno la tua azienda a emergere ed essere un passo avanti sempre. Se sei un timoroso, cauto, poco brillante – un B people– assumerai yes men / women – C people- che non facciano ombra alla tua figura, buoni da eseguire ordini senza se e ma. Poche aziende con queste guide emergeranno, oggi. Io ho vissuto casi di ragazzi e ragazze italiane che appena conosciuti a 18- 19 anni ho detto:  Questo farà strada. Oggi guidano unicorni- more than 1 billion value company– in Silicon Valley o sono manager in aziende internazionali…a 30-35 anni… non 50. Il mio messaggio è: il mercato delle risorse umane è il Mondo. I migliori ragazzi italiani non hanno la minima paura a cercare il meglio dove è, se non c’è in Italia. E senza i nostri migliori giovani di questi anni 2000 le nostre aziende, tutte in ogni settore, invecchieranno inevitabilmente. Perdendo quote di mercato e diventando, se va bene, terreno di conquista. E rimarremo un Bel Paese per mangiare e fare vacanze.  Almeno speriamo.

 

 

69 anni, ingegnere, ha diretto in trent’anni 4 Centri per l’Innovazione in Italia. Mentor di centinaia di studenti- italiani e di altri 32 Paesi- partecipanti a 44 Silicon Valley Study Tour dal 2005. Fondatore della www.siliconvalleystudytour.com  

 

Roberto Albisetti- L’altra faccia del divario digitale

L’uso della tecnologia digitale fa ormai parte delle nostre abitudini quotidiane che quasi non ci facciamo piu’ caso. Nei nostri telefonini intelligenti le nuove app fioriscono come la mimosa in primavera. L’industria 4.0 genera giorno per giorno nuove start-up digitali. Il 90% di queste non sopravvivono al test di mercato o non superano il primo anno di vita. Una su mille prende la strada della Silicon Valley e diventa unicorno, il fregio del successo per chi si quota in borsa a Wall Street con valutazioni superiori al miliardo di dollari. Abbiamo imparato a utilizzare le applicazioni digitali di ecommerce, che ora chiamiamo marketplace, che ci portano a casa di tutto e da tutto il mondo, usiamo i software che ci fanno ricevere certificati sul pc, ci permettono di fare riunioni virtuali, di pagare utenze e fare bonifici bancari dal nostro cellulare e di vedere nuovi film e partite in diretta con lo streaming.  Il maggior impatto economico delle piattaforme digitali non è solo la disintermediazione nel mercato, con l’informatizzazione arrivano i vantaggi di ridurre i tempi, i costi di transazione e – a volte – di semplificare i processi.  Dico “a volte” a proposito, perche’ i processi digitalizzati complicano l’accesso ai servizi per milioni di persone. Basti pensare al pensionato che arriva allo sportello postale o di una banca e per risposta gli dicono di andare a casa a scaricare una app per prenotare un appuntamento in linea, per poi tornare nello stesso posto dove è appena andato. Distorsioni come questa evidenziano che molte applicazioni e software non sono facili da usare (in inglese si direbbe “non user friendly) e creano disagio, frustrazione, costi sociali ed esclusione generazionale.  La pandemia ha accelerato la frenesia di digitalizzare quasi tutto, ha favorito uno storico e rapido cambio di rotta alle politiche pubbliche per rompere con il passato. Le banche sono state la punta di lancia della digitalizzazione dei servizi; hanno investito molto e informatizzato quasi tutti i processi. Ricordiamoci pero’ che la tecnologia è uno strumento, non un fine.  Le societa’ di consulenza e di software sono occupatissime, si arricchiscono a digitalizzare imprese pubbliche e private perche’ questa è LA soluzione per ottenere maggiore produttivita’ e migliorare l’efficienza. I giovani avveduti dovrebbero studiare programmazione, calcolo e statistica per poter lavorare con l’intelligenza artificiale, se vogliono salire sul treno del successo. Ma non possiamo dimenticare quella fascia vulnerabile della societa’ che è rimasta indietro, sia per motivi economici, sia per non avere la capacita’ di imparare ad usare la tecnologia.  La definizione di divario digitale (digital divide in inglese) è la barriera alla possibilità di accedere a internet. L’accelerazione ai servizi digitali ha messo in difficolta’ chi non ha dimestichezza con la rete, principalmente molte persone anziane che devono chiedere aiuto ai figli, ai patronati o pagare per farsi aiutare ad usare le app. Queste persone aspettano giorni per eseguire operazioni semplici che avrebbero potuto risolvere subito, almeno sino a quando hanno funzionato gli sportelli. Tra chi è rimasto indietro ci sono persone piu’ giovani ma meno reattive al cambiamento o incapaci di imparare il linguaggio digitale necessario a modificare i comportamenti quotidiani. La tecnologia non serve a chi non ha imparato a usarla, vuoi per pigrizia, per obiettiva incapacita’ oppure semplicemente perche’ non ha i soldi per comprarsi uno smartphone. Questo fenomeno rappresenta l’altra faccia del digital divide. La soluzione include convincere le istituzioni a spendere qualche soldo in uffici di assistenza al cliente (diversi dai call center) per facilitare e istruire chi non è riuscito ad adeguarsi in fretta alla chiusura degli sportelli.  Pertanto, equita’ digitale è anche offrire alternative concrete ed eque a chi non ha accesso a internet e ridurre il disagio delle persone piu’ vulnerabili alle quali la tecnologia ha reso la vita piu’ difficile invece di semplificarla. La soluzione alle urgenze create dalla crisi sanitaria non è la scusa per aver creato una nuova burocrazia digitale, complessa e densa di errori di pianificazione. Aver accelerato la transizione dal sistema tradizionale al digitale senza gradualita’ e a tutti i costi ha evidenziato difetti nei sistemi per la scarsa preparazione dovuta alla fretta di passare dal vecchio modello al nuovo sistema di piattaforme digitali. Peccato che i piu’deboli siano rimasti esclusi.

 

 

Investment banker e consulente d’impresa. Ha studiato economia e commercio all’Università di Genova, finanza alla Stern School of Business della NYU e management alla SDA Bocconi di Milano. Ha lavorato per 20 anni con l’IFC Banca Mondiale, nel campo della origination e negoziazione di investimenti in diversi settori. Esperienze lavorative rivestendo ruoli dirigenziali in Ansaldo-Finmeccanica, Elsag-Bailey, IRI (nella sede di Washington), Banca Mondiale di Washington e SACE. Ha ricoperto incarichi in vari consigli di amministrazione di banche, fondi e imprese industriali di diversi paesi. Nel 2019 ha fondato la società di consulenza strategica AlbisettiConsulting per le PMI e per acquisizioni e ristrutturazioni. Dal 2010 collabora come mentore e membro di comitato per l’acceleratore Endeavour in America Latina e in Italia. Ha scritto tre libri di finanza e strategia: Finanza Strutturata, 2000 con Rizzoli CDS, Finanza Empresarial nel 2018 in Colombia con Javeriana e la seconda edizione di Finanza Empresarial nel 2021 in Messico con Folia UAG. Già professore a contratto in programmi  MBA in Italia, Moldova, Serbia, Messico e Colombia.

Claudio Gavazzi- La sfida delle moderne Aziende Pubbliche

Gli anni ’90, con l’entrata in vigore della legge 142/90 vedono l’ingresso delle Società di Diritto Commerciale nel mondo degli Enti Pubblici. In particolare, l’art.22 della succitata legge introduce, per la prima volta, la possibilità a Comuni e Province di gestire Servizi Pubblici Locali anche per mezzo di Società per Azioni a prevalente capitale pubblico. In allora si parlò, del tutto impropriamente, di privatizzazione dei Servizi Pubblici Locali. Nel 1999 con la sentenza Teckal della Corte di Giustizia Europea nasce l’in house providing. Le società in house providing sono aziende costituite in forma societaria, per lo più società per azioni, il cui capitale è detenuto da un Ente Pubblico che affida loro, direttamente, attività strumentali all’Ente stesso. Le società così strutturate sono definite Aziende Pubbliche, ed hanno la particolarità di essere azienda pubblica se si considera il soggetto economico, ma azienda privata se si considera il soggetto giuridico. La convivenza di pubblico/privato all’interno di un unico soggetto, molto spesso, ne rende la gestione decisamente poco agevole. Il riordino legislativo del 2014, con sempre maggiori restrizioni e l’introduzione dell’obbligo di adottare il Codice degli Appalti, ne ha ulteriormente complicato la gestione, sovraccaricando di burocrazia e formalismi aziende nate per essere snelle, veloci e competitive. A ciò si aggiunga che la “natura” della “Holding” di indirizzo e controllo è, normalmente, esclusivamente “politica”. L’Ente Pubblico di controllo, è governato da un organismo che non è un Consiglio di Amministrazione, formato da manager e professionisti del mondo economico, bensì da una “Giunta” formata da Politici, il cui legittimo fine ultimo è rappresentato dal consenso dei propri elettori. La formazione di un esponente politico assai raramente ha un’impronta manageriale, e l’indirizzo strategico fornito alle controllate da un organismo sì fatto è spesso avulso da ogni considerazione economico/finanziaria, se non in modo meramente astratto e teorico. L’Azienda è così chiamata a perseguire obiettivi politici, ma con la responsabilità dell’equilibrio della gestione, così come richiesto alle società di diritto privato. Per meglio intendere può tornare utile un case history. L’Organo Politico, appena insediato dopo aver vinto le elezioni, decide di mantenere una promessa elettorale diminuendo drasticamente le tariffe orarie della sosta pubblica a rotazione, consolidando così il consenso dei suoi elettori. L’impatto sulla Società di gestione della sosta è un’improvvisa e drastica riduzione dei ricavi, senza possibilità per il management di intervenire sui costi, neppure quelli diretti di concessione, e senza la possibilità di utilizzare ammortizzatori sociali, non previsti per le Aziende Pubbliche. Contestualmente la gestione è chiamata a mantenere in positivo il conto economico. Le criticità non finiscono qui, infatti l’in house providing priva la gestione delle leve marketing fondamentali: mercato e prezzo. Il mercato obiettivo sul quale operare, al pari dei prezzi di vendita, e di ogni strategia di pricing, non è nelle disponibilità del management poiché rimane nella “disponibilità esclusiva” dell’Ente di controllo. Non mi dilungo oltre, evitando di approfondire l’altrettanto complicata gestione delle risorse umane in assenza della possibilità di agire in modo dinamico e meritocratico su selezioni, assunzioni, carriere, avanzamenti retributivi, ecc. La sfida delle Aziende Pubbliche è dunque quella di fornire, a basso costo, servizi moderni ed efficienti, operando in condizioni di perenne taglio delle risorse, ma con obiettivi di bilancio ambiziosi. Una delle vie praticabili è quella di una crescita costante e progressiva dei ricavi, perseguita attraverso l’offerta di nuovi servizi, rivolti sia ai cittadini sia all’Ente di controllo, ancorché a prezzi sempre più contenuti. Quindi: crescita per bilanciare la sensibile e progressiva riduzione del margine di contribuzione. L’offerta di servizi avanzati vecchi e nuovi, a costi via via sempre più agevolati in assenza di maggiori risorse, anzi in costante riduzione delle risorse disponibili e con l’imperativo di un bilancio in equilibrio può essere perseguita solo attraverso l’automazione e l’informatizzazione avanzata, progressiva e costante finalizzata, tra l’altro, a limitare, se non evitare, l’acquisizione delle risorse umane necessarie allo sviluppo. Occorre così ottimizzare e massimizzare l’impiego delle risorse umane esistenti, chiamate ad una sempre maggior flessibilità e all’acquisizione di nuove competenza per poter ricoprire contemporaneamente più ruoli all’interno di un’azienda in costante aggiornamento organizzativo. In buona sostanza le Aziende Pubbliche hanno necessitato e necessitano di un’efficace opera di modernizzazione trasformandosi in aziende snelle con un elevatissimo livello di informatizzazione e automazione e con personale altamente specializzato, flessibile, costantemente aggiornato, disponibile al cambiamento, non tanto per competere sul mercato, quanto per rispondere alle necessità dei propri Enti di controllo che diventano ogni giorno più esigenti. Per concludere l’azienda del case history sopra accennato è sopravvissuta al drastico taglio delle tariffe e dei ricavi, acquisendo nuove attività che hanno portato alla crescita dei volumi di un buon 50% senza incrementare i costi d’esercizio, ma rivoluzionando l’informatizzazione dei servizi e stravolgendo ruoli e funzioni di gran parte dell’organico rimasto stabile nel tempo.

 

Manager in un’Azienda Pubblica fin dalla sua costituzione nel 1995. In oltre 40 di vita lavorativa ha naturato esperienze imprenditoriali e manageriali nel settore pubblico e privato spaziando dalle forniture industriali, alla nautica da diporto; dallo sport professionistico, ai servizi pubblici; dalla logistica, ai beni di lusso.

Francesco Pinardi- La tempesta energetica perfetta

Ebbene si, possiamo dirlo…purtroppo: siamo nel pieno di una crisi energetica. Una tempesta energetica perfetta, che ci sta facendo perdere la rotta che a fatica stavamo cercando di riprendere dopo due anni veramente molto impegnativi. Gli osservatori più audaci si spingono a dire che la crisi energetica è solo la conseguenza più visibile di un diverso equilibrio economico e politico che ha purtroppo al centro il vecchio continente. La situazione è veramente complessa e unisce elementi di domanda ed offerta di energia (sfera economica) alla nostra voglia di “riprenderci” il tempo perduto per il COVID (sfera personale) e ancora  alla gestione del cambiamento climatico dove si sono fatti più che altro annunci senza avere piena chiarezza delle conseguenze, ma soprattutto senza alcun sottostante (sfera politica), alla situazione geo politica esplosiva in un’area del mondo che, ci piaccia o no, rappresenta la principale fonte energetica dell’Europa. Tutti i grafici e le analisi del mercato energetico fanno vedere prezzi in velocissima crescita, grande volatilità e record su record bruciati di giorno in giorno. Il tutto comincia con la crisi di domanda dovuta ai lockdown da COVID con i prezzi energetici che finiscono al tappeto, a livelli mai visti primi: tanti operatori decidono di restare “corti” e di stare “a mercato”. È una politica che premia ed ha premiato negli ultimi anni. Ma nel giro di un anno la situazione si capovolge: la ripresa, la decisione della Russia di guardare altrove per trovare clienti più interessati al Gas rispetto all’Europa e infine il la guerra, ultimo atto di una nuova idea di equilibrio mondiale non ancora chiara…o forse si. L’Europa e l’Italia in particolare dipendono dal GAS, sia come vettore energetico per i consumi finali (riscaldamento, produzione industriale, autotrazione), sia, soprattutto, come materia prima per la produzione di più di metà dell’energia elettrica consumata nel nostro paese. Al momento, e a dire il vero già da un po’, sta venendo meno la gran parte del GAS russo, quello che negli ultimi anni ha sempre alimentato il mercato e che ha sempre consentito di approvvigionare GAS a prezzi ottimi, senza dover stipulare contratti di lungo termine con volumi e prezzi definiti…insomma tutto facile e a prezzi ottimi.

Oggi, purtroppo, la situazione è ben diversa: pochi flussi in ingresso (solo quelli garantiti dai contratti di lungo), poco GAS dunque per il mercato spot, e prezzi alle stelle: quindi cosa si può fare per evitare che la tempesta perfetta scateni tutta la sua potenza? Innanzitutto, è fondamentale considerare l’aspetto temporale: dobbiamo trovare soluzioni a breve che ci permettano di “sopravvivere” e nel frattempo, una buona volta, prendere una decisione sulla rotta da tenere nel nostro viaggio energetico verso un futuro sostenibile, per noi e per il pianeta. Non solo annunciarla, ma fare le scelte necessarie e coerenti con la decisione presa. In quest’ultimo periodo si sente tutto ed il contrario di tutto: soluzioni a 20 anni (se non anche più lunghe) proposte come già pronte, commentatori che non conoscono le filiere ed il loro funzionamento e soprattutto, ognuno, propone la soluzione che non porta a nessuna rinuncia, che sia semplice, immediata, indolore. Una soluzione così (a mio avviso) non esiste, soprattutto nel pieno di una crisi energetica. Non ora. E quindi continuare a propinarla è quanto di peggio si possa fare. Adesso servono nervi saldi per gestire la crisi, l’emergenza, consapevoli che di questo si tratta. Soluzioni chiare, che evitino effetti a catena e che permettano poi di partire con le soluzioni di più ampio respiro: da definire quanto prima e da scaricare a terra.

È altresì necessario ricordare e comprendere che l’energia è un problema di tutti e quindi va risolto con il contributo e con lo sforzo di tutti e non solo a colpi di decreto. E tutto questo non sarà “gratis”. La soluzione più rapida e più efficacie è oggi il risparmio energetico: a tutti i livelli e su tutti i fronti. È fondamentale per dare respiro al sistema, per provare ad evitare il blocco totale della filiera del GAS e dell’energia. Ma non basta. Serve poi, da subito, investire su fonti energetiche che abbiamo disponibili, consapevoli però dei limiti tecnici, fisici e temporali. Pensare di sostituire tutto il GAS russo con pannelli fotovoltaici in due anni è un errore. Ci vorrà tempo, soldi, sia privati che pubblici, ma soprattutto una diversa consapevolezza che l’energia per tutti a basso costo non sarà, probabilmente, sempre disponibile nei prossimi anni e tanta capacità di fare progetti buoni, in poco tempo. Bisogna partire subito, con la determinazione di chi sa che l’obiettivo è importante e che non si può mollare, ma con la consapevolezza che non sarà un viaggio in business class e che ci saranno sacrifici e cambi di paradigma da affrontare. Ognuno di noi dovrà sempre più ragionare, a casa, al lavoro, per tutto quello che fa, in ottica di sostenibilità energetica, di autoproduzione da affiancare all’approvvigionamento tradizionale e di sostenibilità ambientale: una sfida notevole per tutti noi, ma soprattutto per le generazioni che verranno e che si confronteranno sempre più con questi problemi. Come tutte le sfide va affrontata guardando lontano, ragionando anche nel medio lungo periodo ma con la concretezza e la consapevolezza che permette di costruire nel tempo in modo solido ed efficiente.Insomma, è necessario scrivere una storia (energetica) diversa, per tanti versi, da quella degli ultimi anni, per evitare che la tempesta perfetta ci faccia naufragare.

 

Nato a Cremona in una fredda domenica di austerity (crisi petrolifera del 1973), si è laureato in ingegneria gestionale al Politecnico di Milano. Ha cominciato la propria esperienza lavorando nel campo dell’ICT e dopo una parentesi come ricercatore al Politecnico di Milano e startupper, è approdato nel “tranquillo” mondo dell’energia.

Nel 2018 ha accettato la sfida di Keropetrol e Gruppo Openlogs di esplorare il mondo della zero carbon mobility ed è entrato in Ekomobil come amministratore delegato.

Padre di tre splendide bimbe è appassionato di tecnologia, motori e nel poco tempo libero ogni sport è valido per ricaricare le batterie…meglio se in riva al mare.

Gian Luca Greco- Conflitto Russia Ucraina: crisi energetica e prospettive per il futuro

L’attuale conflitto Russia – Ucraina ha fatto emergere la fragilità del sistema energetico italiano basato sull’importazione di gas da paesi terzi, in particolare dalla Russia, piuttosto che sulla produzione diretta. Si prospetta un’incertezza sulle fonti energetiche di approvvigionamento per l’Europa, che inciderà sui prezzi del gas ma anche del petrolio impattando in modo importante sulle nostre economie: un fenomeno di una portata rilevante, sia per le implicazioni speculative nel breve periodo sia a livello strutturale.

Sconsideratamente, negli ultimi anni la nostra politica energetica si è basata su un unico principale fornitore, né parte dell’UE, né della NATO. L’Italia è infatti uno dei più grandi importatori di gas russo al mondo, e per questo, le conseguenze di questa crisi energetica saranno avvertite maggiormente. Oggi l’Italia si sta adoperando per diversificare i fornitori di gas e petrolio ma questa non sarà una soluzione risolutiva. É necessario implementare un sistema quanto più autarchico possibile attraverso una serie di iniziative: bisogna incentivare gli investimenti nel settore, come nelle rinnovabili, semplificando le normative di riferimento e snellendo la burocrazia. È indispensabile che l’autorità politica dia un segnale forte. Per quanto riguarda lo shock nel breve è necessario attivare un mix di iniziative, nonostante alcune non siano compatibili con la transizione ecologica. Qualora non si volessero toccare le riserve strategiche, il carbone rappresenta una soluzione ponte concreta in grado di accompagnarci verso le fonti green, che in questo momento cubano il 37% della produzione energetica complessiva. Arrivare a coprire il circa 50% di gas che stiamo importando dalla Russia non è banale e le centrali a carbone sono un asset che abbiamo in portafoglio da valutare per soddisfare un fabbisogno energetico impossibile da coprire nel breve con le rinnovabili.  Non è realistico pensare che nel breve o medio periodo il 100% delle fonti siano rinnovabili e avremo sempre bisogno di gas: dovremmo riuscire a produrne il più possibile, considerando che nel 2021 l’89% del consumo interno lordo è stato coperto dall’importazione. In breve, se si vuole adottare una politica energetica che punti agli investimenti senza sfruttare i giacimenti per questioni ambientali, ci si riduce ad essere un paese importatore e a dipendere da terzi. Il nucleare non rappresenta una soluzione: gli investimenti nel settore sono molto intensivi e sarebbero efficaci solo nel medio lungo periodo. La filiera di riattivazione delle centrali nel nostro paese è troppo costosa, e avrebbe senso solo se si decidesse di puntare sul nucleare come fonte ulteriore di approvvigionamento per almeno 20 anni.  Questa è la grande differenza con le centrali a carbone o policarburante che possono diventare operative nell’immediato, anche solo per 1 o 2 anni, in attesa di soluzioni alternative ed ecosostenibili. L’idrogeno sarà una delle fonti di approvvigionamento energetico del futuro, ma si tratta di una risorsa strategica, non tattica: puntare sull’idrogeno verde per la transizione energetica significa collocarsi a valle di una filiera che comprende fonti rinnovabili come idroelettrico, eolico e fotovoltaico a monte. Per dare un’idea, i primi impianti per la produzione di idrogeno verde su scala industriale verranno alla luce verosimilmente non prima di 2 o 3 anni.

Il mercato dell’idrogeno è completamente nuovo, e nel breve non è pronto per impattare sulla crisi a cui stiamo assistendo: ci si arriverà per gradi, ma questa crisi deve  rappresentare sicuramente un’occasione per dare un forte impulso al suo sviluppo e farsi trovare pronti quando la domanda globale sarà più matura.

 

CEO di Greeninvest, società di investimento in realtà che sviluppano progetti e prodotti ecosostenibili. Ha lavorato a lungo nel mondo delle energie rinnovabili, settore che presidia con Energeticamente, società specializzata in sviluppo di parchi eolici e fotovoltaici e di produzione di energia da queste fonti. La sua ultima avventura imprenditoriale si chiama Hydrogenia, una startup innovativa specializzata nella produzione di idrogeno verde. Nel campo delle energie alternative si è occupato non solo degli aspetti manageriali e tecnici ma anche di quelli finanziari. Un ambito in cui ha accumulato una grande esperienza nel decennio precedente (1999-2000), durante il quale ha svolto attività di investment banking con operazioni di M&A ed operazioni di finanza straordinaria.

Andrea Benini- Il Principio di adeguatezza degli assetti organizzativi per un’impresa più responsabile

In Italia è stato avviato un periodo di riforme sulla spinta del PNRR ed il sistema giudiziario è uno dei settori chiave in cui si dovrà intervenire per poter rispettare gli impegni assunti con l’Unione Europea. Sono in via di attuazione, infatti, le riforme del processo civile, di quello penale e della disciplina delle procedure concorsuali, determinanti per migliorare l’efficienza del nostro sistema giudiziario come richiesto dall’Europa. In realtà, una riforma organica del diritto concorsuale era già iniziata prima del periodo pandemico, con l’emanazione del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza di cui al D.Lgs. 12/01/2019 n. 14, la cui entrata in vigore, però, è stata più volte rinviata. Ciò nonostante, il Decreto citato ha apportato ugualmente alcune modifiche al Codice Civile in materia di impresa, passate forse inizialmente un po’ sottotraccia visto il differimento della riforma, ma di indubbia rilevanza stante la loro operatività immediata. Una di queste è la novella dell’art. 2086 c.c., con cui il Legislatore ha sancito per tutte le tipologie di attività imprenditoriali la regola dell’adeguatezza degli assetti organizzativi dell’impresa, quale principio di corretta gestione. Più nello specifico, è stato introdotto un duplice dovere a carico degli amministratori di società e cioè quello, da un lato, di istituire assetti organizzativi che siano adeguati alla natura ed alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi e, dall’altro lato, quello di attivarsi per l’adozione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi stessa. Il principio di adeguatezza degli assetti organizzativi dell’impresa, quale paradigma di una corretta gestione, non è certo una novità nel panorama legislativo, ma è un tema ricorrente nella normativa di settore degli ultimi anni, con la quale il Legislatore ha iniziato a promuovere una cultura imprenditoriale più responsabile. Si sta cercando sempre più di passare dal modello tradizionale incentrato sulla figura dell’imprenditore individualista, ancora diffuso nelle PMI, ad un’organizzazione strutturata dell’impresa, secondo i modelli elaborati dalle moderne scienze aziendalistiche. Gli interventi legislativi incentrati sull’organizzazione dell’impresa sono stati molteplici nel recente passato, dal Testo Unico della Finanza per le società quotate, alla riforma del diritto societario del 2003 con riferimento alle S.p.a. (artt. 2381 c.c. e 2043 c.c.), passando per le discipline di settore delle imprese bancarie, assicurative e di intermediazioni finanziaria, nonché delle società a partecipazione pubblica. In questo quadro normativo meritano una particolare menzione i modelli organizzativi previsti dal D.Lgs. 231/2001 per gli enti collettivi, i quali sono volti a prevenire la commissione di reati da parte dei propri esponenti e ad escludere o limitare il rischio di incorrere nella responsabilità amministrativa prevista a carico delle società in relazione a tali reati. La novella dell’art. 2086 c.c. si pone, dunque, nel solco tracciato dal Legislatore, elevando però il principio degli assetti adeguati a regola generale comune a tutte le imprese. Questa norma è stata concepita nel quadro di riforma del diritto concorsuale che ha dato vita al Codice della crisi e, dunque, la sua ratio legis va individuata in siffatto contesto. Inizialmente, visto lo stretto legame col Codice della crisi, gli operatori del settore si sono chiesti se i nuovi precetti di cui al comma 2 dell’art. 2086 c.c. potessero avere una valenza autonoma, anche a prescindere dagli istituti richiamati dell’allerta e della composizione assistita, i quali, come detto, non sono ancora operativi. La risposta è stata affermativa, tanto che ad oggi si rinvengono già sentenze di Tribunali che ne hanno fatto applicazione. Gli amministratori, quindi, devono necessariamente dotare le società di idonei assetti organizzativi, amministrativi e contabili funzionali a far rilevare tempestivamente un’eventuale situazione di crisi. Nella stessa Relazione illustrativa al Codice della crisi è, infatti, specificato che le possibilità di salvaguardare i valori di un’impresa in difficoltà sono direttamente proporzionali alla prontezza dell’intervento di risanamento, mentre il ritardo nel percepire eventuali segnali di crisi determina, nella maggior parte dei casi, che questa degeneri in un’insolvenza irreversibile. Qui si innesta il secondo obbligo previsto dalla nuova disciplina a carico degli amministratori, i quali, all’apparire della crisi, sono obbligati a reagire prontamente, mettendo in atto uno degli strumenti a tal fine previsti dall’ordinamento. Gli istituti del Codice della crisi che sono collegati con questo precetto, come detto, non sono ancora operativi, però la portata generale della norma impone già oggi agli amministratori di fare ricorso agli strumenti messi a disposizione dalle norme attualmente applicabili, ad esempio quelli tipici della Legge Fallimentare o l’istituto della composizione negoziata recentemente introdotto dal D.L. 118 /2021 o comunque iniziative anche diverse che siano idonee a recuperare la continuità aziendale. In dottrina si è affermato correttamente che questa nuova disciplina sull’adeguatezza organizzativa sarà la nuova frontiera della responsabilità degli amministratori. Invero, in base alle regole generali, gli amministratori sono responsabili verso la società dei danni derivanti dall’inosservanza di doveri ad essi imposti dalla legge, tra cui appunto non possono che rientrare anche i nuovi obblighi previsti dall’art. 2086 c.c. riformato. In ipotesi di violazione di siffatti obblighi, da cui siano derivati anche dei danni, gli amministratori potrebbero dunque subire delle azioni di responsabilità da parte dei soci, dei creditori o, qualora si sia verificato il fallimento della società, da parte dei curatori fallimentari. Bisogna pur sempre ricordare che il concetto di adeguatezza è comunque relativo, tanto che il secondo comma dell’art. 2086 c.c. fa giustamente riferimento ad un assetto organizzativo che sia adeguato alla natura ed alle dimensioni dell’impresa. Ogni impresa ha le sue tipicità e l’attività imprenditoriale può essere organizzata in molti modi diversi tra loro. Si discute, quindi, su quale sia il limite della valutazione dei giudici in questo campo. Sebbene la scienza aziendalistica possa fornire validi parametri per sindacare la correttezza dell’operato degli amministratori, sussiste in ogni caso un ampio margine di discrezionalità per ciò che riguarda le scelte sugli assetti organizzativi da adottare in ambito imprenditoriale. Una parte della dottrina, con un’opinione a mio avviso condivisibile, ritiene che, pur con qualche adeguamento, debba sempre trovare applicazione, anche con riferimento a queste ipotesi di responsabilità, il limite dell’insindacabilità di merito della scelta operata dall’amministratore (c.d. “business judgment rule”).  Esiste, però, anche un orientamento dottrinale opposto, che è favorevole invece ad uno scrutinio giudiziale più stringente e che ritiene applicabile la business judgment rule solo agli obblighi a contenuto generico e non anche a quelli a contenuto specifico, non implicanti scelte di gestione in senso proprio, quali appunto i doveri organizzativi degli amministratori. Questa strada potrebbe portare ad esiti non accettabili, nel caso in cui si volesse ricavare sic et simpliciter dal verificarsi dell’insolvenza la prova dell’inadeguatezza degli assetti organizzativi che erano stati adottati per l’impresa. Per avere un quadro più chiaro si dovrà, però, necessariamente aspettare di vedere quale delle due impostazioni verrà adottata con prevalenza in giurisprudenza.

 

 

Iscritto all’Albo degli Avvocati di Genova, si occupa prevalentemente di diritto civile, diritto commerciale e societario, diritto bancario e finanziario. Offre consulenza alle imprese nel campo della contrattualistica interna ed internazionale ed in quello societario. Ha assistito i propri clienti in diverse operazioni straordinarie sia con società italiane, che con società estere. E’ membro di Organismi di Vigilanza ex D.Lgs. 231/2001 di società operanti in Italia ed all’estero ed ha ricoperto diversi incarichi quale Arbitro in procedimenti arbitrali.

Giovanni Guicciardi- Il Porto di Genova e Trieste per lo sviluppo dei traffici marittimi del Paese

Genova e Trieste rappresentano dai tempi della unità del Paese i capisaldi del commercio portuale italiano. Le due città hanno un’impostazione di base simile: sia per dimensioni, sia per orografia, sia per la presenza di un mare “chiuso”. Vivono di porto e per il porto. Entrambe poi hanno visto ridursi con la pandemia i traffici e si stanno riorganizzando, con investimenti cospicui, per poter vantare presto posizioni di eccellenza, non solo in ambito domestico. E forse, potendo vantare un occhio critico privilegiato su entrambi i porti (non fosse per i quaranta anni di attività mercantile nelle due città), le analogie che riscontro finiscono qui e rimangono invece profonde differenze.

Trieste rimane leader nelle rinfuse liquide, (grazie al terminal della Siot): è il porto petrolifero numero uno del Mediterraneo e immette milioni di tonnellate di greggio l’anno nelle pipeline verso l’Austria, la Germania e la Repubblica Ceca, ovvero quella area chiamata ancora con orgoglio in città, “Mittleuropa”

Genova rimane il maggior scalo italiano per merce movimentata, (anche se Trieste le è appena dietro), grazie al primato nazionale come gate di movimentazione container, mentre sconta scelte non felicissime nel traffico passeggeri (per aver spostato gran parte del traffico crocieristico su altri porti vicini), acuite dallo scoppio della pandemia.

Ma è sul nodo infrastrutturale e dunque sulle future prospettive di crescita che le differenze rimangono evidenti e determinanti. Trieste si è mossa nel tempo prime e meglio di Genova, colmando un gap che sembrava irraggiungibile. Lo scalo giuliano è il normale collegamento tra il Mediterraneo e la Mitteleuropa.  I traffici con la Germania (Amburgo, Norimberga, Dusseldorf) e quelli con Svizzera a Danimarca hanno portato Trieste ad essere il primo scalo italiano per quantità di merce spostata su rotaia. Nella regione giuliana si è riuscito a fare quanto a Genova non si è (ancora) riuscito a realizzare: un efficiente interscambio con il trasporto su ferrovia, una autostrada del Mare (con la Turchia e i paesi dell’Oriente) e una alleanza strategica con un altro porto europeo (Amburgo) dimensionalmente leader in Europa con Rotterdam e Anversa. La scelta inoltre di dotarsi di una nuova zona industriale, con logistica e stoccaggio in loco e la presenza della ferrovia e del terminal intermodale rafforza i vantaggi di essere divenuti porto franco e facilmente determinerà una crescita nei traffici domestici e continentali. Come in Europa Amburgo è la porta del Nord, Trieste può giocarsi le sue carte per divenire quella del Sud.

Genova invece non riesce a creare alleanze, ma anzi perde terreno ogni anno con i vicini porti di Marsiglia e Barcellona. Attende però di completare alcune infrastrutture essenziali (su tutte il terzo Valico) per superare tutte quelle strozzature che hanno ridimensionato nel tempo il suo porto: progetti che miglioreranno non solo la logistica della Liguria, mala competitività dell’intero Paese.

Genova e Trieste potranno presto giocare un ruolo da protagonisti e non più da comprimari nei traffici del continente. Sarà, a livello governativo, il risultato di investimenti mirati e una programmazione più attenta e, a livello locale, la capacità di riprendersi il ruolo che la storia dei commerci internazionali gli ha sempre riservato.

 

Triestino di nascita, nella città dalmata completa il ciclo di studi.

Broker e Agente marittimo iscritto presso la camera di Commercio di Genova.

Già contitolare di Società Petrolifere Armatoriali.

Contitolare di alcune tra le più importanti Agenzie Marittime a Trieste, con un traffico complessivo di più di 300 navi all’anno.

E’ Console Generale Onorario della Turchia a Genova.

Vive a Genova e ha 2 figlie: Maria Laura e Giulia.

Riccardo Ciani-La nautica post-Covid: dalla crisi a nuove opportunità

L’andamento della nautica ha senz’altro risentito dell’avvento della pandemia, ma se da un lato la crisi pandemica ha dato una battuta d’arresto all’intera filiera, dall’altro lato, paradossalmente, è stata proprio la pandemia a portare ad un nuovo sviluppo della nautica. Possiamo analizzare questo lungo periodo di emergenza Covid dividendolo in due macro-fasi ben diverse tra loro. In una prima fase, si è registrato un calo sia per quanto riguarda il mercato dei charter che quello della vendita di imbarcazioni, chiudendo così il 2020 con un trend generalmente negativo. In una seconda fase invece, i dati registrati hanno mostrato una curva in forte crescita per entrambi i comparti già dagli inizi del 2021, confermando un trend positivo anche per nel nuovo anno. Nella prima ondata di Covid-19 gli effetti della pandemia si sono sentiti soprattutto sugli spostamenti internazionali a causa dei lunghi periodi di lockdown nei vari Paesi, delle chiusure delle frontiere e delle stringenti restrizioni di viaggio. L’assenza di clientela extra UE nel Mediterraneo per la stagione 2020 ha avuto una forte ripercussione per l’intero settore, con incidenza ancora più forte sul comparto del turismo nautico, ossia il mercato dei charter. A confermarlo è stato anche il rapporto di ICOMIA (International Council of Marine Industry Associations) e il rapporto dell’Ufficio Studi di Confindustria Nautica (in collaborazione con Fondazione Edison e Assilea). Sul totale del campione analizzato, circa il 57% delle attività relative a portualità e servizi, ha segnalato una riduzione di fatturato nell’anno 2020. La percentuale è risultata ancora più alta per il segmento del charter nautico, dove l’82% del campione intervistato ha affermato di aver subito una perdita di fatturato. Eppure, non è la prima volta che ci troviamo a vivere sulla nostra pelle gli effetti economici di una crisi mondiale. Eventi come la caduta delle Torri Gemelle nel 2001, la crisi finanziaria del 2008 con la bancarotta di Lehman Brothers, ed ora il diffondersi della pandemia Covid-19, hanno cambiato profondamente il tessuto economico-sociale ed il nostro modo di pensare. Denominatore comune di queste tre grandi catastrofi, è che a risentirne maggiormente è stato proprio il comparto del lusso. L’industria della vendita di yacht, in questo scenario, non è stata risparmiata. Infatti, appena la pandemia è scoppiata, il valore delle barche è sceso drasticamente. Questo calo improvviso è stata la naturale conseguenza dall’aumento del numero di imbarcazioni private usate messe in vendita. Le persone hanno avuto paura di trovarsi impreparati di fronte ad una nuova imminente crisi, e per questo hanno preferito vendere. Il dato interessante è che questo fenomeno si è registrato solo durante i primi mesi della pandemia, ma superata la fase critica, ci siamo trovati di fronti ad una vera e propria inversione di tendenza. Già i primi numeri ufficiali di confronto 2021 sul 2020 hanno mostrato un forte incremento nella vendita di yacht a livello globale. La domanda di imbarcazioni private è aumentata in maniera vertiginosa, al punto tale che in molti cantieri supera del doppio l’offerta. E a trainare la ripresa del settore è stata proprio l’Italia. In particolare, per il segmento dei superyacht, l’industria italiana ha registrato nel 2021 un totale di ordini di unità superiori ai 24 metri che rappresenta quasi la metà degli ordini mondiali, con 407 yacht su un totale di 821 a livello globale. Un dato incredibile considerando che si tratta del maggiore numero di ordini registrato nel Global Order Book dal 2009 in poi. Questa incredibile ripresa è stata possibile grazie a due fattori principali che, paradossalmente, è stata la pandemia stessa a dettare. Da un lato, il desiderio delle persone di andare in vacanza in totale sicurezza. Il concetto di yacht-casa in questo scenario costituisce un valore aggiunto, perché viene visto come un ambiente protetto che permette una vacanza con standard di lusso altissimi, assicurando privacy assoluta e distanziamento. Altro elemento determinante è che dopo la pandemia le persone si sono lasciate più andare. Il 2020 è stato un anno vissuto tra paura, incertezze e limiti alla nostra libertà. Dopo un anno del genere si è sentita l’esigenza di leggerezza e di maggiore svago, per cui la filosofia del Carpe Diem ha preso il sopravvento. Si vive una volta sola, e allora perché non realizzare i propri sogni piuttosto che risparmiare per un futuro incerto? La casa automobilistica Rolls-Royce ha comunicato che nel 2021 ha consegnato più auto che in qualsiasi momento nei 117 anni di storia. Il fattore sociologico post-Covid ha portato questo boom di vendite per la regina delle auto di lusso, ma la stessa cosa è avvenuta anche per gli yacht di lusso. Che sia allora di buon auspicio affinchè il settore nautico possa continuare a trainare la ripartenza del Paese.

 

 

Imprenditore Ligure, da sempre appassionato di mare, inizia giovanissimo la sua carriera nel mondo dello yachting. Nel 2006 fonda Med Yacht Services, agenzia marittima raccomandataria con sede a Sanremo. Oggi MYS è una società internazionale che vanta sedi in alcune delle location più esclusive d’Italia, Francia, Monaco, Spagna, USA e Bahamas.

Gianluigi Vignola- Non è mai troppo tardi per le Classic Car

Il collezionismo delle Classic Car è cambiato? Se si, come? E da quando?  Cosa ci riserva il futuro? Per rispondere, occorre fare un passo indietro, quando negli anni 50, in Europa e negli USA un manipolo di stravaganti appassionati, guardati con sospetto, recuperava dai demolitori dei ferri vecchi che nessuno voleva più e li faceva funzionare sulle strade, creando sconcerto negli altri automobilisti. In quel periodo interessarsi ad un veicolo “vecchio” significava entrare in un Club esclusivo del quale si poteva fare parte solo se animati da un pizzico di follia. In UK il VSCC Vintage Sportscar Club nasce nel 1934 e dal 1927 si corre la London to Brighton riservata a veicoli costruiti prima 1905. Nei decenni 70 – 80 il motorismo storico inizia a strutturarsi, in Italia nel 1966 nasce l’ASI Automotoclub Storico Italiano, e proliferano nel mondo eventi sportivi e fieristici dedicati. I nostalgici stravaganti  si trasformano in una invidiata elite sociale.   E per essere ammessi nel circus ora occorre tempo, denaro e conoscenze, a testimonianza del raggiunto status sociale del collezionista di auto classiche. Nel 1985, per la prima volta, una auto da collezione passa di mano per oltre 1 Milione di $ (Ferrari 250GTO – valore attuale 65M$), una transazione commerciale talmente inedita per allora, da insospettire le autorità doganali che nascondesse traffici illeciti. Il mondo prendeva coscienza di questa moda di rivivere la propria giovinezza per mezzo delle Classic Car, e la domanda cominciò a crescere esponenzialmente. Il mercato assume piena maturità globale grazie all’ingresso nel settore delle più grandi case d’asta dell’arte: Christie’s e Sotheby’s.  La corsa all’acquisto di alcuni modelli Ferrari diviene frenetica, è significativo che alcune auto spedite in America dall’Europa cambiavano più volte di proprietario mentre erano ancora sulla nave. Tuttavia, come in tutti mercati nei quali i prezzi crescono troppo rapidamente, dal 1989 al 1991 si fece strada la speculazione, e come prevedibile quando la domanda si satura, i prezzi ritornarono ai valori precedenti. Gli speculatori abbandonarono il campo, ma restarono i veri collezionisti che continuarono imperterriti a giocare con le loro auto. Nacque così negli anni 90 un ulteriore fenomeno di natura finanziaria, come la vendita del contratto di acquisto di Instant Classic, a prezzi superiori al listino prima della consegna della vettura, oppure l’acquisto per investimento puro di vetture a tiratura limitata da conservare senza percorrere nemmeno un chilometro (Ferrari F40, Bugatti EB110, McLaren F1 ). Ma quali sono i modelli ha hanno trainato il mercato nei diversi periodi? Per capirlo occorre considerare che il profilo del “consumatore” di Classic Car, cambia progressivamente col passare del tempo, si succedono le generazioni, influenzando la domanda dei vari modelli. Negli anni 80-90 i modelli più desiderati erano le anteguerra (Bugatti, Duesenberg, Isotta Fraschini), negli anni 90-2000 le classiche degli anni 50, negli anni 2000-20 quelle del 70-90. Il gusto e quindi la scelta di acquisto, si forma nella coscienza di quei ragazzi tra gli 8 ed i 12 anni, che a 40-50 diventeranno i consumatori di questo mercato. Oggi alla tradizione automobilistica si aggiungono condizioni al contorno come nuovi materiali e tecnologie, restrizioni alla circolazione, normative antinquinamento, ed automatismi di guida, condizioni che orientano la continuità di questo settore. Come cambierà il mercato? Le Instant Classic sono ormai fonte di marginalità importante per i grandi brand Ferrari, Porsche, Mercedes, Aston Martin etc; Ipercar multi-tecnologiche programmate in serie limitatissime da consegnare solo a selezionati collezionisti che le accenderanno unicamente in garage per mostrale agli amici. In America nell’ultimo decennio nasce il fenomeno delle Resto-Mod, vetture classiche degli anni 50 e 70 aggiornate con nuovi motori, sospensioni pneumatiche, pneumatici ribassati ed ogni sorta di infotainment. Una realtà tipicamente di gusto yankee, che conquista le generazioni più giovani e che sta arrivando anche in Europa e la cui variante elettrica sta incontrando grande successo: vetture classiche dalle quali viene rimosso il motore endotermico sostituendolo con uno o più motori elettrici e pacchi di batterie. I collezionisti tradizionali gridano allo scandalo per le modifiche, ma per le nuove generazioni potrebbe essere una strada obbligata, come lo è già nei paesi del Nord Europa. Una Jaguar E elettrica è una auto classica? Si, lo è ancora e lo sarà sempre, anche in una eventuale versione a idrogeno; siamo costretti ad adattarci, ma il mercato lo facciamo noi appassionati. Poiché i tempi per costruire le reti elettriche di distribuzione capillari per il rifornimento elettrico saranno comunque lunghi ed il petrolio non si esaurirà così in fretta, come per un momento avevamo pensato negli anni 70, queste reinterpretazioni, a volte bizzarre, convivranno con le Bugatti 37, con le Lamborghini Diablo e le sportive giapponesi degli anni 70,  i cui prezzi stanno andando alle stelle. Spesso mi chiedono consigli su quale modello puntare per fare anche un buon investimento. La risposta giusta è “quello che vi fa sognare”.

 

All’età di sette anni e alla fine di un tornante vicino a Siena, un convoglio di “Barchette” rosse ruggì davanti a lui sul finale di tappa delle “Mille Miglia”. L’episodio fu la scintilla per una passione per le auto storiche che dura da più di 50 anni e che ha saputo coltivare durante i suoi oltre 30 anni di esperienza nel mondo dell’IT e dell’ICT di start-up europee nel segmento M&A. L’evoluzione naturale è stata quella di collegare il mondo delle auto classiche con quello della tecnologia digitale, creando così la società di valutazioni ADEMY (Automotive Data Evaluation Market Yields). Collezionista di auto storiche, ha partecipato ai maggiori eventi di Classic Car, come la “Mille Miglia” e la “London-Brighton”. Collabora con diverse riviste specialistiche del settore sia italiane che estere. Attualmente è anche membro della giuria del concorso “Chantilly Arts & Elegance Richard Mille”, per non rischiare di annoiarsi.

Alessandro Corbari-THISABILITY: un concetto innovativo di Corporate Social Responsability 

Se non avessi gli occhiali, anche tu saresti disabile. Devi ringraziare la nostra società che li ha inventati, altrimenti….”, fu la frase che scatenò la scintilla. Fino ad allora eravamo solo un gruppo di amici che si era distinto (nel nostro piccolo) nel contesto locale per organizzare feste e grigliate estive sullo spiaggione del fiume Po per migliaia di persone. Come si passa allora da uno spiaggione del Po e da un contesto goliardico ad un concetto innovativo di responsabilità sociale? La risposta è forse legata alle “sorprese amare” della vita: nel 2009 Mec, uno dei motori di questo fragoroso gruppo di amici, sul letto di morte ci chiese di catalizzare la nostra energia, la nostra amicizia, il nostro concetto di saper fare gruppo a favore di chi fosse meno fortunato di noi. Dopo una serie di altri progetti legati ad associazioni del territorio in cui agivamo da “business angels di emozioni”, non mettendo soldi ma passione, è nato così nel 2018 il progetto Thisability, il cui nome gioca con le parole disabilità (per assonanza) e questa abilità (traduzione letterale dall’inglese). Thisability è un progetto che vuole valorizzare “queste abilità”, ai più forse nascoste, ma ben visibili da occhi attenti, abilità ad esempio di un gruppo di una ventina ragazzi caratterizzati da sindrome di Down o con tratti afferenti ai disturbi generalizzati dello sviluppo, ma ad alto funzionamento (autismo). E così dai matrimoni alle cene di gala di Rotary e Lions, dall’area Hospitality della società Cremonese calcio e della Vanoli Basket (realtà sportive di punta a livello nazionale), agli aperitivi nella movida cittadina, ogni volta che si incontra un grembiule amaranto ci siamo noi. Perché dietro ogni grembiule amaranto, c’è un ragazzo Thisability che, in mezzo alla gente che vive e si diverte (è questa la vera differenza), fa capire che il suo sorriso è più affascinante ed inclusivo rispetto a chiunque altro. Ed è anche bravo, forse più bravo di chi, seduto sulla sua normalità, non mette la stessa passione e precisione. Abbiamo ricevuto attestati di stima, onorificenze cittadine, alcuni telegiornali e giornali nazionali hanno parlato della nostra iniziativa e in Gianluca Vialli abbiamo trovato un alfiere del nostro sentire, gratificandoci di indossare il nostro grembiule amaranto, definendoci “un’idea geniale” in una cena di sensibilizzazione nella piazza principale della nostra città e davanti a centinaia di persone. Ma vorremmo che fosse solo un inizio. Abbiamo l’ambizione di valorizzare le abilità dei nostri ragazzi negli eventi più importanti della città, nella modalità più allargata e di pura di inclusione. La pandemia non ci ha aiutato, ma ci ha “costretto” a pensare nuove sfide. E così è nato il progetto dei progetti. Grazie alla Corporate Social Responsability di una realtà aziendale del territorio che ha coperto i costi di start up, abbiamo aperto uno shop nel pieno centro storico di Cremona. Vendiamo il merchandising ufficiale della Cremonese, orgogliosa di associare i colori della squadra del cuore del territorio ad un progetto così nobile. Nei primi due mesi di negozio, abbiamo superato ogni aspettativa: c’è sempre la coda in strada, clienti che vogliono entrare, tifosi che vogliono esser serviti dai commessi Thisability, ex giocatori che entrano e spiegano ai nostri ragazzi le gesta immortalate nelle foto esposte in negozio. Un crogiolo di incontri e sentimenti, che sta arricchendo di passione il nostro centro cittadino. E speriamo (e faremo di tutto) perché progetti simili possano attecchire e crescere anche in altre città: il nostro sogno è vedere in tutti gli store calcistici delle squadre di Serie A e Serie B una declinazione del nostro concetto di “inclusione”. Mi appello allora a chiunque volesse approfondire l’argomento: serve passione e visione, non per forza capitali. Trovate persone fidate, che hanno il fuoco dentro, e cominciate a sognare con loro. È meno difficile di quanto si possa immaginare, basta un po’ di coordinazione, processi educativi chiari e condivisi e tanto tanto cuore…

 

Cremonese doc, ha costruito la sua carriera tenendo al centro il suo territorio, la sua famiglia, i suoi affetti. Nel corso degli oltre vent’anni ha assunto crescenti ruoli di responsabilità in istituti di credito internazionali, da ultimo Head of International Department di Credit Agricole Italia. La centralità del territorio, durante il COVID, lo ha portato a riflettere su cosa poter fare per la sua città, che soffriva per morti quotidiane ed una crisi economica imprevedibile. Ha scelto così di mettersi in gioco e di condividere le sue conoscenze e relazioni con gli imprenditori del suo territorio nativo. Ed è così nata Nexus Ac Finance, in partnership con Nexus Stp, un prestigioso studio di professionisti locali. Se il pil del tessuto padano avrà un sussulto anche solo infinitesimale, Alessandro avrà raggiunto la sua missione, e sarà un uomo ancor più felice. Non saprà mai se è stata la scelta giusta, ma certamente non avrà rimpianti.                      

Alessandro Bonsignore-L’essere medico ai tempi del Covid-19

Il 2021 si è appena concluso con l’auspicio che il nuovo anno possa essere quello di un graduale ritorno alla normalità, pur caratterizzato da nuove prospettive sia di vita sociale che di vita professionale. Il cambiamento riguarda, certamente e più di qualsiasi altro ambito, la Sanità; lo scenario che si dipana innanzi a noi è – infatti – caratterizzato da un rapido divenire. Genova e la Liguria, come spesso è accaduto in questi anni, sono e saranno – ancora una volta – rispettivamente città e Regione pilota. Il nostro Territorio, infatti, è connotato da peculiarità demografiche, oltre che geografiche, tali da dover immaginare già oggi ciò che il resto d’Italia dovrà affrontare non prima di una ventina d’anni. La sfida delle cronicità a lungo trascurate, in modo ovviamente e tristemente incrementale negli ultimi mesi, e di tutto ciò che la pandemia ha rallentato in termini di prevenzione, screening, cura e follow-up, a detrimento del bene Salute dei cittadini-pazienti (basti pensare al fatto che la stadiazione media delle malattie oggi diagnosticate è sensibilmente più avanzata rispetto al pre-SARS-COV2), deve portare ad uno sforzo comune di tutti i “portatori d’interessi”, nell’accezione migliore del termine. Si impone, quindi, una sinergia che consenta di convogliare, nel modo più efficace ed efficiente, le strategie di riforma del SSN attualmente in corso, investendo le ingenti risorse che per alcuni anni avremo (e che precederanno un lungo periodo di grande austerity, già preannunciato), affinché si possa creare un sistema sostenibile nel lungo periodo, caratterizzato dall’equità nell’accesso alle cure e dalla risoluzione delle tante criticità che oggi si palesano nel nostro quotidiano lavorativo. Basti pensare alla drammatica situazione dei Pronto Soccorso, laddove la grave carenza di Medici è da ricercarsi nei turni massacranti, nei sempre più frequenti episodi di violenza verbale e/o fisica contro gli operatori, nelle continue reperibilità e guardie notturne e festive, nel tempo sottratto alla vita privata ed all’aggiornamento, per non parlare della sostanziale impossibilità di svolgere attività libero-professionale. Altro tassello fondamentale è la continuità delle cure, da cui l’ormai improcrastinabile riforma del Territorio, che non può non passare da una nuova (forse prima) reale integrazione con l’Ospedale. Vi è, poi, il grande capitolo della comunicazione: tra Colleghi, tra Medico e paziente, tra Comunità Scientifica e popolazione, tra Medicina e mass/social-media. Tematiche, quelle citate, che impattano fortemente sul decoro e sulla dignità professionale da un lato, nonché sulla tutela di Salute della popolazione, vale a dire sui mandati istitutivi dell’Ordine, quale Ente Sussidiario dello Stato. D’altronde, è sotto gli occhi di tutti come, al tempo del COVID-19, la considerazione dei Medici – perlomeno in una parte dell’opinione pubblica – è passata dall’essere stati improvvisamente trasformati in “eroi” a oggetto di feroci critiche. Ebbene, la fortuna di chi oggi attacca i Medici è che i Medici, per esercitare la Professione, prestano – proprio all’interno della sede del loro Ordine di appartenenza – un giuramento che li porta a curare tutti, senza discriminazioni alcune, sempre e comunque. E’ questo uno degli aspetti cardine che può – e anzi deve – distinguere la Politica dalla Medicina, anche se in questi ultimi due anni la commistione è stata, purtroppo, frequente e difficile da comprendere. I Medici sul campo, quelli in prima linea, hanno – infatti – continuato a fare i Medici ed a prendersi cura (concetto ben più ampio del semplice “curare”) di ogni cittadino, per il COVID-19 e per qualsivoglia malattia, in scienza e coscienza, troppo spesso in condizioni proibitive ma, nonostante questo, senza far mai venire meno il proprio impegno, mantenendo a galla il Sistema Sanitario Nazionale e garantendo le risposte ai bisogni di Salute della popolazione. Un impegno che potremmo definire totalizzante ma che, a inizio pandemia, portò a respingere con forza l’appellativo di “eroi” perché l’essere Medico non configura solo una Professione, bensì anche una vocazione e, come tale, va semplicemente rispettata. In questo contesto l’ulteriore auspicio per il nuovo anno, anche grazie all’attuazione del PNRR, è che non ci si dimentichi troppo presto di quanto accaduto nella storia recente e che il 2022 possa rappresentare il punto di partenza per invertire la rotta e riportare la figura del Medico al centro del sistema Paese, quale garante del bene più prezioso; un bene senza il quale, come abbiamo potuto constatare in tutta la sua drammaticità, tutto il resto passa in secondo piano.

 

 

Medico Chirurgo, 39 anni, Specialista e Dottore di Ricerca in Medicina Legale, dal 2017 Professore di Medicina Legale presso l’Università di Genova, afferente al DISSAL (Dipartimento d Scienze della Salute), vanta incarichi di insegnamento anche in Atenei Stranieri. E’ consulente tecnico della Procura della Repubblica e delle Sezioni Civili e Penali presso numerosi Tribunali italiani. Convenzionato con l’Ospedale Policlinico San Martino, svolge attività di consulenza centrale anche per l’IRCCS-Istituto Giannina Gaslini. Nel 2014 è stato vincitore del prestigioso premio internazionale “Young Scientist Award”, quale miglior patologo forense al mondo under 40. Organizzatore di molteplici congressi nazionali ed internazionali, ha pubblicato oltre 200 lavori scientifici sulle principali riviste del settore, essendo anche membro dell’Editorial Board di alcune di esse. Da diversi anni è “Fellow” dell’American Academy of Forensic Sciences. Dal 2017 è Presidente della Federazione Regionale Ligure degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri e, dallo scorso anno, Presidente dell’OMCeOGE per il quadriennio 2021-2024, di cui risulta esser stato Vice-Presidente nei precedenti due mandati (2015-2017 e 2018-2020).

Paolo Raffetto-La nuova normalità, tra città intelligenti e lavoro agile

La pandemia da Covid-19, nonostante tutti i problemi che ha causato, ha funzionato da propulsore innovativo per quanto riguarda alcuni aspetti delle nostre vite quotidiane. Tra queste innovazioni, lo smart-working sembra avere costituito in poco tempo una modalità di lavoro ritenuta imprescindibile nella “nuova normalità” post pandemia: è destinato ad entrare nelle nostre vite sempre più in maniera radicata, il che potrebbe essere una delle migliori conseguenze della pandemia. Un balzo evolutivo verso la modernizzazione del nostro Paese anche se in ritardo rispetto ad altri Paesi e questo ci consente di includere nel termine smart-working anche modalità lavorative quali il telelavoro, il lavoro a distanza e l’home-working, che insieme hanno comportato cambiamenti epocali sul pensare e progettare le nuove città. L’adozione massiva dello smart-working ha infatti comportato la riduzione degli spostamenti dei lavoratori dalla propria residenza al luogo di lavoro, con conseguente minore impatto degli smart-workers sulle reti di trasporto pubbliche e sull’utilizzo dei mezzi privati, oltre che sull’inquinamento dell’aria. Questa conseguenza, insieme all’elettrificazione dei mezzi di trasporto e all’adozione di una mobilità energeticamente sostenibile, potrebbe non solo costituire una risposta contro il cambiamento climatico, ma anche modificare già da sola l’utilizzo delle città. Tra le caratteristiche distintive dello smart working vi sono anche la ridefinizione del luogo e dell’orario di lavoro fino alla ridefinizione in chiave agile e fluida della propria vita. Ne discende un’altra conseguenza, collegata alle precedenti: la possibilità di una diversa gestione del proprio tempo e quindi delle scelte insediative in un’ottica di miglioramento della propria vita. Nel bilanciamento di aspettative e di possibilità (la c.d. worklife balance) la scelta – attuale o futura – del luogo di residenza/lavoro sta premiando le località inserite in contesti ad alta qualità di vita: centri storici di città medio piccole, siti con una importante valenza naturalistica (mare, campagna, montagna quelle che una volta si sarebbero rubricate come località di villeggiatura). Lo scenario italiano che potrebbe presentarsi quindi, è quello che Stefano Boeri definisce come “la città arcipelago“: la ricerca di equilibrio tra “isole” metropolitane e un fitto territorio costellato di città e villaggi più piccoli, in nome della sostenibilità ambientale e di un equo, e quindi equilibrato, sviluppo economico e sociale. Lo smart-working potrebbe inoltre consentire alle persone una maggior radicamento e appartenenza al quartiere dove si vive, fungendo da catalizzatore nei confronti di azioni di riqualificazione urbana che consentiranno la possibilità di dialogo tra il centro e la periferia delle nostre città. Nella nostra esperienza quotidiana, il luogo per eccellenza dove abbiamo facilmente rilevato gli effetti concreti della pandemia è stata la casa. In generale gli ostacoli che le case hanno incontrato nel farsi “sede” di smart-working riguardano innanzi tutto l’ergonomia e la funzionalità della postazione di lavoro vera e propria, quindi è emersa anche l’esigenza di separazione fisica in cerca di privacy e concentrazione all’interno degli alloggi. Gli addetti ai lavori la chiamano la ricerca della “quinta stanza“, ovvero l’interesse delle persone per gli spazi pertinenziali che possano consentire uno sfogo all’aperto. Possibilmente, per chi se lo può permettere, questi spazi sono più ricercati in contesti ambientalmente qualificati e ben connessi ai centri urbani maggiori. Contemporaneamente a questo rinnovamento delle città è possibile osservare un cambiamento anche per gli uffici che porta a una maggiore attenzione sia sul benessere psico fisico della persona, sia sugli spazi lavorativi, con postazioni di lavoro non più fisse, ma libere o legate al team work di competenza per una data attività. Quali conclusioni allora possiamo trarre? Nella nuova normalità sono inscritte le possibilità di cambiamento che la pandemia ha contribuito a mostrare, spetterà a noi tutti disegnare, con questi nuovi strumenti in mano, le città e soprattutto i cittadini di domani. Questo cambiamento, che passa dalle case e arriva alle nostre città, va guidato con la consapevolezza che ogni città è diversa. É necessario imparare a declinare questo modello (che ha driver molto globali quali la digitalizzazione, la transizione energetica, la sostenibilità ambientale) a livello locale, rispettando e integrando le forme urbane, il patrimonio culturale, storico e artistico già presenti. Le città italiane si candidano ad essere un ottimo banco di prova rispetto al bilanciamento di queste innovazioni. A noi il compito di essere attori e non spettatori di questa trasformazione.

 

Genovese, architetto libero professionista, è partner co-fondatore di Go-Up Architects insieme all’arch. Nicola Canessa. Durante la sua esperienza professionale ha sviluppato e realizzato progetti urbanistici, architettonici e di interior design, in ambito locale, nazionale ed internazionale sia per committenti pubblici che privati con particolare dedizione nei confronti dei beni culturali. E’ stato inoltre consulente della Regione Liguria e di GGR Genova in materia di infrastrutture e logistica, ed è CTU presso il Tribunale di Genova e presso il TAR Liguria. E’ stato fondatore dell’Associazione PdA Giovani Architetti, per la quale è stato delegato nazionale GIARCH. Dal 2007 ha fatto parte del Consiglio dell’Ordine degli Architetti P.P.C. della Provincia di Genova, di cui è stato presidente del Consiglio da aprile 2016 al 2021. Ha fatto parte di numerose commissioni di lavoro presso il Consiglio Nazionale di categoria. Sposato con Milly, ha due bimbe, Cecilia e Margherita

Diego Piovan-Il “motore” della trasformazione digitale per sfruttare il potenziale dell’Intelligenza Artificiale

La pandemia COVID 19 ha accelerato, in modo forzato, alcuni cambiamenti nel comportamento dei clienti dell’industria dei Servizi Finanziari, che hanno portato le aziende del Settore all’adozione di nuovi processi e regole volti a tutelare la salute, garantendo contestualmente la continuità operativa. Questo contesto ha creato circostanze uniche nella spinta alla digitalizzazione dei processi sia interni sia delle interazioni con i clienti. L’emergenza sanitaria ha, di fatto, consentito di fare un “test in produzione” della capacità di implementare in tempi molto rapidi e con successo nuovi processi in grado di rispondere al mutamento delle esigenze della clientela. Questa spinta alla digitalizzazione è stata realizzata attraverso l’utilizzo di una ampia gamma di tecnologie che permettono di semplificare i processi aziendali e contestualmente aumentare il perimetro delle attività che possono essere automatizzate e/o remotizzate.

L’introduzione di nuove tecnologie, la digitalizzazione e l’automazione dei processi possono fornire vantaggi significativi, in termini di riduzione dei costi operativi, aumento della produttività e miglioramento della customer experience. Le aziende che stanno riuscendo a ridisegnare il “nuovo modo di lavorare” hanno la capacità organizzativa di saper orchestrare molteplici competenze: governo ed utilizzo di diverse tecnologie, comprensione dei bisogni dei clienti e la capacità di ridisegnare i processi operativi abilitando la possibilità delle persone nello sfruttare il lavoro effettuato dalle “macchine” (Robotic & Cognitive Process Automation e Intelligenza Artificiale).

Questa attuale fase di transizione può quindi essere considerata come una sorta di “motore” per proseguire nel processo di trasformazione digitale, già in parte avviato prima della pandemia, attraverso l’implementazione di interventi necessari per garantire la sostenibilità del business delle aziende che operano nell’industria dei Servizi Finanziari. Ma questa opportunità dovrebbe essere sfruttata anche da altri settori perché il processo di trasformazione digitale non è solo limitato all’efficienza organizzativa ma ha anche un impatto sulla trasformazione dei modelli di business necessari per soddisfare le esigenze ed aspettative dei clienti che NON ritorneranno ad essere quelle pre-COVID.

L’accelerazione del percorso di digitalizzazione richiede la capacità di utilizzare e governare l’adozione di alcune tecnologie “chiave” per supportare la creazione di nuove opportunità di mercato: di particolare importanza l’intelligenza artificiale che consente lo sfruttamento dei dati come “asset”, ma richiede una governance che ne garantisca un utilizzo affidabile ed etico. L’Intelligenza Artificiale è in questo momento una buzzword utilizzata da molte aziende sia del settore finanziario sia di altri settori ed è quindi interessante analizzare il percorso di rapida trasformazione nel ridisegno dei modelli operativi e di business che (solo) alcune imprese stanno intraprendendo per riuscire a sfruttare il potenziale disruptive dell’Intelligenza Artificiale. I fattori critici di successo di queste imprese sono almeno quattro. La prima è la strategia: l’Intelligenza Artificiale è considerata come una leva competitiva della complessiva strategia aziendale; la seconda è la gestione delle Operations: l’Intelligenza Artificiale consente il ridisegno dei processi operativi ma richiede sia dei cambiamenti organizzativi che abilitino lo sfruttamento del “pieno potenziale” del “nuovo modo di lavorare” sia una rigorosa governance delle modalità di utilizzo di queste tecnologie. La terza è la cultura & change management: il percorso di trasformazione deve essere supportato da un programma in grado di valorizzare il miglioramento dell’employee experience grazie all’integrazione dell’Intelligenza Artificiale nei processi di lavoro. Infine la capacità di sviluppare un ecosistema di partnership che consente all’impresa di avere a disposizione tutte le tecnologie e competenze necessarie, evitando dei “vendor lock in” e abilitando lo sviluppo “in-house” delle competenze “core” per proteggere la differenziazione ed il vantaggio competitivo ottenuto grazie all’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale. In conclusione si sottolinea l’importanza delle capacità organizzative per garantire la “messa a terra” e realizzazione dei benefici del percorso di trasformazione digitale e di adozione dell’Intelligenza Artificiale.

 

Milanese, che vive a Genova da molti anni, è dal 2017 Partner di Deloitte dove lavora come advisor di aziende del settore finanziario nell’ambito della trasformazione digitale e dell’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale. Dal 2005 al 2016 ha ricoperto importanti ruoli manageriali nel Gruppo Banca Carige ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione di SIA S.p.A. e VicePresidente di ABILab, il Centro di Ricerca e Innovazione per la Banca promosso dall’ABI. In precedenza ha maturato una quasi decennale esperienza nella Consulenza di Direzione in una delle maggiori global consulting firm.

 

Alberto Antonietti- Intelligenza artificiale e sostenibilità: gemelli siamesi nel prossimo futuro

In quest’anno passato abbiamo visto organizzazioni storicamente restie al cambiamento accelerare il loro processo di trasformazione. Nuovi modelli di business più inclusivi hanno mostrato come sia possibile crescere ed incontrare il favore di clienti, investitori, dipendenti e comunità locali. I modelli di servizio sono stati ripensati per accomodare stili di consumo emergenti, il lavoro che pensavamo potesse esser svolto solamente in ufficio è stato ridisegnato completamente senza impatti sulla produttività, il tutto abilitato da nuove infrastrutture tecnologiche in cloud.

In questo scenario, possiamo classificare le grandi aziende europee in tre grandi blocchi: le imprese che fanno fatica a tornare ai livelli di ricavi e di redditività ante Covid 19 (aziende in contenimento), le aziende che viaggiavano forte prima dell’emergenza economico sanitaria, ma che hanno accusato il colpo, in quanto operanti in settori fortemente impattati (“angeli caduti”), e infine i “leader di domani”, ovvero le aziende posizionate al meglio per sfruttare la ripresa economica.

La classificazione appare abbastanza netta, anche se esistono tendenze in comune, soprattutto in tema di innovazione e sostenibilità, che fanno ben sperare per un rilancio dell’economia continentale.

Questa fotografia è emersa anche in uno studio pubblicato e condotto da Accenture su un campione di aziende leader a livello continentale “The European double up: a twin strategy that will strenghten competitiveness”, in cui emergono chiari gli orientamenti seguiti dalle aziende che stanno investendo per anticipare il futuro ossia: l’innovazione e la sostenibilità, elementi che hanno seguito strade separate fino ad oggi, ma che in futuro si incroceranno fino a diventare inseparabili.

L’Europa della ripartenza si trova davanti a sé una strada tutt’altro che in discesa, resa impervia dalla notevole frammentazione dovuta agli impatti della pandemia.

Quali sono allora queste aziende “leader di domani”? All’interno del campione analizzato (più di 4.000 società) abbiamo individuato circa un terzo (il 32% per l’esattezza) di aziende che possono guidare la ripresa. Tra queste figurano imprese del pharma, delle biotecnologie, dell’hi-tech, dei media e del largo consumo.

La ripresa a livello continentale potrebbe assume la forma a U, V o altra lettera da scoprire. Ma di certo c’è una lezione strategica trasversale a tutti i comparti: crescono gli investimenti nei “due gemelli di prima”, dove, secondo il nostro studio il 45% delle “big company” europee sta già investendo sia in sostenibilità che in innovazione, il 40% prevede investimenti ingenti nella intelligenza artificiale e il 31% sta ancora pianificando gli investimenti. 

Siamo dunque in una fase sempre più profonda in cui la sostenibilità è vista e vissuta dai leader illuminati come l’unica strada per avere un’economia di riferimento, non come un’opzione di marketing.

L’evoluzione della regolamentazione, della finanza, dei consumatori e delle aziende sta già richiedendo una trasformazione dei modelli di business e dei processi operativi in un’ottica sostenibile. E la leva della digitalizzazione sarà fondamentale per abilitarla. La sostenibilità sta inoltre aprendo nuovi spazi di mercato, attraendo la finanza e garantendo nuove dimensioni di beneficio.

Non deve dunque stupire il fatto che diverse grandi aziende stiano ripensando i propri ecosistemi: i consumatori sono sempre più attratti dalle aziende responsabili, di conseguenza sempre più imprese propongono una particolare attenzione alla filiera di produzione per verificare di esserlo effettivamente.

Questo si traduce in una estensione di prassi omogenee di controllo di fornitori o di qualità, di rispetto della legislazione in tema di lavoro e di nuovi standard di produzione, pena l’essere esclusi dal mercato.

Fattore congiunto a questo nuovo orientamento è quello della valorizzazione del talento, del lavoro e della leadership che si lega inevitabilmente anche a nuovi modelli di lavoro sempre più ibridi che lascino spazio alla socialità.  Se cambia il mondo del lavoro, deve cambiare anche la leadership: la responsabilità verso il capitale umano è aumentata esponenzialmente nell’anno della pandemia.

La gestione delle relazioni umane, che è la competenza soft per eccellenza, è stata decisiva e sarà sicuramente un pilastro strategico della twin transformation.

 

Strategy Lead ICEG – Italy, Central Europe & Greece. Ha maturato oltre 25 anni di esperienza nella consulenza strategica e direzionale in Italia e all’estero. In particolare, nel ruolo di responsabile di Accenture Strategy, guida un gruppo di 220 professionisti.

Inoltre, in qualità di Client Leadership, ha supportato negli anni i principali gruppi bancari nella presa di decisioni strategiche, affrontando le sfide della trasformazione e della crescita sostenibile.

Autore di articoli e pubblicazioni nonché speaker in numerosi convegni in ambito Financial Services e Consulenza Strategica. Appassionato di sci alpinismo, sposato con due figli, vive a Varallo.

Antonello Amato- Il Piano strategico di comunicazione e marketing: l’asset portante del rilancio commerciale delle PMI

Ogni impresa possiede due, e solamente due funzioni di base, la comunicazione e l’innovazione”. Mi piace sostituire in questa citazione di Peter Ducker la parola comunicazione al termine originario marketing, ritenendo quest’ultimo una derivata del Piano di comunicazione strategico. Ritengo che Ducker con questo aforisma abbia perfettamente fotografato le leve strategiche di ogni impresa sana e vivace che opera con successo sul proprio mercato di riferimento. E’ noto a tutti che le PMI italiane rappresentino un caso pressochè unico nel panorama mondiale economico e finanziario a causa di una proprietà in larghissima parte di stampo famigliare; una interessenza continua con i territori di riferimento per i quali la PMI rappresenta una fonte di reddito potenziale per larghi settori di cittadinanza; una dimensione generalmente ridotta; e una polverizzazione del fenomeno su tutto il territorio nazionale. Le PMI italiane dal 2015 hanno subito alcuni processi che hanno/stanno modificando il loro modo di operare e di posizionarsi sul mercato. In particolare, hanno subito una lunga crisi economica dalla quale si stavano risollevando prima che il Covid-19 bloccasse tale rilancio e stanno subendo la concorrenza delle multinazionali, (a partire dai colossi del delivery), che, avvantaggiati anche da politiche fiscali più favorevoli, hanno ritenuto interessante iniziare a operare sui micro-mercati regionali. Da ultimo, la pandemia ancora in atto ha bloccato la produzione per lunghi mesi e ha creato i presupposti per profonde innovazioni e modifiche ai processi di lavoro e produttivi nonché alle relazioni con i dipendenti e i collaboratori esterni. Da tale situazione di crisi, le PMI hanno saputo reagire in generale con l’usuale grinta e inventiva: la famiglia o la proprietà hanno reinvestito capitali e risorse nelle imprese, sono stati spesso rivisti in toto i processi di produzione; la gestione dei dipendenti e le innovazioni rivenienti dallo smart working sono state affrontate senza gravi squilibri e il management ha iniziato a investire in iniziative di comunicazione e marketing. Mi piace soffermarmi proprio su questo ultimo punto. Le PMI hanno in questi 2 anni investito molto, ma in generale con processi decisionali dettati dall’urgenza del momento e dalla fretta di risolvere i problemi più stringenti, senza una visione di insieme e spesso senza una pianificazione attenta degli investimenti e delle attività aventi carattere di priorità. Si sono rifatti siti, avviate campagne social e digital, investito sui media tradizionali con specifici progetti di Advertising. Se paragonassimo il sopra descritto modus operandi alla costruzione di una casa, oggi vedremmo gran parte del nostro panorama urbano costituito da costruzioni sghembe e pericolanti. Ciò per colpa anche delle agenzie di comunicazione che, essendo a loro volta imprese tese ad incrementare il proprio fatturato, hanno venduto singoli prodotti/servizi assecondando le richieste provenienti dalle PMI. Emerge pertanto come impellente il fatto che le imprese comprendano che il loro rilancio/posizionamento commerciale sia supportato da un Piano strategico di comunicazione e marketing che sappia concentrarsi sull’analisi del mercato di riferimento e della concorrenza specifica, sull’ attuale posizionamento della PMI e quello ricercato, sugli obiettivi commerciali di breve e medio periodo; sugli obiettivi di comunicazione; sugli stakeholder coinvolti; e non da ultimo sulle leve di comunicazione da adottare con relativi tempi di realizzazione. L’elaborazione di un Piano strategico è un processo di lavoro lungo, che vede coinvolta sia la proprietà e sia la prima linea aziendale. Spesso ritenuto oneroso o addirittura superfluo, il Piano invece rappresenta le fondamenta solide della nostra “casa della comunicazione”. Mi piace allora rivolgere un invito agli imprenditori. Fermatevi un momento a riflettere sulle vere e prioritarie esigenze delle vostre aziende, fatevi supportare nel processo di valutazione da un consulente che abbia esperienza sufficiente e con una visione “laterale” dei problemi e delle opportunità, investite prioritariamente nella redazione del Piano strategico da considerarsi propedeutico ad ogni singolo acquisto di prodotti e servizi di marketing. In tal modo si realizzerà compiutamente il postulato avanzato dal nostro caro Peter Ducker.

 

Nonno, padre e marito. Da oltre 30 nel mondo della comunicazione con ruoli dirigenziali, attualmente Amministratore Unico di A&A Communication Srl e Presidente di BAM Communication Rete di Imprese.

Giuseppe Gallo-Lo scioglimento di un movimento: la difficile scelta fra lo strumento giudiziario e quello politico

Il dibattito pubblico conseguente all’assalto della sede romana della Cgil ed il tentativo di estendere quell’aggressione addirittura a Palazzo Chigi, sede del Governo, evoca lo spettro di una violenza che ha colto il Paese del tutto impreparato nella difesa dei suoi simboli democratici. La necessità più stringente è rappresentata dall’interpretazione di un fenomeno che, al netto della sua pittoresca violenza anche simbolica, presenta pochi elementi di contatto con la pericolosa ideologia fascista che i protagonisti delle odierne turpi gesta sconoscono, al di fuori di qualche saluto romano esibito sugli spalti di uno stadio di calcio. Lo spessore culturale inesistente di questa canaglia non rappresenterebbe un problema se non lo si coniugasse con i reali (ed ignoti) numeri dei soggetti coinvolti, i quali, proprio in virtù della democrazia partecipativa che paradossalmente osteggiano, hanno un peso, soprattutto all’interno di quelle forze politiche che non li emarginano in vista di obiettivi elettorali coltivati anche strumentalizzando la protesta sanitaria in atto. Al di fuori del caso si specie, sciogliere un movimento, sarebbe, come è, una grave ferita per la democrazia, a fortiori in un’epoca in cui un Parlamento funge da comparsa rispetto ad un Esecutivo, protagonista indiscusso di una scena politica tristemente condannata ad un inesorabile declino da un datato sistema fatto di liste bloccate che privilegiato la cooptazione ai già flebili contenuti. Insomma, non sarebbe normale che un Governo sciogliesse, con un provvedimento autoritativo, un movimento, se ciò non fosse reso necessario dalla stretta contingenza; in questo caso, però, Marcuse ed il suo concetto di tolleranza repressiva c’entrano veramente poco, se gli aderenti si dimostrano, come nel caso di specie, socialmente pericolosi. L’ambiguità e l’assenza di reazione, comodi rifugi per ripararsi momentaneamente dalla tempesta – secondo un mantra per cui si riforma il processo penale per non imporre ai pochi magistrati che non lavorano di farlo, ovvero si opta per la carta verde al fine di evitare di introdurre la vaccinazione obbligatoria (a prescindere che ciò sia giusto o meno) – sostanziano una resa con correlativa e grave deroga alla Costituzione, la quale, alla XII^ Disposizione Finale, recita del divieto di «riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista». La nostra Magna Carta aveva posto tale unico limite al progetto di democrazia «aperta», improntata alla «lealtà di comportamento» nella vita pubblica, in una prospettiva di emarginazione delle sole associazioni antisistema, secondo un canone, però, di eccezionalità. Su questi presupposti, la legge n. 645 del 1952, all’art. 3 (nota come legge Scelba), prevede due ipotesi di scioglimento e confisca dei beni, richiedendo all’uopo una sentenza che accerti la riorganizzazione del disciolto partito fascista, pronunciata la quale, il Ministro dell’Interno, sentito il Consiglio dei Ministri, dispone l’uno e l’altra con atto proprio. In casi straordinari di necessità ed urgenza – ecco la deroga – il Governo, ricorrendo i presupposti per ritenere che un’associazione o un movimento abbia dato luogo alla riorganizzazione del partito fascista, può, con decreto legge, pervenire al medesimo risultato. Si annoverano solo due casi di scioglimento risalenti agli anni settanta, per effetto di sentenze che avevano ravvisato evidenti caratteristiche d’incostituzionalità in Ordine Nuovo ed Avanguardia Nazionale. Quindi, anche lo strumento del decreto di scioglimento non potrebbe prescindere dall’accertamento dei fatti nella loro oggettività e delle responsabilità dei singoli cui è deputata la giustizia penale, pur con i limiti e la durata del processo, mezzo, quest’ultimo, tutto sommato più equilibrato nel garantire la salus rei publicae; in alternativa, ritenendo attuabile la reazione governativa – che sarebbe efficace solo se tempestiva e bipartisan, individuati, concretamente, i profili soggettivi di illegalità (condanne passate in giudicato) degli aderenti a tutte le varie associazioni, movimenti e quant’altro del panorama nazionale – quale soluzione, palesemente agibile, dichiarando fuori legge quelle realtà che violano la vigente normativa penale (art. 416 c.p.,associazione per delinquere;art. 304 c.p., cospirazione politica mediante accordo; art. 305 c.p., cospirazione politica mediante associazione, ecc.).

 

Laurea in Giurisprudenza. Avvocato Cassazionista penalista, opera in Italia ed all’estero (Paesi di area francofona).Ha patrocinato, oltre che in molte aule di giustizia italiane, innanzi la Suprema Corte di Cassazione in processi in difesa di privati, enti pubblici, banche e multinazionali. Esperto di reati colposi dell’impresa, del campo medico e contro la P.A., ha svolto il proprio mandato nel processo del G8 di Genova e in altri processi penali di criminalità organizzata, e in arbitrati nazionali della giustizia sportiva. E’ stato docente di diritto penale, procedura penale, diritto penitenziario e legislazione della privacy presso la Scuola Nazionale della Polizia Penitenziaria di Cairo Montenotte (SV) ed anche, per gli aspetti penali del Collegio dei Geometri della Provincia di Genova. Già collaboratore e pubblicista per numerose riviste specialistiche di diritto penale. Organizzatore e relatore di convegni su svariati argomenti penalistici: dalla responsabilità medica al riciclaggio, dallo stalking ai profili criminologici dell’omicidio.

Michele d’Apolito- Crisi e risanamento: si salvi chi può (essere salvato)

L’ottimismo della volontà è una grande virtù, e chi fa impresa ne è solitamente un portatore sano. Capita spesso, tuttavia, che il pessimismo della ragione sia un sentimento troppo sottovalutato dai nostri capitani d’impresa, che preferiscono “buttare la palla” in avanti di fronte a situazioni di difficoltà.

Eppure, l’esperienza insegna che ci sono segnali che vengono spesso drammaticamente ignorati, a volte per l’assenza di strumenti di monitoraggio, figli di un sottodimensionamento organizzativo tipico delle nostre PMI, a volte per l’eccessiva fiducia dell’imprenditore nel proprio istinto e nell’affezione cieca alla propria creatura, in assenza di una strategia di medio periodo.

Un dato di fatto è che tutte le crisi arrivano ad essere chiamate con il loro nome quando si è entrati ormai nella fase critica.

Una strada – quella dell’approccio ad un piano di ristrutturazione e risanamento – che viene spesso imboccata quando le casse sono già vuote a causa di una sopraggiunta tensione finanziaria, che può verificarsi anche con bilanci che chiudono in utile “apparente” e con un patrimonio positivo, ma che sotto la superficie nascondono pericolose magagne: clienti incagliati e non adeguatamente svalutati, magazzino a lenta rotazione, struttura dell’indebitamento non equilibrata rispetto alla natura degli investimenti fatti.

Spesso la “strozzatura” finanziaria diviene improvvisa ed ha effetti repentini sulla credibilità dell’impresa, cui fanno seguito atteggiamenti più o meno conflittuali ed ostruzionistici dei suoi stakeholders.

Ed allora, di fronte a difficoltà interne crescenti, si affacciano le prime frizioni con fornitori e banche, da cui normalmente si parte per la ricerca di un advisor che aiuti l’imprenditore a trovare una strategia di indirizzo del risanamento; un compito arduo, tanto più se si considera che il professionista dovrà affrontare quello che la dottrina microeconomica definisce il “moral hazard” dell’imprenditore, ovvero la ricerca – da parte di quest’ultimo – delle migliori soluzioni per sé, che gli consentano di mantenere il controllo, od ottenere la migliore alternativa possibile, non necessariamente coincidente con la soluzione ottimale per i suoi creditori.

Questo possibile conflitto tra interessi contrapposti può diventare forte al crescere delle difficoltà, spesso dirompenti con un intervento tardivo.

L’advisor – dal canto suo – dovrà comprendere rapidamente il contesto in cui si trova, verificare la fattibilità di un piano di risanamento e, laddove ritenga la crisi irreversibile, saper dire di no a prospettive fantasiose di recupero, che potranno comportare un’inerzia distruttiva ed anche una sua eventuale responsabilità diretta.

Come si possono allora anticipare certi segnali ed evitare le conseguenze spesso drammatiche di una disgregazione aziendale?

Da diversi anni il Legislatore promuove strumenti che dovrebbero favorire l’individuazione precoce dei primi indizi di difficoltà: si è andati progressivamente verso proposte che allontanavano i debitori dal Tribunale e “privatizzavano” sempre di più la gestione della crisi, incentivando a trovare accordi stragiudiziali, all’insegna di una spiccata autonomia di risoluzione tra l’impresa in crisi ed i suoi creditori.

E in questa direzione si è proseguito con l’introduzione del recente DL 118/2021 e dello strumento della composizione negoziata, che ha di fatto smontato l’impianto ideologico del nuovo Codice della crisi – basato sull’allerta attivata da soggetti terzi (collegio sindacale e creditori pubblici) – tornando ad attribuire al debitore un’autonomia decisionale nell’individuazione del momento di avvio del processo di risanamento.

Staremo a vedere se questi recenti correttivi sono adeguati ad affrontare il contesto competitivo attuale ed a salvaguardare la parte buona dell’economia.

Un sistema sano deve garantire la possibilità di salvataggio di un’entità aziendale che abbia concrete prospettive di recupero, ma anche saper isolare ed espellere dal mercato quegli operatori che sono dannosi per il contesto competitivo circostante, magari agevolandone la liquidazione e l’accesso a procedure giudiziali di recovery.

La disgregazione che fa seguito ad un’insolvenza è un fattore che non riguarda solo la singola realtà, ma impatta sui territori per la perdita di posti di lavoro, sulla finanza pubblica per la perdita di gettito, sul tessuto economico per le possibili contaminazioni che può lasciare nelle imprese che hanno interagito con l’entità in crisi.

Il punto di svolta per la prevenzione è certamente legato ad un salto culturale del mondo produttivo, che si sta in parte iniziando a verificare: implementazione di veri strumenti di monitoraggio del cash flow aziendale, apertura del capitale ai terzi per il potenziamento della struttura finanziaria, una generale propensione a considerare – certamente più che nel recente passato – forme aggregative per competere.

Ma non è sufficiente: il sistema legislativo deve rendere più conveniente per l’imprenditore chiudere un business che non funziona, piuttosto che lasciargli mille chances per tenere a galla il Titanic.

 

Laureato in economia e commercio, dottore commercialista, managing partner di Nexus S.t.p., società di consulenza in ambito societario, tributario, finanza straordinaria e restructuring. Ha ricoperto negli anni diversi incarichi di collegio sindacale di importanti società private ed enti pubblici. È specializzato nell’ambito della gestione della crisi d’impresa, collabora da diversi anni con Il Sole 24 Ore e partecipa in qualità di relatore a convegni specialistici sulla materia.

Davide Viziano-La difficile risalita del mercato immobiliare

Dopo anni di incertezze e disastri economici sembra proprio che la “sferzata” ricevuta in tutto il mondo con la pandemia abbia sortito effetti insperati di ripresa dell’economia.

La batosta anche psicologica causata dal Covid ha sconvolto regole e programmi di una economia ormai stagnante che si trascinava in un “tran tran” senza mai riuscire a rialzare la testa.

L’occasione del Covid è stata per il nostro Paese provvidenziale per due semplici motivi:

  • si è riscoperta l’essenzialità dei fattori importanti e l’assoluta necessità di porsi criticamente il problema di “cambiare vita”;
  • si è scoperta l’importanza di credibilità, capacità, serietà e non più conflittualità nel mondo della politica.

Questi due fattori   sono stati essenziali per ridare fiducia al Paese e far riprendere, con un ritmo fra i più veloci d’Europa, la nostra disastrata economia; per ora si tratta in maniera preponderante di effetti forse più psicologici che reali, anche se l’avvio è sembrato particolarmente positivo.

L’arrivo di Mario Draghi ed il superamento di una storica tragica conflittualità dei gruppi politici fra di loro, hanno certamente contribuito a migliorare il trend di evoluzione della nostra economia.

Naturalmente è solo l’inizio ed è assolutamente necessario proseguire lungo la strada virtuosa delle riforme alleggerendo il peso “mortale” della burocrazia ed incentivando la capacità del mondo pubblico per fare e soprattutto fare bene.

E’ una strada ancora lunga, abbastanza impervia ed in salita, ma è l’unica via che può permetterci di guardare al futuro con ottimismo.

Nell’ambito delle riforme essenziali per il Paese non va ovviamente dimenticata la riforma della giustizia sia civile che amministrativa, senza le quali non ci sono speranze di crescita e benessere.

Viene ora da domandarsi quali implicazioni abbiano tutti i ragionamenti fin qui fatti sul complesso mondo immobiliare e, più in generale, dell’edilizia, che da sempre svolgono un ruolo di forte accelerazione sulla crescita economica e sullo sviluppo.

In particolare, gli investimenti in infrastrutture e mobilità sostenibile creano un effetto moltiplicatore molto forte sul PIL del Paese. L’edilizia e l’immobiliare sono un “barometro” della economia reale del Paese ed oggi vi sono tutte le prerogative per una decisa tendenza al “bel tempo” del settore. Le recenti agevolazioni fiscali (sisma bonus, ecobonus, bonus facciate, etc.) hanno impresso una ulteriore accelerazione alla crescita del settore con un forte impulso al rinnovo del patrimonio edilizio esistente.

Tutto ciò, accompagnato ad un diverso approccio al modo di abitare causato dalla pandemia, ha provocato due fenomeni concomitanti: innanzitutto un rinnovato interesse all’acquisto di immobili fortemente agevolato dai livelli minimi raggiunti dai prezzi di talune fasce di immobili; in secondo luogo, sia in relazione al lavoro agile da casa, che in relazione alla didattica a distanza operata dalle scuole, sia infine alla ricerca di spazi abitativi sempre più grandi e sempre più salubri, ha avuto come effetto una importante crescita del numero delle compravendite, accompagnato parallelamente da rialzi, ancorchè timidi, dei prezzi di acquisto degli immobili.

Il mercato delle compravendite immobiliari è peraltro divenuto sempre più selettivo, privilegiando gli immobili di qualità, ancor meglio se dotati di giardino o spazi esterni: queste ultime tipologie di immobili sono state le prime ad invertire la decennale tendenza al ribasso dei prezzi, mostrando segni di ripresa del mercato.

Altro settore che ha mostrato una certa effervescenza è quello delle case unifamiliari in zone di campagna, meglio se vicine alle grandi città; si sta infatti riscoprendo un certo amore per la campagna, sia per la qualità dell’aria, che per la qualità dei cibi “naturali” che vi si consumano.

In conclusione le riflessioni post pandemia, il miglioramento del clima generale del Paese con un governo credibile e coeso, lasciano ben sperare per una ripresa del mondo dell’edilizia e dell’immobiliare peraltro con percorsi molto selettivi che privilegeranno sicuramente edifici di qualità, di elevata classe energetica, dotati di servizi efficienti e di spazi di sfogo esterni.

E’ presumibile che il fenomeno possa poi allargarsi a macchia d’olio coinvolgendo nei prossimi anni anche edifici con caratteristiche tipologiche di qualità un po’ inferiore che potranno però essere oggetto di importanti opere di riqualificazione, supportate da agevolazioni fiscali che certamente incentiveranno il mercato.

 

Genovese, dopo un percorso di studi classici, si è laureato in ingegneria civile. Numerose esperienze professionali a Londra e Parigi, nelle attività di engineering. Ha assunto la guida dell’attività imprenditoriale di famiglia nel 2011, attiva a Genova e sul territorio nazionale dal 1949, operando nella consulenza, nella progettazione e nella promozione edilizia. È Presidente della Consulta Permanente per l’Edilizia della Liguria, Presidente del Gruppo Ligure della UCID (Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti). Dal 2017 e vicepresidente Vicario della UCID Nazionale. All’attività professionale ha sempre affiancato una forte presenza nel mondo culturale, quale presidente del centro internazionale di cultura La Maona. Per anni è stato Presidente del Conservatorio Niccolò Paganini di Genova, è consigliere della Accademia Ligustica di belle Arti dal 2018. Nel dicembre del 2002 è diventato Presidente della società Genova 2004, che ha curato la realizzazione e l’organizzazione degli eventi per Genova Capitale della Cultura Europea. Dal 2011 è Presidente della Associazione degli Amici di Palazzo della Meridiana, associazione da sempre attenta alla promozione, organizzazione e diffusione della cultura. Dal 2020 è presidente dell’Advisory Board degli Ambasciatori di Genova nel Mondo

 

Cesare Castelbarco Albani-Il settore della logistica nel processo di crescita del Paese

Il settore logistico è stato molto colpito dall’emergenza sanitaria e la pandemia ha interrotto un trend di crescita che durava negli anni: committenti e fornitori di servizi logistici hanno dovuto affrontare un repentino calo del fatturato non immediatamente compensato dalla ripresa post lock down.

La situazione creatasi a livello internazionale ha duramente impattato anche il contesto italiano, soprattutto con riferimento a specifici comparti della nostra economia produttiva, che ha visto di colpo un calo improvviso nella domanda.

Le imprese italiane della logistica hanno tuttavia saputo reagire positivamente all’emergenza, mostrando una resilienza del comparto fino ad ora sconosciuta e le criticità emerse sono diventati importanti aree di miglioramento per il futuro, che, mi auguro saranno prese in considerazione dal Governo del Paese.

Il trasporto di merci svolge infatti una funzione sempre più cruciale: è parte integrante del processo produttivo e della sua economia, soprattutto nella nostra, tradizionalmente votata alla trasformazione e all’export.

Dopo una fase iniziale di semi-paralisi, eccetto alcune nicchie legate al commercio elettronico, al food e al sanitario, la logistica è tornata al centro delle strategie aziendali: le risorse manageriali hanno saputo con prontezza definire task force per indirizzare i nuovi flussi, sistemi più evoluti di gestione del rischio sono stati introdotti, l’outsourcing ha normalizzato i punti di flesso delle capacità operative e sono stati riconfigurati gli hub di distribuzione, aprendo nuovi depositi e spostando personale da comparti più rallentatati a quelli più vivaci.

Guardando alla realtà genovese, si è tornati a una congestione dei noli marittimi e la necessità di creare volumi nella fase più acuta della pandemia ha consentito maggiori spazi di contrattazione anche con le compagnie aeree.

La crisi pandemica ha tuttavia messo a nudo alcune carenze del settore domestico e in particolar modo del tessuto ligure: i limiti riguardanti il trasporto intermodale che dovrà essere necessariamente potenziato.

Oggi le imprese della logistica italiana si trovano a fronteggiare la concorrenza straniera in un contesto economico sempre più internazionalizzato e con la necessità di fornire servizi sempre più taylor-made alla propria clientela.

Il fattore tempo diventa cruciale, non possiamo permetterci che una merce scaricata velocemente da una nave, non raggiunga altrettanto velocemente la destinazione finale per nostre carenze infrastrutturali. Il nostro Paese ha fondato il suo successo sul commercio e l’Italia in primis e Genova come maggior porto commerciale del Paese devono dotarsi di collegamenti innovativi che spostino velocemente merci, persone, idee e conoscenze.

Sono ottimista per natura e ritengo che l’avvicinamento di Genova a Milano attraverso idonee soluzioni intermodali comporterà maggiori vantaggi per tutti, sia in termini di costi, di qualità della vita e di opportunità per chi vorrà completare il percorso, o, forse è il caso di dire, per chi vorrà seguire la scia ormai tracciata..

 

Milanese, con lunga permanenza a Genova è Presidente di Prosper agenzia marittima.

Riveste numerose cariche, tra cui è Presidente di Banca Consulia ed è Consigliere d’amministrazione nelle seguenti Società: Registro Italiano navale, Aon Italia, Erixmar società di spedizioni internazionali

È stato già Presidente di Banca Carige (dal 2013 al 2016) e consigliere della stessa banca (dal 2007 al 2013), Presidente Sviluppo Genova (società per lo sviluppo e la promozione di Genova e Provincia dal 2000 al 2003); Presidente FI.L.S.E. spa (dal 2002 al 2005), Presidente di S.I.I.T Liguria (dal 2005 al 2006). È stato anche Consigliere ICBPI dal 2014 al 2015, Rimorchiatori Riuniti (dal 2003 al 20019), consigliere ABI e membro del comitato esecutivo ABI dal 2014 al 2016, Consigliere Banca Leonardo dal 2009 al 2012.

E’ stato anche membro della Giunta di Camera di Commercio di Genova dal 2015 al 2021.

E’ console Onorario del Granducato di Lussemburgo con competenza Regione Liguria.

Caterina Sambin- La “trappola” delle PMI familiari

Nonostante quanto affermato anche con convinzione, è difficile incontrare imprenditori che vogliano effettivamente vendere la propria azienda familiare o che siano effettivamente in grado di attuare e condividere percorsi di crescita dimensionale, stringendo partnership con altri imprenditori.

Perché? L’esperienza che sto vivendo mi porta a dare le seguenti interpretazioni.

Molte aziende familiari sono appositamente pensate e strutturate per mantenere consuetudini confortevoli a servizio della famiglia stessa dell’imprenditore e per il raggiungimento di obiettivi personali dell’imprenditore. Spesso ciò accade a scapito della ricerca degli obiettivi veri dell’azienda, ovvero il profitto generato da logiche di efficienza nei processi e nei fattori della produzione. Dimenticando che, se a casa propria ciascuno è libero di fare ciò che vuole, in azienda l’impostazione dovrebbe essere diversa: nelle aziende sono coinvolti molti portatori di interessi che pur non avendo nulla in comune con le famiglie degli imprenditori, talvolta sono coinvolti, ed ahimè travolti, dalle “logiche” che regolano i rapporti familiari. In tale impostazione l’unico in grado di reggere e condurre l’impresa è ovviamente il fondatore: in ipotesi di vendita separarsi dalla propria creatura o in ipotesi di partnership condividere strategie alla ricerca dell’efficienza diventa difficile se non impossibile. Se il timore dichiarato è “come posso garantire che l’azienda possa vivere senza la mia presenza?” il timore reale è “come posso garantirmi di vivere senza la mia azienda?”

L’imprenditore difficilmente è in grado di attribuire un valore equo alla propria azienda, ha scarsa oggettività di giudizio; niente al mondo potrà ripagare tutto il tempo, il sacrificio e la dedizione che quotidianamente e per decenni lo hanno vincolato alla sua creatura; e in funzione delle variabili più incontrollabili e disparate questo valore ha inoltre oscillazioni continue. In ultimo, l’imprenditore aspetta sempre il momento giusto per vendere …e questo momento non arriva mai, a maggior ragione in periodo di pandemia.

E allora rimane saldo in sella alla sua creatura finché non ci sarà l’occasione buona nel momento più propizio…Tuttavia, annebbiato dalla sua visione, rischia di non capire che l’occasione gli sfugge a causa della sua stessa convinzione. L’azienda virtuosa deve crescere costantemente ed essere costantemente alimentata da nuova linfa: l’imprenditore che invecchia in azienda e che se la tiene stretta senza lasciare spazi ai giovani o alle nuove collaborazioni fa il male della sua stessa azienda. Per poter essere definito “innovatore”, l’imprenditore deve far sì che l’azienda gli sopravviva e lasciare da parte la presunzione di essere l’unico che possa fare il bene della propria azienda.

Le imprese familiari, se animate da uno spirito di condivisione di strategie di crescita e da obiettivi di diversificazione, possono consolidarsi e raggiungere dimensioni tali da costituire una barriera protettiva contro le oscillazioni dei mercati e gli andamenti altalenanti dei diversi settori. In caso contrario e purtroppo molto frequente, di gelosie, presunzione e spirito da prime donne, l’enorme rischio è assistere impotenti ad una veloce ed inarrestabile involuzione dell’attività costruita in una vita di lavoro e sacrifici: si rimane intrappolati nella propria gabbia, realizzata con le proprie mani.

 

Il profumo del mare della Liguria l’ha richiamata a casa dopo gli studi in economia aziendale alla Bocconi. Si è occupata per molti anni di finanza agevolata, entrando in contatto con il mondo delle imprese che da sempre l’affascina, per la storia che ognuna di esse ha da raccontare. Discendente di una famiglia da generazioni attiva nel settore metalmeccanico, da circa 20 anni svolge attività imprenditoriale autonoma nell’ambito metalmeccanico impiantistico e medicale con il ruolo di CFO e direttore risorse umane. Sposata con il suo migliore amico (e dura da 13 anni), ha la ferma intenzione di proseguire insieme a lui il cammino di diversificazione aziendale, oltre che quello matrimoniale, ça va sans dire…

Claudio Gargiullo-Tra impresa e istituzioni: il mondo della consulenza lobbystica.

Negli ultimi tempi abbiamo assistito ad un progressivo interesse da parte di privati ed Istituzioni su temi quali la digitalizzazione, la cyber security, il climate change, solo per fare alcuni esempi.

Su questi argomenti sono ancora in corso, non senza ovvie problematiche e accesi dibattiti politici, tutte le necessarie iniziative legislative per raggiungere in tempi quanto piu’ veloci una adeguata regolamentazione normativa.

La conoscenza tempestiva trasparente e neutrale di tali processi, la possibilità di rappresentare in adeguata sede le esigenze del proprio settore e di approfondire e ricostruire il percorso normativo di argomenti specifici, rappresenta un importante sostegno alle decisioni aziendali per indirizzare le proprie strategie in coerenza con l’evoluzione normativa.

Ho citato, a titolo di esempio, l’interesse diffuso per gli impatti derivanti dai cambiamenti ambientali e climatici, ma a nessuno sfugge che avere informazioni tempestive sull’indirizzo che le funzioni normative e legislative stanno prendendo può costituire un vantaggio competitivo di assoluto rilievo.

Conoscere la genesi e l’evoluzione della normativa comunitaria su specifici argomenti (si pensi solo alla focalizzazione sui rischi nel settore finanziario, in particolare nel suo iter formativo), soprattutto negli ultimi tempi in cui l’attività normativa è stata molto ricca e complessa, significa un supporto particolarmente utile per districarsi e per cogliere le nuove opportunità.

Ma se la conoscenza è la condizione necessaria, poter “intervenire” in maniera efficace per indirizzare in modo trasparente e neutrale nella formazione del processo normativo è lo scopo di una corretta attività di lobbying, che si realizza attraverso varie iniziative, quali l’affiancamento nei procedimenti amministrativi presso le pubbliche amministrazioni centrali, locali, statali e comunitarie e l’organizzazione di iniziative di accreditamento (incontri, tavoli e presentazioni) presso referenti istituzionali e stakeholders rilevanti nei settori di interesse.

Quindi conoscenza delle iniziative normative che possono impattare sul business aziendale, possibilità di essere rappresentati nelle diverse fasi del processo, e infine essere supportati attraverso l’affiancamento al management aziendale nella implementazione delle necessarie iniziative (predisposizione business plan, ristrutturazioni, corsi di formazione ecc.) diventano strumenti gestionali sempre più indispensabili in un mondo in rapida trasformazione.

 

Consigliere di Amministrazione di ISPRO Istituzioni e Progetti, societa’ operante sin dal 1994 e costituita inizialmente per fornire a soggetti pubblici e privati tutti i servizi necessari alla conoscenza e al monitoraggio dell’attivita’ parlamentare e governativa, e che ha poi via via ampliato la propria offerta a tutte le attivita’ consulenziali, informative e di supporto decisionale che consentano alle aziende clienti di sviluppare e rendere piu’ efficace il proprio business.

E’ stato Direttore Generale di Banca Carige Italia, Amministratore Delegato della collegata Banca Private Cesare Ponti, e ha ricoperto ruoli in diverse Commissioni Abi e Sedi regionali di Confindustria.

Gianluca Caffaratti- Il vero significato del Welfare Aziendale

Quando mi domandano quale sia il core business della mia azienda, di fronte alla risposta “Welfare aziendale” le persone si suddividono in tre categorie, in base alle parole o alle espressioni che appaiono sui loro volti. Il primo nucleo di persone è caratterizzato da “gli esperti”.

Sono coloro che conoscono il Welfare, i vantaggi che porta alle aziende, e non solo.

Sono persone attente, informate ed aggiornate, con le quali spesso e volentieri si riescono a creare momenti di scambio e di confronto. Sono quelli che ne hanno capito il significato a 360° e che ne condividono i valori, e non soltanto la praticità o la sua convenienza economica.

Il secondo gruppo è composto da “coloro che non ne hanno la minima idea” e questa categoria, per quanto inizialmente mi faccia sorridere, è la più semplice su cui lavorare.

Rappresentano un terreno su cui si deve ancora piantare il primo seme, e di conseguenza mi dà modo di raccontare il concetto di “welfare aziendale”, che non è solo una parola in inglese che ormai fa parte del nostro vocabolario, ma è una vera e propria forza, un valore che può essere condiviso, uno strumento che gioca a favore della realtà in cui si opera sotto diversi aspetti.

Poi ci sono quelli che mi smorzano l’entusiasmo, che mi tirano una coltellata nello stomaco e mi rispondono “Ah sì, le Gift Cards!”. No, il Welfare non sono solo le Gift Cards!

Questo gruppo è forse il più complesso in quanto, nelle persone che lo costituiscono, si sia consolidata un’idea che, per scarsa conoscenza, non distrugge, ma sicuramente limita le opportunità legate a questo mondo. Il Welfare è un universo ampio, che si rispecchia nelle nostre vite ed in quelle delle altre realtà con cui decidiamo di rapportarci e di interagire, e che si discosta di gran lunga, a mio avviso, dal mero concetto di Gift Card.

Il Welfare è molto più di un buono benzina, di una carta per fare la spesa al supermercato, o di un codice che ti permette di acquistare l’ultima versione di ferro da stiro su Amazon. Si, si traduce anche in questo, ma penso sia doveroso metterne in risalto i valori e non soltanto la sua praticità.

Il Welfare quando vive e quando si muove nelle nostre vite, non opera soltanto a favore dei collaboratori o delle aziende, ma ha un impatto notevole sul territorio su cui agisce, sulle strade, sulle piazze, sulle attività e sugli angoli nascosti su cui ha modo di esistere. Si concretizza nella cartoleria all’angolo ed in tutte quelle realtà che abitano il nostro quartiere e che incontriamo mentre torniamo a casa, perché è territoriale, e di conseguenza sostenibile, perché agisce con forza e con risultato su tutti quei piccoli mondi che con la pandemia hanno vissuto sulla propria pelle il rischio di non esistere più. Il welfare è sociale, è solidale, è comunitario: incentiva, motiva, sostiene ed aiuta concretamente il proprio territorio, e non soltanto le grandi aziende di fast fashion o i colossi del mondo online. Il welfare significa creare dinamismo e dare vita ed opportunità a coloro che ci circondano, significa aiutare la cartoleria del quartiere, andando lì, attraverso una piattaforma, ad acquistare i libri scolastici per i propri figli, dando così un’opportunità, ricreando rapporti e valore sul nostro territorio.

Questo per me è il vero Welfare, non quello che si limita nella definizione di fringe che rimane intrappolato in uno schema freddo e ristretto, ma quello flexible, quello territoriale, vivo, che si muove nelle nostre strade e che rende il concetto di scambio e valorizzazione i suoi capisaldi.

 

Gianluca Caffaratti è un imprenditore genovese con un background manageriale all’interno delle risorse umane di grandi multinazionali. Nel 2017 fonda Happily, Società Benefit, che si occupa di sviluppare Piani di Welfare Aziendale e progetti di Benessere Organizzativo, di cui è proprietario ed amministratore delegato. Da sempre attento ai temi della sostenibilità e attivo sul territorio, ad oggi è il neoeletto presidente dell’associazione AIDP Liguria e scrittore del libro “La Favola del lavoro”.

Agostino Siccardi-Africa: un continente da capire

Troppo spesso quando si parla di continente Africano, la mente identifica questa terra con le immagini legate all’immigrazione; l’Africa non è solo questo, è una terra complessa, abitata da 1,5 miliardi di persone divise in 54 nazioni. Solo una profonda conoscenza degli usi e delle tradizioni di questi popoli possono aiutare a comprendere l’Africa.

Certamente il passato coloniale, dove le grandi nazioni europee per diversi anni hanno esteso il loro dominio, ha fortemente inciso sul futuro di questo giovane continente, dove più del 50% della popolazione ha meno di 30 anni; finito il dominio coloniale, governi corrotti ne hanno frenato lo sviluppo, con politiche basate su interessi personali, generando spesso anche tensioni tali da sfociare in sanguinose guerre civili; oggi è la Cina il maggiore partner strategico del continente africano, che ne ha alimentato lo sviluppo per alcune nazioni con incrementi del PIL spesso vicino al 10% annuo; una politica spesso ambigua, ha portato a definire il gigante asiatico, come il “nuovo colonizzatore”, colui che ha esteso la propria influenza a colpi di dollari prestati e non di colpi di fucile.

Oggi l’Africa può costituire anche una grossa opportunità per le nostre imprese, anche se la concorrenza è molto forte; non di certo da soli abbiamo la forza di competere con la Cina, ma basandoci sulle nostre innate capacità e sulla qualità dei nostri prodotti potremmo avere delle soddisfazioni. Occorre però, fermo restando che dietro di noi non ci sarà mai la forza economica della Cina o l’appoggio politico della Turchia, che gli imprenditori italiani ritrovino lo spirito pionieristico dei primi coloni che si sono recati in Africa a fine 800 e la visione connessa al rischio che li ha animati nell’immediato dopoguerra e che ha portato l’Italia ad essere una potenza industriale dopo 20 anni.

Dobbiamo ricordare, per quanto ancora oggi sia difficile parlarne per il periodo storico nel quale ciò avvenne, che anche l’Italia ha avuto il suo passato coloniale, risoltosi con la nostra sconfitta nella seconda guerra mondiale. Etiopia, Eritrea, Somalia, facenti parte del Corno d’Africa, e Libia sono state il nostro passato coloniale. Stiamo parlando oggi di un mercato di circa 150 milioni di persone; esiste una fattore che le accomuna tutte: il desiderio di avere relazioni con il nostro Paese.

Quali opportunità si possono allora cogliere? Certamente il comparto delle costruzioni, delle infrastrutture e dell’energia sono i settori con i maggiori investimenti da parte dei Governi, che per sostenerli hanno fortemente aumentato il proprio debito estero. Ma la grande opportunità è offerta dal mercato interno e dal nuovo trattato da poco sottoscritto di libera circolazioni delle merci: produrre un bene in Africa, significa (i singoli paesi stanno recependo la norma e si stanno scrivendo i regolamenti attuativi) poterlo esportare liberamente senza dazi all’interno di un mercato di 1,5 miliardi di persone; inoltre con un costo del lavoro molto basso (l’Etiopia è attualmente il paese con il più basso costo del lavoro al mondo), la produzione di beni in questi paesi diventa molto conveniente, se pur la specializzazione della manodopera è ancora molto bassa. Ma nel Corno d’Africa potrà essere l’agricoltura e i prodotti derivati il vero futuro; oggi l’agricoltura è ancora gestita in modo primordiale: non è raro vedere campi di grandi dimensioni lavorati con il bue e l’aratro; pertanto la profittabilità e l’efficienza dell’agricoltura è spesso a livelli di puro sostentamento; l’introduzione di una media meccanizzazione, lo sviluppo di una industria collegata ai prodotti agricoli, l’implementazione della catena del freddo possono costituire una grande opportunità per il nostro paese che vanta una grande tradizione nel settore, anche a livello di piccole medie imprese, essendo ormai quelle di maggiori dimensioni in mano a multinazionali straniere, con eccezione di Barilla e Ferrero.

In Libia l’approccio può essere più commerciale; l’Italia con l’Eni ha una forte presenza nel paese, presenza che non è mai venuta meno neanche in questi anni di guerra civile. Dobbiamo solo recuperare lo spazio lasciato libero e oggi in parte occupato dalle imprese turche.

Esiste comunque un fattor comune per raggiungere il successo su questi mercati: l’Imprenditore Italiano deve ripartire con la sua valigia ricca di proposte e prodotti, sfruttare le occasioni e cogliere al volo le opportunità.

 

 

 

Si laurea in Ingegneria Meccanica presso l’Università di Genova nel 1986

Per 30 anni svolge la propria attività di imprenditore nel settore delle costruzioni in acciaio.

Nel 2010 iniziano i suoi “viaggi di lavoro” in Africa, culminati con prima dell’esplosione della pandemia con una presenza pressoché mensile in loco.

La passione per il Continente lo porta a sviluppare la attuale propria attività di Consulente Tecnico-Commerciale per le Aziende Italiane interessate ad approcciare il corno d’Africa e solo recentemente la Libia, e di supporto alle Imprese Africane che aspirano a proporsi sui rispettivi mercati interni come pure sui mercati internazionali.

Guido Wannenes-Gli effetti della rivoluzione digitale sul mercato dell’arte

Si è chiuso un anno anomalo per il mercato dell’arte, l’emergenza epidemiologica ha costretto i clienti a prendere confidenza con una serie di strumenti tecnologici già disponibili da tempo, ma ancora solo limitatamente utilizzati. Abbiamo così visto un grosso incremento delle aggiudicazioni online, sia per le aste web-only, (gestite direttamente da software), sia per le aste tradizionali, in cui tuttavia la partecipazione si è maggiormente concentrata sul web, anche perché molte aste si sono tenute a porte chiuse, senza la presenza del pubblico in sala. 

Qualcuno ha parlato espressamente di mercato in crisi, ma non credo che il calo del settore sia un freno soltanto attribuibile al COVID.

Da sempre ci sono anni migliori e anni peggiori e ciò dipende quasi esclusivamente dalla proposta, che non è migliore o peggiore a seconda dell’abilità dei singoli operatori, ma perché ci sono anni in cui si rendono disponibili sul mercato collezioni o beni importanti e anni in cui questo non accade. Si tratta di una caratteristica imprescindibile del mercato, fisiologica. Una parte rilevante della contrazione è attribuibile al fatto che ci sono state dunque opere meno interessanti, in termini di caratteristiche proprie, di coerenza con le tendenze attuali e con le richieste del mercato; o perché, pur essendo in linea con il gusto del momento, l’opera è stata proposta ad un prezzo non interessante, magari troppo elevato.

Se c’è tuttavia un anno in cui si potrà analizzare meglio quanto il COVID abbia inciso sulla voglia di vendere di certi collezionisti è il 2021, non il 2020 in cui la tempesta era in corso.

La pandemia ha spinto alcuni potenziali venditori ad attendere tempi migliori, ma la contrazione non è figlia di un mercato che non vuole comprare, quanto invece una carenza di proposte tanto interessanti da invogliare il mercato a comprare.

L’effetto COVID ha tuttavia favorito lo sviluppo di nuovi segmenti di collezionisti e l’acquisto di beni di medio valore: molte risorse economiche non sono state disperse in altri segmenti (viaggi, vita quotidiana, varie attività che non si sono potute svolgere) e non potendo più “guardare fuori”, molte persone hanno iniziato a “guardare dentro”, nella propria casa, decidendo di fare investimenti, miglioramenti, abbellimenti estetici, tra cui anche  le opere d’arte o in generale i beni di lusso. Non va neppure sottovalutata la crescita della domanda estera che grazie allo sviluppo del digitale è stata più facilmente raggiungibile con una offerta più mirata su gusti e tendenze culturali.  I collezionisti sono ancora felici di comprare, in un contesto di mercato comunque più selettivo e meno onnivoro rispetto al passato.

Di sicuro però il mercato dell’arte avrà bisogno di tornare ad una dimensione anche fisica della visione delle opere e del rapporto tra cliente, collezionista, organizzazione e opera. Il “passaggio” tecnologico avvenuto nel 2020 non verrà meno, una volta superata l’emergenza epidemiologica. In un anno è successo quello che sarebbe successo in 4-6 anni e questo modo virtuale di partecipare al mercato sarà sempre più utilizzato. Forse il 30% circa della clientela tornerà alle modalità e ai canoni più tradizionali, ma il restante 70% continuerà ad utilizzare in maniera piena le piattaforme web, con eccezione delle “aste evento”. La rivoluzione digitale in atto sta comportando innegabili vantaggi anche per noi operatori, quali quello dell’immediatezza e quello della velocità nella predisposizione di un catalogo. La stampa ha infatti dei tempi tecnici che per quanto possano essere compressi, non sono paragonabili a quelli della pubblicazione di un catalogo su un sito, in un’applicazione o su una piattaforma tecnologica.

 È comunque evidente che, soprattutto per la visione delle opere, e questo vale soprattutto per le fiere ma anche per le esposizioni delle aste, la presenza dal vivo rimanga più emozionale, più rassicurante, o anche solo più divertente, perché comunque è collegata anche al viaggiare, al vedere l’opera, al gustarsela.

 

Discendente di una celebre famiglia di antiquari di origine fiamminga del XVII secolo, ha trasformato la azienda di famiglia in una casa d’aste internazionale.

Amministratore delegato della Wannenes Art Auctions con sedi a Genova,Roma, Milano e Montecarlo.

Dirige anche il dipartimento “Uniche Proprietà” dedicato alla gestione e vendita di collezioni private.

Vincenzo Soria-La passione per lo yachting non conosce crisi

E’ proprio così: ma non lo dicono i fortunati che da sempre trascorrono vacanze da sogno a bordo dei loro yacht, non lo dicono solo gli operatori di settore inevitabilmente dediti a stimolare investimenti in gioielli galleggianti… lo dicono i fatti: se dal 2009/2010 l’ambito ed elitario mondo della nautica ha vissuto prima una crisi e poi una lenta ripresa, negli ultimi 12 mesi ha dovuto inaspettatamente attivarsi per far fronte a un incessante aumento della richiesta di imbarcazioni.

Forse questa accelerazione poteva non considerarsi tanto “inaspettata”: a pensarci bene, uno yacht è libertà e al contempo un bene-rifugio, non dal punto di vista economico bensì sotto il delicato aspetto del distanziamento sociale che fino ad oggi non avevamo mai dovuto prendere in considerazione.

Lo sventurato Covid ha fatto nascere esigenze a cui non più di un anno e mezzo fa non avevamo dato importanza. Accantonando per un istante l’indiscutibile prestigio della barca e il piacere che essa possa dare a chi può permettersi di possederla, vivere a bordo di uno yacht consente di godere di tutti i privilegi di una vacanza di lusso senza necessità di stare a contatto con altre persone. Gli armatori sono soliti, e negli ultimi tempi ancor di più, allestire le barche con tutte le comodità delle loro abitazioni e oggi il mercato nautico (di lusso, naturalmente) consente anche gli extra benefit e tutti i comfort che si è soliti apprezzare nelle più prestigiose strutture alberghiere.

Per non parlare della caratteristica peculiare di uno yacht, ovvero l’essere itinerante: il nucleo familiare può spostarsi a proprio piacimento e beneficiare delle bellezze che la nostra grande Italia sa regalare…

Ecco che la ricetta perfetta anti-pandemia full inclusive è servita! Ed ecco spiegata la curva verso l’altro della domanda di imbarcazioni.

Morale: il mercato nautico è letteralmente sold out per quel che riguarda le disponibilità di unità per tutto il 2021 e con eccellenti impegni confermati per il 2022.

E così, una volta ancora, possiamo affermare che il mercato del lusso non conosce crisi ma anzi si affanna per far fronte a una crescente domanda di imbarcazioni.

 

Vincenzo Soria è fondatore di V Marine e V Marine France, official dealers Azimut Yachts nel centro-nord Italia, Francia e Principato di Monaco. Professionista nel settore nautico da oltre 20 anni si dedica con passione alla sua attività imprenditoriale. Il suo successo in ambito nazionale e internazionale lo hanno reso protagonista negli ultimi anni di una importante ascesa nel settore.

Simona Morini-La società del rischio

Bisogna abituarsi, come società, alle situazioni straordinarie, come la pandemia e i molti altri rischi ambientali che si profilano all’orizzonte e questo richiede cambiamenti decisivi nelle istituzioni e nei processi decisionali. C’è bisogno di persone disposte a rischiare e di istituzioni che le incoraggino e supportino. L’innovazione richiede coraggio. La popolazione è stata sconvolta da una pandemia che ha minato la pretesa di immortalità cui pensava di avere diritto, in parte per ragioni psicologiche, in parte per ragioni culturali. L’avversione all’incertezza è insita nella psicologia umana e può essere superata solo con la conoscenza, con la capacità di valutare l’informazione e con lo spirito critico, che al momento non sono al centro del nostro sistema educativo, sempre più centrato su una malintesa “professionalizzazione”. Più siamo ignoranti (e il tasso di analfabetismo funzionale continua a crescere) e più abbiamo bisogno di certezze. E d’altra parte Internet, eliminando le forme di intermediazione culturale tradizionali e mettendoci di fronte a una enorme quantità di notizie e di opinioni contrastanti, aumenta il livello di incertezza, genera confusione e, alla fine, porta a una sfiducia generalizzata nelle istituzioni e nella cultura stessa.

Il welfare state ci ha consentito di raggiungere, in Occidente almeno, livelli di benessere e di tranquillità impensabili in passato. Il che ovviamente è positivo e auspicabile, ma ha i suoi effetti indesiderati. La tendenza ad assicurarsi contro ogni possibile avversità, compresi gli errori che possono verificarsi nella vita professionale, ha prodotto una cultura del “rischio zero” che si scontra con la realtà, in cui l’errore e il rischio sono ineliminabili. Ma ha anche tolto il “gusto” del rischio, che è un elemento fondamentale dell’innovazione scientifica e della capacità imprenditoriale. La ricerca ossessiva della sicurezza – parola chiave del nostro tempo – è una operazione politica di normalizzazione della società che, in un mondo complesso, caotico e incerto come quello prodotto dalla globalizzazione, ci trova del tutto impreparati agli inevitabili cambiamenti (e pericoli) che la globalizzazione comporta e di cui l’attuale pandemia non è che un primo esempio.

Le istituzioni, pensate e costruite per gestire situazioni ordinarie, si sono trovate in difficoltà nel gestire situazioni straordinarie. Se poi aggiungiamo le scelte che sono state fatte nella sanità e dalle industrie farmaceutiche – principalmente dettate da interessi economici e non dall’interesse per un bene pubblico importante qual è la salute – non vedo come si sarebbe potuto fare meglio. Nessuno sembra rendersi conto che stiamo entrando in un’epoca in cui le situazioni straordinarie saranno all’ordine del giorno: Ulrich Beck ha parlato di “società del rischio”, per cui servono cambiamenti decisivi nelle istituzioni e nei meccanismi decisionali, che dovrebbero dialogare tra loro ed essere più flessibili, interconnessi, e meno gerarchici. Questo desiderio onnipresente di “ritorno alla normalità”, senza analizzare le cause che ci hanno portati alla “cacofonia istituzionale” a cui abbiamo assistito nella gestione della pandemia e senza introdurre i necessari cambiamenti (che non possono essere che “sperimentali” e incerti, dato che si tratta di una condizione a cui non siamo abituati), mi sembra molto più pericoloso e molto meno giustificabile delle strategie a volte contraddittorie dei governi di fronte alla pandemia. Non imparare dagli errori mi sembra molto più grave che commetterli.

La tutela dei diritti, della sicurezza e del benessere è molto difficile nelle situazioni di emergenza che, per molti aspetti, ricordano la guerra. Qualsiasi violazione dei diritti resa necessaria da una emergenza deve essere giustificata e temporanea. Il contact tracing adottato nei paesi asiatici, ad esempio, è probabilmente l’unico strumento che ci consente di superare il dilemma etico che contrappone la difesa della salute alla difesa dell’economia. Ma un sistema di contact tracing può essere progettato in modo più o meno rispettoso del diritto alla privacy e dovrebbe fornire garanzie di essere una misura temporanea. E questo non può essere fatto senza affrontare una volta per tutte il problema della proprietà dei dati e del rispetto della privacy, che va ben oltre le misure temporanee che potrebbero essere richieste per tenere la pandemia sotto controllo.

Sentiamo spesso la frase “decideremo secondo i dati” che non vuol dire niente se non sono assolutamente trasparenti le regole e i criteri con cui i dati sono stati raccolti. Basta per esempio definire in modo diverso i “decessi per Covid” per alterare completamente la percezione della situazione. Per non parlare dei tanti altri modi in cui, con i dati, si può “mentire dicendo la verità”. Ricorrere ai dati, che la maggioranza ritiene “oggettivi” anche se di fatto è facile che non lo siano, tranquillizza tutti.

Servono “avventurieri”, nel senso positivo di “persone che amano rischiare e percorrere strade nuove”. È un momento di passaggio dove non possiamo fare previsioni, dove dobbiamo continuamente confrontarci con situazioni incerte. C’è bisogno di coraggiosi, non di conservatori che rimpiangono il passato. Certezze non ce ne sono. Ma ci sono opportunità. Temo però che non ci sia ancora una cultura politica, economica e istituzionale che li sostenga e li incoraggi ad andare avanti. Al contrario, nella maggior parte delle istituzioni – università compresa – è premiata la normalità e il conformismo. L’innovazione che è oggi necessaria e che è ovunque invocata – richiede il coraggio delle persone, ma anche il coraggio delle istituzioni.

 

Docente di “Teoria delle decisioni” e di “Filosofia” allo IUAV di Venezia.

Ha pubblicato recentemente “Il rischio. Da Pascal a Fukushima”, Bollati Boringhieri, Torino

Claudia Tani-La nuova veste strategica della filantropia

La filantropia evoluta del XXI secolo funziona con strumenti sofisticati. Le iniziative private finalizzate al miglioramento della qualità di vita delle persone o al raggiungimento di obiettivi di interesse generale si muovono ormai sulla base di progetti dettagliati che includono soluzioni di gestione variegate e valutazioni numeriche dell’impatto. L’approccio è strategico-manageriale, ma al contempo d’impronta fortemente relazionale: non può non esserlo, quando si tratta di sostenere cultura, istruzione, progresso sociale, salute.

Nata in epoca ellenistica come “amore per l’uomo”, fiorita in età romana con Cicerone, come ideale di formazione ed educazione dello spirito finalizzato a far progredire l’umanità, la filantropia assume oggi un ruolo crescente nella costruzione di un sistema di welfare society.

Nel mondo oggi la filantropia muove complessivamente 1.500 miliardi di dollari, veicolati in prevalenza ancora attraverso le fondazioni, 260.000 in 36 paesi (Global Philanthropy Report, UBS). Il 60% di queste si trova negli Stati Uniti, il 37% in Europa. Quasi i tre quarti (72%) di quelle esistenti sono nate negli ultimi 25 anni.

Cosa determina una crescita così significativa del ruolo della filantropia e dunque del terzo settore? Quali sono le motivazioni, i nuovi attori e i nuovi strumenti?

Il cambio di passo trova la sua origine nella necessità degli UHNWI [gli ultra ricchi, coloro che hanno un patrimonio personale netto di almeno 30 milioni di dollari] di restituire alla comunità una parte della loro ricchezza e soprattutto nei nuovi valori che sottendono le scelte e le iniziative economiche, finanziarie e sociali dei millennial e della prossima GenZ, anche in ambito non profit: investimenti a impatto per un futuro migliore del mondo.

A ciò si aggiunge un maggiore potere economico delle donne, mediamente più propense degli uomini a promuovere il cambiamento sociale. Secondo il Centre on Wealth and Philanthropy del Boston College, l’altra metà del cielo erediterà il 70% dei 41 trilioni di dollari di trasferimenti intergenerazionale nei prossimi 40 anni. Come mai nella storia, il numero di donne nelle liste dei miliardari sta crescendo. Dato il loro controllo su una parte rilevante della ricchezza, cambia il volto della filantropia. Le donne si muovono in orizzonti di maggiore generosità e cercano spesso un coinvolgimento più profondo nelle cause che sostengono. E la filantropia strategica è appunto una tendenza consolidata e crescente fra le cosiddette High Net Worth Givers.

L’affermazione di questi valori e del credo “impact first”, impone nuove forme e modalità di sostegno e sviluppo al terzo settore. In passato, le organizzazioni non profit vivevano in una logica basata solo sul flusso di cassa. Il modello consisteva fondamentalmente nella raccolta di fondi destinati a una causa sociale (mezzi che finanziano l’operatività), senza porre l’attenzione su dinamiche asset based, ovvero sulla capacità di generare crescita in ottica imprenditoriale.

Per una crescita economicamente sostenibile nel tempo e per ritorni evidenti in termini d’impatto, occorrono strategie di business, capacità manageriali, formazione, comunicazione e relazione con gli stakeholder. Non ultime, pratiche di social finance, ovvero di reinvestimento degli utili in nuovi progetti. Ciò porta con sé la necessità di saper utilizzare gli strumenti finanziari. Tutto questo oggi è l’immenso capitale della filantropia, un asset dalla potenzialità trasformativa notevole.

Il trend si conferma anche in ambito culturale.

Arte e cultura sono il collante invisibile che tiene unita più o meno consapevolmente la società, che mantiene connesse le persone, dando voce al pensiero critico nei processi di cambiamento.

Nel 2018 negli Stati Uniti sono stati donati 428 miliardi di dollari, di cui si stima che 292 miliardi arrivino da privati (+21% dal 2008). Il comparto arte e cultura ne ha beneficiato per 19.5 miliardi (TEFAF ART REPORT 2020).

L’incremento del sostegno privato a favore dell’arte deriva anche dalla necessità di compensare i sempre crescenti tagli della spesa pubblica a favore di questo comparto, fino a supplire, in alcuni casi, alla totale assenza di risorse pubbliche.

Ma quali sono i modelli di filantropia oggi più utilizzati?

Esistono modelli cosiddetti più puri, dove la donazione non ha alcun ritorno economico, tipicamente il caso delle fondazioni o dei DAFDonor Advised Fund. Vi sono poi i modelli cosiddetti di “venture philanthropy”, ovvero con ritorni previsti in termini sociali ed eventualmente anche finanziari. Si tratta dei modelli detti di impact investing, oggi a tutti gli effetti considerati una nuova asset class. L’obiettivo è comune: incrementare la base monetaria disponibile per sostenere i futuri investimenti, rendendo le organizzazioni non profit capaci di generare utili e quindi autosufficienti.

Per quanto riguarda le fondazioni, tra i modelli più innovativi (anche in ambito culturale) vi è la fondazione di comunità. Nei primi anni del XX secolo, le fondazioni di comunità furono create per separare la gestione dei fondi nei trust dall’utilizzo degli utili prodotti da quella gestione patrimoniale. Le prime nacquero da fondi donati – endowments – da persone che dopo la loro morte intendevano restituire alla propria comunità parte del loro benessere (“give back”). Oggi questa tipologia può essere considerata un efficiente intermediario filantropico locale, con persone, risorse, donatori, asset e capitale sociale, tutti locali. È un attivatore di competenze pubbliche e private, si fonda su un’organizzazione snella e indipendente, con proprietà diffusa. L’obiettivo è lo sviluppo sostenibile del territorio e della sua comunità.

Un altro fenomeno in forte crescita in ambito filantropico è il crowdfunding. L’impatto della tecnologia è qui evidente. Anche il crowdfunding è fondato principalmente sull’impegno collettivo nel mettere a disposizione risorse, reti e idee. Usato fondamentalmente dalle associazioni senza scopo di lucro, vi ricorrono anche artisti indipendenti, start up e altre realtà. Utilizza molto la leva dei social e può contare su influencer e stakeholder che ne sposano la causa.

La varietà dunque degli strumenti disponibili e la facilità di accesso dovrebbero stimolare le iniziative filantropiche e indirizzare le donazioni, comprese quelle di persone dotate di importanti patrimoni personali o familiari. I tempi insomma sono maturi per un nuovo trend.

Si tratta di una funzione importante anche per un paese come l’Italia in cui la frammentazione del mondo non profit, una certa diffidenza per i grandi gesti filantropici e uno Stato che fa fatica a sostenere l’iniziativa privata, non hanno incoraggiato il passaggio da una ricchezza personale a una della comunità.

 

Socia di We Wealth, editore e marketplace dedicato al Wealth Management, gestisce all’interno la divisione Pleasure Asset, dedicata al collezionismo inteso come asset class. Ne fanno parte una redazione giornalistica, un team dedicato allo sviluppo di progetti editoriali e uno focalizzato sulla gestione della piattaforma digitale.

 Laureata in giurisprudenza e avvocato, vanta un’esperienza pluriennale in comunicazione istituzionale per grandi aziende industriali, start up e società quotate.

Nicolò Briante-Recovery Fund: l’opportunità per creare la Sanità 2.0?

Mario Draghi non ci gira attorno, anche perché la lezione del Covid è ancora di fronte ai nostri occhi: “Sulla base dell’esperienza dei mesi scorsi dobbiamo aprire un confronto a tutto campo sulla riforma della nostra sanità. Il punto centrale è rafforzare e ridisegnare la sanità territoriale”. Se la trincea degli ospedali in qualche modo ha tenuto è quella al di fuori che non ha retto all’onda d’urto, per questo per il nuovo premier, la “casa” dei pazienti deve diventare il “principale luogo di cura”. Una rivoluzione oggi possibile grazie alla “telemedicina” e all’”assistenza domiciliare integrata”.

 C’è molta attesa sugli effetti che porterà il Recovery Plan, il piano italiano di rilancio del Paese che sarà finanziato con i fondi europei e che prevede progetti complessivi per oltre 200 miliardi di euro. Un focus all’interno di questo piano è dedicato alla «salute» cui sono dedicati interventi per quasi 20 miliardi di euro. Diverse sono le componenti che riguardano questo ambito e mirano a migliorare la sanità italiana sfruttando l’impiego delle nuove tecnologie. Si tratta di un’opportunità che in altri Paesi ha già trovato terreno fertile e che sta già mostrando i primi frutti. 

In questo senso, la prima delle tante componenti previste dal piano italiano riguarda l’«Assistenza di prossimità telemedicina». «È finalizzata a potenziare e riorientare il SSN verso un modello incentrato sui territori e sulle reti di assistenza socio-sanitaria; a superare la frammentazione e il divario strutturale tra i diversi sistemi sanitari regionali garantendo omogeneità nell’erogazione dei Livelli Essenziali di Assistenza – “LEA”; a potenziare la prevenzione e l’assistenza territoriale, migliorando la capacità di integrare servizi ospedalieri, servizi sanitari locali e servizi sociali.

La seconda componente, «Innovazione dell’assistenza sanitaria» «è finalizzata a promuovere la diffusione di strumenti e attività di telemedicina, a rafforzare i sistemi informativi sanitari e gli strumenti digitali a tutti i livelli del SSN, a partire dalla diffusione ancora limitata e disomogenea della cartella clinica elettronica. Rilevanti investimenti sono quindi destinati all’ammodernamento delle apparecchiature e a realizzare ospedali sicuri, tecnologici, digitali e sostenibili, anche al fine di diffondere strumenti e attività di telemedicina».

 Il Covid ha evidenziato lacune e ritardi nella digitalizzazione e nella carenza sul territorio del nostro sistema sanitario. La nostra idea imprenditoriale (D-Heart) vuole potenziare proprio l’assistenza territoriale, è perfetto per la sanità di prossimità e si sposa bene con il progetto di aiutare gli operatori sanitari preposti alla gestione di cronici e fragili nella quotidianità: medici di famiglia, farmacie e infermieri del territorio per eseguire la diagnostica di base così da decongestionare le strutture ospedaliere e migliorare il monitoraggio sul territorio di fragili e cronici.

In quest’ottica ci sono stati segnali positivi dal governo che ha stanziato tramite decreto 235.834.000,00 Euro per potenziare l’ambulatorio del medico di famiglia con l’acquisto di apparecchiature diagnostiche di primo livello, per la telemedicina nei piccoli centri urbani come strumento per incentivare le visite specialistiche a distanza (ad esempio telecardiologia nelle farmacie rurali). Infine, con la legge di Bilancio è stata introdotta a pieno titolo nel sistema sanitario nazionale la telemedicina intesa come telemonitoraggio, televisita e teleconsulto quindi si apre l’opportunità di seguire a distanza pazienti cronici e fragili che sono rimasti isolati durante il Covid anche tramite i livelli essenziali di assistenza del SSN. Da ultimo il Recovery Plan, con i suoi 20 miliardi di euro per la sanità, rappresenta per l’Italia un’occasione da non perdere per salire sul treno del medtech e accelerare la trasformazione digitale verso un modello connesso di sanità, orientato al territorio e alla continuità di cura tramite soluzioni di Telemedicina e Homecare. Farmacie, medici di base, case della salute e centri analisi piccoli ma distribuiti capillarmente sul territorio possono essere tutti perni di questo nuovo ecosistema. La crisi (quella pandemica ed economica) può davvero trasformarsi in un’opportunità unica e accelerare la transizione digitale delle aziende. In cuor mio mi auguro che in questo nuovo scenario le istituzioni, la politica, il mondo delle imprese e degli investitori possano trasformare l’Italia (e perché no, anche la Liguria) in un terreno fertile per le startup, consentendone una crescita sia in termini di fatturato che di forza lavoro.

 

Nicolò Briante è con Niccolò Maurizi fondatore della start up D-Heart® : primo elettrocardiografo made in Italy per smartphone e tablet, facile da usare, clinicamente affidabile. Permette a chiunque di realizzare un ECG di livello ospedaliero in totale autonomia, in qualsiasi momento e ovunque si trovi. L’azienda genovese è stata fondata nel 2015 mentre entrambi i fondatori erano ancora studenti dell’Almo Collegio Borromeo di Pavia. Maurizi è un giovane medico ricercatore in cardiologia. Quando aveva sedici anni, fu colpito da un infarto miocardico. Decise di diventare medico e trasformare il suo problema in un’opportunità. Grazie all’aiuto e alla competenza “del suo vicino di stanza” Briante, creò D-Heart. Il motto dell’azienda è: “Move data not people”». Oggi D-Heart® è disponibile in più di 32 paesi di 4 continenti nello sviluppo di campagne di screening cardiovascolare accessibili e orientate all’utente grazie all’utilizzo di tecnologia smartphone.

Roberto Pani-Il distretto culturale come motore della crescita

La cultura comprende un insieme di attività attraverso cui vengono elaborate le espressioni artistiche, intellettuali e morali della vita umana, ma le sue relazioni con l’economia appaiono tutt’altro che semplici. Anzi, cultura ed economia sono stati a lungo considerati antitetici perché la prima è simbolica, mentre la seconda è orientata alla produzione materiale. In realtà le attività culturali stanno assumendo un peso crescente nelle economie contemporanee e possono addirittura svolgere un ruolo strategico nelle politiche di sviluppo locale.

Mentre lo sviluppo tecnologico e la riduzione dei costi di transazione internazionale determinano la de-localizzazione delle attività manifatturiere, per la cultura vale invece il contrario, proprio perché le economie di localizzazione continuano a svolgere un ruolo fondamentale. Sembra intuitivo, ma ecco che il bene culturale da elemento meritorio evolve a risorsa collettiva per la competitività. Questi mutamenti pongono la dimensione culturale tra i fattori strategici delle politiche di sviluppo dell’Unione Europea per il cui futuro diventano risorse cruciali proprio quei beni non riproducibili e localizzati come il patrimonio storico, le stratificazioni culturali e le identità territoriali.

Il settore culturale, insieme a quello creativo, generavano – e auspicabilmente torneranno a generare – prima dell’infezione pandemica un giro d’affari, un contributo al PIL europeo, superiore a quello prodotto dal settore delle costruzioni o da quello alimentare, superiore di poco a quello prodotto dalla chimica e la plastica insieme, dando lavoro a oltre 5 milioni di persone, valore superiore a quello dell’intero settore del tessile e abbigliamento.

In Italia il valore aggiunto del settore culturale era in crescita costante, prima della pandemia. Nella generale indifferenza dei media si è realizzato da circa una dozzina d’anni un significativo sorpasso delle attività teatrali su quelle sportive sia in quanto a presenze dirette agli spettacoli, sia per spesa pagata con riferimento alla presenza diretta dei cittadini italiani agli eventi culturali e sportivi, non considerando, perciò, il numero di spettatori televisivi, su cui, per diverse ragioni, si sta sempre più orientando lo spettacolo sportivo. Fatto sta che oggi in Italia più gente va a teatro di quanta ne vada allo stadio.

Diverse esperienze di successo nell’ambito dei progetti di sviluppo culturale, specialmente all’estero, mettono in luce come un fattore fondamentale per la creazione di circuiti economici virtuosi sia l’integrazione delle diverse risorse locali in una logica di filiera. Anche da questo nasce l’idea di guardare allo sviluppo delle attività culturali dalla prospettiva dei distretti produttivi, caratteristica del tessuto industriale italiano, all’interno dei quali le diverse attività economiche producono esternalità positive che si alimentano, attraverso relazioni reciproche, sul territorio, rappresentando un sistema di organizzazione della produzione specializzato in una particolare attività, per il quale il territorio svolge una funzione fondamentale nel processo di creazione del valore. Il “distretto culturale” quindi si definisce come un sistema territorialmente delimitato di relazioni, che integra il processo di valorizzazione delle dotazioni culturali, sia materiali che immateriali, con le infrastrutture e con gli altri settori produttivi che a quel processo sono connesse. Lo sviluppo del distretto culturale, in questa accezione, fa leva sulle principali risorse culturali di un territorio, come il patrimonio storico, artistico, architettonico, ma anche eventi e capacità di promozione culturale, per valorizzare anche le altre risorse locali in una logica di “cluster”. Il turismo culturale, ad esempio, può diventare occasione per fare conoscere i beni ambientali di un territorio, i suoi prodotti tipici, gli eventi e le manifestazioni espressione della cultura locale. E può essere lo strumento per sviluppare le infrastrutture locali, i servizi di accessibilità e del tempo libero, i servizi di accoglienza, facendo altresì crescere l’indotto collegato al processo di valorizzazione. Tali attività diventano lo strumento per contrastare il declino occupazionale dei settori industriali maturi e per promuovere una nuova immagine della città, o del territorio, che può avere rilevanti effetti nella capacità di attrazione degli investimenti. Il modello distrettuale può diventare utile per promuovere lo sviluppo attraverso la cultura anche nel nostro paese, ma a condizione che esso diventi un progetto di medio-lungo periodo in grado di coinvolgere l’economia e la società locale, non solo basato sulla valorizzazione turistica del patrimonio storico. A differenza di un distretto industriale infatti un distretto culturale non si forma spontaneamente, ma è il risultato di un progetto promosso consapevolmente dagli attori locali, in assenza del quale difficilmente la cultura può diventare uno strumento per la crescita economica. Occorre anche sottolineare che l’esistenza di sistemi culturali locali non comporta automaticamente la loro trasformazione in distretti. La disponibilità di beni storici, artistici, architettonici, infrastrutturali e ambientali è infatti una condizione necessaria ma non sufficiente per l’avvio di processi virtuosi di valorizzazione delle identità e delle tipicità culturali e di promozione dello sviluppo territoriale. E proprio lo scarso numero di esperienze compiute di costituzione di distretti culturali in Italia, a fronte di un’estrema ricchezza e varietà di culture locali e di risorse, rappresenta una conferma del fatto che le potenzialità espresse dai territori richiedono uno sforzo progettuale e ideativo per accompagnare le comunità nella elaborazione di obiettivi di sviluppo culturalmente sostenibili e condivisi, al di là della spinta alla mera commercializzazione dei contesti e delle tradizioni locali e dei richiami generici alla auto-imprenditorialità diffusa.

Concludendo, occorre sottolineare due elementi critici che rischiano altrimenti di condurre a una concezione che banalizza e ingessa la cultura nel tentativo di renderla turisticamente appetibile: in primo luogo, i rischi di accettazione acritica di visioni dello sviluppo locale, per le quali il patrimonio artistico e monumentale costituisce semplicemente il materiale su cui basare una economia della rendita; e, parallelamente, i vincoli posti da un contesto di sistema poco innovativo (come purtroppo è attualmente l’Italia) in cui si tende a concepire la cultura come una sorta di “giacimento” da sfruttare in chiave commerciale e turistica. La sfida che i distretti si trovano a fronteggiare nell’immediato futuro sta dunque nel tentativo di declinare la cultura, non come mero prodotto da vendere, bensì come produzione da alimentare e mettere in circolo, valorizzando le risorse esistenti senza trascurare quei processi di innovazione e di fermento che stanno alla base dell’economia della conoscenza e della produzione culturale e che, stratificandosi nei secoli, hanno contribuito a produrre proprio quei beni che oggi si intendono valorizzare.

In un’economia sempre più basata sulla conoscenza, la cultura costituisce una risorsa collettiva che contribuisce ad alimentare la creatività, a stimolare l’innovazione e ad accrescere la qualità del capitale umano. Si tratta di un vero e proprio circolo virtuoso, e tuttavia torna sempre di attualità nel dibattito nostrano la locuzione latina “Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur” … mentre a Roma si discute, Sagunto è espugnata.

 

Avvocato, esperto di diritto commerciale, immobiliare, societario e del lavoro, con particolare attenzione ai temi della corporate governance e del real estate, e, in ambito giuslavoristico, del turismo, dello sport e dei beni culturali, a supporto di imprese e istituzioni in Italia e all’estero.

E’ stato consigliere di amministrazione indipendente di tre importanti istituti di credito nazionali, nonché consigliere di indirizzo di una delle maggiori fondazioni bancarie del Paese, attualmente vicepresidente di una delle principali fondazioni lirico-sinfoniche italiane, quella del Teatro Carlo Felice di Genova.

Incoraggiato da amici e colleghi, ha ideato un blog sportivo molto apprezzato, dove gli piace raccontare, con l’attenzione dello storico e la sensibilità del narratore, quelle storie di uomini e donne che, nell’incrocio con la Storia più grande, passano del tempo a discutere, emozionarsi e incitare la loro squadra del cuore, in una spirale di meta-narrazione che i francesi chiamano “à colimaçon”, come il vortice di una scala a chiocciola, appunto.

Tiziana Lazzari-Imprenditoria femminile, la lunga strada verso l’equità

Da ormai molti anni ho il privilegio di osservare il mondo dell’imprenditoria femminile da un punto di vista unico. Prima come medico chirurgo, poi come amministratrice d’impresa, come Vice-Presidente della Fondazione per la Cultura del Palazzo Ducale di Genova e, infine, come Presidente di AIDDA (Associazione Donne Imprenditrici e Dirigenti d’Azienda ) Delegazione Liguria.

Ognuno di questi ruoli, apparentemente eterogenei, è accomunato da un fil rouge, riassumibile nella parola dedizione, cui si uniscono impegno, sacrificio, passione e ambizione.

Prima di proseguire occorre però fare un passo indietro e contestualizzare il mondo dell’imprenditoria femminile.

Secondo le statistiche e le ricerche del Global Entrepreneurship Monitor 2018/2019, Asia e Africa si posizionano, per performance, al di sopra del vecchio continente. E, a dire la verità, gli USA non se la passano meglio. Di quasi 50 Paesi solo 6 mostrano un pari tasso di partecipazione di uomini e donne ad iniziative imprenditoriali. Parliamo di Indonesia, Thailandia, Panama, Qatar, Madagascar e Angola.

Si tratta di macro dati, che vanno interpretati rispetto al mondo dell’imprenditoria e che poco dicono sulle reali condizioni di vita della donna nei relativi Paesi. Quello è un tema diverso che esula dal focus di questo intervento. Se diamo un’occhiata al ruolo delle donne nelle startup innovative, i dati non sono incoraggianti. Negli USA, infatti, il 71% di esse non ha donne tra i fondatori e quasi il 60% non ne presenta nelle posizioni di vertice. Eccezion fatta per due Paesi tanto distanti quanto diversi come Cina e Gran Bretagna.

Venendo al Bel Paese la presenza di startup a conduzione femminile si assesta circa su un timido 13% secondo i dati InfoCamere a Gennaio 2019, in altre parole 1.300 su 9.758 startup registrate, mentre se si guarda alla presenza nella compagine sociale la percentuale sale al 43,1%.

In ogni modo è circa la metà rispetto alla presenza di donne in società di capitali (22.2%).

Questo ci porta ad un dato di primaria importanza su cui riflettere. In Italia, in sostanza, appena un’azienda su cinque è diretta da donne.

Per ampliare il respiro della riflessione ho intenzionalmente riportato dati pre-Covid. Questo perché fosse chiaro un punto. L’impatto della pandemia sull’imprenditoria in generale, e su quella femminile in particolare, è stato devastante. La riflessione, qui, voleva però sottolineare un ritardo culturale europeo già fortemente radicato prima del Covid.

La disparità di genere rispetto alla disparità di trattamento e retribuzione, il cosiddetto “gender gap”, è stato allungato di almeno 50 anni secondo Accenture, Quilt.Al e Women20, in seguito alla pandemia, spostando al 2071 l’anno previsto per l’annullamento del gender gap a livello globale.

Qui risiede un altro punto secondo me molto importante su cui intervenire: sul piano culturale, questi dati si traducono in un impatto economico negativo sulle economie nazionali. Fa fatica, infatti, a circolare l’idea che le aziende con donne nel top management ottengono in media più ritorno per gli azionisti ( almeno secondo il Credit Suisse Research Institute) e che l’occupazione femminile potrebbe tradursi in un aumento del Pil complessivo dell’11% (secondo Eurofund).

La responsabilità di associazioni come AIDDA è dunque duplice e ancora più urgente.

Da un lato si tratta di stimolare l’imprenditoria femminile come motore economico, anche nel campo dell’innovazione tecnologica, ancora ampiamente sottostimato, dall’altro di portare avanti un cambiamento culturale che potrà portare un beneficio tanto individuale quanto collettivo alle future generazioni di donne imprenditrici, combattendo stereotipi e immagini precostituite rispetto al ruolo della donna nella società.

Ritengo che un grande sforzo per accelerare i tempi di una ripartenza post-Covid sia essere alfieri di un messaggio di cambiamento volto a stimolare nelle giovani generazioni la voglia di cambiare le cose, avviando progetti con coraggio e determinazione. Per questo credo che sulle donne che fanno impresa gravi una responsabilità ancora maggiore e che uno dei valori principali sia raccontare storie di donne che hanno intrapreso una carriera per inseguire le loro aspirazioni, fungendo da role model per giovani donne e studentesse in tutta Italia.

Lo dico nella convinzione che ci sia in gioco qualcosa di più delle rivincite di genere e che l’imprenditoria al femminile, attraverso l’esempio, sia un’importante premessa per ridisegnare una società più equa e arricchente, per tutti.

 

Laurea in Medicina e Chirurgia presso l’Università di Genova con lode, si specializza in Dermatologia e Venereologia presso lo stesso Ateneo.

Master e corsi in Medicina e Chirurgia Estetica in Italia e all’Estero.

Già titolare e direttore sanitario di polimbulatori, svolge attualmente la libera professione in dermatologia clinica, chirurgica e cosmetica e chirurgia estetica a Genova. Assegnataria del Premio ARMR  per i meriti e l’impegno nel campo della ricerca tecnologica al servizio della chirurgia dermatologica, è relatrice in numerosi convegni in Italia e all’estero e docente in medicina del benessere.

E’autrice di libri dedicati alla medicina preventiva e del benessere.

È Presidente di AIDDA (Associazione Italiana Donne Dirigenti d’Azienda) Delegazione Liguria, nonché coordinatrice del Tavolo Sanità AIDDA nazionale.

È membro della ASLMS (American Society for Laser Medicine and Surgery) e della AACS (American Academy of Cosmetic Surgery).

È socio aggregato AICPE (Associazione Italiana Chirurgia Plastica Estetica).

Vice Presidente della Fondazione per la Cultura di Palazzo Ducale, già Presidente del comitato promotore del Festival Internazionale di Nervi.

E’madre di due ragazzi: Federico e Alessandro.

Fortemente impegnata nel sociale, è stata Governatore del Distretto Rotary 2032 (Liguria e Basso Piemonte).

Giacomo Nicolella-La rivoluzione NFT nel mondo dell’arte

Nel mondo dei passion asset è in atto una vera e propria rivoluzione. L’avvento del digitale ha spalancato una nuova strada che rischia di far convergere una gran parte del mondo collezionistico. Tutto questo è accaduto in una manciata di mesi. I tradizionali player del mercato dell’arte (gallerie, fiere, case d’asta) stanno cercando di capire in velocità come salire su un treno che inevitabilmente cambierà le regole del gioco. Se prima eravamo soliti vedere l’arte come un piccolo mondo di beni di lusso destinato a una manciata di collezionisti top spenders, le nuove piattaforme web hanno avvicinato una mole enorme di nuovi potenziali clienti, che interessa a tutti intercettare. Si lavorerà probabilmente meno con l’opera da milioni e molto di più con le edizioni, ma il mercato è diventato veramente globalizzato. Ma cosa sono questi NFT? Si tratta di strumenti di autenticazione digitale estremamente versatili che possono essere utilizzati per identificare beni (assets) fungibili e non fungibili. Di fatto hanno dato la possibilità di rendere unici dei file digitali come i comuni jpg, le gif o un mp3.
I Tokens possono essere scambiati tra utenti, e in questo modo di fatto viene realizzato un trasferimento di proprietà. Quando si fa riferimento a file digitali tokenizzati all’interno della blockchain significa che è stato creato un token NFT attraverso uno Smart Contract, e questo token memorizza un’informazione specifica che identifica in modo univoco il file digitale.

Tuttavia, il fatto che il file digitale ed il suo proprietario siano registrati tramite un NFT nella rete blockchain (che ricordiamolo è un registro pubblico) non previene che il file stesso possa essere copiato e replicato all’esterno della blockchain. La blockchain certifica che il file identificato da un certo Token NFT è di proprietà di un utente specifico, chiunque al di fuori della blockchain lo avesse anche copiato e replicato non può rivendicarne la proprietà. E qui sta il bello: files che fino a pochi anni fa erano copiabili e condivisibili da tutti, oggi diventano unici, e collezionabili. Cosi il collezionismo di NFT, che ricordiamolo nasce come raccolta di figurine digitali a tiratura limitata, si prepara a invadere il mondo delle arti visive. Il collezionista medio di NTF è un trentenne nativo digitale americano che ha fatto utile investendo 5 anni fa in bitcoin, e del paradigma kripto una religione. Con una logica estetica che ne consegue, se vogliamo anche abbastanza caratterizzata, la quale mal tollera fotografie o file che si discostano troppo da una certa pittura digitale o modellazione 3d renderizzata che può supportare file non più pesanti di 50k, quindi (almeno inizialmente) a bassa risoluzione o con animazioni stilizzate. Perché allora comprare NFT? Per moda. Per sostenere un artista che si stima. O per investimento. Soltanto che in questo caso le community di investitori sono il sistema di riferimento e i marketplace gli spazi virtuali in cui “appendere” l’opera. Non è pratica artistica del tutto nuova, ma ha implicazioni così nuove che possono essere inaspettate. Il tema del supporto è poco rilevante: esistono monitor in altissima definizione in commercio che supportano il display dei nostri acquisti, magari a rotazione, oppure quadri in plexiglass su cui imprimere il file statico o in movimento, per trattarlo alla stessa maniera di un dipinto fisico. Persino le case d’asta hanno iniziato a battere opere digitali:  Christie’s lo ha fatto con “Everydays—The First 5000 Days” di Beeple, recordman della crypto. Sotheby’s ha appena annunciato in aprile una vendita esclusiva NFT only.
Le opere di crypto art proposte in asta vengono registrate con tecnologia blockchain (che contiene la firma dell’artista), il token verifica quindi l’autenticità dell’opera e un insieme di informazioni – l’ora della creazione, le dimensioni, la tiratura e il track record di eventuali vendite, nonché il suo legittimo proprietario. Sono creazioni prodotte in motion graphic, realizzazioni tridimensionali, scomposizioni digitali e simulazioni di movimento, oppure opere realizzate tradizionalmente e poi fotografate per essere modificate. Individuata la crypto opera dei desideri, si passa all’acquisto: alcune piattaforme consentono l’uso della carta di credito, ma in genere si paga in ETH, la moneta di Ethereum. I luoghi migliori dove visionarle e acquistarle sono piattaforme come OpenSea, Nifty Gateway, SuperRare e Rarible: se c’è la possibilità di investire, è il momento di cercare l’autore su cui scommettere. E poi si arriva ai casi eclatanti. Come l’italiano DotPigeon che è diventato una celebrità mondiale grazie a Nifty Gateway, uno dei marketplace di punta della crypto arte. Nel suo caso è successo che le opere siano andate sold out in una sola settimana, facendogli guadagnare quasi due milioni di euro. Opere con un prezzo medio di 1.500 euro, non prezzi astronomici. Milanese, 33 anni, DotPigeon è piaciuto soprattutto agli under 30 americani, che hanno apprezzato stile e messaggio: lui dipinge appartamenti di lusso in cui si intrufola un personaggio con il volto coperto da un passamontagna (così si presenta anche DotPigeon, che sta oscurando le sue generalità precedenti). Un ladro? Un provocatore? Più semplicemente, la parte più nascosta di sé, quella che reagisce con rabbia all’obbligo di mostrarsi per bene e senza emozioni, in linea con una facciata che una volta si sarebbe detta “borghese”, e che oggi risponde al bisogno di mostrarsi “politicamente corretti”, sempre e comunque.  La storia di DotPigeon serve a capire come sta cambiando un mercato finora dominato da gallerie, aste e fiere. Quello che era ed è ancora il mercato fisico, al quale ora però si affianca quello digitale. Invece di possedere un quadro da appendere alla parete, ci si aggiudica il file di un crypto autore.«C’è chi commenta che ha senso spendere X euro per un jpg, roba che si salva su un computer», afferma DotPigeon. “In realtà è questa convinzione a non avere senso, altrimenti potremmo stamparci la Gioconda e pensare che abbia un valore, ma è evidente che non ce l’ha“. Del resto, è sempre un problema di autentica.

 

Giornalista professionista specializzato in arte e mercato. Collabora con Milano Finanza, ClassCNBC, Patrimoni, MarieClaire Maison, GQ e ha una rubrica su Artslife.com (Motel Nicolella). Esperto di comunicazione digitale, è consulente per la casa d’aste Wannenes e l’art company CINELLO, specializzata nella digitalizzazione del patrimonio artistico italiano. Insegna al Master Curatorial Practice di IED Venezia. Ha un bambino che si chiama Filippo e tifa Milan, da sempre.

Angelica Maritan-Arte e blockchain iunge et impera.

Non c’è termine accostato alla parola “ARTE” più usato o ab-usato in questi ultimi due anni come quello di “BLOCKCHAIN”.

La spinta rivoluzionaria che la crypto-tecnologia ha infuso in moltissimi settori è arrivata a coinvolgere anche il campo arte.

Ma mentre in altri casi, come quello della finanza, ha avuto l’effetto di un forte temporale su un territorio avvezzo e preparato a questo tipo di cambiamenti, nel mondo dell’arte si è trattato di un vero e proprio tsunami che ha investito il settore, creando scompiglio e confusione.

Tale effetto è particolarmente evidente quando si affrontano conversazioni su prodotti artech. La prima domanda che viene proposta è:

Scusi, ma ha la blockchain?”

Sebbene la domanda per i tecnici del settore risulti comprensibile, e possa anche strappare un sorriso di tenerezza, è davvero senza senso e formalmente scorretta.

L’inesperienza e la difficoltà di comprendere una struttura tanto complessa e ancora in piena evoluzione, crea dunque tale sgomento che viene inserito il termine e l’utilizzo di questa tecnologia tendenzialmente a caso e ovunque, senza però capirne i meccanismi e senza trarne un reale beneficio.

Il settore arte è tutt’oggi uno dei meno avanzati nella digitalizzazione: i collezionisti fanno fatica ad avere sistemi di catalogazione digitale, le istituzioni italiane difficilmente hanno sistemi tecnologici per la gestione opere e magazzini, le assicurazioni lavorano ancora con metodi analogici su molti dei processi legati alle esposizioni temporanee e permanenti assicurate.

Con questo background è arrivata l’ondata blockchain, che più che una soluzione si è trasformata in una moda. Provando a fare un minimo di chiarezza, possiamo paragonare la blockchain ad una serie di casseforti di informazioni in fila una dietro l’altra, praticamente immodificabili nel tempo e nello spazio, che tutti possono utilizzare a pagamento e che nessuno possiede.

Con questa premessa è semplice capire che all’interno di ogni cassaforte ciascuno di noi può mettere ciò che vuole. Il valore delle informazioni immesse sta nella loro conservazione ed immutabilità e nella certezza dei tempi di immissione, come una marca temporale.

La realtà è che salvare un’informazione come l’autentica digitalizzata relativa ad un’opera d’arte, crea lo stesso identico effetto di chiudere il pezzo di carta in una cassaforte fisica. Qualche beneficio c’è, certezza del salvataggio delle informazioni e della loro immutabilità, ma fino a che non si crea un legame tra l’opera fisica e l’informazione immessa, come un’impronta digitale univoca, non sarà possibile essere certi che quelle informazioni sono legate a quell’opera e dunque non sarà espresso il vero potenziale della tecnologia legata all’arte.

La tecnologia va usata sensatamente, non utilizzata a tappeto, perché crea un inutile aumento dei costi e dei tempi di gestione, senza parlare della formazione che serve per saperla gestire.

La tecnologia che riesce a trovare un legame tra opera fisica e informazioni digitali, la cosiddetta “impronta digitale dell’opera d’arte”, è dunque il segreto per far funzionare la macchina, è il tassello mancante di quell’immenso puzzle che riesce a conferire un senso al tutto.

Questo tassello che l’arte fisica necessita e che trova ancora poche ma valide soluzioni nel mercato, l’arte digitale invece lo può creare con molta più immediatezza direttamente in blockchain.

La tecnologia NFT (Non Fungible Tokens), una delle più all’avanguardia nel settore, è in grado di coniare dei token non fungibili, e dunque non replicabili ed univoci, per qualsiasi file nativo digitale o digitalizzato, per renderlo immodificabile nel tempo. Gli NFT hanno dunque molto senso nel circuito blockchain legato al settore arte e vengono conservati e scambiati attraverso dei portafogli digitali detti wallet, alla stessa stregua delle monete digitali.

Concludendo si può dire che l’arte stia facendo esperienza di un percorso inverso, e più doloroso di altri settori nei confronti della tecnologia. Ma se riuscirà a colmare con l’informazione questa ferita sempre aperta che divide e la mette a confronto con la tecnologia, metterà le basi per un grandioso futuro, aprendo le braccia a tutto ciò che il mondo digitale sta generando e salvaguardando il passato con criterio e trasparenza.

Un’ultima previsione per il futuro per scommettere su NFT e blockchain: ci sono molteplici piattaforme che agiscono e interagiscono sul sistema blockchain, la maggior parte delle quali è incapace di comunicare con le altre, e subiscono questa medesima limitazione gli NFT e dunque l’arte ad essi legata. Quando queste tecnologie parleranno la stessa lingua e permetteranno di scambiare oggetti tra loro senza limitazioni, saremo certi avranno la capacità di sopravvivere nel tempo, ma per ora è solo un calcolo di probabilità.

 

Fondatrice e CEO di SpeakART. Ingegnere con una specializzazione in ingegneria petrolifera e un master in business coaching, da giovanissima parte per lavorare offshore come field engineer, poi torna in Italia per occuparsi di cantieri e gestione immobiliare fino a quando decide di unire la passione per l’arte a quella per l’informatica per farle diventare il suo lavoro. Realizza un algoritmo che lega indissolubilmente certificati e documenti all’opera d’arte, riuscendo anche a riconoscere i falsi, i danni e il decadimento naturale che l’opera potrebbe subire in un lasso di tempo. Partendo da questo algoritmo, Angelica riesce quindi a mettere a disposizione del settore un software completo che si occupa di impronta digitale dell’opera, catalogazione e condition reporting.

 

Barbara Tagliaferri-Dallo spazio reale a quello virtuale: è ora di mischiare le carte

Il trasferimento in rete per effetto della pandemia ha sicuramente costituito, almeno all’inizio, una forma di sopravvivenza per gli operatori del mercato dell’arte, ma ora la digitalizzazione si sta spingendo ulteriormente in avanti, soprattutto alla luce del fatto che il ritorno alla normalità sembra ancora lontano.

La metà degli intervistati della survey “Lo stato dell’arte ai tempi del Covid-19”, speciale inserito nel più ampio report annuale che Deloitte Private realizza, infatti dichiara che ci vorrà un tempo compreso tra uno e due anni.

L’indagine, condotta tra l’11 e il 29 gennaio 2021 e che ha interessato i principali attori appartenenti al mondo artistico-culturale, è stata presentata giovedì scorso alla presenza dei più importanti rappresentanti del settore: Mons. Simone Nicolini (Vicedirettore e amministratore gestionale Musei Vaticani), Mariolina Bassetti (Presidente di Christie’s), Tommaso Calabro (Galleria Tommaso Calabro), Simone Menegoi (Direttore Arte Fiera), Francesca Rossi (Direttrice dei Musei Civici di Verona), Verusca Piazzesi (Direttrice Galleria Continua) e il Maestro Ugo Nespolo.

I risultati emersi sono stati messi a confronto con la prima edizione dell’indagine, condotta nel settembre 2020, dal momento che l’instabilità del contesto attuale richiede un monitoraggio continuo e tempestivo. In particolare, oggetto di approfondimento sono stati l’impatto della seconda ondata pandemica e della scoperta del vaccino sulle previsioni degli intervistati.

È indubbio che il digitale non sostituirà mai la fruizione d’arte “in persona”, allo stesso tempo però non si deve sottovalutare il fatto che ciò che si è verificato sia destinato a incidere in modo significativo sulle dinamiche future. Per il ripensamento di strategie, canali di comunicazione e business model in generale non si può prescindere dai dirompenti cambiamenti che la crisi pandemica ha provocato nel settore. Quello a cui bisogna lavorare è un futuro in cui online e offline coesistano, arricchendosi a vicenda.

A conferma del fatto che la crescita della digitalizzazione può rimpiazzare solo in parte le attività dal vivo, c’è il dato che certifica il generale calo nei volumi d’affari. Rispetto a settembre sono raddoppiati gli operatori del settore, uno su quattro, che dichiarano di aver visto ridotto nel 2020 di oltre il 50% il proprio volume di affari rispetto al 2019, e la maggior parte degli altri intervistati comunque ha riportato una riduzione del business tra il 25% e il 50%.

Ciononostante la digitalizzazione del settore artistico-culturale nell’ambito della compravendita ha permesso di contenere i danni e si è dimostrato comunque efficace nel sopperire almeno in parte l’impossibilità di poter vedere opere e pezzi da collezioni in presenza. A differenza di quanto rilevato in relazione alla mera fruizione d’arte, sono cresciute significativamente in senso positivo le risposte relative alla funzionalità degli strumenti online nell’acquisto di opere d’arte: l’83% dei rispondenti ha attribuito media o elevata efficacia alle piattaforme virtuali. Questo risultato è sicuramente dovuto alla sempre più mirata strategia messa in atto da parte degli operatori di settore per le attività di vendita di opere d’arte e beni da collezione.

Per quanto riguarda invece la fruizione da parte di studiosi e appassionati permane invece indiscussa la volontà di prendere parte fisicamente a mostre ed esposizioni, nonostante le difficoltà ad essa connesse (tra cui timore di contagio, ridotta disponibilità economica, ridotta propensione a viaggi e spostamenti) abbiano influito negativamente sull’effettiva fruizione di arte e cultura anche nei momenti in cui le misure sanitarie lo hanno reso possibile.

 

Direttore Comunicazione di Deloitte, coordina anche  il team Art & Finance dal 2013. Oltre ad aver contribuito alla realizzazione di diverse pubblicazioni, ha partecipato come relatrice a numerosi eventi e conferenze sul tema Arte e Finanza.

Dal febbraio 2016, è inoltre Direttore Operativo di Fondazione Deloitte, che opera anche in ambito cultura e beni artistici.

Laureata in “Lingue e letterature straniere” e in “Scienze dei Beni Culturali”.

Cristina Santagata-Olio Extravergine: prospettive ed export post Covid

 

Cosa ci riserva concretamente il futuro nel settore agroalimentare dalla produzione, alla distribuzione, al consumo?

A leggere i giornali, gli interventi sui social, ascoltando la TV o parlando con le persone, come accade per altri settori, sembra esistano di fatto due “partiti”. Il primo pensa che “pian piano si ritornerà come prima” (al peggio fin quando non si completerà la campagna vaccinale), il secondo ritiene che “più nulla sarà come prima”. In ambedue le posizioni ci sono poi i pessimisti (“molte imprese, siano esse produttive o dell’accoglienza, distributive o della ristorazione, chiuderanno prima di ogni futuro possibile”) e gli ottimisti (“il vaccino rimetterà tutto a posto o, male che vada, saremo costretti a realizzare cambiamenti che saranno positivi, dalle attività in campo, al consumo, al turismo sostenibile”).

Nel pandemonio della comunicazione degli ultimi due mesi su questi argomenti, l’olio extravergine di oliva viene spesso citato non solo per le conseguenze commerciali legate alla distribuzione in tempi di Corona virus, ma soprattutto per i suoi appurati contenuti salutistici. In una media di 120 articoli e messaggi giornalieri che lo riguardano (dalle ricette di cucina alle informazioni di mercato) se ne parla in più del 48% dei casi (era il 42% fino a gennaio) (dati Monitoring Emotion).

Gli aspetti salutistici, la qualità e la sicurezza rappresentano il messaggio necessario ai produttori di olio per costruire relazioni incisive e più “comunione” con il consumatore che, pressato dalle preoccupazioni e dai disagi indotti dalla pandemia, sta mutando il proprio comportamento d’acquisto. Rafforzare la nostra cultura dell’olio e lavorare sulla comunicazione delle nostre eccellenze sono fattori chiave anche in ottica export.

Nel 2019, il mercato italiano dell’extra vergine aveva raggiunto i 155 milioni di dollari con un aumento del 22% rispetto all’anno precedente (fonte Ismea, pubblicato su Italian Food Net n.3 2020), l’export ammontava a 62 milioni (+11% rispetto al 2018) con in testa Puglia e Toscana che da sole valevano 25 milioni. Sono dati incoraggianti che, insieme alle ottime performance produttive di olive, hanno alimentato la speranza di un ulteriore incremento dell’export italiano nel 2020, che si è tuttavia scontrato con un fattore imprevisto: il Covid-19.

Il virus ha messo in crisi interi settori distributivi e ha influito sul comportamento dei grandi player internazionali come la Spagna, che al momento, dispone ancora di scorte eccessive di olio da smaltire, tanto quanto l’Italia.

In questo scenario la forza dell’Italia sta nella sua straordinarietà e nella qualità, fattori che le hanno consentito di raggiungere sempre ottimi risultati e che rappresentano il vantaggio competitivo del nostro paese per il futuro prossimo: l’olio italiano vanta 500 varietà e in particolare ha la più vasta presenza di olii DOP (42) e IGP (5). Hanno un altissimo livello di qualità, sono la risposta all’attesa di sicurezza alimentare del consumatore consapevole e la loro fama si sta espandendo. La qualità, la storia e la narrazione, la cultura e l’esperienza professionale trascinano verso l’alto l’immagine non solo dei marchi territoriali ma di tutta la produzione e l’export di olio EVO made in Italy.

Per rispondere a questa crisi, credo sarà fondamentale per le nostre aziende dimostrarsi flessibili. Comprendere e adeguarsi ai bisogni e alle rinnovate esigenze dei consumatori sarà l’unica possibile strada percorribile.

La pandemia globale ha spazzato via, almeno temporaneamente, abitudini e schemi consolidati, che hanno dimostrato la loro fragilità nel momento stesso in cui sono stati messi in discussione. Il nostro comparto si trova oggi di fronte ad una grande sfida: ripensare la logica di tutta la supply chain. Mai come oggi si sta dimostrando necessario ricorrere in maniera reale e concreta al concetto di rete: fare rete con i propri fornitori ed essere anello virtuoso di una shared economy consapevole e trasparente.

L’olio extra vergine si giocherà una grande opportunità; nella dimensione stay home che ha contraddistinto questi ultimi mesi e che sicuramente ci accompagnerà per il futuro prossimo, l’italian cooking è una leva fondamentale su cui le nostre aziende potranno costruire la propria comunicazione con il cliente.

Covid-19 ha accelerato il processo di comunicazione diretta tra il produttore e i consumatori; credo sarà fondamentale applicare una strategia digitale mirata verso il consumatore finale, qualsiasi esso sia.

Concetti semplici ed efficaci e soprattutto un continuo ascolto del nostro interlocutore.

 

 

Laureata in filosofia a Genova, con DEA (Diplome d’Études Approfondies) alla Sorbona di Parigi, dopo avere lavorato per Prada nella capitale francese, rientra a Genova nel 2008 per dedicarsi all’azienda di famiglia, di cui ora è amministratore delegato, occupandosi principalmente dei mercati internazionali e lavorando per ampliare la rete commerciale internazionale. A partire dal 2018 è Amministratore Delegato, con delega alla finanza, di Raineri Spa, un’altra storica realtà ligure di produzione e commercializzazione di olio di oliva.

E’ vice Presidente nazionale del Gruppo Giovani CNA dal 2017 e membro del Consiglio Direttivo della Sezione Alimentare di Confindustria Genova. Nel 2018 è stata nominata Ambasciatrice della città di Genova. A dicembre 2019 entra far parte del comitato territoriale Liguria di Crédit Agricole Italia.

Tommaso Capurro- Contratto e mancati, ritardati o parziali adempimenti per COVID-19

A tutti noi è probabilmente capitato in questi mesi di passare davanti ad un locale, un ristorante, una palestra, desolatamente chiusi a causa del COVID-19 e pensare “povero gestore, come farà a pagare l’affitto essendo chiuso da così tanto tempo ?”.

Invero, e come purtroppo immaginabile, questo triste fenomeno ha una portata più ampia. Il gestore del ristorante, ad esempio, non solo avrà problemi a pagare l’affitto del locale o dell’azienda, ma incontrerà difficoltà anche a pagare i dipendenti, le banche a cui potrebbe aver chiesto denaro in prestito, i suoi fornitori, e così via.

A loro volta, tali soggetti, che confidavano nel ricevere tali pagamenti, incontreranno problemi a pagare i loro creditori / fornitori in un dirompente e deleterio effetto domino su scala nazionale e mondiale.

Occorre allora chiedersi: che risposte dà il diritto in queste situazioni? Il pagamento e, in generale, l’adempimento del debitore possono essere sospesi, interrotti o ridotti ? O il debitore è comunque tenuto ad adempiere interamente e tempestivamente il dovuto?

Una delle prime e fondamentali nozioni di diritto privato che si studia all’università è che l’impotenza finanziaria di regola non giustifica l’inadempimento. Se assumo l’obbligo di corrispondere 1.000 euro ad un mio fornitore, non posso poi pretendere di ritardare o omettere il pagamento dicendogli che il flusso di cassa su cui facevo affidamento non mi è pervenuto anche se per cause a me non imputabili. In questo caso, il debitore è inadempiente al contratto e il creditore può invocare i rimedi che la legge prevede quali, ad esempio, l’adempimento coattivo o, a certe condizioni, la risoluzione del contratto e i danni sofferti per l’altrui inadempimento.

Ma di fronte a scenari così devastanti, imprevedibili e impattanti quali il COVID-19, le operazioni economiche non dovrebbero in qualche modo adeguarsi alla situazione?

In linea di massima, la risposta è sì. A causa del COVID-19, le condizioni e le circostanze presenti al momento della stipula del contratto sono stravolte al punto tale che la pretesa del creditore di ricevere ugualmente l’adempimento integrale e tempestivo è contraria a buona fede. Al momento della stipula del contratto, chi mai avrebbe potuto prevedere un fenomeno così stravolgente?

Ma allora, e questa è forse la domanda più frequente che ha ricevuto e riceve l’operatore del diritto in questi mesi: quanto io debitore devo pagare? O quanto io creditore posso chiedere?

Non è semplice riuscire a rispondere a tali domande in maniera esaustiva e in termini generali anche perché ogni contratto ha una storia a sé.

In ogni caso, si può ragionevolmente ritenere che la pretesa del creditore di ricevere in ogni caso il pagamento integrale pare iniqua. È più difficile esprimersi, invece, su quanto possa essere ridotto il pagamento.

Con ogni probabilità, tali quesiti entreranno in modo dirompente nelle aule di giustizia in un futuro prossimo. Ad oggi, qualcosa è già approdato in tribunale e ha principalmente ad oggetto l’eventuale riduzione/sospensione del canone di locazione di immobili commerciali. Ragionevolmente il contenzioso si estenderà anche ad altri tipi di contratto.

Come sempre, l’ultima parola spetterà ai Giudici, tuttavia, con tutti i caveat del caso, si può ipotizzare che:

  1. il creditore non può sempre e comunque pretendere il 100 %;
  2. parimenti il debitore non può sempre e comunque pretendere di pagare lo 0%;
  3. “spaccare la mela in due” e ridurre le prestazioni al 50% potrebbe avere un senso;
  4. non vanno tuttavia premiati comportamenti opportunistici e strumentali di chi vuol approfittare della situazione per ottenere sconti e vantaggi
  5. nemmeno possono essere giustificati inadempimenti e comportamenti non corretti adottati prima o a prescindere del COVID-19;
  6. nemmeno possono essere giustificate richieste di rinegoziazione e revisione degli obblighi per contratti sorti in costanza di COVID-19. Se le parti si sono tra loro obbligate quando avevano conoscenza del problema e non hanno ritenuto di prevedere meccanismi di adeguamento del contratto per fronteggiare la situazione, non possono poi strumentalmente invocare gli effetti della pandemia;
  7. se la situazione pandemica si trascina per una durata tale da rendere non più di interesse il contratto, le parti dovrebbero in buona fede provare a rinegoziare i termini dell’accordo e, in mancanza di possibilità di rideterminazione dell’accordo, prendere atto che il loro rapporto non ha possibilità di proseguire.

Come visto, non è facile dare una risposta in termini generali a tali quesiti. Solo un atteggiamento di entrambe le parti effettivamente improntato a buona fede e correttezza è forse idoneo a ricondurre ad equilibrio il rapporto contrattuale stravolto da COVID-19 e ad aiutare le parti e, in generale, il sistema economico ad uscire il più rapidamente possibile dalle secche in cui si è finiti.

 

Avvocato iscritto presso l’Ordine degli Avvocati di Genova. Dottore di Ricerca in Diritto Civile presso l’Università degli Studi di Pisa. È stato visiting fellowship presso il British Institute of International and Comparative Law di Londra. È autore di diverse pubblicazioni in Riviste specializzate. Dopo aver lavorato in un primario studio legale di Genova per 15 anni, nel 2019 ha fondato lo Studio Legale Capurro. Opera nel settore del diritto civile e commerciale. Presta attività di consulenza e patrocinio in favore di società, compagnie di assicurazioni, enti pubblici e privati e persone fisiche.

 

Franco Tagliaferri-Cosa resterà nel mondo post pandemia

La domanda che più spesso ci poniamo, da un anno a questa parte, è: “Quando finirà l’emergenza sanitaria?”. La seconda più frequente è: “Cosa resterà, alla fine dell’emergenza?”.

Alla prima non sanno rispondere nemmeno gli scienziati; alla seconda possiamo provare a rispondere tutti noi facendo qualche riflessione. E facendoci aiutare da alcuni dati.

Nel mondo, nel 2020, in sessanta secondi un milione e 300mila persone si è collegato a Facebook, quasi 695mila si sono connesse a Instagram, circa 195mila hanno mandato un tweet. Sempre quel minuto ha visto 190 milioni di e-mail, 59 milioni di WhatsApp o Messenger, oltre 4 milioni di ricerche Google. In tutto l’anno, ci siamo scambiati oltre tre miliardi di messaggi, mentre il tempo passato su Zoom e Teams è aumentato del 2.000% rispetto al 2019.

E in Italia? Nel nostro paese, l’84% della popolazione accede ormai quotidianamente alla rete, durante la quarantena il tempo passato su WhatsApp è cresciuto dell’81% e su Messenger del 57%, Facebook ci occupa per oltre 26 minuti al giorno, i motori di ricerca per un’ora e mezza al mese

E’ da anni che questi dati sono in aumento, ma nel 2020 hanno conosciuto, a causa della pandemia, una vera e propria esplosione. Il mondo, soprattutto il mondo del lavoro, ha accelerato la sua corsa verso la digitalizzazione, l’impegno da remoto, la creazione di nuovi processi produttivi.

Tornando alla domanda iniziale, quindi, cosa resterà alla fine dell’emergenza? Continueremo con lo smart working e con il distanziamento fisico? Le insofferenze, in certi casi comprensibili, al mantenimento dei dispostivi di sicurezza (mascherine) e alla rinuncia al contatto ci fanno pensare che, quando il Covid sarà sconfitto (e sarà sconfitto), riprenderemo a stringerci la mano e ad occupare scrivanie adiacenti, in ufficio. Ma torneremo in ufficio? Sicuramente, no. Non tutti, almeno. In questi dodici mesi abbiamo capito che le riunioni in presenza, tutto sommato, non sono così indispensabili; che certe attività, in certi turni, all’alba e a tarda sera, si possono svolgere tranquillamente da casa; che gli spazi, per molte aziende, possono essere ridotti.

Quindi, ci prepariamo, nel mondo produttivo, ad un nuovo Rinascimento, dove tutto sarà più bello e a misura d’uomo? Non esattamente.

E’ vero che evitando gli spostamenti non necessari si risparmiano tempo e soldi; si abbattono l’inquinamento e lo stress; si migliorano la qualità della vita e l’efficienza del lavoro. Ma, d’altra parte, possono aumentare le tensioni in casa, quando gli spazi ristretti costringono a stare nello stesso ambiente. Certe figure professionali non troveranno più spazio. E i consumi e gli stili di vita, già modificati durante le varie fasi del lockdown, non torneranno alle dinamiche precedenti: ci avviamo verso un nuovo modello economico, dove si viaggerà di meno, ci si vestirà in modo diverso e più informale, lo svago e il divertimento, come le attività culturali, saranno differenti.

Una rivoluzione che, come tutte le rivoluzioni, causerà ingiustizie e drammi. Ma, certamente, anche nuove opportunità. La sfida, forse, è proprio questa: pensare che la soluzione a questa pandemia non sarà solo sanitaria, non sarà solamente grazie alla scoperta e alla diffusione mondiale di un vaccino.

 

Nato a Piacenza, 55 anni, abita a Milano.

Laureato in Giurisprudenza, è giornalista televisivo dal 1983.

Ha iniziato nelle tv locali e regionali, poi, nel 1990, l’arrivo a Mediaset come redattore e conduttore di Studio Aperto e di Tg4.  

Dal 2000 è vicedirettore di ClassCnbc, il canale finanziario di Class Editori, NBC Universal e Mediaset in onda su Sky 507.

Antonio Majocchi-PMI familiari: la via maestra per l’internazionalizzazione

Le imprese familiari non godono nella letteratura economica di buona fama. In un lavoro molto conosciuto e citato in letteratura due noti economisti, Bloom e Van Reenen, ad esempio affermano che: “… family ownership of firms, restricting management practices, and informational barriers allow bad management to persist.” Per questi economisti, la proprietà familiare è una barriera all’adozione di best practice manageriali.

Ma è corretto affermare che le imprese familiari in generale e le PMI familiari in particolare sono meno competitive ed un freno allo sviluppo? La questione non è solamente accademica, ma ha una rilevanza empirica particolarmente significativa per l’economia italiana dove una larga quota di imprese medio-piccole è tuttora a proprietà familiare. Se la proprietà familiare costituisse un ostacolo all’innovazione manageriale allora questa sarebbe una cattiva notizia per l’economia italiana, già messa a dura prova dalla pandemia in corso. In realtà, in uno studio recente condotto con altri colleghi sull’export delle PMI europee familiari (The myth of the stay-at-home family firm: How family-managed SMEs can overcome their internationalization limitations, JF Hennart, A Majocchi, E Forlani, Journal of International Business Studies, 2019, 758-782) abbiamo dimostrato come l’aggregato delle imprese familiari di piccola e media dimensione sia molto eterogeneo: con imprese molto competitive accanto a imprese che sono invece effettivamente meno dinamiche. Ma quali sono le PMI familiari più competitive sulla scena internazionale? Il lavoro dimostra che il profilo delle imprese familiari che hanno più successo è quello delle imprese che seguono strategie “globali di nicchia”. Queste imprese si presentano sui mercati internazionali facendo leva sui punti di forza delle imprese familiari: tradizione, alta qualità dei prodotti e dei servizi, relazioni stabili con fornitori e clienti, focalizzazione su fasce di mercato molto specifiche ma ampie in termini geografici. Lo studio mostra che le PMI che puntano su queste strategie hanno livelli di performance sui mercati esteri simili a quelli delle imprese con differenti assetti proprietari e che questo è vero, non solo in Italia, ma in tutti i principali paesi europei. Le PMI familiari hanno quindi chance sui mercati internazionali, ma per avere successo devono seguire strategie adatte alle loro caratteristiche: è questa la sfida che le Pmi italiane dovranno affrontare negli anni post-pandemia.

 

 

Professore ordinario e titolare della Deloitte Chair in International Management and Global Challenges presso l’Università Luiss – Guido Carli di Roma. Precedentemente è stato Direttore di Dipartimento all’Università di Pavia e ha insegnato e svolto attività di ricerca o di visting professor presso l’Università di Strasburgo, il King’s College di Londra, Velencia, l’università di Friburgo e la Northesatern University di Boston.

I suoi temi di ricerca si concentrano sul tema dell’internazionalizzazione delle imprese e delle determinati della competitività internazionale delle imprese. I suoi ultimi lavori si sono concentrati sul tema dell’internazionalizzazione delle imprese familiari.

Mauro Ferrando-Il Waterfront di Levante per Genova Regina del Mare

Genova ha un’innata vocazione per il mare. E’ arrivato il tempo in cui il mare non deve più restare ai suoi margini e limitarsi a lambirla. È arrivato il tempo in cui il mare deve entrare dentro la città, attraversarla, contaminarla ed esserne contaminato, in uno scambio dinamico delle reciproche energie positive. Genova ha una occasione unica e rara: ridisegnare il nuovo waterfront della città valorizzando le relazioni fra città e mare, in termini di sostenibilità ambientale e di attività socio-economiche che possono ivi trovare adeguato insediamento. Ho l’onore di rappresentare la società Porto Antico-Fiera di Genova nel progetto Waterfront di Levante, in cui credo fortemente e che porterà all’espansione sia delle darsene dedicate alla nautica da diporto, sia delle aree espositive, sede privilegiata del Salone Nautico, e non solo. L’area della Fiera di Genova, per decenni dimenticata e vicina al decadimento, grazie alla ristrutturazione dei suoi spazi ed al <<movimento>> dei canali si amplierà estendendosi sul mare, ove già si affaccia grazie all’architettura del Padiglione Jean Nouvel, con la sua stupenda terrazza, protesa verso il blu. Tale area, così riqualificata, diverrà una delle più affascinanti propaggini urbane sul mare di tutto il Mediterraneo, ed avrà un ruolo determinante per la crescita economica e culturale, l’attrattività turistica e la visibilità internazionale della nostra città. Sarà un luogo piacevole in cui abitare, lavorare, incontrarsi e coltivare attività sportiva; semplicemente, vivere, attuando un vero e proprio cambio di mentalità. Il Waterfront di Levante è il segno di un cambiamento profondo che – grazie all’ampliamento del polo crocieristico, al Terzo Valico, alla Gronda e alla nuova diga foranea – potrà assumere, per Genova, i contorni di un suo nuovo rinascimento. Genova vuole tornare a rioccupare il ruolo che la storia le aveva già assegnato, quella di Regina del Mare. Siamo tutti coinvolti in un unico obiettivo ambizioso: la società Porto Antico e le Istituzioni del territorio (Comune, Regione, Camera di Commercio e Autorità Portuale), i quali stanno così alimentando una sinergia che ha già trasformato in realtà progetti speciali sino al recente passato inimmaginabili, come l’ospitare, nel 2023, la tappa conclusiva (The Grand Finale) della Regata Mondiale Ocean Race, Genova Capitale Europea dello Sport nel 2024, il ritorno del Salone Nautico Internazionale di Genova alle glorie del passato, ovvero il Salone più importante d’Europa e del Mediterraneo. È una sfida che non possiamo non cogliere. A Genova, i poli opposti delle sue vallate sono collegati dal Ponte San Giorgio, ma c’è un legame ancora più forte che li unirà sempre: il Mare, l’elemento naturale che connatura il DNA della città. Genova Regina del Mare. È arrivato il momento del suo ritorno agli antichi fasti e ricchezza, non solo culturali e sociali.

 

 

Avvocato con esperienza quarantennale nel diritto civile. Titolare dell’omonimo studio. Laurea in Giurisprudenza conseguita presso l’Università degli Studi di Genova. Ricopre numerosi incarichi di carattere istituzionale, tra i quali quello di Presidente del C.d.A. della società Porto Antico e Fiera di Genova S.p.A.. Membro del Consiglio Generale di Confindustria Genova; membro dello Steering Commitee “Ocean race-the Gran finale, Genova”; rappresentante per la Liguria dell’American Chamber of Commerce in Italy (AmCham); co-direttore della Rivista specialistica Nuova Giurisprudenza Ligure. È spesso invitato come relatore in numerosi convegni di approfondimento giuridico. 

Elia Napolitano-Il Mercato Immobiliare: imperativo riqualificare

Se c’è un settore, in Italia, che da anni vive altalenanti momenti di sviluppo e decise battute d’arresto, certamente è quello immobiliare e purtroppo, l’anno appena iniziato non sarà quello della ripresa. La pandemia da Covid, con il conseguente lockdown, ha accentuato la tendenza già in atto che si è palesata con un calo dei volumi prossimo al 20% di compravendita di abitazioni del 2020 rispetto all’anno precedente; ma i problemi vengono da lontano e non si risolveranno con una finta ripresa se non affrontati in modo deciso e strutturato partendo dal nodo fondamentale, quello della riqualificazione. Il tema evidenzia l’importanza di una riflessione sulle modalità e le metodologie d’intervento da applicare nelle trasformazioni del bene immobiliare. Certamente la questione dovrebbe riguardare la città nel suo insieme, dove va trovato il giusto equilibrio tra centro storico e periferia, perché quest’ultima, nel suo continuo processo di espansione, ha generato tanta “edilizia” ma certamente poca architettura. Ecco perché spesso la città ci appare frattale, disomogenea dove i nuovi insediamenti “edilizi” hanno prodotto forme che faticosamente sono riuscite a relazionarsi tra loro e che si sono manifestate come dispersione caotica di elementi e soggetti, di pratiche e di economie. Tutto questo perché, spesso, la visione degli investimenti immobiliari è stata sempre (o quasi) quella del massimo profitto generando di fatto delle false economie. Come dare torto a Richard G. Rogers quando afferma che “La forma che segue il profitto è il principio estetico del nostro tempo”. Questa rincorsa negli ultimi anni è sfociata poi all’estremo opposto, perché commissionare progetti di edifici estrosi e magnificenti, ha trasformato gli architetti in archi-star, facendo perdere di vista il vero ruolo dell’architettura, quella di essere sempre al servizio di chi la usa. Si è confuso arte ed estetica, bellezza ed estro, armonia e proporzioni, causando nell’immediato un profitto, ma certamente non un’economia. Scrive Kenneth Blanchard “Pensare solo in termini di profitto è come giocare a tennis guardando il tabellone e non la palla.” Ecco perché servono progetti architettonici di qualità che rispettino l’uomo attraverso la compatibilità funzionale e simbolica degli edifici soprattutto per la riqualificazione del patrimonio edilizio esistente. In Italia abbiamo un’emergenza immobiliare, di rivalutazione dell’esistente che, ammortizzata ormai da anni la fase di “profitto”, va completamente ristrutturato con una visione finalizzata al comfort e all’ambiente in cui l’uomo e il suo benessere devono essere posti al centro di un’economia compatibile. Solo in questo modo potremmo ritornare a valori importati e significativi per il “nostro” patrimonio immobiliare, sia esso storico, di periferia o di centro. L’imprenditore (e mai più immobiliarista) deve prendere coscienza che il profitto generato da un’economia compatibile con i limiti del pianeta e con le reali necessità della gente, sarà di gran lunga maggiore e certamente migliore per sé stessi e per le loro future generazioni.

 

Designer, architetto, artista. Laurea in Architettura a Napoli, specializzazione a Miami (Florida). Ha collaborato con lo studio Arpaia Associates (Greenwich); PhD in Storia dell’Architettura contemporanea in Delawere. Completa il percorso formativo con gli studi di Marketing e di Ingegneria Civile ed Ambientale in terra meneghina. Da anni è dirigente d’azienda e Project Manager di EB Studioarkè & Partners ed Elan Consulting (società di Architettura, Ingegneria e di consulenza aziendale). Consulente di aziende di manifatture ceramiche, di arredo e home design. Autore di pubblicazioni, articoli sull’arte di architettura, ha maturato esperienza per organizzazioni di eventi e mostre d’arte, tiene dei seminari di architettura d’arte ed è docente nel Master in Gestione innovativa dell’arte presso l’Università degli Studi di Pavia.

Salvatore Ricco-“Treeconomics”: il valore (non solo ambientale) degli alberi

I benefici ambientali degli alberi sono noti: riducono l’anidride carbonica, filtrano gli inquinanti, producono ossigeno, proteggono il suolo, riparano dai rumori, forniscono ombreggiamento. Nelle città, dove oggi vive oltre il 55% della popolazione mondiale con tassi in progressiva crescita, gli alberi offrono anche l’opportunità per rilassarci e svolgere attività a beneficio del fisico e della mente. Meno ovvi, ma altrettanto importanti, sono i benefici economici che gli alberi possono garantire agli ecosistemi, in particolare nelle nostre città. Qualcuno ha anche iniziato a calcolarli e a considerare i vantaggi della cosiddetta “treeconomics”. La storica Jill Jonnes, autrice del libro Urban Forest, sottolinea come la presenza di alberi sia in grado di ridurre le temperature cittadine tra i 2 e gli 8 gradi: ciò si tradurrebbe in una diminuzione fino al 30% dei costi di raffrescamento degli edifici e di un calo compreso tra il 20 e il 50% dei consumi energetici per il riscaldamento, con un contributo significativo alla lotta ai cambiamenti climatici e al crescente fenomeno della “povertà energetica”. Il dipartimento dei parchi di New York, qualche anno, fa ha stimato in circa 120 milioni di dollari il beneficio economico annuo derivante dagli alberi cittadini: tra questi, 28 milioni di dollari di risparmi energetici, 5 milioni di dollari di miglioramento della qualità dell’aria, 36 milioni di dollari di costi evitati per inondazioni. Il tutto a fronte di costi di manutenzione di “soli” 22 milioni di dollari.  Esistono anche delle formule per valutare il “prezzo” di un albero. La formula Cavat, pubblicata sulla rivista Arboricultural Journal, considera una serie di parametri, tra i quali il valore di base (aggiornato anno per anno), il tronco, l’aspettativa di vita e lo stato di salute, la densità abitativa della zona in cui si trova l’albero. Utilizzando questa formula, New Scientist ha calcolato che il valore degli alberi in tutti gli Stati Uniti sia pari a 16 miliardi di dollari. Si tratterebbe di appena 2,60 euro a pianta ma solo perché gran parte di queste si trova fuori dalle aree abitate, a differenza dei circa 60mila euro pro-capite dei poco più di 3.000 alberi di Hyde Park a Londra.  Alla fine del 2020 BP, una delle principali aziende energetiche globali, ha acquisito il controllo di Finite Carbon, un’azienda americana che aiuta i proprietari di foreste a gestirle in modo sostenibile per generare crediti di CO₂ da vendere sul mercato. Sono tutti esempi che mostrano un cambio di percezione nei confronti delle iniziative di forestazione, riforestazione e protezione delle foreste, nelle aree urbane e periurbane ma non solo: ciò che prima era ritenuto un costo per una amministrazione pubblica, oggi è fonte di valore sociale ed economico.Ciò è ancora più vero in una fase in cui imprese e cittadini considerano sempre più la messa a dimora di nuovi alberi come lo strumento ideale per contribuire alla lotta  ai cambiamenti climatici e a compensare le proprie emissioni di anidride carbonica.

 

Senior Vice President Communication & Marketing di Snam, una delle principali società di infrastrutture energetiche al mondo. All’interno del gruppo è anche CEO di Arbolia, la società benefit costituita nel 2020 per creare nuove aree verdi nelle città italiane.

Ha lavorato anche in CIR, Pirelli, Gruppo Sole 24 Ore, SIA, Ketchum e Parlamento europeo. 

Davide Bleve-Passaggio Generazionale: non è solo questione di valori economici

Sebbene le aziende familiari siano note per la loro visione a lungo termine che ne garantisce la resilienza, alcuni recenti studi hanno tuttavia evidenziato come esse siano parimenti inclini a perseguire le “urgenze” imminenti che non riescono però a supportare la visione e gli obiettivi a lungo termine dell’impresa. Tale discrepanza tra aspirazioni di lungo termine e priorità a breve può mettere a rischio la conservazione della tradizione e dell’eredità familiare, nonché il capitale di famiglia. Ma come possono i leader delle aziende familiari ottenere il giusto equilibrio tra il breve e il lungo termine, considerando le peculiarità della propria organizzazione, in un mercato globale assai dinamico e caratterizzato da spinte socio-culturali forti? La risposta sta proprio nel coniugare al meglio quattro aree chiave: proprietà, governance, successione e strategia. Secondo la Global Family Business Survey 2019 di Deloitte Private, tra 791 aziende familiari intervistate in 58 Paesi in tutto il mondo, poco più della metà ritiene che la propria organizzazione sia pronta ad affrontare le sfide future in termini di proprietà (59%), governance (51%) e strategia (54%), e solo il 41% ritiene di possedere efficaci piani di successione aziendale. Non a caso, dalle colonne dell’Economist (24 ottobre 2020), tuonava l’accusa di resa del sistema italico per ricordarci che i bei tempi sono andati e che le grandi aziende ed i nomi noti sono ormai in mani straniere, probabilmente sottintendendo anche un’incapacità diffusa di progettare il proprio futuro e di guardare alla propria generazione come l’ultima che potrà efficacemente governare l’azienda di famiglia. A ben vedere non è proprio così, in quanto è possibile notare che le aziende famigliari – cuore vivo e pulsante del nostro Paese – ci sono, producono e si fanno sentire nella nostra economia che, nonostante tutto, da decenni si attesta tra le prime dieci nel Mondo. Il che non è poco se consideriamo l’estensione geografica del nostro mercato. Certo, un maggiore sforzo verso l’aggregazione, è noto, non guasterebbe e così pure un maggior coordinamento di obiettivi individuali della famiglia e quelli dell’azienda. In questo senso, tutti i giorni raccogliamo segnali importanti di un percorso di maggiore consapevolezza che la crescita dell’azienda passa prima di tutto attraverso la crescita della azienda dall’interno, vale a dire dalla famiglia. Sempre più spesso stiamo osservando aziende famigliari che intraprendono percorsi di definizione dei propri valori interni e di separazione di questi dalla gestione aziendale. Talvolta, per continuare a crescere con stimoli costanti, occorre che l’azienda possa muoversi in via autonoma rispetto alla famiglia mentre questa si interroga per tempo su un corretto piano di continuità, anche in momenti difficili. Nella mia attività riscontro sempre più frequentemente imprenditori sedersi al tavolo con una domanda fondamentale: come posso garantire che l’azienda non sia dipendente dalla mia persona: vale a dire, come posso garantire la continuità d’azienda facendo leva sui valori comuni condivisi dal mio personale? Non c’è una risposta univoca. Ritengo tuttavia che un buon punto di partenza sia stabilire un procedimento che faccia chiarezza sui valori aziendali fondanti, in modo che siano poi tramandati, secondo un insieme di accordi e di strategie comuni, da coloro che la famiglia avrà saputo individuare (che siano interne o esterne al nucleo famigliare). Sono dell’idea che sia più importante il processo di individuazione degli obiettivi e dei risultati che non i risultati stessi. Perché è nel processo di individuazione dei valori e degli obiettivi comuni, appunto, che si matura la volontà di guardare oltre la generazione o le generazioni che siedono al “governo” dell’azienda.

 

Avvocato e consulente fiscale, con esperienza ventennale nel contenzioso tributario e nell’assistenza alle persone fisiche e famiglie con grandi patrimoni (“HNWI”). Laurea in Legge, master in Adv. LLM in International Taxation presso l’Università di Leiden. Ha collaborato con l’International Financial Service di Ernst&Young – Lussemburgo, è stato associato presso lo Studio Tremonti, Romagnoli, Piccardi e associati. Ha conseguito il diploma in Diritto e fiscalità nel Mercato dell’Arte della 24Ore Business School. Tiene corsi specialistici in materie tributarie presso l’Università di Pavia, l’Università di Torino, l’Alta Scuola di Specializzazione Aziendale di Torino ed RCS Academy. Dal 2017 è Partner di Studio Tributario e Societario Deloitte dove è membro dei Team Private Clients e Art&Finance. È autore di libri, articoli e rassegne su primarie riviste specializzate in materia fiscale.

Maurizio Maccarini-Covid e riflessi sui livelli di governo e sul rapporto pubblico-privato

La diffusione del Covid-19 e le conseguenze sociali ed economiche della pandemia hanno riproposto, in forme nuove, due questioni che riemergono sovente nel dibattito pubblico: mi riferisco al rapporto tra i vari livelli di governo e al rapporto tra la sfera dell’azione pubblica e l’iniziativa privata. Per quanto riguarda il rapporto tra i diversi livelli di governo, l’emergenza sanitaria prima e quella economica immediatamente dopo (o contemporaneamente) hanno fatto emergere – soprattutto nel nostro paese, ma non solo – un potenziale scollamento tra i diversi livelli di governo che ha rischiato più riprese di sfociare in una aperta conflittualità. In alcune fasi il governo centrale è sembrato pretendere di avocare a sé competenze e responsabilità di natura decisionale e gestionale in materia emergenziale, sanitaria ed economica, in altre fasi è sembrato esigere una responsabilità diretta dei livelli di governo regionale e un maggiore coinvolgimento delle autorità locali, in particolare dei sindaci. Mi è parso di cogliere in questo senso più di una oscillazione tra i due estremi. Discorso analogo vale per le regioni e gli enti locali, con l’ulteriore considerazione che – trattandosi di una pluralità di soggetti – le loro oscillazioni si sono manifestate in modo asincrono. Il dibattito che ha accompagnato le prese di posizione istituzionali ha amplificato l’ondeggiamento esprimendo, con poche eccezioni, un orientamento neo-centralista. Passando velocemente ad osservare quando accaduto a livello sovrannazionale ed internazionale si possono osservare dinamiche simili, tanto l’OMS quanto la UE hanno oscillato tra momenti di preteso coordinamento dell’azione degli stati e momenti in cui hanno cercato di alleggerire le proprie responsabilità rimettendosi alle decisioni nazionali. Il dibattito in questo caso ha seguito una dinamica opposta orientandosi nel senso di ribadire il diritto e la responsabilità degli stati nazionali. L’orientamento neo-centralista a livello nazionale è sembrato sfociare in vero e proprio neo-nazionalismo, con le bandiere appese ai balconi, e neo-statalismo, con tanto di peana ai paesi con regimi autoritari che avrebbero saputo gestire meglio la crisi controllando in modo più rigoroso il comportamento degli individui. Questo neo-centralismo, neo-nazionalismo e neo-statalismo ha avuto un risvolto inevitabile nel rapporto tra pubblico e privato nel senso di orientare il dibattito, con poche eccezioni, verso una fascinazione per tutto ciò che è pubblico (nel senso di statale) e forti prese di distanza per tutto ciò che allo stato non appartiene. Ma quali dovrebbero essere i criteri per l’allocazione di responsabilità tra i vari livelli di governo e tra pubblico e privato? Sembrano essere stati dimenticati decenni di dibattito in materia in cui si ammoniva di affidare al privato (profit e non-profit) la responsabilità prima delle iniziative sociali ed economiche riservando allo stato solo quei campi di intervento nei quali l’iniziativa privata ha dimostrato di non poter funzionare (sussidiarietà orizzontale e libertà di iniziativa economica), e si ricordava che è preferibile che le decisioni pubbliche siano prese il più vicino possibile ai cittadini, riservando ai governi centrali e alle istituzioni internazionali solo quegli interventi che i governi locali non sono in grado di svolgere (sussidiarietà verticale e federalismo). Mi chiedo se un anno di emergenza sia sufficiente a cancellare dal dibattito più di cento anni di pensiero occidentale dove i temi della sussidiarietà, della libertà di iniziativa economica, della corretta allocazione di responsabilità tra livelli di governo hanno rappresentato un patrimonio comune – ancorché dibattuto – del pensiero cattolico, socialista e librale, vale a dire dei pensieri politici ed economici che hanno fondato il nostro paese, l’Europa e in ultima analisi l’intero occidente. Termino con un monito di quello che considero uno dei più grandi maestri del pensiero occidentale “Il governo civile opera contro il suo mandato, quand’egli si mette in concorrenza con i cittadini, o colle società ch’essi stringono insieme per ottenere qualche utilità speciale; molto più quando, vietando tali imprese agli individui e alle loro società, ne riserva o sé il monopolio” (Rosmini A., Filosofia della politica, 1838).

 

Docente presso l’Università di Pavia, di cui è titolare di numerosi corsi. Direttore del Master in Gestione Innovativa dell’Arte. Ha ricoperto vari incarichi all’interno dell’Ateneo (Delegato del Rettore, membro del Consiglio di Amministrazione, Vicepresidente Edisu e Rettore del Collegio Valla). Già consigliere di amministrazione, revisore e membro di comitati scientifici di società pubbliche e fondazioni per designazione universitaria. Ha rappresentato l’Università di Pavia in Commissioni istituzionali di Regione Lombardia. Ha collaborato con Regione Lombardia, Regione Emilia-Romagna e Provincia di Bari e Ministero del Welfare per i rispettivi “Osservatori sulla sussidiarietà”.  E’ vicepresidente di “Back to College” e socio fondatore di numerose start up, spin-off universitari, associazioni culturali, società scientifiche, consorzi e cooperative che operano in vari settori economici, sociali e culturali.

Maurizio (Momo) Scala-Nessuno si salva da solo

Con queste parole, lo scorso 27 marzo, da una Piazza San Pietro deserta e solenne, Papa Francesco ha ricordato ancora una volta ad ogni donna e uomo del nostro mondo che urge cogliere la sfida della solidarietà e che è ora di dare il via ad una vera rigenerazione delle nostre società. Ancora di più in un momento così denso di preoccupazioni e incertezze, come quello della pandemia da Coronavirus.
Nel solco di queste parole la Comunità di Sant’Egidio ha raccolto ancora una volta il testimone. Nata nel 1968 a Roma da un gruppo di studenti del liceo Virgilio, la Comunità di Sant’Egidio ha da subito posto al centro del proprio agire il Vangelo e i Poveri, promuovendo amicizia, dialogo e pace sia a livello internazionale, sia nelle periferie urbane ed esistenziali del nostro mondo, agendo sempre su base no profit. A Genova la Comunità è presente da oltre 40 anni e attualmente conta quasi 1000 volontari, attivi in maniera totalmente gratuita sul territorio. Nel corso degli anni molte sono state le situazioni di fragilità e disagio in cui ci siamo voluti impegnare: dagli anziani soli assistiti giornalmente dai volontari del progetto “Viva gli Anziani” (circa 1600 anziani seguiti regolarmente), ai senza fissa dimora visitati e sfamati dai volontari dei giri serali (da inizio anno distribuite 23.800 cene itineranti di strada), senza scordare i bambini e i ragazzi delle periferie cittadine educati alla pace e sostenuti nella scoperta e valorizzazione dei propri talenti tramite le “Scuole della Pace” (circa 500 ragazzi dai 6-15 anni seguiti nel solo comune di Genova) o le migliaia di pasti distribuiti settimanalmente tramite la mensa, che accoglie ogni sera chi ha bisogno di un pasto caldo e di un momento di incontro. È allora in questo spirito creativo e attivo che anche nella nostra città abbiamo voluto rispondere in maniera ancora più forte ai nuovi bisogni e alle nuove povertà portati dal Covid-19, non fermando mai la nostra opera di assistenza e amicizia, ma reinventandola in base alle nuove condizioni, perché nessuno venisse dimenticato. In questo senso abbiamo voluto ancora una volta provare a rigenerare la speranza di un nuovo domani nelle vite delle persone scartate e lontane dal “centro”. La speranza di un nuovo domani in cui le capacità di ognuno siano pienamente valorizzate e messe a servizio della collettività. Certo non appiattendo la nostra risposta solo sul bisogno materiale dell’oggi, ma continuando a costruire una relazione duratura e personale con ciascuno, diventando per le persone un punto di riferimento e non uno sportello a cui rivolgersi per ricevere qualcosa: persone su cui poter contare davvero nel momento di difficoltà. In tal senso anche il potenziamento di diversi servizi, come per esempio la consegna di pacchi alimentari alle famiglie in difficoltà (1.100 pacchi distribuiti nel mese di Gennaio 2020, 5.200 nel solo mese di novembre 2020) o della mensa (passata da circa 450 pasti caldi distribuiti giornalmente a gennaio 2020 ad oltre 700 nei mesi di ottobre e novembre), non si sono esauriti nella sola soddisfazione di un bisogno, ma si sono anche tradotti, citando Renzo Piano, in un’azione di rammendo delle periferie, per cui oggi in molti casi, assistiamo all’emergere del desiderio di aiutare da parte di chi è aiutato. In virtù di tutto questo continuiamo tenacemente la nostra quotidiana opera di amicizia e sostegno ad ognuno. Anche noi in questo complesso periodo ci troviamo a far fronte a diverse e a tratti nuove difficoltà, come ad esempio reperire nuove fonti di sostegno materiale o economico. Tutto questo però non ci ferma e tenacemente non perdiamo la ferma volontà di continuare a lavorare perché si possa arrivare a confondere ancora chi aiuta e chi è aiutato.

 

Svolge un percorso professionale nell’ambito del Terzo Settore, in particolare nel campo della cooperazione con progetti ed interventi rivolti ad anziani, minori e persone portatrici di handicap. Membro della Comunità di Sant’Egidio, da diversi anni a Genova è responsabile dell’area povertà estreme che cura le situazioni delle persone senza fissa dimora e delle famiglie in difficoltà economica.

Ambrogio Invernizzi-La filiera corta per un modello di ampio successo

Filiera, un termine sempre più utilizzato, una parola che racchiude un significato profondo di condivisione e comunità di intenti, che è sinonimo di lavoro, impegno quotidiano, mediazione e obiettivi.
Per me fare filiera vuol dire fare prima di tutto squadra: portare valore ad un territorio, grande o piccolo che sia, partecipare alla crescita e allo sviluppo di nuove opportunità per una comunità. Per rendere meglio l’idea devo tornare all’inizio di quella che senza dubbio è stato un momento di svolta per un intero territorio.
Dieci anni fa, in un momento particolarmente complesso per l’economia mondiale, abbiamo saputo cogliere una sfida importante. Era il 2007, l’anno del fallimento di Lehman Brother, l’anno del crack finanziario mondiale ed eravamo stati interpellati per creare una struttura di trasformazione che potesse garantire quantitativi giornalieri importanti. Accettare quella sfida voleva dire per noi affrontare uno dei passi più importanti della nostra storia aziendale: dovevamo sostenere un investimento doppio rispetto al fatturato di allora. Servivano coperture finanziarie almeno pari all’investimento, proprio nel momento in cui il mondo andava incontro ad una crisi che avrebbe segnato per anni l’andamento economico globale. Gli istituti di credito del territorio hanno creduto nel progetto e il loro supporto ha reso possibile il completamento della costruzione della torre di polverizzazione. Ma c’era un altro secondo “ostacolo” da superare: serviva decuplicare la raccolta della quantità di materia prima (il latte). Arrivo allora a quel concetto di filiera e territorio che ho enunciato prima: nasceva allora un modello unico di cooperazione tra mondo agricolo e quello industriale, che vale ancora oggi, ispirato alla filiera corta e certificata, un modello che comprende, dieci anni dopo, e grazie anche al supporto di Coldiretti, oltre 400 imprenditori, in un raggio medio di circa 30 km dal nostro stabilimento.
La riposta a quel punto di svolta di dieci anni fa è stata trovata insieme tra industria e agricoltori. Grazie alla collaborazione con una primaria Università italiana, abbiamo definito un algoritmo che regolasse il prezzo del latte alla stalla, un sistema di remunerazione trasparente che garantisse tutte le parti coinvolte, eliminando così la contrattazione singola. Filiera allora, significa impegnarsi a sottoscrivere un comune protocollo, condividere un identico set di valori che si fondono sul benessere animale, la gestione del suolo, delle acque e del raccolto, la qualità della materia prima, la sostenibilità ambientale e la tutela dei diritti umani e dei lavoratori.
Fare filiera vuol dir per me essere un’unica squadra che lavora su uno stesso territorio con i medesimi obbiettivi: crescere con trasparenza, puntando ad una sempre maggiore qualità di prodotto. Ma lo facciamo insieme, anche attraverso momenti di formazione, di confronto, perché riteniamo che essere filiera vuol dire soprattutto lavorare insieme per una comunità, la nostra comunità. Vedere ancora oggi i valori fondanti che hanno determinato la creazione di questo modello di business, tramandarsi di padre in figlio nelle aziende famigliari che ci hanno accompagnato in questo processo di filiera corta, è per me motivo di orgoglio, è la certezza di sapere che magari anche con nuovi approcci, il progetto comune verrà portato avanti di generazione in generazione.
Ecco perché sono convinto che la parola “filiera” sia importante, ma ancor di più che debba essere usata con cognizione di causa, sapendone riconoscere i valori, l’impegno ed il lavoro che si celano dietro a un temine che oggi è sempre più utilizzato, talvolta forse con un po’ di leggerezza.

 

Cuneese di origini, è Presidente del CDA di INALPI S.p.A., Amministratore Unico di Inalpi France e Consigliere della Camera di Commercio Italiana a Nizza. Laureato alla facoltà di Economia e Commercio di Torino, è stato Consigliere di Assocaseari e di Fingranda S.p.A. e Amministratore Delegato di Eurolabor.

Erica Nagel-Ageing Society: la longevità come motore della crescita economica

È indubbio: stiamo vivendo una nuova rivoluzione demografica, con un costante invecchiamento della popolazione dettato da una maggiore longevità e aumento dell’aspettativa di vita, un incremento delle persone anziane e in età pensionabile, un invecchiamento della popolazione lavorativa e livelli costantemente bassi di fecondità. All’interno del panorama europeo, l’Italia si conferma il Paese con il più alto tasso di over 65 e sappiamo che si tratta di un trend che nei prossimi anni non darà segnali d’arresto, bensì metterà ancora più sotto pressione il Sistema Sanitario Nazionale. Dall’ultimo rapporto “Stato di salute e prestazioni sanitarie nella popolazione italiana” del Ministero della Salute, la popolazione over 65 oggi determina il 37% dei ricoveri ospedalieri e il 49% delle giornate di degenza. Inoltre, sono molte le persone che dopo i 65 anni iniziano ad avere qualche limitazione o che iniziano ad affrontare l’insorgere di malattie croniche; il tutto aggravato molto spesso da risorse economiche che non sono sufficienti per le cure o le visite mediche necessarie. È sufficiente pensare alla media delle pensioni nelle varie zone italiane: € 1.018,00 al Nord, € 908,00 al Centro, e 709,00 al Sud. (Rapporto Annuale ISTAT 2019). Viviamo quindi un vero e proprio paradosso: invecchiamo ma siamo poco tutelati. Cosa fare, dunque, per invertire questo andamento? Ritengo che ci siano 3 possibili soluzioni. Prima di tutto dovremo investire sulla prevenzione. I dati dimostrano che le Regioni che realizzano attività di prevenzione in maniera incisiva riescono ad ottenere risultati evidenti: – 2,7% l’anno il tumore al polmone per gli uomini; – 4,1% l’anno il tumore alla cervice uterina; – 20% le morti per malattie croniche come diabete e problemi cardiovascolari (Osservatorio Nazionale della Salute nelle Regioni Italiane, 2018). Il primo passo è dunque sensibilizzare i target più giovani sull’importanza di avere uno stile di vita salutare e incentivare la diffusione di misure preventive che possano influire sulla salute complessiva della persona: fisica e mentale. In secondo luogo, dovremo pensare alla creazione di una rete di modelli sociali, organizzativi e finanziari che possano fornire tutela e assistenza agli over 65. “Gli over 65” sono ancora intraprendenti, in salute, con disponibilità di risorse economiche e di tempo libero. Ecco che allora il target delle persone senior influenza sempre più l’offerta di numerosi settori economici, andando così a generare quella che viene definita la Silver Economy. Nei prossimi anni questa tendenza sarà ancora più evidente e le imprese dovranno saper rispondere alle esigenze di questo specifico target, modificando il proprio mindset e ampliando la propria offerta commerciale. Il Silver Tsunami (il costante invecchiamento della popolazione mondiale) potrà creare nuove potenzialità e generare una nuova crescita economica. Da ultimo, anche il settore assicurativo sarà chiamato a svolgere sempre più un ruolo di complemento al Welfare State, con la creazione di modelli di garanzia modulari per coperture All Risk. Ciò vorrà dire che le nuove soluzioni assicurative dovranno essere in grado, con un solo contratto, di rispondere a tutte le esigenze della persona: forme di previdenza, polizze sanitarie, esigenze di risparmio. Ma, ancora di più, le Compagnie Assicurative dovranno dar vita a una vera e propria evoluzione del proprio “essere”, trasformandosi da strumento di gestione delle emergenze a strumento di pianificazione lungo l’intero ciclo di vita della persona: un’evoluzione che dovrà legarsi però anche a un’attività di sensibilizzazione e di educazione delle persone alla cultura assicurativa

 

Consolida la sua esperienza con progetti di start up communication per aziende nazionali e internazionali, con una core-knowledge specifica relativa alla comunicazione economico-finanziaria. Sviluppa progetti di Digital Marketing ed è esperta in Corporate Social Responsibility Strategy and Communication. Parallelamente all’attività professionale svolge anche quella accademica e partecipa attivamente all’Unità di Crisi di Aon Italia per la gestione della comunicazione durante le emergenze.

Francesco del Deo-La “231” e la privacy: impariamo a proteggerci per risparmiare

Spesso quando un imprenditore mi chiede informazioni sugli adeguamenti privacy o sui modelli 231 la prima domanda che mi pone è: quanto posso risparmiare o quanto posso guadagnare se mi adeguo a queste normative? Questo modo di ragionare di fronte a tali tematiche è errato quanto pensare che la nostra salute non sia importante per i nostri affari. Nessuno infatti si sognerebbe di girare in pieno inverno a torso nudo (a meno che non sia un vichingo uscito da qualche serie tv) perché sa che potrebbe ammalarsi e che, oltre la salute, anche il lavoro ne risentirebbe…ebbene lo stesso deve dirsi per i modelli di protezione dell’azienda, che deve essere “protetta” anche se non vediamo un guadagno o un risparmio immediato. “Fare impresa” comporta necessariamente l’assunzione, in capo all’imprenditore, di molteplici rischi, di diversa natura: esiste il cosiddetto rischio d’impresa, correlato alle scelte imprenditoriali nella gestione dell’azienda, ed esistono dei rischi che potrebbero essere definiti “collaterali”, derivanti da un coacervo di disposizioni legislative sempre più complesse ed articolate, a cui occorre adeguarsi e dalle quali, in caso di violazione, derivano spesso sanzioni ingenti. Le predette sanzioni, talvolta, sono anche ulteriori rispetto al versamento pecuniario – è il caso della disciplina della responsabilità amministrativa da reato degli Enti, disciplinata dal D.Lgs. 231/2001, che prevede anche sanzioni interdittive, confisca e pubblicazione della sentenza – e talvolta di valore economico notevolissimo – è il caso della disciplina della protezione dei dati personali a seguito dell’emanazione del G.D.P.R. europeo – in grado di incidere fortemente sul bilancio di un’azienda.

I due esempi menzionati rappresentano ambiti di compliance aziendale di grande interesse ed attualità, sempre in divenire e da aggiornare in relazione ai tempi, ad esempio il contagio da CoV – 2 viene ora considerato un infortunio sul lavoro se avvenuto “in occasione di lavoro” qualora non si siano rispettale le indicazioni dei protocolli sottoscritti da Governo e parti sociali e potrebbe in astratto comportare una responsabilità penale del datore di lavoro, nonché una responsabilità amministrativa. Quanto al profilo della privacy, è evidente che il ricorso sempre più ampio alla modalità di lavoro agile implichi alcune condizioni – tra cui l’utilizzo di dispositivi personali per l’attività professionale – sulle quali porre adeguata attenzione per evitare una illecita dispersione di dati. Il lavoratore ha spesso sui propri dispositivi personali (cellulare o computer) una marea di dati personali di clienti o colleghi e non sempre tali dispositivi sono protetti come quelli aziendali (firewall, psw, antivirus aggiornati ecc..). È fondamentale, dunque, che, tramite professionisti in grado di farlo, la azienda predisponga un efficiente modello che permetta all’impresa di porre in essere una tutela effettiva della propria attività. Tali modelli sono da calibrare per singola impresa e sono molto apprezzati dagli investitori esteri che richiedono spesso la loro presenza ai propri partner italiani, così come stanno diventando sempre più parte integrante dei bandi di concorso per ottenere importanti appalti pubblici. Proprio per questo è necessario un approfondito audit preventivo che prenda in considerazione ogni aspetto dell’attività di impresa e permetta di poter consigliare quali strumenti adottare per non incorrere in sanzioni e per tutelare la propria attività …. come diceva Baden Powell: “non esiste cattivo tempo, ma cattivo equipaggiamento”!

 

Avvocato cassazionista, laureato cum laude all’Università degli Studi di Genova in Giurisprudenza è titolare dell’omonimo studio legale.

Vorrebbe passare la vita a navigare, ma non potendolo (per ora) fare, si occupa esclusivamente di diritto penale, con particolare riferimento al penale d’impresa, è membro di Organismi di Vigilanza e collabora attivamente con collegi professionali e società per tenere corsi in materia di sicurezza sul lavoro e responsabilità penale delle imprese ai sensi del D.lgs 231/2001

Cesare Soldi-Potenziamo l’agricoltura made in Italy: non si sa mais…

La garanzia degli approvvigionamenti delle produzioni agroalimentari è sempre più messa in discussione dall’attuale emergenza Covid 19 e dai sempre più estremi eventi atmosferici. Le nuove sfide ambientali, la corretta alimentazione, la tutela dell’ambiente, e il benessere individuale sono notizie spesso in prima pagina, quando sfogliamo un giornale, lo scorriamo on-line, o guardiamo in TV uno dei tanti programmi di “approfondimento”.   Il settore primario, quello dell’Agricoltura, è sempre più al centro di tanta attualità. Ma è proprio così come viene spesso descritto dai media generalisti?

Un settore, il nostro, ‘in tendenza’ se usassimo il linguaggio del web. Mais, frumento, soia, riso e tutto ciò che coltiviamo sulle nostre terre rappresenta la base della alimentazione e costituisce la fonte primaria del nostro cibo. Il mais ad esempio, per l’elevato valore nutritivo legato all’alto tenore in amido, è fonte di energia fondamentale per bovini, suini, avicunicoli, ovicaprini e bufalini. Per questo motivo il 77% del mais da granella, che spesso associamo solo a polenta o corn-flakes, è destinato all’alimentazione zootecnica e al settore mangimistico. Il mais finisce così principalmente sulle nostre tavole sotto forma di latte, yogurt, formaggio, salumi, carne e uova. Il 7% può essere consumato direttamente dall’uomo essenzialmente sotto forma di farine. Ecco perché sono così importanti i prodotti base della nostra terra come i cereali e in special modo del mais: essi rappresentano il punto di partenza della nostra alimentazione, salute e benessere e del nostro ‘made in Italy’, ma ahimè sempre più insidiati da crescenti importazioni di prodotto estero. Il consumatore deve sapere che in Italia e in Europa abbiamo abbandonato da decenni mezzi di produzione ancora utilizzati dai principali paesi da cui importiamo cereali e soia. Da noi atrazina e neonecotinoidi sono stati ad esempio messi al bando da anni nel settore maidicolo. Non solo. Gli standard di produzione nazionale ed europei sono i più alti al mondo in termini di salubrità alimentare e di sostenibilità ambientale. La prospettiva futura è quella di continuare ad accrescere tale primato. Non è cosa da poco se riguarda ciò che poniamo sulla nostra forchetta. Noi imprenditori agricoli ci stiamo chiedendo come continuare a valorizzare allora la nostra produzione. Non c’è che una risposta: orientarsi al mercato, per trasferire al consumatore il valore richiesto attraverso la filiera, elemento cardine di sicurezza alimentare. La ricerca è fondamentale e spazia dalla applicazione delle ultime innovazioni in ambito digitale per una tracciabilità integrale, fino al miglioramento genetico attraverso le nuove tecniche di evoluzione assistita, tutte soluzioni che possono giocare un ruolo importante a favore di qualità, ambiente e produttività (senza dimenticare la promozione di efficienti politiche agricole e commerciali, soprattutto coi paesi terzi). Solo salvaguardando ed accrescendo il potenziale produttivo dell’agricoltura italiana saremo in grado di portare in tavola un prodotto interamente ‘made in Italy’, con tutti i benefici per il nostro palato e per lo sviluppo della nostra terra.

 

Cremonese, coltiva cereali vernini, soia e mais in pianura padana. Laureato in Ingegneria Meccanica presso il Politecnico di Milano, Master in Business Administration presso lo SDA dell’Università Bocconi. Ha lavorato per General Electric in Italia e all’estero come Marketing leader. E’ presidente nazionale dell’Associazione Maiscoltori Italiani (AMI) e segretario generale della Confederazione Europea dei Produttori di Mais (CEPM). 

Annamaria Saiano-“Red and blue States, but a United States!”

Lo scenario di cui siamo stati testimoni la settimana scorsa e che ha portato sabato 7 novembre alla elezione del 46mo Presidente degli Stati Uniti d’America, era tra quelli previsti alla vigilia di un appuntamento elettorale sempre molto atteso e seguito: una elezione contesa, lunghe giornate e nottate elettorali, conteggi rallentati in Stati “too close to call”, richieste di riconteggio delle schede elettorali, perplessità sulla validità dei voti postali. Un Paese diviso, polarizzato tra due candidati molto diversi, ma una grandissima prova di democrazia attiva e partecipata come è nella tradizione degli Stati Uniti d’America. Nella stessa tornata elettorale venivano infatti rinnovati un terzo del Senato (35 senatori), la Camera dei Rappresentanti nella sua interezza (435),11 Governatori nonché un ampio numero di cariche a livello locale. La percentuale dei votanti è stata, dalle elezioni del 1900, la più alta di sempre, 66% sui circa 240 milioni di elettori aventi diritto. Dei 150 milioni di Americani che hanno votato, anche per via dell’emergenza coronavirus, più di 100 milioni hanno fatto ricorso al cosiddetto “early voting“, recandosi ai seggi di persona prima di martedì 3 novembre, o utilizzando il voto postale, una pratica consolidata che negli Stati Uniti data dalla guerra civile. Una “blue wave” che nonostante abbia portato alla Presidenza un candidato Democratico, riconquistando per esempio Wisconsin, Michigan e Pennsylvania (gli Stati della cosiddetta “rust belt” che nel 2016 per un totale di circa 80,000 voti avevano contribuito alla vittoria del Presidente Trump) ha scavalcato il “red wall” ma non lo ha indebolito. Perchè se 75 milioni di Americani hanno scelto Joe Biden, President-Elect, 70 milioni hanno votato il Presidente Trump. Un Paese quindi da unire e ricomporre, dove non ci siano “red and blue States, but a United States” per citare il Presidente Eletto Biden nel suo discorso di accettazione.

A oggi, con i conteggi delle schede elettorali ancora in corso, il Partito Democratico non ha la maggioranza alla Camera dei Rappresentanti (che aveva conquistato nel 2018) e al Senato la situazione è di 48 Senatori per schieramento, con l’elezione di un Senatore in Georgia rimandata a gennaio 2021. E sappiamo che nell’efficace ma delicatissimo equilibrio di pesi e contrappesi che è la cifra della grande democrazia americana e della solidità delle sue istituzioni, il Congresso, e in particolare il Senato (che per esempio ha voce in capitolo sui trattati internazionali), hanno una importanza fondamentale per l’attuazione del programma di lavoro e governo del Presidente. Mentre si attende la conferma dei risultati definitivi, già da questa settimana il Presidente Eletto Biden si occuperà del processo di transizione e di definire al meglio la sua agenda e il gabinetto dei suoi Consiglieri e Segretari. Prima di tutto, vorrà dare una risposta coordinata per mettere sotto controllo la pandemia da Covid che vede gli Stati Uniti al primo posto per casi positivi. Sul versante interno, ci sono i dossier più squisitamente economici, da quelli sulla politica fiscale e occupazionale che riguardano la competitività dell’industria statunitense, a quelli della sanità, del debito pubblico, delle politiche sull’immigrazione. E poi il commercio internazionale, una rivisitazione dell’Accordo di Parigi sul clima, un possibile ritorno al multilateralismo, i rapporti con l’Europa, la Cina e molto altro. Interessante sarà vedere quale sarà il ruolo e il portafoglio di Kamala Harris, Vice Presidente Eletto, che potrebbe occuparsi di giustizia e di educazione. Indubbiamente le settimane che ci attendono, da qui al 14 dicembre quando i Grandi Elettori si riuniranno per confermare il Presidente e il Vice Presidente, fino al 20 gennaio 2021 quando entrambi si insedieranno, saranno molto significative e avvincenti, per gli Stati Uniti e per il mondo intero.

 

Responsabile dell’Agenzia Consolare degli Stati Uniti d’America a Genova.

Laureata in Lingue e Letterature Straniere Moderne, Master in Letteratura Americana presso la University of Iowa a Iowa City dove ha insegnato, da sempre coltiva le relazioni tra Genova e gli Stati Uniti attraverso la sua attività in varie associazioni culturali. Presidente dell’American International Women’s Club – ONLUS. È “Ambasciatore di Genova nel Mondo”.

Paolo Maloberti-il mercato AIM una opportunità per la crescita delle PMI

AIM Italia è un mercato gestito da Borsa Italiana dedicato alle piccole e medie imprese più dinamiche e competitive del nostro Paese. A 10 anni dalla sua istituzione conta già 132 Società operanti in 10 settori, con una capitalizzazione pari a 6,6 miliardi di Euro e una raccolta totale in quotazione pari a 3,9 miliardi di Euro, di cui circa il 93% derivante da nuova emissione di titoli. Si rivolge alle PMI in fase di sviluppo e offre alcuni benefici quali: essere un canale alternativo a quello bancario nel finanziamento di nuovi progetti, la presenza di investitori qualificati internazionali; un accesso al mercato globale; una opportunità di crescita culturale dell’imprenditore; un processo di quotazione molto snello e con requisiti minimi rispetto alla quotazione sul mercato principale (cosa che può poi avvenire successivamente); nessuna soglia di capitalizzazione minima; nessun requisito in tema di Corporate Governance e nessuna istruttoria Consob. Vi sono poi altri obblighi, ma limitati, quali: la forma societaria di SpA, la nomina della società di revisione, redazione e pubblicazione della relazione semestrale, il supporto di un advisor legale per la redazione del documento di ammissione; di un advisor finanziario e di un Global Coordinator per i rapporti con gli investitori. Centrale è la figura del Nomad: il soggetto incaricato di valutare l’appropriatezza della società ai fini dell’ammissione e regista delle fasi qui sopra esposte.

Tracciare un identikit dell’emittente tipo non è immediato, in linea di principio si potrebbe dire che il mercato accoglie favorevolmente aziende che presentano ambiziosi programmi di crescita, un fatturato medio intorno ai 45 milioni di Euro, un EBITDA medio intorno ai 6 milioni di Euro ed un EBITDA margin medio intorno al 15 % ma, nella mia esperienza, posso testimoniare molte IPO di successo e soddisfazione di aziende con fondamentali molto lontani dai numeri citati. Esistono casi virtuosi di aziende con fatturati sotto i 10 milioni di Euro, ma anche imprese che con fatturati di 1,5 milioni, hanno raccolto più del doppio del loro fatturato e oggi capitalizzano oltre 9 milioni di Euro. Le ragioni del successo di queste IPO sono state: una equity story emozionante, un prodotto accattivante, un programma di crescita sfidante, velocità e precisione degli step pre IPO per farsi trovare pronti all’ammissione alla quotazione nella finestra di mercato più opportuna, ma, soprattutto, un imprenditore caparbio, determinato, convincente che crede nel suo progetto. Il fund raising non sarà mai un problema quando c’è credibilità, view strategica e autorevolezza da parte dell’imprenditore e la performace aziendale nel creare valore sarà solo la conseguenza di essere stati capaci di attrare talenti, capitali e partner strategici.

 

Laurea cum laude in Economia all’Università di Genova, Dottore Commercialista e Revisore Legale, partner Audit & Assurance di BDO Italia S.p.A. E’  responsabile dell’Ufficio di Genova.

Professore a contratto in auditing all’Università di Genova; membro della commissione IFRS presso il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti; membro del Gruppo di Saggi città di Genova; membro del Consiglio Direttivo della sezione terziario di Confindustria Genova.

Marco Venturini-La decarbonizzazione dell’economia e l’auto elettrica del futuro

La mobilità elettrica si fa strada anche in Europa, nonostante la tenace opposizione di quella parte dell’industria che ha un largo capitale investito nelle tecnologie automobilistiche correnti, e che finora ha cercato di ignorare questo sviluppo, sperando un giorno di svegliarsi da un brutto sogno.

La verità è che questa trasformazione è inevitabile, desiderabile e comunque destinata ad accadere con un andamento accelerato. Finché le auto elettriche non garantivano autonomia e ricariche rapide, non potevano diffondersi. Oggi è già possibile avere autonomie che sfiorano i 500 km e ricariche in 10 minuti, e il progresso continua. Giunti a questo risultato, chiunque provi un’auto elettrica non torna indietro. Prestazioni elevatissime, assenza di rumore e inquinamento, un pieno di energia con pochi euro, manutenzione quasi nulla. Non c’è confronto. Basta pensare a cosa diventeranno le città, senza fumi e senza rumore. Un pensiero negativo è che però in ogni caso l’energia elettrica necessaria a questa transizione va generata in qualche modo, magari bruciando combustibili fossili altrove, e che quindi non si guadagnerebbe nulla in termini ambientali.

Il futuro sarà diverso, e va pensato diversamente. Il vero problema dei prossimi anni non sono le auto elettriche ma come decarbonizzare completamente l’economia smettendo di emettere CO2. Per fare questo, dando per scontato che la società non vuole l’energia nucleare, c’è solo una soluzione: aumentare drasticamente l’uso di energie rinnovabili, prevalentemente sole e vento. Questo non è impossibile, la quantità di energia in arrivo sul pianeta è abbondante. Il problema è che tutte le rinnovabili sono intermittenti, e per utilizzarle in modo affidabile occorre una elevatissima capacità di accumulo di energia. Si potrebbe fare, ma ci vorrebbe un grandissimo investimento in batterie. Nessun Paese oggi avrebbe il coraggio di investire l’equivalente di una finanziaria per costruire grandi capacità di accumulo (tranne la Cina che lo sta facendo). Pensiamo invece ad un futuro in cui una parte significativa, per esempio il 20%, del parco auto nazionale, è elettrico. Ogni auto ha una batteria di grande capacità, e statisticamente il 90% del tempo le auto sono parcheggiate. Se queste fossero connesse alla rete mentre inutilizzate, ecco che la rete disporrebbe di tutto l’accumulo necessario a operare esclusivamente da fonti rinnovabili. Certo occorre investire in infrastruttura, ma non è impossibile (nelle città del Nord Europa già oggi ad ogni parcheggio su strada corrisponde un allacciamento elettrico). Non si tratta di fantasie, ma della nuova strategia energetica già delineata dall’Europa e in pieno sviluppo. In sintesi, la mobilità elettrica renderà possibile l’utilizzo di energia rinnovabile, oggi non accumulata e quindi non raccolta. Energia sprecata. L’auto elettrica non rappresenta un problema, ma la soluzione ad un problema ben più grande. Questo è il motivo per cui Paesi che pianificano il futuro investono moltissimo nello sviluppo di batterie e costruiscono gigafactories, mentre Paesi meno illuminati sperano che nulla accada e traccheggiano tra gas naturale (che inquina), idrogeno (che non c’è) e attendono, in una perenne competizione ad arrivare ultimi. Magari dichiarando che quando le nuove tecnologie saranno mature, le adotteranno (troppo tardi), salvo chiedersi il motivo di uno sviluppo lento e di una povertà diffusa.

Genovese, ingegnere nucleare, prima ricercatore all’Università della California, Berkeley, poi presso Texas Instruments, e Philips. Fonda  Phase Motion Control Spa, Società ad indirizzo R&D e tecnologico, che si specializza in elettronica di potenza e servomotori speciali ad alte prestazioni, per robotica, automazione e applicazioni di ricerca in astronomia e aerospaziale, mobilità elettrica navale, terrestre e aeronautica. Recentemente l’attività è stata estesa alle batterie al litio ad alta densità di energia e loro integrazione. Detiene numerosi brevetti ed è Life Senior Member di IEEE, socio di IAS, PES, UAI.

 

Giovanni Panigada-Fare finanza straordinaria in tempo di Covid

Covid-19 sta provocando uno degli shock socio-economici più intensi dell’era industriale. C’è persino stato, in una fase per fortuna breve, una sorta di maxi riconversione del tessuto produttivo: chiunque potesse, cercava di convertire la propria attività manifatturiera per improvvisarsi nella produzione di mascherine, gel igienizzanti e simili. Inevitabile una caduta del PIL a livello globale e l’attesa per le imprese di bilanci 2020 caratterizzati da forti perdite di fatturato e da risultati economici in fortissimo peggioramento.

In un contesto così problematico molti imprenditori italiani si ritrovano in un difficile dilemma: cercare di unire le forze con altre imprese tramite aggregazioni per reggere l’urto della crisi, ma anche riuscire a definire una corretta valutazione di un’azienda.

Lo Stato italiano pare muoversi in ordine sparso: da un lato ha fornito un (unico) segnale positivo prorogando la possibilità di procedere alla rivalutazione delle quote di norma possibile fino al 30 giugno, (estesa poi fino al 15 novembre). Dall’altro ha frenato l’attività di aggregazione con una dannosa evoluzione della normativa sulla c.d. Golden Power che sta creando incertezza ed inutile burocrazia anche su operazioni di dimensioni più limitate e non strategiche per il Paese. Ma che impatto ha la pandemia sul valore di un’azienda? O meglio, quanto ha senso penalizzare la valorizzazione di un’azienda per effetto di un fatto esogeno e in parte temporaneo come la pandemia? Purtroppo il primo fenomeno degno di nota è che molti player rinviano sine die le loro scelte strategiche, perdendo ottime opportunità di mercato e a volte addirittura compromettendo la loro possibilità di sopravvivere.

Chi ha deciso comunque di affrontare operazioni straordinarie in questi mesi, sta di norma invece adottando un approccio molto pragmatico e ragionevole che si può così sintetizzare su 3 punti : 1)chi vende non è disposto ad essere valutato sulla base delle performance di un anno anomalo come il 2020; 2)chi compra vuole prima di tutto verificare che la società da acquisire non sia stata impattata in maniera tale da mettere a rischio la continuità aziendale. Di qui la richiesta di una due diligence particolarmente approfondita; 3)l’acquirente necessita di stimare in quale misura i danni della crisi siano momentanei e in quale misura saranno invece strutturali.

Tale stima può però essere oggetto di negoziazioni infinite: la soluzione più pragmatica è di legare una parte sostanziale del prezzo alle performance future della società acquisita, decidendo di rischiare assieme e di attendere i risultati consuntivi degli anni dal 2021 in poi.

Il risultato sono accordi che esaltano la necessità di chi vende di collaborare con chi compra per gestire al meglio l’uscita della propria società da questo periodo anomalo, mantenendo così una forte motivazione, poiché la determinazione del prezzo dipenderà dalle performance future. Se questo approccio stimolerà un’evoluzione culturale del nostro ceto imprenditoriale che spinga a collaborare e non solo a competere con gli altri imprenditori, potremo dire che non tutto il male è venuto per nuocere.

 

Laurea cum laude in Economia. Iscritto all’albo dei Dottori Commercialisti e Revisori contabili di Torino dal 2004, dopo aver lavorato a Londra e Milano come tax consultant e auditor, ha maturato dieci anni di esperienza in attività di M&A come project manager presso M&A International (oggi Oaklins). Vasta esperienza nella generazione e nell’esecuzione di oltre 50 processi sia nazionali sia internazionali e nella gestione di diversi progetti di ristrutturazione del debito ex art. 67 L.F. e di redazione di piani concordatari. È fondatore e amministratore delegato di Nash Advisory.

Paolo Gibello-Il ruolo del terzo settore nella ripartenza e le potenzialità del Paese

La ripartenza passa anche dal sapere esaltare e non mortificare le potenzialità che un Paese può esprimere.

In Italia il terzo settore puo’ esprimere questa potenzialità e diventare un motore per la ripresa.

In attesa che la riforma del terzo settore diventi finalmente realtà, la vera sfida per il futuro è quella di riuscire a creare degli enti in grado di generare valore perché questo possa essere reinvestito assicurando continuità operativa nel tempo e creando i presupposti per una ulteriore crescita sostenibile.

La contaminazione tra profit e non profit diventa quindi fattore distintivo di successo.

In questo caso contaminare non significa solo di attività di charity e di giving back o di costituire Fondazioni di imprese che peraltro possono offrire un contributo determinante nel territorio di appartenenza ed essere presenti nel momento del bisogno e dell’emergenza, sopperendo parzialmente a quanto il settore pubblico non riesce a fare, ma si tratta di contaminazione di talenti.

Non sempre infatti le professionalità presenti nel terzo settore riescono a esprimere capacità manageriali che consentano di estrarre tutta la potenzialità di valore. Parte di questo valore rimane pertanto inespresso. Per sopperire a questa lacuna il terzo settore deve diventare attrattivo per i talenti perché laddove i talenti sono presenti il successo dell’iniziativa è assicurato.

La sfida principale quindi sarà quella di garantire al terzo settore degli sbocchi professionali che siano di rilievo, per attrarre non solo coloro che sono animati dal senso del volontariato, ma anche dal senso del business e della crescita sostenibile nel lungo periodo.

In questo senso una chiave di volta è rappresentata proprio dal mondo universitario, chiamato ad aprirsi definitivamente verso nuovi orizzonti con piani di studio dedicati al terzo settore e a tutta la tematica della sostenibilità.

In un capitalismo che si sta gradualmente confrontando con un approccio “stakeholder“ rispetto al tradizionale approccio “shareholder”, confermato anche dalla creazione negli ultimi anni di ormai numerosissime società benefit, ben presto la sostenibilità sarà sulle prime pagine di tutte le agende dei CEO.

 

Biellese emigrato a Milano, sessantenne, sposato, due figlie e tre nipoti.

Senior Equity Partner di Deloitte e Presidente di Fondazione Deloitte.

Former CEO e Chairman di Deloitte & Touche SpA

Dopo la laurea in Economia, entra in Andersen (poi Deloitte) nel 1984 ed è ancora lì.

Guecello di Porcia e di Brugnera-Nihil est agricultura melius

Il settore primario sta ritrovando la sua importanza economica, sociale e ambientale per una serie di fattori che ne determinano la centralità nel contesto in cui viviamo. Con significativa evidenza e una certa preoccupazione, assistiamo ad un incremento costante della popolazione mondiale, negli ultimi 70 anni si è passati da 2.5 mld (1950) di persone agli attuali 7.8 mld, per arrivare, (almeno così si prevede) al 2045 con 9 mld e dato questo scenario, la domanda crescente di derrate agricole sarà una necessita a cui solo l’agricoltura potrà far fronte.

In questi anni l’innovazione tecnologia nelle macchine e attrezzi, la produttività per ettaro coltivato e la ricerca di nuove varietà di piante, cereali e leguminose hanno compensato l’impossibilità di mettere a seminativo terre ulteriori, con una urbanizzazione che continua (e continuerà) a sottrarre terre arabili. (Produttività 1960-2010 +200%, superficie complessivamente coltivata 1.5 mld di ha, stabile negli ultimi anni; rapporto Fao).

Senza entrare nel tema della distribuzione delle risorse (e relativi consumi) oggi bisogna pensare ad una agricoltura che sia equa (per chi ci lavora) e al tempo stesso che sia “sostenibile”. La sostenibilità, a mio avviso,  in tutti i comparti produttivi dovrebbe essere sociale, economica e ambientale. L’agricoltore opera su un territorio ampio, spesso non si nota, ma svolge un ruolo di importanza primaria nella società:  ci fa trovare sulla nostra tavola il cibo per il nostro sostentamento (funzione economica), utilizza il capitale umano di un dato territorio (funzione sociale) e si occupa della regimazione dei corsi d’acqua e del delicato equilibrio con l’ecosistema. (funzione ambientale).

Per molti anni si è pensato ad una agricoltura che fosse inquinante, destinataria di sussidi pubblici: le cose stanno decisamente cambiando. L’agricoltura moderna è polifunzionale, non ultimo il settore delle energie rinnovabili che ha trasformato molte aziende agricole in agroindustrie. Oggi l’agricoltura è meno impattante nel territorio dal punto di vista dei fitofarmaci necessari alla coltivazione e dell’utilizzo dell’acqua irrigua, (agricoltura 4.0) , genera prodotti di qualità organolettica eccellente e l’Italia è protagonista in questo ambito con 297 specialità Dop/Igp riconosciute a livello comunitario e 415 vini Doc e Docg, 5155 prodotti tradizionali regionali censiti lungo la Penisola, nonché la leadership europea nel biologico con oltre 60mila aziende agricole bio.  L’Italia è anche leader nella biodiversità. Sul territorio nazionale ci sono 504 varietà iscritte al registro viti contro le 278 dei cugini francesi e 533 varietà di olive contro le 70 spagnole.

Non sono tutte rose perché il Belpaese, analizzando i dati macro, ha ancora una bilancia commerciale agroalimentare deficitaria (41,8 miliardi di euro nel 2018 di export, 44,7 miliardi di euro di import e per il comparto prettamente agricolo il divario è ancor più marcato con un disavanzo del 50%. Questo è dovuto al fatto che in agricoltura si sta ancora lavorando per creare maggior valore aggiunto sui prodotti di base, è però necessario molto tempo perché si passi da essere produttori di commodity (senza avere le economie di scala e le superfici arabili necessarie per competere a livello globale) a produttori di prodotti ad alto valore aggiunto, salubri, certificati, sostenibili, qualitativamente eccellenti in tutti i comparti (ortofrutta, allevamenti, colture cerealicole, viticoltura , agro energia etc). I dati sono in costante miglioramento e le prospettive lo sono ancora di più. Tutto ciò lo si deve soprattutto a nuovo “capitale umano” che vede nell’ agricoltura una prospettiva di lavoro stabile, gratificante anche se molto impegnativo. Dopo un lungo periodo a crescita zero, già nel corso 2012-2017 il settore agricolo ha registrato un incremento del 4% degli operai e del 6% delle giornate lavorate, tendenza confermate anche nelle previsioni future. Fra gli altri settori economici performance migliori erano state registrate solo dal turismo. E allora con entusiasmo confido in una nuova stagione che possa portare nuovi frutti e abbondati raccolti: del resto, questo, è proprio il compito della agricoltura..

 

Padovano di nascita, ma friulano di adozione, dopo essersi laureato alla Bocconi in economia aziendale ha lavorato tra USA, Germania e Austria. Dal 1998 amministratore della azienda agricola “Principi di Porcia e Brugnera”. Presidente delle Strade del Vino e sapori Pordenonesi e vice presidente Cooperativa Il Noceto. Ex-Vice Presidente delle Latterie Friulane Cooperativa  e ex Presidente dell’ ANGA Pordenone. E’ consigliere dell’ Unione Agricoltori di Pordenone e del consorzio doc Friuli Grave.

Stefano De Nicolai-Immuni serve, non serve o… non servirà più?

Apple e Google hanno da poco annunciato che nei loro nuovi sistemi operativi introdurranno una variazione al loro protocollo di ‘exposure notification’, permettendo così di ricevere notifiche di rischio contagio anche senza scaricare un’App. Ghiotta occasione per i suoi detrattori: “Ora Immuni diventa inutile!”. Clamoroso al Cibali! (cit.): tutto falso. Il nuovo aggiornamento dei due colossi digitali significa altro. Ma ci aiuta a dare qualche chiarimento sulla App italiana. Andiamo con ordine. Immuni è una App di ‘contact tracing’: traccia con riservatezza i contatti con altre persone, e ci avverte – in modo automatico e anonimo – in caso di contagio da Sars-Cov2 (purché chi abbiamo incontrato abbia a sua volta scaricato la App…). Il tutto funziona grazie ad un protocollo sviluppato da Google ed Apple insieme. Ora stanno aggiornando il sistema e introdurranno una funzionalità che invia la notifica anche a chi non ha installato l’App. Quindi, c’è poco da fare: se si vuole il contact tracing in Italia, Immuni serve (ancora).

Altra questione è: ma è davvero utile? In quanti devono scaricarla affinché funzioni bene? La App Immuni non è diversa da altre ‘digital platformcome, ad esempio, AirB&B o Uber. Ci interessa poco come funzionano: la loro utilità è proporzionale al loro livello di diffusione. La stessa questione circa il rispetto della privacy è un falso problema, ma di cui abbiamo una percezione distorta. Gli italiani vogliono percepirne l’utilità, sapere in quanti fra amici e colleghi la stanno usando. Tant’è che con l’aumentare dei contagi, sta aumentando il numero di persone che “magicamente” si convince dell’utilità di Immuni. In altre parole, vogliamo essere spaventati per convincerci della utilità della app. La gente ha poche informazioni su cosa succede attorno, non sa – a differenza di quel che avviene, per esempio, su Facebook – quante persone attorno l’hanno scaricata. Cerca allora un ancoraggio emozionale e lo trova solo nella curva dei contagi, quale proxy inconscia (e un po’ distorta) del livello di utilità dell’App. Il punto è che Immuni ha accettato la sfida del “data minimization”. Da anni subiamo il lavaggio del cervello sull’importanza dei dati: più ne hai e meglio è, ci hanno raccontato. Nuove regole GDPR e pandemia ci portano progressivamente in un mondo dove questo paradigma sarà rivisto. Anziché lottare per avere più dati possibili, verranno sempre più premiati quei modelli di business in grado di raccogliere e creare valore solo da pochi dati essenziali. Per darvi un’idea, Facebook raccoglie per ogni suo utente in media 135 GIGAbyte di dati all’anno. Un’enormità. Il ribaltamento del paradigma e la minimizzazione dei dati sarà la direzione per tantissimi altri business digitali, anche nel mondo ‘for profit’. Immuni può essere di grande ispirazione per tutti quei progetti basati sulla ‘data minimization’. Immuni sta vincendo questa sfida? Ad oggi è stata scaricata da 5.6 milioni di italiani, ossia il 15% degli smartphone attivi in Italia. E’ tanto? E’ poco? In Europa solo l’analoga App tedesca ha fatto di meglio. Detto questo, bisogna puntare a livelli ben più alti. Rimandando ad altre lettura la discussione sul livello minimo da raggiungere per avere effetti rilevanti a livello epidemiologico (trovate molto sul web, anche di firmato dal sottoscritto), qui mi limito a ricordare per il singolo individuo conta di più la percentuale di diffusione nei contesti che si frequenta. Il dato nazionale dice poco. Come Università di Pavia stimiamo che la distribuzione della app è al 20% in alcune regioni (Trentino, Emilia Romagna, Marche e Liguria) e ci si avvicina al 50%-60% in alcuni comuni o aziende. Il dato nazionale è percepito come lontano ed astratto. Servono dati ufficiali a livello “locale” per fare il salto di qualità: le persone avvertirebbero qualcosa di più “vicino” e più impattante. In sintesi: chi osserva Immuni come un mero affare istituzionale perde una grande occasione per dare una sbirciatina al futuro delle piattaforme digitali in genere. E questo è davvero un peccato…

 

Dopo aver fallito la carriera come cuoco e come cestista, è oggi professore di Innovation Management e Direttore del MIBE e dell’Executive MBA presso Università di Pavia. E’ stato visiting presso Harvard Business School. Coordina il laboratorio di ricerca Digita4good ed è membro della TaskForce Covid19 del Ministero dell’Innovazione / Presidenza del Consiglio. Nonostante questi sviluppi di carriera, le sue costine cucinate ‘sous-vide’ a bassa temperatura sono considerate straordinarie dai più.

Agostino Poggi-Il mercato immobiliare ai tempi del Covid

Il Mercato immobiliare è passato da una lunga fase di recessione a una timida ripresa nel 2019 con una conferma del primo trimestre 2020 che aveva fatto ben sperare. L’arrivo dell’emergenza sanitaria ha subito evidenziato che anche in questo comparto una diversificazione degli asset disponibili è fondamentale per attenuare i contraccolpi dei cambiamenti di mercato, che, come abbiamo visto, possono essere anche molto repentini. L’acquisizione di immobili, soprattutto per investitori orientati al lungo periodo, deve valutare più fattori e non limitarsi alla semplice redditività: la location, le caratteristiche del costruito, la sostenibilità energetica, l’urbanizzazione circostante, la possibilità di conversione dell’immobile, l’accessibilità sono solo alcune tra le caratteristiche che possono rendere l’investimento più o meno interessante. Gli investimenti rivolti all’immobile commerciale di qualità hanno risentito delle criticità palesate dalla interruzione delle attività a seguito del lock down, mentre gli immobili residenziali, od occupati dal settore finanziario o dal food market non hanno presentato problematiche rilevanti. Bisognerà vedere nell’autunno se ci sarà ripresa e quanto questa sarà consistente, e comunque anche in questo caso oltre alla sopracitate caratteristiche del bene sarà fondamentale la qualità dell’inquilino. Non bisogna mai dimenticare che il conduttore fa parte dell’investimento immobiliare, un immobile affittato ad un tenant non patrimonializzato, non strutturato, o comunque semplicemente non al passo coi tempi ovviamente sarà il primo ad entrare in crisi quando il mercato naviga in acque agitate. La redditività lorda nel commerciale (che può variare da un 4% nelle piazze più prestigiose ad un 7% per quelle secondarie) viene velocemente erosa quando si hanno problematiche locatizie. E’ fondamentale quindi una due diligence adeguata, al pari dell’acquisizione, anche per il futuro conduttore. Fortunatamente le banche dati, oggi facilmente consultabili, permettono di formare un rating anche per l’inquilino e di conseguenza per l’investitore valutare meglio il suo rischio di investimento. Come in finanza vale il trade off tra rischio e rendimento, anche nell’immobiliare la minor redditività deve essere associata ad una maggior sicurezza dell’investimento, ma a differenza del mercato finanziario, non esiste un mercato primario efficiente, dove poter verificare le transazioni in modo trasparente. Anche nel nostro Paese si sono insediati player molto importanti che possono rendere il mercato molto volatile nelle valutazioni e nella appetibilità di alcune location. Da ultimo, l’investimento immobiliare, colpa anche delle imposizione fiscale a cui è sottoposto, (l’ IMU è una patrimoniale ricorrente), può essere un mordi e fuggi solo per l’investitore professionale. Per tutti gli altri è corretto prevedere nel peggiore dei casi la possibilità di un immobilizzo di denaro a medio lungo termine, con costi di gestione, manutenzione, ed oneri fiscali che possono anche azzerare il rendimento prospettato e, come nel caso degli ultimi 10 anni, addirittura diminuire il valore del capitale investito. Una volta riguardo agli immobili valeva la regola delle tre “L”: location – location – location, ora il successo dell’investimento dipende anche da una serie di figure professionali, quali il valutatore Immobiliare, l’avvocato, l’architetto, il commercialista, il consulente finanziario e il loro costo incide sull’investimento complessivo. Vi sembrano troppi o è troppo oneroso?

 

È Presidente e Amministratore delegato di Edilizia Spa, società di gestione, valorizzazione e sviluppo di immobili a destinazione d’uso commerciale e servizi annessi, con privilegio per i centri urbani e le sue posizioni migliori. È socio fondatore dello studio “ Taccini ingegneria srl “ e consigliere della associazione “Pregia“. Ha rivestito importanti ruoli all’interno del Rotary. E’ sempre alla ricerca di nuove attività in cui cimentarsi, spesso al di fuori della sua esperienza lavorativa e che soddisfino la sua curiosità. Sposato, 2 figli, vive a Genova.

Ida Palombella-La digitalizzazione di moda e cultura ai tempi del Covid

L’emergenza sanitaria ha sconvolto la routine di tutti i settori economici, costringendo le aziende a immaginare nuove strategie per limitare inevitabili ripercussioni negative. In questo senso, settori tradizionalmente caratterizzati dall’offerta di “live experience”, come quello dell’arte e della moda, hanno dovuto accelerare il processo di digitalizzazione per far fronte ai nuovi limiti imposti dal distanziamento sociale. È stato proprio il settore della moda a rendersi conto, fin da subito, della necessità di ricorrere al digitale per gestire gli effetti dell’emergenza, ancor prima dell’inizio del lockdown imposto dalle misure di contenimento del contagio in Italia, per permettere ai giornalisti e ai buyer cinesi di partecipare da remoto a ben 54 sfilate della Milano Fashion Week dello scorso febbraio. Il progetto “China we are with you”, realizzato da Camera Nazionale della Moda Italiana, è stato visualizzato, attraverso le piattaforme web cinesi, da oltre 400 milioni di utenti. Pochi giorni dopo, con l’inizio dell’epidemia in Italia, alcune sfilate, tra cui quella di Giorgio Armani, sono state svolte a porte chiuse e trasmesse in streaming. L’opportunità rappresentata dal digital è stata quindi colta a ruota da altri operatori di settore: primo fra tutti, il British Fashion Council, che per non rinviare l’edizione maschile della London Fashion Week di giugno ha creato una piattaforma digitale dedicata agli addetti ai lavori e ai consumatori finali. Alla conversione digitale della settimana della moda di Londra, ha fatto seguito quella di Milano e di Parigi, che a loro volta svolgeranno nel mese di luglio le rispettive fashion week online. Allo stesso modo, sono anche numerosi i brand che hanno deciso di presentare le proprie collezioni online, si segnala tra tutti, Zegna che a luglio presenterà la collezione P/E 2021 con un format virtuale. Allo stesso modo, il settore dell’arte e della cultura, ha subito, forse in maniera ancora più incisiva, gli effetti del distanziamento sociale. Fin dall’inizio del lockdown numerosi musei, dal Museo Egizio di Torino, alla Pinacoteca di Brera e al Museo della Scienza di Milano, hanno creato contenuti originali digitali per rendere fruibili al pubblico i propri capolavori attraverso i social network. Analogamente, rappresentazioni teatrali e musicali di vario genere sono state rese disponibili via streaming o in diretta al pubblico a distanza, tramite le piattaforme online, portando così anche il mondo delle arti performative ad una forte svolta digitale, arrivando così ad un pubblico molto più vasto di quello raggiungibile fisicamente. Questa nuova modalità, dettata dall’emergenza, ha rivelato nonostante tutto anche qualche interessante vantaggio, quale quello di una maggiore possibilità di interazione con i consumatori, rivelandone i bisogni e i valori, e nel caso della moda, accrescendo la brand awareness e la brand loyalty. La digitalizzazione è anche un forte driver di sostenibilità: la possibilità di vivere determinate esperienze, sfilate o visite a musei e gallerie d’arte, senza la necessità di doversi spostare fisicamente, rende queste esperienze ad impatto ambientale zero (oltre che economicamente vantaggiose, in molti casi). I vantaggi della digitalizzazione del settore della moda, dell’arte e della cultura, non determineranno una sostituzione dell’esperienza fisica ma daranno la possibilità di integrarla e trasformarla per tenere conto della parallela dimensione digitale. Il risultato finale, sarà probabilmente un’accelerazione della fusione delle due dimensioni, fisica e digitale, in nuovi modelli di business che dovranno necessariamente tenere conto, dal punto di vista legale, di nuove e più ampie sfide sotto il profilo della protezione dei dati personali, della tutela della proprietà intellettuale, nonché della concorrenza sleale, di fronte alla messa a disposizione globale di dati e contenuti che tradizionalmente erano riservati ad un pubblico limitato.

 

Avvocato e Partner di Deloitte Legal, dove svolge il ruolo di Head of IP, Technology & Data Protection, fa parte della Fashion Luxury Service Line ed è Global Leader for Legal TMT Industry. Ha maturato una vasta esperienza nel diritto della proprietà intellettuale e information technology presso prestigiosi studi legali internazionali, dopo aver svolto l’attività di in house counsel nel settore del lusso presso Valentino S.p.A. E’ regolarmente speaker in occasione di eventi in materia di fashion law e IP in Italia e all’estero, coordina il master in Fashion Law dell’Alta Scuola Federico Stella dell’Università Cattolica di Milano ed è professore a contratto presso l’Università Cattolica. Ha assistito fondazioni, istituti bancari ed enti benefici nella gestione e tutela della proprietà intellettuale, sia nell’ambito di operazioni straordinarie sia nella gestione ordinaria e collabora regolarmente con la Camera Nazionale della Moda Italiana.

il futuro dell'arte

Ugo Nespolo – Per un’ecologia dell’arte

Siamo tormentati dall’idea di futuro, che prima della pandemia, immaginavamo più come un presente enormemente dilatato. Questa idea di presente assoluto ha da tanto tempo condotto il sistema dell’arte nelle sue subalterne componenti: una temporalità ansiosa e sprovvista di visione, schiava dell’assolutismo di questo presente e comodamente consegnata al possesso come convalida dell’essere. Ma poi, proprio come tutti gli ambiti della società e della economia, duramente provati dalla situazione attuale, anche il fantasmagorico mondo dell’arte e il suo luccicante bagliore ha conosciuto l’amarezza della realtà e la crudezza delle previsioni più nere. La pandemia lascerà su questo settore effetti devastanti e forse si salveranno in pochissimi: solo quegli artisti e quelle gallerie legati alle megastrutture commerciali, mentre la grande massa delle gallerie medie sparirà o dovrà necessariamente ridimensionarsi. (cit. J. Saltz). Al pari delle mondanissime fiere dell’arte, divenute appuntamenti troppo costosi e irrealizzabili. Qualcun altro (U. Obrist) propone la riscoperta di un grande progetto di arte pubblica come cura, sull’esempio di quello attuato dagli Usa durante la grande depressione: un new deal per tenere viva una vasta comunità creativa e contribuire alla scoperta e valorizzazione di nuovi talenti che inneschi un processo virtuoso anche in termini economici. Un suggerimento al momento inascoltato, mentre giorno dopo giorno assistiamo ad una situazione di stallo nelle dinamiche di incontri e vendite nelle gallerie e le prime chiusure di spazi divenuti sempre più costosi. La situazione, è vero, aguzza l’ingegno dei maggiori player del mercato verso soluzioni di avanguardia e di salvaguardia, con l’istituzione delle VOR (viewing Online Rooms), utili più a rassicurare i maggiori collezionisti nel non sentirsi abbandonati e smarriti dinnanzi alla decrescita diffusa dei (già) decantati “sicuri investimenti”. Anche lo scintillante, frenetico mondo delle fiere dell’arte che pareva fino a ieri il magico e sicuro meeting point planetario in grado di creare e consolidare valori e produrre ricchezza comincia a vacillare. Gli appuntamenti continui e incalzanti per ogni angolo del pianeta sono evaporati. E le stupefacenti gallerie di Milano, Londra e Hong Kong si trasformano in negozi virtuali, affidandosi all’online. Proprio come fanno anche i maggiori musei del pianeta, colpiti dalla profondità delle restrizioni adottate, dai tagli nei budget e dalle rescissioni dei contratti con il personale di ogni genere e grado. Proprio alcune istituzioni, da sempre specchio della opulenza museografica nel mondo, rivelano le maggiori contraddizioni e mettono in discussione il proprio ruolo e quindi l’opportunità della propria esistenza. È il caso del MoMa di New York che ha appena portato a termine una faraonica ristrutturazione da 500 milioni di dollari e che ha appena annunciato il taglio di 45 milioni di dollari su future mostre, dimezzando il budget del 2021, “un primo passo per eliminare ogni spesa possibile“, come ha spiegato il direttore Glenn Lowry. Mario Perniola nel suo “L’arte espansa” pochi anni fa scriveva di destabilizzazione del mondo dell’arte e prevedeva una bolla speculativa prossima allo scoppio, contestando la trasformazione degli artisti in divi dello spettacolo, l’annullamento della critica dell’arte, la scomparsa del pensiero sacrificato all’imperativo che vale solo tutto ciò che costa. Pete Peterson raccontava di come a New York ci siano montagne di soldi e ragazzi trentenni già milionari considerano le opere d’arte dei “beni posizionali, utili a dare prestigio e farli sentire gente che conta. Ma sono gli stessi trentenni di Londra, Hong Kong, Mosca: i super ricchi costituiscono da sempre una nazione a parte. Li si incontra nelle fiere d’arte di alto bordo: Art Basel Miami, Frieze, Dubai, con quella aria di superiorità ad ostentare opulenza, di stand in stand, di suite in suite, di Jet in Jet. Il mondo dell’arte è diventato allora un magnifico soufflé farcito di banconote (cit. Polveroni) e questa ingordigia speculativa è stata alimentata da tutti: mercanti, casa d’aste, musei e fiere. In attesa che il gigante dai piedi di argilla precipitasse (cit. Thomson). Accontentati tutti.

 

Ugo Nespolo – Artista

info@nespolo.com

Diplomato all’Accademia Albertina di Belle Arti a Torino, laurea in Lettere Moderne. La sua prima mostra milanese dal titolo “Macchine e Oggetti Condizionali” – in qualche modo – rappresenta il clima e le innovazioni del gruppo che Germano Celant chiamerà Arte Povera. Negli Anni Sessanta si trasferisce a New York dove subisce il fascino della nascente Pop Art, mentre negli Anni Settanta milita negli ambienti concettuali e poveristi. Nel 1967 è pioniere del Cinema Sperimentale Italiano sulla scia del New American Cinema. I suoi film sono stati proiettati e discussi in importanti musei tra i quali il Centre Pompidou a Parigi, la Tate Modern a Londra, la Biennale di Venezia. Con Baj, Nespolo fonda L’Istituto Patafisico Ticinese ed è, ad oggi, riconosciuto come una delle più alte autorità nel campo. Nella sua arte è molto marcata l’influenza di Depero, da cui trae il concetto di un’arte ludica che pervade ogni aspetto della vita quotidiana. Da qui anche il suo interesse per il design, l’arte applicata e la sperimentazione creativa in ambiti diversi, quali la grafica pubblicitaria, l’illustrazione, l’abbigliamento, scenografie e costumi di opere liriche. La sua ricerca spazia anche sui materiali e sui molteplici supporti, con tecniche differenti: legno, metallo, vetro, ceramica, stoffa, alabastro. Sicuro che la figura dell’artista non possa non essere quella di un intellettuale, studia e scrive con assiduità dei fatti e delle discipline che han da fare con l’estetica e il sistema dell’arte. Nel Gennaio 2019 l’Università di Torino gli conferisce la Laurea Honoris Causa in Filosofia.

futuro_Atlantia

Gabriele La Monica- Chi vincerà la partita di Atlantia

La partita relativa al futuro di Atlantia è destinata a finire ai tempi supplementari. Fondamentalmente perché uno dei giocatori, il Governo, ha cambiato le regole del gioco rendendo impossibile la fine della partita, in un’ottica di piena salvaguardia del diritto. L’articolo 35 del Milleproproghe rende più semplice e, soprattutto meno costoso (7 mld invece di 23) la revoca della concessione. Peccato che i decreti attuativi necessari per renderlo effettivo non siano mai stati realizzati. Perché? La spiegazione più accreditata è che il testo della Concessione è blindato e quindi non può essere revocata. D’altronde se fosse stato possibile, lo avrebbero già fatto. Entro il 30 giugno la Concessionaria, quindi Aspi, deve eccepire il peggioramento del quadro normativo e restituire la concessione in cambio di 23 miliardi di euro(cifra stabilita dall’ex ministro Antonio di Pietro quasi come una giuggiola per rendere meno amaro il no alla prima versione della fusione con Abertis voluta dal governo Prodi). Guardiamo i numeri sul tavolo. Atlantia capitalizza circa 11 mld di euro, ha 9 mld di bond e altrettanti ne ha Autostrade per l’Italia. Ha un piano di investimenti da 14,5 mld al 2018, di cui 2,9 mld nel solo 2020. Investimenti che non può finanziare perché il suo credito è stato declassato a Junk dopo l’arrivo del Milleproroghe. Atlantia ha le mani legate. Se il governo non cambia l’articolo 35, deve restituire la concessione. Aspi è già in ipossia di liquidità Come se ne esce? Il governo, in particolare i 5 Stelle, devono cambiare la legge e accettare che i Benetton, che nella loro narrazione sono diventati l’incarnazione del male, rimangano nell’azionariato di Aspi, anche se diluiti. Atlantia cederà quote Aspi accettando probabilmente di scendere sotto il 50% e facendo entrare F2i. Forse Cdp prenderà una quota nella stessa Atlantia. L’aspetto più delicato è quello delle tariffe. Il Governo vuole un taglio a doppia cifra. Aspi vuole che le tariffe siano tali da rendere sostenibili gli investimenti. Delle due una: o si allunga la concessione nel tempo, allungando anche le tempistiche degli investimenti, o si tagliano le tariffe meno del 10% chiesto dall’Esecutivo. Oggi, paradossalmente, sembra più plausibile la prima ipotesi. Una soluzione che ha una logica finanziaria ma che rischia di diventare una doppia beffa per i paladini della revoca della concessione senza se e senza ma. Perché Atlantia, e i Benetton di conseguenza, non solo non verrebbero cacciati ma rimarrebbero concessionari ancor più a lungo, seppur con una presa molto meno forte rispetto al passato. Ma, dicevamo all’inizio, la partita finirà ai supplementari, vista la difficoltà del Governo di trovare una quadra politica. Quindi, dopo il 30 giugno, partirà la battaglia legale. La speranza è che si consumino solo i preliminari di quella che altrimenti sarebbe una battaglia lunghissima. Una sorta di lunga esplosione di mortaretti che annuncino la fine delle ostilità e la nascita di un nuovo ordine autostradale. E tutto questo, ovviamente, in attesa dell’esito del processo relativo alla tragedia del Morandi che delineerà le responsabilità civili, penali e amministrative e, auspicabilmente, darà giustizia alle famiglie delle 43 vittime.

 

Gabriele La Monica, giornalista Mf-Dow Jones

Email: gabriele.lamonica@mfdowjones.it

Quarantanove anni, Laureato in Giurisprudenza. Giornalista dal 1994. Dal 2005 è il responsabile della sede di Milano dell’agenzia Mf-Dowjones. Fan compulsivo dei Rolling Stones, che segue ovunque nel mondo ogni volta che questo è possibile. Juventino oltre ogni limite.

Giovanna Dossena – Covid-19 e i suoi riflessi sul sistema filiera

Covid è arrivato, come tutti i cigni neri , non atteso, non creduto e non capito. Senz’altro è importante capirne le cause, ma soprattutto è importante capirne le conseguenze e le direzioni che ha preso il futuro, e quelle che devono prendere i nostri sforzi di persone, di investitori, di pensatori e di decisori. In un mondo di risorse scarse, le due opportunità – ricostruire” il prima” o avventurarsi nel” nuovo” – devono trovare un giusto mix, in termini di efficienza e di efficacia.  Non si può  ignorare il passato, non si può ignorare il futuro. Anche se il primo è noto ed il secondo no: il nostro cammino deve  rappresentarsi con un piede nella certezza ed un piede nell’incertezza, ma questo implica una progressione verso il nuovo sulla base delle conoscenze, delle competenze, dell’esperienza e di quanto utile maturato nel percorso precedente. E qui serve una  “condivisione di valori”, quale modalità essenziale della interazione economica e sociale. Siamo tutti molto più interagenti di quanto possiamo immaginarci, niente va reputato lontano, nessuno può reputarsi soggetto “stand alone”. Declinando  tali condizioni a livello del  sistema micro economico delle imprese, il grande protagonista che emerge per il futuro è il bisogno di  ” fiducia di filiera “. Diverso dal concetto di distretto (che raggruppa le imprese che offrono un prodotto succedaneo operando  in un determinato territorio), la filiera è una catena verticale che lega tutti gli attori che contribuiscono all’approntamento di un determinato prodotto o servizio al mercato: parte dalla fornitura arriva alla produzione e infine alla distribuzione, dalla materia prima al consumatore finale. Ciascuno operatore nel contesto della filiera contribuisce alla determinazione del valore aggiunto, e perciò del valore, di tutte le unità che si trovano a monte e valle.

Imprese appartenenti a settori anche diversi appartengono ad una medesima filiera e perciò hanno un convergente interesse che la filiera prosperi. Gli operatori di una medesima filiera si conoscono ed interagiscono nel reciproco interesse, ancorché ciascuno motivato dalla tutela dei propri interessi, ancorché gli operatori siano in settori diversi, di dimensioni diverse, e geograficamente dispersi. Il concetto stesso  di sostenibilità non esiste ove non venga declinato lungo tutta la filiera. Non ci saranno mai imprese ESG se non ci saranno filiere ESG. La filiera diventa perciò un ecosistema capace di sprigionare una potenzialità self enforcing virtualmente idonea a rappresentare una leva del valore. Partendo proprio da questi assunti, strumenti efficaci a favorire la ripresa, potrebbero essere quelli rivolti a:

  • favorire la trasparenza delle informazioni all’interno della filiera, condividendo  informazioni afferenti la performance delle singole unità operative;
  • considerare la filiera come una potenziale “cash pool “all’interno della quale i vari soggetti riescono a darsi e a chiedersi credito in maniera strumentale alle rispettive necessità strategiche;
  • consentire un sistema di sostegno e di finanziamento  “tra privati” nel contesto della filiera per favorire capacità di finanziamento del circolante , investimenti, produttività e domanda all’interno della stessa;
  • attribuire  un rating alla filiera che si affianchi al rating delle imprese ad essa appartenenti ,progressivamente idoneo a meglio rappresentare l’affidabilità delle stesse.

La capacità di futuro del sistema economico si giocherà proprio nella sua capacità di trasformare gli obiettivi di performance in obiettivi di sostenibilità, l’interazione in condivisione, l’integrazione in un vantaggio comune.


Giovanna Dossena, manager nel private equity
Email: giovanna.dossena@unibg.it

Laureata in economia, professoressa ordinaria di Economia e Gestione delle imprese all’Università di Bergamo e in precedenza in Bocconi. Fondatrice e direttrice del Centro Ricerca Entrepreneurial Lab E-lab. Commissario del MIUR nel 2017. Ha istituito il corso di Filantropia strategica all’Università di Bergamo. E’ autrice di numerose pubblicazioni e monografie sul tema della imprenditorialità, relatrice in numerosi convegni nazionali e internazionali sul tema della finanza sostenibile e dell’inclusione economico-sociale. Svolge attività di investimento e di consulenza in campo economico finanziario con particolare focus sulle piccole e medie aziende. Si occupa di Private Equity. Nel 2016 ha fondato AVM gestioni sgr, di cui è presidente e amministratore delegato.
Ha rivestito numerosi incarichi istituzionali tra cui, consigliere di amministrazione del Gruppo Brembo.
È dottore commercialista e revisore contabile

Mirko Belliato – Covid-19: cosa ci ha lasciato

Sembrava così lontano e, invece, a febbraio anche l’Italia ha avuto i primi casi di coronavirus. Io ero all’estero, in Sudafrica, per un convegno cui avevo aggiunto qualche giorno di ferie. Ma la mia testa, dopo il 21 febbraio era a Pavia: desideravo solo tornare a casa per dare il mio contributo nella cura dei pazienti affetti da Covid-19. Il nostro Ospedale, il Policlinico San Matteo di Pavia, ha avuto un grande ruolo nella gestione della pandemia, con la guida pronta e decisa della Direzione Strategica. Ed è proprio grazie a questa determinazione e all’impegno di tutto il personale che siamo stati, tra i primi, ad aprire un’unità di terapia sub-intensiva; un reparto definito “first responder” in grado di accogliere i pazienti in peggioramento rapido e che necessitavano di immediate cure e supporto respiratorio specialistico. Con i miei colleghi ne ho coordinato l’apertura, avvenuta ai primi di marzo. Poi, una seconda rianimazione per i pazienti Covid19 gravissimi, fino al trattamento di cinque pazienti contemporaneamente in supporto ECMO.

Il nostro lavoro ci porta ad avere a che fare con pazienti difficili, gravi, ma questo virus ha rappresentato qualcosa di nuovo anche per noi rianimatori. Professionalmente è stata un’esperienza unica. Personalmente, come altri miei colleghi, ho vissuto l’emergenza del 2009: anno in cui abbiamo attivato l’ECMO team mobile per andare a prendere i pazienti negli altri ospedali e che necessitavano di un supporto respiratorio in ECMO. Anche in quel caso una pandemia, ma è stato completamente diverso. Anche dal punto di vista umano: con il coronavirus è venuto meno lo scambio empatico con i familiari dei pazienti che per noi rianimatori e medici di emergenza è fondamentale.

Quello che più ci è pesato è stato l’isolamento nei confronti della famiglia; non poter trasmettere le nostre emozioni e il nostro essere partecipi del loro dolore con la gestualità e la vicinanza fisica. Ci è mancato il nostro far parte della “cura”, anche delle famiglie.

Per questo umanamente è stata un’esperienza devastante: nella fase di picco vedevamo fino a 60 pazienti al giorno, alcuni incurabili. Lì si è visto non solo l’integrità medica ma anche l’aspetto psicologico. Per questo ringrazio il Policlinico San Matteo che insieme alla Fondazione Soleterre ci ha fornito un supporto psicologico che ha aiutato tanti di noi.

Per questa ragione sto vivendo con grande ansia questa fase 2. Temo una seconda ondata, non solo come medico. Dal punto di vista tecnico professionale abbiamo risorse, capacità e una maggiore conoscenza per affrontare un eventuale contagio.

La temo umanamente: pensare di rivivere i mesi passati, soprattutto il mese di marzo, fa davvero paura. Per questo chiedo a tutti noi di usare la mascherina, i guanti e l’igiene delle mani ma chiedo grande senso di responsabilità e di rispetto verso sé stessi e verso il prossimo.


Mirko Belliato, Primario ospedaliero
Email: m.belliato@smatteo.pv.it

Biografia
Dirigente medico, specialista in Anestesiologia e Rianimazione, e responsabile della UOS Assistenza Respiratoria Avanzata, sezione della UOC di Anestesia e Rianimazione 1 della Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo di Pavia.

Si occupa dei casi di più gravi di insufficienza respiratoria acuta. Attualmente è anche Professore a contratto di Anestesiologia per i Corsi di Laurea delle Professioni Sanitarie della Riabilitazione, Università degli Studi di Pavia.

Alunno dell’Almo Collegio Borromeo, ha ricevuto riconoscimenti nazionali ed internazionali, e ha pubblicato su prestigiose riviste scientifiche internazionali. È membro attivo nella società internazionale ELSO di cui è stato eletto membro del comitato direttivo EuroELSO (branca europea di ELSO).

Riccardo Motta – I riflessi del Covid sul sistema Bancario

Il COVID-19 rappresenta nel mondo dell’economia il così detto  “cigno nero”, ovvero, un evento raro ad elevato impatto economico-sociale. Questi eventi fuori standard trovano spesso gli operatori stessi impreparati e costretti a ricorrere ad espedienti tattici (i più reattivi) o misure graduali wait and see (i più attendisti).

Le Banche di tutti i Paesi colpiti dalla pandemia stanno sostenendo i propri clienti con iniezioni di liquidità e agevolazioni sul credito, favorite dall’attività delle Banche Centrali e dei Governi, nonché da una base di capitale regolamentare in media più elevata rispetto alle precedenti crisi. Gli Istituti si sono trovati a dover garantire la continuità del business, seppur dovendo ridurre l’operatività delle filiali, e spostandola su canali self e call center, ricorrendo allo smart working dei dipendenti e la messa in opera di nuovi processi per contrastare le frodi informatiche. La gestione dell’emergenza è solo un aspetto che non può tuttavia trascurare le conseguenze, e anche le opportunità, degli impatti del COVID-19 nel medio e lungo periodo. Nonostante i cigni neri” costituiscano infatti eventi rari, le maggiori crisi del XXI secolo scorso hanno comportato una generale accelerazione nell’adozione di nuove tecnologie e diffusione di trend digitali, ( quella dell’11.09 con la diffusione massiva di Internet e del Mobile, quella del 2007/08 con l’affermarsi dei Social Media quali strumenti di informazione e interessi della collettività). Ad ogni frattura, il mondo economico e sociale ha risposto trovando una forma nuova per ricostruire un’identità, anche attraverso l’uso della tecnologia. In un’Italia con una maturità digitale ancora in ritardo, stiamo assistendo ad un forte incremento nel commercio elettronico e gli effetti di questa pandemia sui comportamenti di consumo si estenderanno anche al contesto bancario. La pandemia sta agendo da catalizzatore ed acceleratore dei progetti di trasformazione digitale e tecnologica. In uno scenario più ostile agli assembramenti e al contatto ravvicinato, le Banche dovranno  riconfigurare il modello distributivo fisico, incentivando la clientela ad un utilizzo più esteso dei canali digitali, potenziati e, in alcuni casi anche ripensati, al fine di garantire stessi livelli di servizio anche per i neo-utenti meno digitali.  Ma la rivoluzione non escluderà nemmeno i Wealth Manager, che più di altri basano il modello di business su relazione con i propri clienti. La sfida sarà quella di trovare risposte credibili in grado di trasformare le paure e le incertezze dei clienti in occasioni di investimento e protezione. Ne beneficeranno gli operatori che sapranno riconquistare la fiducia degli investitori con soluzioni rivolte al benessere (non solo finanziario) della famiglia e dell’attività economica. La trasformazione dei modelli di servizio dovrà muoversi congiuntamente all’evoluzione dell’organizzazione del lavoro, proseguendo il percorso di digitalizzazione già in atto. Lo “smart working” è un’opportunità concreta per tutti (maggiore flessibilità per i dipendenti, efficientamento degli spazi, impatto positivo su mobilità e inquinamento), se accompagnato a un cambiamento culturale : la necessità di convertire il profilo dei dipendenti e agevolarli nella acquisizione delle competenze digitali.

Servirà trasformare l’assetto organizzativo tradizionale verso modelli di collaborazione agile e meccanismi di coordinamento meno gerarchici e più funzionali, in un contesto in cui le connessioni digitali superano i confini delle mura degli uffici. Gli investimenti in innovazione e tecnologia saranno al centro delle strategie aziendali dei prossimi 3-5 anni, integrando nuove professionalità digitali ai più alti livelli aziendali. Le situazioni di crisi estrema, pur nella loro drammaticità, devono anche essere viste come momenti di riflessione manageriale e come opportunità per creare organizzazioni bancarie ancora più flessibili, più resilienti, più veloci nel realizzare i cambiamenti in atto. Mettendo sempre al centro la fiducia e i bisogni dei clienti. Che, alla fine, rappresentano il maggior valore per le banche.


Riccardo Motta, Senior Partner Deloitte
Email: rmotta@deloitte.it

Biografia
Financial Market Industry Leader di Deloitte Central Mediterranean.

È partner audit dal 1998, Dottore Commercialista e Revisore Legale dei Conti in Italia.
Ha assunto il ruolo di revisore per numerosi istituti bancari in Italia ed è attualmente revisore del Gruppo UniCredit e del Gruppo Cassa Depositi e Presiti
Esperto di IFRS/IAS, ha una solida esperienza in incarichi di due diligence nell’ambito delle acquisizioni, in particolare per l’Europa Centro-Orientale.
É spesso chiamato come esperto da numerosi tribunali italiani per stilare pareri, fairness opinions e valutazioni su molte operazioni di finanza straordinaria.
Vive e lavora a Milano.

riccardo puglisi

Riccardo Puglisi – Le parole dell’economia durante la crisi del Coronavirus

Per il Manzoni si trattava di “fare di necessità virtù”, mentre per Horace Walpole era questione di serendipity: in che modo possiamo capire meglio i concetti economici a motivo delle privazioni connesse al contenimento dell’epidemia del COVID 19? Come consumatori ci viene subito spontaneo focalizzarsi sul lato della domanda, cioè sul fatto che -per forza di cose- non acquistiamo più quello che normalmente acquistiamo: dal caffè al bar alla casa affittate su piattaforme social.

Ma la storia non finisce qui. Chi produce –cioè chi sta sul lato dell’offerta- se ne accorge subito, ma dopo un po’ tutti gli altri se ne accorgono (o dovrebbero farlo): conviene produrre di meno perché 1) c’è molta meno domanda e 2) –(come nel caso di divieti estesi anche al lato della produzione)- le disposizioni coercitive del governo impediscono di farlo. Se la domanda si prosciuga o non è possibile produrre, una percentuale importante di lavoratori viene lasciata a casa: in un paese civile è il welfare state che deve occuparsi di ciò tramite strumenti come il sussidio di disoccupazione universale o la cassa integrazione

Qui entrano in gioco contemporaneamente la politica fiscale e la politica monetaria: uno stato (o l’intera Unione Europea) ha la possibilità di fare politiche di spesa in deficit, cioè di aumentare la spesa e abbassare la tassazione facendosi finanziare da chi ha risorse monetarie disponibili. In un mondo in cui non si usa più la cosiddetta moneta-merce (cioè una moneta che ha un valore intrinseco come nel caso di monete d’oro e argento) la banca centrale ha sempre risorse monetarie disponibili in quanto può emettere tutta la base monetaria che desidera, tenendo conto del solo rischio dell’inflazione, che al momento appare molto basso (per usare un eufemismo). Queste risorse aggiuntive create dalla banca centrale finanziano le banche, e finanziano gli stati attraverso l’acquisto dei titoli di debito.

Tuttavia, il sacrosanto utilizzo della politica economica nello stile di Keynes, cioè per espandere la domanda aggregata in una situazione di grave crisi non deve far dimenticare l’altro concetto economico fondamentale in economia, cioè l’offerta di beni e servizi.

Se ci pensiamo bene la questione è persino banale: noi consumiamo beni e servizi, non banconote o depositi bancari. Qui dovremmo ricordarci di un concetto che la versione caricaturale italica del pensiero keynesiano purtroppo ci ha fatto dimenticare: la domanda si crea dal lato dell’offerta, ovvero i fattori produttivi (lavoratori e capitalisti) ottengono potere d’acquisto utilizzabile per comprare altri beni a motivo del fatto che sono attivi in imprese che producono e vendono beni e servizi “di successo”, cioè beni e servizi il cui prezzo è inferiore alla disponibilità a pagarli da parte di chi è coinvolto nell’attività produttiva generale. Infinite quantità di moneta, cioè una politica keynesiana sontuosamente generosa nell’espansione della domanda nulla o quasi nulla può di fronte a un’assenza di produzione, o –in termini più generali che ci riguardano molto da vicino – una scarsa e stagnante produttività del paese.

 


Riccardo Puglisi, Docente di economia politica
Email: riccardo.puglisi@unipv.it

Professore associato di Economia Politica all’Università degli Studi di Pavia. Alunno del Collegio Ghislieri (con buona pace dell’amico borromaico Pietro Ripa), ha studiato a Pavia (laurea in economia e dottorato in finanza pubblica) e alla London School of Economics (Master e PhD in economia). Si occupa principalmente del ruolo politico dei mass media, di finanza pubblica, e del ruolo economico delle istituzioni politiche. Insegna corsi di economia politica, scienza delle finanze e political economy a Pavia e all’Università Bocconi. Redattore de lavoce.info, nel 2013-14 ha fatto parte del gruppo di lavoro sui costi della politica nell’ambito della spending review condotta da Carlo Cottarelli. Ama fare divulgazione sui social network e in particolare su Twitter. Cerca di non essere troppo noioso a patto che gli si permetta di leggere molti PDF.

Paolo Macrì – 2020: crisi e opportunità da Covid-19

Sostenibilità ambientale, big data, intelligenza artificiale, telemedicina e robotica: sono davvero tante le opportunità e le innovazioni che avrebbero dovuto caratterizzare l’anno 2020. Le aspettative positive sono state deluse (in rari casi potenziate) dall’impatto imprevisto del Covid-19. Nessuno (o quasi) avrebbe previsto le drammatiche conseguenze che stiamo vivendo oggi, in primis per la salute delle persone e poi per tutto il mondo di imprese e istituzioni. È azzardato e imprudente fare previsioni a medio o lungo termine su quelle che saranno le ricadute sociali, economiche e politiche. Forse solo dopo la concreta possibilità di avere un vaccino collaudato e disponibile, si potranno fare ipotesi stabili e credibili, ma in ogni caso, la società globale si sarà nel frattempo modificata, delineando nuove abitudini, assetti ed equilibri (o squilibri). Guardando al mondo del lavoro, il lock-down ha imposto una condizione di paralisi a una percentuale elevatissima di aziende, (soprattutto Micro PMI), con effetti devastanti su quelli che saranno i conti economici dell’anno, cui seguirà una crisi occupazionale. Alcune nicchie di mercato sono in crescita: alimentari e GDO, ICT e telecomunicazioni e in parte mondo farmaceutico. Ma è un “segno più” ampiamente insufficiente rispetto a turismo e ristorazione, automotive e trasporti, moda, commercio al dettaglio, servizi e consulenza, edilizia e artigianato, che hanno subito un profondo rosso di almeno tre mesi.

La Fase 2, anche definita di “convivenza con il virus”, per alcune aziende o settori continuerà a essere proibitiva, per altri sarà occasione di ripresa verso una nuova normalità, sempre che un possibile effetto yo-yo non riporti al blocco totale. Come in borsa potranno esserci rimbalzi e opportunità, sfruttando i vuoti rimasti in questi mesi e creando prodotti o modelli di servizio che sono nati durante la crisi. La situazione di emergenza ha obbligato una moltitudine di persone a imparare cose nuove, (nelle relazioni sociali, nei consumi, nel modo di informarsi e intrattenersi) e anche a lavorare diversamente. Un’automatica necessità di formazione e alfabetizzazione informatica ha pervaso le famiglie italiane, che in poche settimane hanno introdotto l’uso quotidiano della videoconferenza, dell’e-commerce, dell’intrattenimento online e di tecnologie e piattaforme che saranno certamente utili per l’immediato futuro. L’auspicio è che la rinnovata competenza nella fruizione di strumenti IT riesca a colmare almeno parzialmente il gap tecnologico che caratterizzava gran parte della popolazione e della società produttiva. L’utilizzo consapevole e diffuso delle ICT potrebbe poi consentire un nuovo inizio: il realizzarsi della società dell’informazione o società della conoscenza, un’occasione di democrazia culturale, in grado di trasformare la nostra economia verso sane forme di globalizzazione, equità sociale e sostenibilità.

Forse, l’automobile non è più il bene simbolo della civiltà occidentale, la sensibilità e il rispetto verso l’ambiente sono cresciuti, il desiderio di un’informazione imparziale e oggettiva si è diffuso, la classe politica potrebbe imparare nuovi modi di porsi verso i cittadini, perfino le istituzioni hanno dimostrato che l’impossibile era possibile, a Genova, con la ricostruzione del Ponte. Forse, il Coronavirus ci ha fatto scoprire “La Civiltà dell’Empatia”. “La corsa verso la coscienza globale nel mondo in crisi”: è il titolo di un saggio scritto da Jeremy Rifkin, poco più di dieci anni orsono.


Paolo Macrì, Imprenditore
Email: paolo@gallerygroup.it

Laureato in Giurisprudenza, si occupa da oltre vent’anni di editoria elettronica e di nuovi media per l’apprendimento e la comunicazione, ha ideato e coordinato decine di piattaforme e-learning, web-tv e progetti multimediali integrati per web e social media.

Presidente del gruppo GGallery www.gallerygroup.it , che opera nel settore dell’editoria, dell’e-learning e della comunicazione web. Consigliere di amministrazione del Consorzio SI4Life, Polo Regionale Ricerca e Innovazione – Area Scienze della Vita. E’ stato membro delle Commissioni dei Piani formativi presso Fondazione Fondirigenti “G. Taliercio”, promossa da Confindustria e Federmanager.

Professore a contratto dal 2004 al 2018 all’Università di Genova – Scuola di Scienze Umanistiche.

Ernesto Lanzillo – La reazione delle PMI italiane al Covid

Deloitte Private ha pubblicato “COVID-19 – Il cambio di paradigma per le aziende Private”, con l’obiettivo di condividere le competenze e l’esperienza del proprio network a servizio delle aziende italiane che si trovano a rispondere all’emergenza globale, per favorire una reazione resiliente, rapida ed efficace. L’analisi considera sei ambiti chiave per la risposta alla crisi, desunti dalla esperienza internazionale di Deloitte, che saranno approfonditi ulteriormente con specifiche contestualizzazioni sulla dinamica italiana: remote working, supply chain revolution, e-commerce, IT infrastructure, cyber risk, valore di impatto sociale, sono solo alcuni dei temi che rappresentano i pilastri e i paradigmi del “next new normal”, che si sta ineluttabilmente e rapidamente configurando.
In un periodo di grandi cambiamenti e incertezze, occorre far leva sulle migliori conoscenze e professionalità, consapevoli del fatto che le fasi di crescita generano contesti trascinanti e le fasi di crisi fanno emergere i più abili interpreti del cambiamento.
Le PMI hanno strutture organizzative snelle, non hanno spesso catene decisionali articolate che interagiscono con protocolli di comportamento prestabiliti e codificati in caso di eventi di “disruption”. Nel pieno della fase pandemica, avendo trovato alterati tutti i riferimenti a strategie ed azioni usualmente applicate nel quotidiano, le PMI sono risultate spiazzate e sono state prese in contropiede.
I modelli di gestione dei rischi aziendali, che prevedono le situazioni di emergenza, spesso si limitano alla prospettiva del “quando” capiteranno, non al “se” dovessero capitare.
La efficacia con cui una azienda gestisce la crisi non dipende però solo dalla predisposizione della sua organizzazione alla gestione dei rischi, ma dalla capacità dei propri leader di essere resilienti. I leader delle PMI sono abituati a superare difficoltà e imprevisti, adottano l’esperienza acquisita dall’aver già superato avversità passate. Da questo punto di vista, i leader delle PMI hanno mantenuto un approccio razionale e fattivo, pur comprendendo l’importanza della tempestività, compiendo scelte importanti con coraggio, basandosi su informazioni parziali e scenari in continua evoluzione, esaltando le doti di empatia con i dipendenti e con i clienti, tipiche delle organizzazioni semplici ma “genuine”. Impostando una comunicazione trasparente e onesta ed evitando di nascondere i punti critici. Sono riusciti molto spesso a raccontare ciò che si attendono dalla propria azienda, ispirando gli altri a perseverare, in modo spesso più efficace di come processi e procedure codificati permettono di trasmettere alla “periferia” della azienda le strategie definite dal centro di comando. Ecco perché, grazie a queste doti, le PMI, pur subendo forti contraccolpi nelle prime settimane di crisi, l’hanno saputa affrontare alla pari delle grandi aziende, riorganizzandosi, resistendo e riadattandosi al mutato contesto sociale.


Ernesto Lanzillo
Manager
elanzillo@deloitte.it

Senior Partner di Deloitte & Touche servizi revisione, basato a Milano
Responsabile per Deloitte Centro Mediterraneo dei servizi Deloitte Private, brand dedicato alle aziende familiari, PMI quotate e non quotate, imprenditori e loro famiglia, family offices ed investitori. Nel contesto delle attività Deloitte Private coordina le iniziative Elite Lounge Deloitte e il Best Managed Companies Award Italia.
E’ membro del Comitato Operativo di Deloitte in Italia ed Membro del Leadership Team Private Worldwide.
Entrato a far parte dell’Organizzazione Andersen nel 1989 presso l’ufficio di Genova, dal settembre 2000 ha spostato l’operatività presso l’ufficio di Milano.
Nell’ambito della revisione opera prevalentemente nel settore retail.
E’ Dottore Commercialista e Revisore Contabile.

 

Emanuele Dotto – Un vaccino per il mondo dello sport

Il mondo dello sport non è stato ucciso dalla pandemia del corona virus ma è stato  travolto, stravolto e tramortito. Rinviati di un anno i giochi olimpici, annullati i campionati europei di atletica, bloccato il tennis, stop a basket, volley e rugby, ferme le moto e in garage le vetture di Formula uno. Nel mondo dello sport, l’incertezza regna sovrana.

Il tennis ha pensato di fermare tutto in attesa di tempi migliori: stop al Roland Garros e a Wimbledon, azzerati tutti i tornei Masters 1000, in attesa di riparametrare giochi, partite e incontri. La partita dell’anno è stata il palleggio tra due terrazzi a Finale Ligure, tra due ragazzine del locale tennis club: qualche scambio che ha fatto rapidamente il giro del mondo.

Assordante, di contro, il silenzio dei motori di auto e moto. Calendari modificati, cancellati e riprogrammati per l’amarezza e la delusione degli appassionati, ma davvero, non sembrano esserci alternative.

Il coronavirus ha silenziato ruote e pistoni, volanti e pneumatici. come dicevano i latini, mala tempora currunt

Dal calcio e dal ciclismo risposte diverse.

Il primo ha confermato di attraversare un momento di declino, anche e soprattutto etico.

Unico obiettivo, continuare a mungere soldi, senza uno straccio di idee e ideali.  La parrocchietta del calcio, (Fifa, UEFA, Federcalcio e Lega), ha fatto l’ennesima brutta figura, avendo come unica finalità quella di far soldi in un festival di azzeccagarbugli, lanzichenecchi e pirati.

Il calcio esige e pretende, ma è incapace di fare.

Il ciclismo, invece, pur sconvolto dal coronavirus, tenta di pianificare quel che resta di questa disgraziata stagione.

Il pallone vuol tornare a giocare il più in fretta possibile, senza difese e protezioni di sorta, il pedale prova a rilanciare, rinviando le corse e proponendo il Tour de France in settembre.

Appare, se vogliamo, un improbabile tentativo di esorcizzare la paura sempre più concreta di dover chiudere qui. Ma è legittimo provarci, anche se disputare il Giro d‘Italia in ottobre, con i passi alpini già innevati, è un azzardo.  Anche perché il ciclismo presenta la complessità maggiore: correre a porte chiuse non si può e strade invase e masse in movimento sono l’essenza stessa della bicicletta. E allora stop.

Senza il campionato di calcio e senza la «Milano-Sanremo» si può stare.

E non è la morte di nessuno…


Emanuele Dotto, Giornalista
Email: emanueledotto@fastwebnet.it

Laureato con lode e abbraccio accademico in Storia medievale, muove i primi passi nel giornalismo negli anni ’70 per il “Corriere Mercantile”, passando poi a “Il Giornale”. Il suo esordio in Rai risale al 1980, con una radiocronaca di una partita di basket. Nel 1982 il suo esordio nella storica trasmissione “Tutto il calcio minuto per minuto”. Oltre che di calcio si è occupato anche di Formula 1, tennis, ciclismo. Ha raccontato otto edizioni delle Olimpiadi estive e tre edizioni delle Olimpiadi Invernali, nonché otto Mondiali di calcio e svariate edizioni di Giro d’Italia, Tour de France, Mondiali e Classiche di ciclismo. Il 4 maggio 2014, passa alla storia radiofonica con la espressione “Clamoroso al Cibali!”, in qualità di inviato in suddetto stadio e per annunciare uno dei goal dell’anticipo della partita Catania-Roma, che consegnava matematicamente lo scudetto alla Juventus. È stato anche ospite in varie trasmissioni sportive televisive. Ha condotto per due stagioni gli speciali mattutini dedicati al Giro d’Italia e a partire dalla stagione 2016-2017 è nella trasmissione “Quelli che il calcio”. Tifoso dell’Alessandria, (motivo di continui sfottò con il sottoscritto) che vedeva da ragazzo giocare in Serie A. Il 2 giugno 2019, al termine della radiocronaca dell’ultima tappa del Giro d’Italia, ha annunciato la conclusione delle sue radiocronache in Rai.

Giuseppe Calabi – Verso la dematerializzazione delle trattative contrattuali?

Durante le ultime settimane siamo stati bombardati da decreti-leggi, decreti ministeriali e regionali che hanno disciplinato, in maniera spesso confusa e poco coordinata, vari aspetti della vita quotidiana delle persone e delle imprese. Un denominatore comune di queste norme è rappresentato dalla limitazione dei nostri diritti e delle nostre libertà: dalla libertà di muoversi, a quella di trovarsi con gli amici, riunirsi, di andare al cinema o al ristorante, a quella di studiare e di lavorare e, quindi, di produrre beni e servizi. La faccenda è delicata, perché tutte queste libertà sono tutelate dalla Costituzione, la quale tuttavia tutela anche “la salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività” (art. 32).  Mentre la politica sta già pensando e parlando (forse troppo ed ancora una volta in modo impreparato, confuso e contradditorio) della cosiddetta “Fase 2”, in queste settimane di emergenza sanitaria il mondo delle imprese, che come è noto anticipa quello della politica e della regolamentazione, ha dovuto affrontare e risolvere con l’aiuto dei propri consulenti numerosi problemi.

Vorrei segnalarne due:  (1) che impatto ha l’emergenza sanitaria sui rapporti contrattuali in corso, in particolare su quelli che durano nel tempo ? (2) come possono essere avviate con successo trattative finalizzate a concludere nuovi contratti ?

Purtroppo, il primo problema non trova una risposta uniforme nella legge: ad esempio, solo eccezionalmente e limitatamente ad uno specifico settore (quello sportivo) è stata prevista la sospensione dei versamenti dei canoni di locazione; per i rapporti di lavoro subordinato, è stata notevolmente estesa la cassa integrazione in deroga per tutta la durata della sospensione del rapporto di lavoro e comunque per un periodo non superiore a 9 settimane per le aziende che non rientrano nelle prestazioni ordinarie. La pandemia non può invece essere equiparata ad una causa di forza maggiore, ovvero una situazione di impossibilità sopravvenuta idonea a giustificare la risoluzione di un contratto o ad estinguere un’obbligazione. L’unica previsione generale è  quella per cui   il rispetto delle misure di contenimento è sempre valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti: insomma se non pago e dimostro che ho rispettato le regole dell’emergenza, la mia responsabilità sarà valutata dal giudice con minore rigore.

Il secondo problema riguarda più abitudini consolidate nel mondo degli affari: se le attività di due diligence preliminari all’acquisizione di una società sono già da tempo entrate in un mondo virtuale o digitalizzato, le video-conferenze tramite una piattaforma possono sostituire la presentazione di una società ovvero una riunione negoziale tra le parti interessate e/o i loro advisors ? Dal punto di vista della regolamentazione legale, la presenza fisica e contestuale delle parti non è mai stata prevista come necessaria, neppure al momento del signing o del closing di un deal. Utilizzando la firma digitale, si può dare un equivalente (se non maggiore) risultato di certezza ai rapporti giuridici. L’obbligo di comportarsi secondo buona fede nella conduzione delle trattative è una norma che si presta ad essere attuata anche in un contesto digitale. Durante, ma anche dopo la Fase 2, il mondo delle imprese, ma anche quello degli avvocati, al quale appartengo, dovranno quindi adattarsi e fare uno sforzo concettuale per superare il rito delle riunioni ed abituarsi a condurre e concludere a distanza le trattative. Del resto, se i nostri figli ci dimostrano che si può anche imparare a distanza, perché non dovrebbe essere possibile normalizzare questa modalità di lavoro anche dopo la Fase2?


Giuseppe Calabi, Avvocato
gcalabi@cbmlaw.it

Laureato in Giurisprudenza con la votazione di 110/110 con lode. Ha studiato alla Harvard Law School, dove ha conseguito nel 1990 un Master of Laws.  Dal 1989 è iscritto all’Albo degli Avvocati di Milano. Si occupa da molti anni di disciplina legale relativa al commercio elettronico, privacy, e-mail e web marketing e rapporti tra imprese e consumatori on line ed off-line. Partecipa alla Commissione per il diritto d’autore dell’Associazione Italiana Editori. Assiste merchant ed operatori on-line ed  è consulente legale di Consorzio Netcomm. Ha inoltre avviato con successo l’area relativa al diritto dell’arte, nella quale lo Studio è riconosciuto tra quelli di eccellenza a livello italiano ed internazionale.  Assiste artisti, collezionisti, fondazioni, gallerie, case d’asta internazionali, banche, assicurazioni, operatori logistici dell’arte. E’ consulente dell’ANCA e dell’AAI. Ha partecipato al Gruppo di lavoro nominato dal MiBAC per la redazione di linee guida in materia di esportazione e circolazione internazionale di beni culturali. E’ membro della Commissione Diritto, Letteratura e Arte dell’Ordine degli Avvocati di Milano. E’ docente presso la Business School de Il Sole 24 Ore dove ha insegnato nei Master di Ecommerce e business on-line e di Economia e Management dell’Arte e dei Beni Culturali. E’ Co-Chair dell’Art, Cultural Institutions and Heritage Law Committee dell’ International Bar Association.